A VOLTE RITORNANO

Che peccato Puzer! Nemmeno il tempo di dare la notizia che è stato di nuovo eclissato. Riabilitato male. Che è un bene. Vero che c’è la guerra in Ucraina, per taluni “operaZione speciale”, poi nella notte arriva la vittoria che riconferma Victor Orban alle presidenziali in Ungheria, ma, cari brutti figli di Putin, a Puzer è stato annullato il D.A.SPO.!

Mezzo trafiletto sui giornali, nemmeno un cenno ai tiggì, ma, soprattutto, in festa nemmeno una bacheca di quelle che pullulavano di foto del profilo col triestino, foto di copertina spalmate con tiratura maggiore persino delle figurine Panini. Non ho mai creduto che i portuali di Trieste avrebbero potuto fare la rivoluzione, ma a loro va un plauso grosso come il mare perché c’hanno provato, c’hanno messo la faccia e non solo sui profili social. Strumentalizzati, illusi, folli, non importa: loro hanno fatto e l’azione, se coerente, ha sempre ragione.
Il provvedimento comminato al Puzer era del tutto illegittimo, come gli ultimi governi, lo avevano capito persino Di Maio e Tonelli. Era un palese abuso, come il ministero di questi due e degli altri loro degni compari, ma il punto è che l’hanno fatto. Come costringere la classe lavoratrice a dotarsi di un certificato di ubbidienza politica, che di sanitario non ha nessun fondamento, per poter lavorare. Che è il premio.
Il D.A.SPO. urbano serviva a Puzer e ai suoi follower per dire loro che non dovevano rompere i coglioni, a Roma come a Trieste, e a sottolineare che loro sono il governo e se ne fottono delle leggi dello stato (che non sono loro), delle mille euro di sanzione al Viminale che, nonostante sia un luogo di lavoro dove si decide della sicurezza di un Paese intero, diviene improvvisamente un luogo inanimato. Così come la multa a chi non si è messo in riga con i voleri dei poteri. Come la concessione di andare a fare la spesa senza certificazione. La concessione è persino peggiore della certificazione con tanto di schedatura. Tutto in archivio e PuZer – lo scriviamo con la lettera scarlatta in evidenza nella speranZa che diventi di nuovo attuale – arichiviato. Italico benservito, secondo i dettami USA&GETTA, mos maiorun del Bel Paese since 1945. Che è bello, ma quello del vicino è sempre più bello. Fosse l’Afrancia dei gilet gialli – loro sì che hanno le palle – fosse la Russia di Putin – lui si che fa il bene del suo popolo – fosse – oggi – l’Ungheria di Orban, lì sì che si vive bene. Non l’Ucraina, che è di Zelensky e non degli ucraini. Gli ucraini sono naZisti – scritto così è politically correct? – dicono quelli che per combattere i neonazi giustificano l’operazione speciale sotto le effigie della falce&martello e si affidano a mercenari della divisione Wagner il cui leader ha tatuato il simbolo delle SS sulle spalle e l’aquila imperiale tedesca sulla schiena.
Che ogni soldatino da divano abbia degli ideali, persino da Netflix, è un bene, che li cambi con la stessa facilità con cui Salvini cambia una maglietta è meno un bene, ma il punto è che sempre più spesso si finisce per prendere a modello tutto ciò che è altro da noi, altro dall’Italia: chi vuole lasciare l’Italia, chi vuole emigrare, chi esalta le condizioni di vita di questo o quello stato e chi, invece, è costretto a rimanere nel posto dove è nato e che gli è stato dato gratis dai propri avi, diesidera ora Trump, ora Putin, ora Orban. Non si riesce più a credere in se stessi, a formare una coscienza nazionale, un popolo orgoglioso di essere ciò che è e legato alla propria Terra. E più grave di tutto è il fatto che non si avverte minimamente la crisi di IDENTITÀ da cui si è affetti. Irrimediabilmente attaccati al biberon del piano Marshal, geneticamente modificati con la favoletta dei buoni liberatori, cronicamente malati di dipendenza. Di leaderismo che ti porta ad identificarti con il personaggio del momento sia esso Salvini, Berlusconi, Meloni, Paragone, Grillo, Renzi, Bersani, Di Pietro, Occhetto, le sardine e non con l’idea da essi predicata. E una idea dovrebbe avere più vita rispetto alla durata di vita di un uomo. Che, umano, troppo umano, può anche fallire. Ma i leader de noantri – Roma è ancora il centro della civiltà del mondo – sono, ancora, in grado di concepire una Idea, se anche il nuovo che avanza è fondato su conseguenze e non sui problemi, sugli effetti e non sulle cause, se godiamo o meno nel fare la spesa in rubli dimentichi che noi la facciamo già in euro e non in lire e che il problema ancora una volta si chiama Unione europea e si chiama euro? E subito dopo si chiama NATO? E prima ancora si chiama sovranità? Che è sinonimo di indipendenza! Che significa controllo dei confini! Che significa Italia!
Orban ha stravinto per un solo motivo: perché fa il bene della sua Nazione e del suo popolo, attraverso la cura di ogni settore: penso ad esempio all’estromissione della Center European University – l’università di Giorgio Soros- dal suolo nazionale o ad altri tentativi di avvelenamento patrio quali le imposizioni buone buoniste migratorie o le sanzioni economiche secondo i capricci di Bruxelles. Nel pieno interesse nazionale. Tutto cio si può riassumere in una sola parola: Tradizione. Ovvero, per dirla con Evola, coniugazione del presente col passato, di ciò che siamo stati in funzione di ciò che vorremmo essere.

GUERRA ALLA PROPAGANDA OVVERO LA PROPAGANDA ALLA GUERRA

Più guardo la guerra in Ucraina e più ci vedo il Covid. Che è (stato?) una guerra anch’esso. Osservo le reazioni e vedo che, nonostante sia chiaro persino agli’idioti l’esperimento di ingegneria sociale cui siamo stati sottoposti, le reazioni dell’opinione pubblica sono le stesse, identiche, precise di quelle della pandemia. Ovvero un’emergenza sanitaria globale. Delle dimensioni di un conflitto. Mondiale, appunto.
Hanno diviso la gente prima in no-mask e si-mask, poi in no-vax e si-vax. Ora sono spuntati i si-pax e i no-pax. Ciò che conta è che hanno diviso. Ancora. Di più. Come per il Covid – e non solo per i vaccini – una fetta di gente non parla all’altra. Per un motivo che è uno e che è sempre lo stesso: non si ascolta per capire, ma si ascolta per rispondere, possibilmente male e in maniera definitiva; si deve vincere l’avversario, piuttosto che con-vincere. Che sarebbe una vittoria doppia. Ognuno ha la granitica certezza di aver capito tutto, che, forse, è la sola cosa che si è capito. Senza contraddittorio, senza repliche. Si esclude. Come su un (a)social. Ban. Ma questa è una guerra e in guerra ci si schiera. Una guerra che si vuol (s)piegare alla distorta logica moralista che vede la pace come un valore e non come uno stato. Magari, non si dà valore alla guerra che sfocia conseguentemente nella pace. Così come non si dà valore alla morte, in guerra. Al coraggio. All’accettazione. Alla sopportazione. Di una Idea. Di una Identità. Il tifo dovrebbe venire dopo. Perché si tifa pace anche se ci si schiera con l’aggressore. Perché c’è un aggressore e un aggredito, un provocatore e uno che abbocca. Con grandi sbagli e piccole ragioni o con grandi ragioni e piccoli sbagli. Una guerra che si chiama “operazione militare speciale” e che sa tanto di un surrogato di cancella culture. Quella cultura andata a farsi fottere quando rievochi il Donbass, ma la stessa violenza – se è vero che quelli erano russi e persino gli ucraini sono russi – non può dirsi fratricida, guerra civile, sangue fratello, se a spargerlo è Mosca. Anzi, diventa giusta e necessaria.
Ci avevano già abituato alla guerra, già nella terminologia: virus come minaccia, vaccino come arma, tessera, permesso, road maps, coprifuoco. Perché la guerra era già preparata, da tanto tempo. L’informazione che diviene formazione e la controinformazione giocano un ruolo alternativo col medesimo obiettivo, ma che recitano un copione troppo simile precedente: un buono e un cattivo, senza cercare la verità che sta nel mezzo, due blocchi contrapposti e in mezzo il popolo diviso e inviso a se stesso, la truffa e l’inganno, la versione, che sfiora il complotto, alternativa all’ufficiale che raggiunge l’impensabile, il Bene e il male, il Diavolo e l’acquasanta. E le malattie. Che colpiscono anche i leader. Prima Draghi, poi Bergoglio, adesso Putin. Sta crollando. Sta finendo. Hanno i giorni contati. Il governo cade. Il mondo cade. L’ultimo atto. La canna del gas. Il piano. Trust the plan. Persecuzioni. Arresti. Q. Controfigure al posto dei figuranti. La torre di Babele che brucia. Come tutti carnevali precedenti. E la guerra che non c’è. C’è il giornalista con l’elemento e il gap e la signora con le buste della spesa. Non c’è la guerra. È una guerra che combatte lo stesso esercito. I russi manco ci sono in Ucraina. Ma se ci sono, avvisano prima di bombardare. Anzi, fanno evacuare perché nessuno deve morire. In guerra. Una guerra con gli ospedali vuoti. E se muoiono i civili è perché sono usati quale scudo dagli ucraini. Quelli che sono andati a combattere una guerra già persa. Quelli che attendono dietro la barricata improvvisata, in piedi oltre l’ultimo respiro la mutilazione o, peggio, la morte. Quelli che fermano i carriarmati con armi rudimentali e che hanno lasciato la bella vita comoda fatta in giro per il mondo e hanno portato le chiappe in Patria per difenderla. Se proprio non riusciamo a capirlo, non critichiamo. E se qualcuno riesce a capire e persino a condividere una simile Idea li elevi quali esempio. Proprio qui in Italia. Per primi noi in Italia. Avete mai corso un rischio per una Idea? Qualcuno è disposto a morirci. Quel qualcuno che da qualcun altro è etichettato – vizio tipicamente UE – quale miliziano, addirittura mercenario. Ma non i Ceceni. Quelli che sono andati a portare via dal pantano Putin. Che, se non ha sottovalutato gli ucraini, ha quantomeno sopravvalutato la sua Armata rossa. Quell’Armata rossa che vede un’emorragia di soldati che scappano perché non approvano la guerra di Putin e riparano a Belgrado per poi sparire nel mondo. Si spera. Magari seguaci di quei otto Generalissimi licenziati dallo zar. La Kiev presa e Mariupol assediata dove funzionano i telefoni e arrivano i treni. Ma questo la contro(in)formazione non lo dice. Non lo propaganda. Così come non dice dell’ispezione dei soldati russi al confine alla ricerca di un tatuaggio a loro non gradito sul corpo degli ucraini. Perché Putin è stato chiaro: vuole denazificare! Ottant’anni dopo. Forse ancora troppo pochi per digerire quell’Ucraina schierata proprio a fianco della Germania. Vi fanno più paura i tatuaggi che le bandiere rosse sui carrarmati. Stile Praga, stile Budapest. Nulla di male, per carità, se non fosse che fino a qualche mese fa stavate da quest’altra parte. Vizietto tipico e topico di una certa italietta – perché si chiama così, cari i miei italioti col torcicollo – perché un’altra italietta c’è già stata. E voi ne siete la rifondazione. Eh, ma il Battaglione A3OV in Donbass… è il jolly che si gioca, così come il Nazismo e il Fascismo quando si è in difficoltà. Quel Donbass che conta 4400 soldati ucraini caduti e 6500 filo-russi, oltre a 3404 civili che fanno 1400 morti oltre la stima della stessa contro(in)formazione. Quella contro(in)formazione che spaccia Vangelo per antico Testamento – lì è contenuta la citazione di Putin – che a leggerlo sembra il diario del perfetto guerrigliero. La stessa contro(in)formazione che propina solo A3OV, svastiche e croce celtiche, ma non vi parla di rune, sole nero e Battaglione Militia. Magari un giorno vi dirà che i Leoni della Folgore sono brutti, sporchi e cattivi e che ad El Alamein hanno dato un pessimo esempio – anche loro come gli Ucraini sapevano di perdere, ma non per questo si sono arresi – perché magari anni dopo hanno marciato su Pisa. Probabilmente i contro(in)formatori nemmeno sono mai entrati in una camerata della Brigata o hanno mai aperto un armadietto di un parà. Di cui non mi pare in Italia non se ne vada fieri. Magari a qualcUno verrà in mente di sostituire il basco amaranto col colbacco, ma gli ultrà diranno che è cosa buona e giusta. Così come lo hanno detto del nazionalismo di Putin che, però, veste italiano o del Mc Donald’s in salsa russa: ditemi voi se non è l’altra faccia della me(r)daglia globalista del cibo spazzatura. Quella fetta di mondo che l’Orso ha colpito proprio nel momento maximo di difficoltà per tenerlo ancora un po’ in vita. Come ha fatto esattamente con la NATO che, prima dell’operazione speciale, non aveva più ragione di essere. E così mentre il nuovo inno nazionale è l’osanna allo zar e la preghiera più in voga è lo sputtanamento di Zelensky & Biden pupazzi manovrati – e concordo – fino a quando non rilasciano dichiarazioni imbarazzanti, buone per farvici inzuppare il pane, Usa & Cina – che è il padrone di Putin – s’incontrano per parlare di pace. Ma voi, cultori della ricerca e della comparazione di vecchi fotogrammi divenuto nuovo spo(r)t nazionale, interrogatevi sulla foto sotto riportata. Informatevi. Formatevi. E propagandate. A partire da compasso e squadra sul drappeggio.

ANCORA GUERRA

Se n’è andato anche il III round che, già dalla terminologia usata, sa tanto di scontro più che di incontro.
Non si tratta la pace, o meglio, la resa incondizionata – perché Putin questo vuole – con una delegazione di secondo ordine. Fosse stata una certa Italia, la resa incondizionata l’avrebbe riciclata come pace, liberazione, ma, per fortuna o purtroppo, non tutti sono quell’Italia.
Chissà se di round ne occorreranno quindici come in Rocky IV, scontro Usa e URSS ai tempi della guerra fredda. Perché ancora di questo si tratta. Una guerra fredda riscaldata. Ancora il mondo diviso in due. Due blocchi contrapposti, una cortina di ferro, nessun muro che tutti hanno voluto buttare giù ad ogni costo, ma era meglio, molto meglio, se fosse rimasto in piedi. Almeno avrebbe fatto da argine, da confine, ora che dei confini se ne fottono tutti. Putin per primo. Capisco la minaccia alla sicurezza, i missili a 300 km da Mosca, capisco tutto, ma non quando tutto ciò avviene in casa d’altri. Che è altro dalla Russia. Putin avrebbe anche ragione, ha ragione, ma fino all’invasione. Con il suo sconfinare in Ucraina, ha sconfinato nel torto. È caduto nel tranello della provocazione o è stato abile a sfruttare una situazione per mettere a punto qualcosa di già pianificato, lo vedremo.
Ma mentre fai una guerra, riesci anche a pianificare di sganciarti dalla rete internet mondiale, mondialista, per inaugurarne una intranet, interna, controllata e pure limitata. Forse sarà anche un bene, ma per lanciarla a guerra in corso, allora vuol dire avevi già pianificato il tutto. E se insieme con l’intranet russo, limiti anche la presenza di cronisti in Russia, allora il controllo diventa censura. Punita con una quindicina d’anni di reclusione nel caso in cui diffondi falsità che potrebbero essere anche “verità di stato”. Pensiero unico e conformato. Come la commissione contro le fake a casa nostra. Certo, ognuno a casa propria fa ciò che vuole e non è detto tutti debbano vivere in democrazia, soprattutto se la intendiamo all’italiana o all’americana. Tali decisioni in concomitanza di una guerra, però, lasciano quantomeno riflettere. Se poi le uniamo con la censura, con le limitazioni, con le dichiarazioni di una lista di Paesi nemici e amici, allora ci sono tutte le premesse per la spartizione di terre, zone d’influenza, alleanze che concorrono alla creazione di un nuovo ordine mondiale geopolitico. Commerciale. Che si contrappone a quello “morale”, economico di stampo massone giudeo-americano.
Tra i due pretendenti, tra i due prepotenti, tra i due imperialismi perché di questo si tratta, ma con tanto di mascherina – a questo punto va legittimato anche Erdogan ed il suo sacrosanto diritto di voler rifondare l’impero ottomano – in mezzo ci sono i popoli e le Nazioni, ci sono le sovranità e le identità. Come l’Ucraina, che in lingua di Putin vuol dire “periferia”. Tutti sapevano che Putin, prima o poi, avrebbe attaccato. Sin dal 2005 nel discorso alla Nazione cui non arriva il torcicollo di quella gente abituata a vivere guardando solo al passato ma non tutto, quando parlava di decomunistizzare l’Ucraina, ovvero di cancellarla dalle mappe geografiche. Sin dal 2014 quando con una rivoluzione sorosiana si inventò il pupazzo Zelens’kyj che sostituì Yanukovich, pupazzo di Putin che lavorava per la capitolazione dell’Ucraina. Quell’Ucraina che da allora tenta di difendere con il sangue contro l’oro la propria Patria, le proprie radici e la propria identità. Che oggi diviene modello di patriottismo, inconcepibile per un Occidente – meglio uccidente per dirla con Sermonti – ormai troppo disabituato alla Politica dell’Idea, malato di leaderismo, tifoso inguaribile in perenne attesa del messia liberatore. Dipendente da tutto ciò. Capace di voler spiegare, secondo gli uccidentali canoni morali, anche la guerra. Putin=buono, Biden=cattivo, Ucraini=nazisti. Cazzarola, stavolta rappresentati senza elmetto di ferro in testa, come da narrazione sovietica. Furono loro ad entrare ad Auschwitz, non gli americani. Loro che trovarono le immagini che i tedeschi giravano, mentre erano intenti a fare una guerra mondiale. Loro a contare i seimila ebrei bruciati, ma che ai tedeschi servivano vivi nei campi di lavoro.
Drogati e nazisti, dice oggi Putin. Che se poi dovessero spiegare cosa sia il Nazionalsocialismo si limiterebbero a dire pressappoco che è un sinonimo di razzismo. Proprio quella razza cui si fa cenno col termine edulcorato di “russofono”. Che, come tali, sono perciò fratelli. Da bombardare, però. Ma solo i militari. Che sono pure civili. Perché Putin avvisa prima di bombardare. E bombarda solo obiettivi militari. Dove ci sono anche i civili arruolatisi. Che i nazisti onnipresenti e immortali camuffano in laboratori di armi chimiche, ma sempre a casa loro. Ci sta, è la guerra. Ma che non dev’esserci se qualcuno in guerra con la morte dà un senso alla propria vita. Allora no, perché Putin non c’è in Ucraina. Lì si combattono nazisti contro nazisti, due frange dello stesso esercito. E le immagini che ci propinano non sono vere. Così come non è vero che gli Ucraini stanno lottando con le unghie e con il sangue contro l’invasore.
2500 anni fa, Eschilo ebbe modo di dire che la prima vittima della guerra è la Verità: beh, se siete stanchi anche dalle tante foto che arrivano da Mariupol, da Kiev, da Volnovakha dei rifugi metropolitani, di bambini con gli orsacchiotti trite e ritrite, ritoccate come e più delle tante damine al cui strazio il loro cuore gentile potrebbe non reggere, considerate pure vera questa foto. Almeno nel significato del disperato amore.

GUERRA ALLA PACE

Se n’è andato anche il III round che, già dalla terminologia usata, sa tanto di scontro più che di incontro.
Non si tratta la pace, o meglio, la resa incondizionata – perché Putin questo vuole – con una delegazione di secondo ordine. Fosse stata una certa Italia, la resa incondizionata l’avrebbe riciclata come pace, liberazione, ma, per fortuna o purtroppo, non tutti sono quell’Italia.
Chissà se di round ne occorreranno quindici come in Rocky IV, scontro Usa e URSS ai tempi della guerra fredda. Perché ancora di questo si tratta. Una guerra fredda riscaldata. Ancora il mondo diviso in due. Due blocchi contrapposti, una cortina di ferro, nessun muro che tutti hanno voluto buttare giù ad ogni costo, ma era meglio, molto meglio, se fosse rimasto in piedi. Almeno avrebbe fatto da argine, da confine, ora che dei confini se ne fottono tutti. Putin per primo. Capisco la minaccia alla sicurezza, i missili a 300 km da Mosca, capisco tutto, ma non quando tutto ciò avviene in casa d’altri. Che è altro dalla Russia. Putin avrebbe anche ragione, ha ragione, ma fino all’invasione. Con il suo sconfinare in Ucraina, ha sconfinato nel torto. È caduto nel tranello della provocazione o è stato abile a sfruttare una situazione per mettere a punto qualcosa di già pianificato, lo vedremo.
Ma mentre fai una guerra, riesci anche a pianificare di sganciarti dalla rete internet mondiale, mondialista, per inaugurarne una intranet, interna, controllata e pure limitata. Forse sarà anche un bene, ma per lanciarla a guerra in corso, allora vuol dire avevi già pianificato il tutto. E se insieme con l’intranet russo, limiti anche la presenza di cronisti in Russia, allora il controllo diventa censura. Punita con una quindicina d’anni di reclusione nel caso in cui diffondi falsità che potrebbero essere anche “verità di stato”. Pensiero unico e conformato. Come la commissione contro le fake a casa nostra. Certo, ognuno a casa propria fa ciò che vuole e non è detto tutti debbano vivere in democrazia, soprattutto se la intendiamo all’italiana o all’americana. Tali decisioni in concomitanza di una guerra, però, lasciano quantomeno riflettere. Se poi le uniamo con la censura, con le limitazioni, con le dichiarazioni di una lista di Paesi nemici e amici, allora ci sono tutte le premesse per la spartizione di terre, zone d’influenza, alleanze che concorrono alla creazione di un nuovo ordine mondiale geopolitico. Commerciale. Che si contrappone a quello “morale”, economico di stampo massone giudeo-americano.
Tra i due pretendenti, tra i due prepotenti, tra i due imperialismi perché di questo si tratta, ma con tanto di mascherina – a questo punto va legittimato anche Erdogan ed il suo sacrosanto diritto di voler rifondare l’impero ottomano – in mezzo ci sono i popoli e le Nazioni, ci sono le sovranità e le identità. Come l’Ucraina, che in lingua di Putin vuol dire “periferia”. Tutti sapevano che Putin, prima o poi, avrebbe attaccato. Sin dal 2005 nel discorso alla Nazione cui non arriva il torcicollo di quella gente abituata a vivere guardando solo al passato ma non tutto, quando parlava di decomunistizzare l’Ucraina, ovvero di cancellarla dalle mappe geografiche. Sin dal 2014 quando con una rivoluzione sorosiana si inventò il pupazzo Zelens’kyj che sostituì Yanukovich, pupazzo di Putin che lavorava per la capitolazione dell’Ucraina. Quell’Ucraina che da allora tenta di difendere con il sangue contro l’oro la propria Patria, le proprie radici e la propria identità. Che oggi diviene modello di patriottismo, inconcepibile per un Occidente – meglio uccidente per dirla con Sermonti – ormai troppo disabituato alla Politica dell’Idea, malato di leaderismo, tifoso inguaribile in perenne attesa del messia liberatore. Dipendente da tutto ciò. Capace di voler spiegare, secondo gli uccidentali canoni morali, anche la guerra. Putin=buono, Biden=cattivo, Ucraini=nazisti. Cazzarola, stavolta rappresentati senza elmetto di ferro in testa, come da narrazione sovietica. Furono loro ad entrare ad Auschwitz, non gli americani. Loro che trovarono le immagini che i tedeschi giravano, mentre erano intenti a fare una guerra mondiale. Loro a contare i seimila ebrei bruciati, ma che ai tedeschi servivano vivi nei campi di lavoro.
Drogati e nazisti, dice oggi Putin. Che se poi dovessero spiegare cosa sia il Nazionalsocialismo si limiterebbero a dire pressappoco che è un sinonimo di razzismo. Proprio quella razza cui si fa cenno col termine edulcorato di “russofono”. Che, come tali, sono perciò fratelli. Da bombardare, però. Ma solo i militari. Che sono pure civili. Perché Putin avvisa prima di bombardare. E bombarda solo obiettivi militari. Dove ci sono anche i civili arruolatisi. Che i nazisti onnipresenti e immortali camuffano in laboratori di armi chimiche, ma sempre a casa loro. Ci sta, è la guerra. Ma che non dev’esserci se qualcuno in guerra con la morte dà un senso alla propria vita. Allora no, perché Putin non c’è in Ucraina. Lì si combattono nazisti contro nazisti, due frange dello stesso esercito. E le immagini che ci propinano non sono vere. Così come non è vero che gli Ucraini stanno lottando con le unghie e con il sangue contro l’invasore.
2500 anni fa, Eschilo ebbe modo di dire che la prima vittima della guerra è la Verità: beh, se siete stanchi anche dalle tante foto che arrivano da Mariupol, da Kiev, da Volnovakha dei rifugi metropolitani, di bambini con gli orsacchiotti trite e ritrite, ritoccate come e più delle tante damine al cui strazio il loro cuore gentile potrebbe non reggere, considerate pure vera questa foto. Almeno nel significato del disperato amore.

UNA GUERRA D’ALTRI TEMPI DIETRO L’ANGOLO: Una storia che non c’entra niente. O forse si !

Ci sono eventi che per comprenderli non sempre è sufficiente farli coincidere con l’anno zero di chi vuol capire. Penso ai figli e ai nipoti degli esuli giuliano-dalmati, penso ai figli e ai nipoti dei partigiani, tanto per rimanere in Italia: entrambi nati, dopo determinate vicissitudini storiche, che, anche se non vissute sulla propria pelle, fanno irrimediabilmente parte del proprio DNA, sono corredo della propria esistenza e della propria evoluzione. Penso all’assedio di Leningrado, dove i Russi persero 700mila vite umane e a qualcuno toccò di subire perdite da vicino. Un padre, un fratello mai conosciuto. A questo dramma familiare, se ne aggiunse un altro, quello della dissoluzione dell’Unione Sovietica, una seconda grande madre per tanti russi. Questa è l’inizio della storia di Vladimir Putin, figlio e orfano dell’assedio di Stalingrado e dell’Urss, all’epoca capostazione del KGB a Dresda che, dopo l’assedio, tornò a vivere a Leningrado. Il suo unico bene consisteva in una vecchia Volga tanto che, non sapendo come sostenere se stesso e la sua famiglia, pensò di mettersi a fare il tassista.
Tutta questa psicologia contorta non giustifica, non sminuisce né gratifica il Presidente russo, tuttavia, può aiutare a farcelo comprendere meglio. Quando l’Urss crollò e tutti abiuravano deponendo i quadri di Lenin, di Stalin, di Marx, la sola struttura che rimase in piedi fu il KGB, una sorta di enclave dell’Urss, mentre Putin rispose con la collocazione del quadro di Pietro il Grande, ribadendo, in più occasioni, che non si può non rimpiangere il culto dell’Unione Sovietica.
È indicativo a tal proposito che nella parata dello scorso maggio per celebrare la vittoria sul nazifascismo abbia ridato alla Marina Militare il simbolo della falce e martello, mentre altri reparti militari indossano il nastrino giallo e nero, i colori dello zar. Però a far paura sono le parate del presidente Xi Jinping in una Cina (a)spettatrice, dove il Comunismo si chiama repubblica popolare o forse più le rune al braccio dei nazionalisti ucraini.
Sintetizzando, si può dire che la politica di Putin è un meticciato di Comunismo stalinista (rifiuta Lenin) e imperialismo – dove quest’ultimo elemento è prevalente- con una concezione della politica estera che si riferisce al panslavinismo, ovvero il desiderio (utopico?) di creare un’area di influenza geopolitica che coincida con la vecchia Urss – diciamo pure una rifondazione – e che comprenda le regioni baltiche, la Moldova e le repubbliche centrali dell’Asia e del Caucaso.
In quest’ottica si spiegano le affermazioni nel discorso alla Nazione del 2005, quando Putin ebbe modo di affermare che “l’Ucraina indipendente e separata dalla Russia esiste solo perché fu creata da Lenin dopo la rivoluzione comunista”. Quella stessa Ucraina che iniziò a minare la potente Urss che è la stessa che, durante il Secondo conflitto mondiale, si schierò dalla parte dei nazisti nella Waffen SS di Hitler. La stessa Ucraina che oggi Putin vuole “denazzificare” – fosse accaduto in Italia, si sarebbe parlato di “defascistizzare” – che “è uno stato corrotto e comandato dagli americani, che cerca senza successo di fare i conti con il suo passato sovietico. «Volete la decomunistizzazione? Siamo pronti a mostrarvi cosa vuol dire davvero decomunistizzazione» ha detto. È una delle giustificazioni principali di Putin per l’invasione: se l’Ucraina è stata creata dal comunismo sovietico, la decomunistizzazione significa cancellarla dalle mappe”. Indubbiamente l’Ucraina attuale è a guida americana con un presidente comico di professione che è il fantoccio delle rivoluzioni colorate di Soros, ma l’Ucraina non è solo il suo governo. L’Ucraina è terra e popolo, quello che ha conosciuto gli anni del Comunismo più buio e che se ne guarda salvaguardando la propria identità, mentre il presidente russo continua a trincerarsi nel suo castello, co­ntornato di yes man (non è un caso che è amico di Berlusconi) che gli danno una errata concezione de­lla realtà in cui può ancora trovare att­uazione il progetto – utopico, ma solo perché comunista – de­lla Grande Russia pr­erivoluzionaria. Un modo per dare smalto al suo potere che sta perdendo consenso, dopo vent’anni di regno: il gradimento per l’invasione del­l’Ucraina si attesta ben al di sotto del 53% rispetto a quel­lo di fine anno (fon­ti russe!), nonostan­te abbia contribuito a ridare orgoglio al suo popolo. Lo ste­sso orgoglio di esse­re popolo, di avere un’appartenenza a ra­dici di una Nazione e nel difendere la propria identità come stanno facendo gli Ucraini. Inconcepibi­le per certi Italian­i, ormai da troppo tempo disabituati alla Politica dell’Idea, dei Valori, dell’E­ssere e delle Identi­tà. Perennemente in attesa di un messia liberatore e dipende­nti da qualsiasi cosa sia altro da se st­essi e ciechi e muti verso chi si da(va) fuoco in piazza e si suicidava in mille altri modi, che scu­oteva la gente invit­andola a insorgere contro il fatalismo. Una vita trascorsa, ma non vissuta a ver­gognarsi di se stess­i, trascorsa perenne­mente con il torcico­llo che, oltre a non far guardare avanti, non offre nemmeno una visione a centot­tanta gradi di ciò che è stato il passat­o. Perennemente spre­cata a tifare per il bello, il simpatico, il front man, la donna, il dissenso. Intrisi di quella nar­razione che vede com­plotti orditi, anche se non dovesse funz­ionare lo scarico del bagno o un nuovo ordine mondiale se qu­alcuno propone lo sp­ostamento dell’ascen­sore del condominio. Questa mancata “pro­ntezza ideale e inte­llettuale” porta al più a essere spettat­ori paganti, con le proprie terga, dove il protagonismo e la partecipazione si limitano al solo tifa­re, immediatamente dopo aver passato alle etichettature come una unione europea qualsiasi: Putin è sovranista, Biden è massone, gli Ucraini sono nazisti. Che il mainstream e la con­troinformazione hanno raccontato battersi contro altri nazis­ti. Ma quanti sono questi nazisti? Chied­iamolo a quel mainst­ream che racconta che non c’era stata al­cuna invasione, pard­on, sconfinamento che è più politicamente digeribile, e che a fronteggiarsi sono solo frange fratric­ide dell’esercito de­lla stessa nazione. E di qui anche il te­ntativo di far rient­rare nei vostri (?) canoni morali e perb­enisti anche la guer­ra.
Con tale mente petalosa non si riuscirà mai a capire un anziano che a settant’anni impara a costruire molotov, donne (il 35% dell’esercito ucraino) che imbracciano fucili, genitori che non imbarcano i figli sui treni perché quella è la loro terra e va difesa, Ucraini che combattono quasi corpo a corpo per il suolo natio, che vanno incontro ai carri armati cantando l’Inno Nazionale. Eppure una gioventù che è andata incontro alla morte cantando ce l’abbiamo avuta prima di loro. Questa è la storia. Il mondo è di nuovo diviso in blocchi contrapposti: finora ci sono stati i pro vax e i no vax, ora abbiamo i no pax e sì pax. Se uno dei due rappresenta un pericolo, non ci si deve necessariamente schierarsi con l’altro, non sempre se l’uno è il bene, l’altro deve per forza essere il male. In medio stat virtus: e in mezzo a Usa e Russia c’è proprio il popolo ucraino.

 

https://www.camposud.it/una-guerra-daltri-tempi-dietro-langolo-una-storia-che-non-centra-niente-o-forse-si/tony-fabrizio/

DOPO LA GUERRA TUTTI PARTIGIANI

DOPO LA GUERRA, DI NUOVO TUTTI PARTIGIANI

“Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi dello Stato, di adempiere ai doveri del mio ufficio nell’interesse dell’amministrazione per il pubblico bene” recita la formula di giuramento degli allievi della Polizia di Stato. Ergo, al personale dell’Amministrazione dello stato, anche alla Polizia quindi, dal Questore all’Agente, si chiede che faccia rispettare la legge che altri – quel Parlamento oggi esautorato – provvedono ad emanare.
Nessuno chiede loro di “ragionare” sulle leggi e, per quanto anche io schifi la conversione in legge del decreto che introduce il green pass, debbo riconoscere che è legge anche questa.
Ecco perché non mi entusiasma la novella Giovanna d’Arco di piazza San Giovanni a Roma di sabato scorso, vicequestore aggiunto (un maggiore dell’Esercito per intenderci) per i più e cittadina libera per la piazza.
Un intervento non programmato il suo, ma che, linda e pinta, già accreditata presso la stampa locale, bella donna dall’eloquio piacevole, in prima linea nella lotta alla violenza contro le donne guadagna il palco della piazza che l’ha eletta a nuova paladina dell’anti-certificazione verde, con tanto di annuncio previo da parte dello speaker ufficiale di giornata. Soppiantando ora De Donno di cui mancano solo gli adesivi sui parabrezza, ora Montagnier e Montesano: in principio fu addirittura Bassetti! Facendo di quella piazza, una piazza tristemente simile a quella parte similmente opposta che (si e)salta da Karola a Fedez con una simile faciloneria che è indice di un avvicendamento al vertice sterile, scarno ed effimero e di una crisi di valori e di ideali senza precedenti.
Scinde, sapientemente, l’esser cittadina libera dall’essere donna delle istituzioni, il vicequestore aggiunto, ma ciò non basta per la Lamorgese che, dall’alto del Viminale, di domenica fa sapere che silurerà la graduata, dopo aver etichettato quale “gravissimo” – perché? – il comportamento della ribelle in borghese.
A me viene da chieder(l)e solo una cosa: non erano illegittimi e anticostituzionali anche i dpcm per mezzo dei quali per oltre un anno sono stati vessati gli Italiani?
Lei, da dirigente della Polizia di Stato, si occupava solo di violenza sulle donne quando i suoi colleghi in nome dei suddetti illegittimi dpcm bussavano alle porte delle abitazioni private, si intrufolavano nei giardini per vedere chi osava arrostire un pezzo di carne, chiedevano ausilio ai droni per controllare persino i tetti dei palazzi, impedivano di alzare le serrande a chi era considerato “attività non essenziale”, quando io dovevo giustificare il motivo per cui andavo in un altro comune, se alle 22 e un minuto ero ancora fuori casa e quante volte andavo a casa dei miei genitori?
Apprezzo il coraggio dimetterci la faccia (truccata), ma l’intervento è tardivo, forse postumo. A parer mio. Che induce in riflessione.
Non so e non mi interessa sapere se quel palco possa fungere da trampolino di lancio per la Schilirò, se sia stato un modo per tentare di imbonire la piazza che, oltre alla fanciulla, ospitava altre novantanovemilanovecentonovantanove persone. Altrettanto coraggiose. Altrettanto degne di menzione e di importanza. Che magari, in altre piazze, in altri giorni, ma per gli stessi motivi, in primis la solidarietà, sono state manganellati e tradotte in questura dai colleghi del vicequestore.
Forse è esasperata perché la legge – la legge – ora tocca anche la loro categoria. Dura lex sed lex. E non è solo il rancio nel sacchetto di carta da consumare sulle scale della mensa.
E se fosse (anche) questo il motivo dell’insorgenza? Se fosse solo adesso perché adesso è stato intaccato anche il loro orticello? Altro che solidarietà! Altro che spirito di popolo! Sarebbe il solito spirito egoistico ed egocentrico, dell’opportunismo figlio dell’8 settembre, di quella scelta venticinqueluglista che ancora esiste e resiste. E, a guerra finita, saranno tutti di nuovo partigiani.

NON UN PENSIERO

“E tu dov’eri l’11 settembre?” è la ripetitiva anfora tormentone scelta per la commemorazione dei venti anni dall’attacco simbolo all’America.
Quando in una normale mattina di un qualunque giorno di settembre di inizio del terzo millennio, diciannove uomini armati di taglierino, al comando di un diabetico barbuto che viveva in una grotta dall’altro capo del mondo, condussero la più sofisticata opera di penetrazione dello spazio più difeso al mondo, immobilizzando passeggeri e piloti addestrati al combattimento su quattro aerei commerciali portandoli fuori rotta per più di un’ora, senza mai venire molestati da un solo caccia dell’U.S. Army.
Mentre tutto il mondo era incollato alle tivvù che erano sintonizzate sulle immagini di New York, senza peraltro capire granché, così su due piedi – l’America sembrava lontana, ground zero e le twin towers non erano così famose, di Al Qaeda la gente si interessava poco – come il fattorino che fischietta, carrellino in mano immortalato con una delle torri gemelle in fumo, gli annunciatori televisivi hanno saputo in tempo reale che il “colpevole” era lui – Osama Bin Laden. Gli esperti di intelligence e i servizi segreti a stelle e strisce – il cui fallimento era palese agli occhi di un cieco – dopo qualche ora non avevano dubbi: il mandante dei diciannove dirottatori indisturbati devoti fondamentalisti islamici che amavano bere alcol, sniffare coca e circondarsi di spogliarelliste con i capelli rosa era lui: Osama Bin Laden. Il governo Bush, sparito per un bel po’ e al gran completo non ebbe esitazione nell’individuare lo stesso giorno degli attacchi, il nemico numero uno al mondo in Osama Bin Laden.
Il capo del gruppo terroristico di Al Qaeda viveva in una grotta fortificata in Afghanistan da dove dispensava video a destra e a manca al mondo intero apparendo ogni volta più giovane, da dove in qualche modo è riuscito a fuggire alla volta di Tora Bora, da dove in qualche modo è riuscito a scappare riparando a Abbottabad facendosi beffa dei detentori della più sofisticata tecnologia militare al mondo, fino a quando è stato localizzato e catturato (forse) in Pakistan in una casa in cui non ha opposto resistenza, non ha usato una delle tante mogli come scudo umano e non era armato, dopo una complessa operazione delle squadre speciali Navy Seals – che ufficialmente non esistono – che, però, sono andate in panico ammazzando lo sceicco del terrore e buttandone il corpo in mare, come da tradizione del nemico, e in gran silenzio. E con esso, in acqua tutta la miriade di informazioni che poteva custodire il principale terrorista al mondo.
L’operazione non è mai stata filmata e due decine degli appartenenti alle forze speciali sono morte in un incidente aereo in Afghanistan.
Le indagini, pretese da un gruppo cospirazionista, sono nate già fallite, ritardate e sottofinanziate, nascondono un corposo conflitto di interesse e hanno finito per insabbiare tutto, compresa la verità. Erano basate su testimonianze ottenute con le torture la cui documentazione è stata distrutta. Hanno dimenticato di occuparsi dell’Edificio 7, del numero uno Able Danger, di Ptech, dei rapporti di Bin Laden con la CIA e delle esercitazioni con gli aerei lanciati contro gli edifici proprio mentre le loro simulazioni diventavano realtà.
Una commissione a cui hanno mentito l’FBI, la CIA, il Pentagono (dove l’11/9 si discuteva di trilioni spartiti), l’amministrazione Bush e il sottosegretario alla Difesa Cheney. Questi ultimi hanno testimoniato in gran segreto, a porte chiuse, privatamente e non vincolati dal giuramento, mentre i terabyte di fatti, testimonianze, ricerche sono andati distrutti per mano della DIA, della SCC ma solo per normale procedura di amministrazione. Di chi abbia finanziato gli attentati terroristici non se ne è occupato nessuno, o meglio, chi se ne è occupato ha etichettato la cosa come “litle pratical significance”, di scarso significato pratico.

Se per vent’anni ci siamo raccontati che il mondo era cambiato, che viaggiare era pericoloso, che dopo New York è venuta Madrid e che ogni 11 di ogni mese era la data buona per morire di paura solo nel prendere la metro, che una nuova guerra era alle porte, una nuova vandea, una nuova crociata in nome dell’odio e del podio religioso che ci ha fatto dividere il mondo in buoni e cattivi, che ci ha fatto subire i 2996 rintocchi di campane di quelle vite che furono, i fasci di luce – giuro non è apologia! – di Ground Zero, che ci ha visti restituite cinquantatré bare avvolte nel tricolore, quest’anno, oltre alla proposta editoriale della sempiterna Oriana Fallaci, c’è qualcosa di più: una gentile rivendicazione di Al Qaeda che rivendica di fatto l’11 settembre. Magari ha pure registrato i diritti d’autore per eventuali introiti. “Che sia ben chiaro: siamo noi i colpevoli, che nessuno si intesti i nostri successi” pare abbiano detto i terroristi. Excusatio non petita… inculatio manifesta. Una sorta di do ut des, forse un favore ricambiato in nome dell’arsenale bellico lasciato in gentile omaggio dopo vent’anni di occupazione.

Se ancora oggi dopo vent’anni sui social usati come troiaio virtuale perché questa è la nuova frontiera del sesso new age, compaiono messaggi buonisti per la strage, ogni faccino è appannato dalla bandiera a stella e strisce, ogni pretesto è buono per dire “I’M AMERICAN”, il mainstream ci propina la maratona televisiva in diretta dalla Grande Mela, allora sì che possiamo sorbirci il virus con tanto di narrazione pandemica. Forse ce lo meritiamo addirittura! Ci meritiamo le nuove varianti che altro non sono altro se non le tappe ulteriori di questo esperimento sociale. Ci meritiamo una Chiesa dove in nome dell’amore universale non ci si scambia il segno della pace, dove il momento cardine della transustanziazione viene sospeso e… amen! la cui guida facente “finzioni” di Papa ha paura di morire. Ci meritiamo la cieca obbedienza che è la sola occasione per uscire da quest’incubo che è stato possibile solo grazie alla cieca obbedienza. Ci meritiamo una vita decisa da altri perché non siamo capaci di insorgere contro il fatalismo. Non ci meritiamo Tucidide, non ci meritiamo Pitagora, né la scuola medica, Socrate, Paltone e Aristotele, non ci meritiamo Dante, Petrarca e Boccaccio né D’Annunzio, Marinetti e Ungaretti. Non ci meritiamo Jan Palach e Domenique Vernier. Non ci meritiamo di pensare. Non un pensiero nello stesso giorno per Bashar Al-Assad, presidente della repubblica araba di Siria, il popolo che ha subito il più grande attacco terroristico della storia nel mondo intero e che ha reagito con onore e coraggio per riaffermare la vittoria della Civiltà sulla barbarie.

Non un pensiero all’isola di Pantelleria che è sempre Italia e che ce l’abbiamo sotto al culo, dopo l’apocalittica tromba d’aria ha spazzato via due persone, scoperchiato case in cui sono state sbattute le auto. “È colpa dell’uomo che deve emettere meno CO2 nell’atmosfera” ha sentenziato il climatologo alla tivvù di stato. “È in corso un epocale cambia-mento climatico”. Che sarà il nuovo virus. Ma noi non un pensiero, mi raccomando.

IL “CASO” DURIGON: Alla fine ha vinto l’abiura !!

Governo e Parlamento rientreranno dalla pausa estiva orfani, ma non claudicanti.
No, non è una beffa. Piuttosto lo è per il popolo: nonostante lo stato d’emergenza imperante, prorogato al massimo del prorogabile e le conseguenti restrizioni che lambiscono la follia, visto che logicamente non ce le si spiega, con tutti i problemi annessi e connessi, presenti e futuri, onorevoli, deputati, sottosegretari, portaborse, uscieri e collaboratori vari se ne sono andati beffardamente in vacanza. Per trenta o quaranta giorni, rispettivamente se il politico è espressione del governo, o piuttosto appartenga ad una delle due Camere. Il che sarebbe già da sola condizione sufficiente ed essenziale per chiamarsi fuori da questo guazzabuglio promiscuo e meticcio. Ma ciò non avviene per nessuno (di loro). Purtroppo. Ciò che in compenso avviene è che un membro del Governo, il Sottosegretario di Stato al Ministero delle Economia e finanze, Claudio Durigon, leghista, venga fatto dimettere. Non perché abbia rubato, non perché sia colpevole di chissà quale scellerato delitto, non perché sia inadatto – l’epiteto “incapace” non piace al politically correct né lo concepisce l’assunto istituzionale “uno vale uno che poi vale l’altro che alla fine vale zero” – ma è fuori per una idea. Personale, intima, culturale e non espressa nell’esercizio delle proprie funzioni. Non scherziamo, questo è pur sempre il governo dei migliori con i Di Maio, gli Speranza, gli Arcuri e le Fornero. Non é consentito a costoro nessuna “sbavatura” o esternazioni non gradite!
La questione infatti, si solleva a proposito del parco cittadino di Latina – tu chiamala, se vuoi, Littoria – dove, durante un comizio, il sindacalista leghista si era detto favorevole a intitolare nuovamente il parco cittadino ad Arnaldo Mussolini, fratello del Duce.
Apriti cielo! Al solo sentire pronunciare quel cognome è insorta tutta la sinistra radical-chic, sono caduti i rolex dai polsi sinistri ex proletari, attici e ville degli “erremosciati” figli di papà discendenti di genitori sessantottini e pronipoti di banditi partigiani hanno sputato di tutto, A partire dall’odio e dal veleno che hanno in corpo e persino i soldi stipati nella cuccia del cane della off limits Capalbio. Quella sinistra che ha accettato – loro dicono “incluso” – un’altra Mussolini, arcobalenata (s)vestita per la causa. Loro e di Zan. Menomale che la pressione sul Claudione di governo è stata smorzata dalla Cirinnà che ha fatto sapere che si è trovata a fare da cuoca, lavandaia e ortolana dopo che la cameriera che condivideva la tenuta di campagna con due pastori abruzzesi, di cui una gravida, l’ha lasciata. Ed era pure assicurata, ha precisato. Fico! Povera Cirinnà, che vita di merda! Si sarà rovinata le vacanze!
La cordata sinistra è stata guidata addirittura da Marco Travaglio – un nome, una lagnanza, visto che si parla di cognomi… – il quale ha promosso un appello su Il Fatto Quotidiano, organo di in-formazione del MoVimento 5 Stelle che è finito per essere la testa di legno di quella sinistra che ormai non ci mette più, o più non può, nemmeno la faccia.
Il Fatto Quotidiano per Travaglio, per i 5 stelle, per Boldrini, per la sinistra gauche caviar ha chiesto e la Lega, con l’assenso di Salvini ha risposto. A doppio, anziché picche: dimissioni e abiura!
Dopo la poltrona lasciata in via XX Settembre, arriva immancabile l’abiura ufficiale, la punizione sinistra, la condanna “rossa”: “NON SONO MAI STATO FASCISTA”.
Ah, adesso tutti tirino un sospiro di sollievo e i problemi dell’Italia sono finalmente svaniti. Stiamo vivendo l’epoca del cancel culture, del black lives matter e in Italia, con l’avallo del governo su richiesta dello stesso governo, siamo alla condanna del pensiero, dell’idea. Sancita, tra l’altro, da quella stessa Costituzione antifascista, bandiera ormai ridotta a pezza e bavaglio, vilipesa e calpestata quotidianamente dai loro stessi fautori.
Quella stessa Costituzione che non vieta affatto che qualcuno abbia simpatie per lo storico Regime, atteso che dopo ottant’anni sia ancora possibile. Anzi dice chiaramente che nulla osta acciocché un simpatizzante possa far parte del governo, passato un quinquennio dal 1948. Pare siano passati quindici volte cinque anni! Quella costituzione, che al 21 articolo tutela proprio la libertà di pensiero. Quella che aveva espresso Durigon. Che è ben lontano dal pragmatismo di chi quel pensiero ha contribuito a formarlo: «Se un uomo non è disponibile a correre qualche rischio per le proprie idee, o le sue idee non valgono nulla o è lui che non vale nulla», di chi ha abbracciato un’Idea arrivando a morire per essa. Penso ai ragazzi della RSI, penso ad Achille Starace, a Ettore Muti, ai ragazzi del “Dio stramaledica gli Inglesi”, della non lontano Sant’Angelo in Formis, alla fierezza del giovanissimo Franco Aschieri.
Ormai ad essere morta è la cultura, il sapere, quello scomodo e quello veritiero, quello nascosto e che non ci piace. È morta la verità. Ad ammazzarla è stato il pensiero unico, quello che non ammette differenze, ma da se stesso, quello che è superiore e saccente e che non ammette contraddittorio. Con la complicità di chi ha paura dell’onestà intellettuale, che non impone il coraggio delle proprie idee, che ha paura di pensare fuori dagli schemi, che ha il panico di non essere omologati. Sarà per questo che in tutte le commemorazioni ufficiali, da trent’anni ormai, si omette di dire che la vittima di mafia dr. Paolo Borsellino era iscritto al MSI e che proprio una pattuglia del partito che ha raccolto il testimone del Fascismo in Parlamento, propose la  candidatura di quel Giudice alla Presidenza del Consiglio.
Quel Fascismo che per mezzo del Prefetto Mori riuscì nell’impresa di controllare e azzerare la mafia in Sicilia. E forse è proprio questa l’Italia che questa gente merita: con la mafia, senza le bonifiche delle aree paludose, senza l’urbanizzazione di terre incolte, senza città, palazzi, scuole, ponti, vie che ancora resistono, senza i decori che trovi dalla fognatura al palazzo ancora in uso, senza l’IRI e la riforma del sistema bancario, senza la scuola che forma ed informa, ma tutti obesi sul divano ad ingolfarsi di cibo spazzatura al delivery, al ritmo scandito dalla tv spazzatura dai programmi della durata di un lockdown.
Ora che Dorigon è stato accolto nel club dei supponenti previa pubblica abiura, stracciatevi pure le vesti per i diritti lesi, ma quelli altrui, continuate a coltivare la trasgressione di vestirvi di bianco d’estate. Ma attenti alle mani inzozzate di gessetti colorati e continuate pure a credere che i talebani siano solo in Afghanistan.
https://www.camposud.it/2021/08/il-caso-durigon-alla-fine-ha-vinto-labiura/

DIEGO: I VUOTI A PERDERE DELLA RICIONOSCENZA NEOMELODICA

La Napoli divisiva e competitiva non è la Napoli di Diego.
Napoli, città dai mille volti e dalle mille contraddizioni, dove con naturalezza si accostano il Bambinello e il “monaciello”, dove si respira arte in ogni vicolo  di questa città in cui la disoccupazione è elemento tipico, dove in un semplice​ “panaro”​ calato dal balcone si cela e contemporaneamente si manifesta tutta la generosità di un popolo. Un popolo capace di amare e di fondersi come pochi: per San Gennaro, la pizza, la musica, Maradona.
Esiste la Napoli che ha conosciuto Maradona, che l’ha venerato quando era ancora in vita e una Napoli che ha apprezzato Diego. L’uomo. Il lato fragile del campione. Dal connubio di Diego e di Maradona viene fuori il D10S, per cui Napoli tutta diventa un “unicum” fedele. La venerazione esponenzialmente una, universale. Viene fuori il Diego che gira le strade e i vicoli di quella Napoli perennemente grata, ma che lo esaspera, che lui ama, ma che lo consuma e lo risucchia. Quella città governata da certi “avvoltoi” spacciatisi per aquile dall’inguaribile lotta all’utile, al profitto interessato e alla speculazione di convenienza. Nemmeno tanto intelligente.
La notizia della scomparsa del Pibe de Oro era ancora fresca in quel 25 novembre dello scorso anno, scolpito nell’animo di ogni tifoso, che prontamente si inaugurò la lotta dei proclami: se il sindaco de Magistris rilanciò immediatamente la notizia dell’intitolazione dello stadio scippandola persino a San Paolo, il Presidente della regione De Luca repentino, intitolò non solo una fermata della Cumana, ma addirittura bissò commissionando tanto di murales. Se il Sindaco uscente s’inventò la “sinfonia della felicità”, ovvero la “questua” presso i napoletani per commissionare una statua che il Comune avrebbe scelto, affidata la lavorazione ed installato, i novelli pretendenti allo scranno di palazzo San Giacomo, per la campagna elettorale, pensano di candidare capolista il fratello di Maradona, che però è ancora sprovvisto di cittadinanza.
Napoli che onora Maradona come un monumento è la Napoli capace di far guerra anche su una statua a lui dedicata: il Comune riceve in dono il capolavoro del maestro Domenico Sepe e il patron De Laurentis, pare,  ne commissioni un altro alla Fonderia Nolana. Se la statua di ADL è sofisticata ed ha visto la collaborazione di Stefano Ceci, ex manager di Diego, basata sul vero calco delle mani e dei piedi del campione argentino preso prima della sua scomparsa, il capolavoro di Domenico Sepe, omaggio gratuito a tutti i napoletani -questa la sola richiesta dell’artista – ritrae Diego con la tecnica del bronzo a cera persa, la stessa usata per i bronzi di Riace. Nella scultura dell’artista napoletano – manco a dirlo – Diego sembra essere proprio un dio greco, intento nella corsa, magistralmente calibrato, che avanza palla al piede, mentre l’altro poggia su una base che ricorda la sagoma geografica dell’Argentina, da dove è partito per poi ergersi in tutta la sua statuarietà – l’opera è a grandezza naturale – verso quei cieli che Dieguito ha conquistato.
Ognuno aveva la “sua” statua da esporre, ma il campionato è iniziato senza omaggio e senza cerimonia: de Magistris aveva organizzato pure l’evento con cinquecento bambini che avrebbero dovuto formare una coreografia con la scritta D10S alla quale, però, non avrebbero partecipato i calciatori, causa impegni. Fatto sta che, per il mancato dialogo tra Comune e Società, i napoletani non possono apprezzare il dono che il Maestro Sepe ha fatto alla città.
Un altro evento che ha tutto il sapore della speculazione politica e che assume tutto il significato dell’ennesima brutta figura.
E non è l’ultima!
Per il primo anniversario della scomparsa di Maradona, il Paternal – la casa museo dedicata al fenomeno argentino – per bocca del suo presidente Miguel Martin Perèz, ha scelto ancora Napoli e i napoletani invitando alla commemorazione un altro artista, il pittore acerrano Cuono Gaglione. Meglio conosciuto come il pittore di Maradona. Al Gaglione, che ha esposto già nel 2003 alla sede della Commissione Europea di Bruxelles e nel 2005 al Parlamento Europeo di Strasburgo, sono state commissionate ben venticinque opere che andranno ad affiancare in maniera permanente il celebre quadro donato al campione e che oggi è custodito nel museo ribattezzato La Casa de D10S.
Se tra le Istituzioni è in atto una vergognosa lotta all’esibizione del proprio trofeo, nessuno tra Comune, Regione e Società Sportiva si è fatto avanti per patrocinare l’”ospitata” in terra argentina. Nessuno che si inorgoglisca della “chiamata” e del ricordo di Napoli e dei napoletani. Tanto  per l’invito, quanto per la presenza nel Paese del calciatore scomparso. Nessuno che voglia collaborare al protocollo delle opere che rischiano di essere inviate oltreoceano alla stregua di un insignificante pacco postale, orfane di padre, senza l’anima del loro creatore. Evidentemente l’Argentina non porta voti. E l’opera d’arte di Sepe, evidentemente, non è ancora riuscita a essere inquadrata nei gangheri della speculazione politica.
Un vero e proprio affronto alla cultura, un oltraggio al genio cittadino, un mancato apprezzamento del valore ( tra l’altro gratuito) da parte delle Istituzioni tutte.
Gaglione e Sepe, due volti dell’eccellenza napoletana, italiana, mondiale, non riconosciuta e non valorizzata, uno sfregio all’arte addirittura prima di essere esposta.
Ma Napoli è città di cultura e sentimento e – per fortuna e grazie a Dio – non è ancora tutta melensa: la scrittrice e saggista premio Masaniello Marina Salvadore ha sposato la causa del pittore di Maradona e ha trovato nell’ex calciatore dall’animo nobile Danilo Filippini, oggi impegnato in attività no-profit per bambini speciali, un sensibile e valido collaboratore all’iniziativa. Ma non basta.
Un appello, perciò, va rivolto alla società civile e ai tifosi tutti che sono rappresentanti ed essenza autentica della Napoli vera e del Napoli affinché, grazie a loro che incarnano la pura identità, il nome di Napoli sia ancora tenuto alto. A loro rappresentanza, per il buon nome della città, nella memoria di Diego Armando Maradona.

https://www.camposud.it/2021/08/forze-politiche-allo-sbando-e-rincorsa-allaccaparramento-dei-trasformisti-hanno-fatto-dimenticare-le-iniziative-per-la-casa-museo-di-maradona/

CONTE CORRE SOLO E VINCE

E anche le Olimpiadi ce le siamo tolte dalle scatole. Peccato per i politici che adesso dovranno tornare a postare la nutella piuttosto che il memorandum con le pagine ancora tutte linde e immacolate, giusto per non far capire agli Italiani che, in un periodo di emergenza (di due anni!) il Parlamento e il governo chiudono per ferie per un mese e più.
Gli stessi politici, novelli e pischelli semi poli-ttici e polli-ttici per amore dell’ibrido e del meticciato, che hanno avuto la faccia tosta di esultare e gioire per ogni successo – loro preferiscono il termine su-ccesso perché “vittoria” è gergo tipicamente fascista, nazionalista e discriminatorio nei confronti di chi è arrivato secondo, ops… vale argento, su-ccesso meglio si adatta a loro – sono gli stessi che hanno chiuso le palestre perché hanno catalogato lo sport quale attività non necessaria.
Abbiamo assistito agli europei di calcio più politicizzati della storia, di quella storia manipolata che non saprà che il 2021 ha recuperato le manifestazioni sospese l’anno prima, tra inginocchiamenti e cadute che però non c’entrano col vairus, quindi non potevano non politicizzare le Olimpiadi. Che hanno fermato le guerre – solo Di Maio non sa cosa sia la ekechiería, letteralmente “le mani ferme” che non è un un consiglio a Grillo jr. di cui nulla più si sa, bensì si tratta della tregua olimpica – ma non è riuscita a fermare il vairus.
Il vero vincitore dei giochi, rivelatesi autentici gioghi per gli antitaliani autoctoni, è stato lo ius sanguinis, che costoro vogliono tramutare in ius soli, nonostante la fiera appartenenza italica ribadita dai diretti interessati. Così un nero con la cittadinanza italiana, che ha rinunciato alla doppia cittadinanza americana, nato da mamma (si può dire, vero?) italiana, nato, cresciuto e pasciuto in Patria, che per tutti italiano lo è sempre stato, è diventato italiano nero per quelli che dicono che nero non esiste.
E, di conseguenza, ci siamo anche dovuti subire la portabandiera nera, magari omosessuale, italiana, che è solo l’ultimo aggettivo atto a identiFICArla (si scrive proprio così), photoshoppata a tre metri sopra al cielo tanto da essere invidiata dai disegnatori giapponesi ideatori degli eterni salti di Mila Azuki e i kilometrici dialoghi nel colpo di testa tra Holly Hutton e Mark Lenders messi insieme!
Atleti nostrani vestiti di bianco come tanti spermatozoi e con un grosso tricolore circolare sulla stomaco. Indigesto.
Persino il CONI multietnico si è stupito di record mai conseguiti prima, eppure i giornali prezzolati hanno dimenticato di segnalare una nuova specialità, appena ideata e già portata a casa.
Si tratta della maratona in solitaria, la lunga corsa che ha visto spuntarla ancora una volta ad un italiano. Un uomo del sud, appulo, pugliese-romano, nazionale. Uno che ha scoperto il caporalato in Puglia quando era a Roma, dai modi sì fini ed eleganti tanto da correre con la pochette e ringraziare con la erre moscia e la zeppola in bocca. Uno così regale, dall’estrazione patronimica araldica unita ad una umile origine nazional-popolare: Conte Giuseppe. Un campione anche con la testa, preparatissimo al punto da essere persino stato in prestigiose università che non lo hanno mai visto. Il che fa curriculum. Lungo lo fa. Come il naso. O, forse, è il dono dell’ubiquità, merito di Padre Pio che sente vicino. Solo geograficamente. Infatti Padre Pio è serio, è santo e non scherza con i conti.
Ebbene costui, dopo essersi inventato premier, primo ministro in pecore, in doppio pectore e tante pecore, dopo essersi trasferito a Palazzo Chigi nonostante il suocero possedesse un albergo manco a dirlo condonato e graziato, ha trovato l’umiltà di approntare un banchetto in piazza Montecitorio, appena sfrattato. Una persona cristallina e trasparente che si può vedere persino Rocco CasalinA dietro. Il che ha i suoi rischi. Presidente della commissione per la delibera dei banchi a rotelle e avvocato, professore che si è portato a collaborare un suo assistente di cattedra elevandolo a Guardasigilli: “un reato quando non è doloso e colposo” disse Fofò. Una massima entrata di diritto negli annali. Un po’ come “se mi sbalierò, mi corrigerete” ma meno umile. Un accostamento come Gorbaciov e Cicciolina, dopo di cui anche Amleto ha sciolto i suoi dubbi. Ha sciolto pure le catene dei cavernicoli di Platone e se ne sono andati tutti a casa.
Ebbene quello che è stato definito la plastica rappresentazione della politica, dopo lo scarso, lo storto, lo Zero, la rappresentazione compiuta del vuoto, il vuoto, il dpcm in persona, un conte così vanesio da soffiare il posto persino alle congelate signorine-buonasera, uno che è stato mercenarizzato da Grillo, dragoni & ko. e rifiutato dal pd che ha sempre votato in piena crisi di identità tanto da inventarsi Carola Rachete e Fedez, alla vigilia della manifestazione di chiusura delle olimpiadi giapponesi ci ha regalato la svolta avvocatizia: Giuseppe Conte ha corso da solo per la presidenza del MoViMento e ha pure vinto! Un’altra merdaglia olimpionica, un su-ccesso di cui sopra e a 5 stelle. A 5 punte. Concentriche, concentrate e concertate.