’E’ “NAPOLI CONTEMPORANEA” E LA NAPOLI CONTEMPORANEA.

E alla fine la Venere di stracci è stata inaugurata. La statua che coniuga, o almeno dovrebbe nell’intento dell’amministrazione Manfredi, il passato col futuro, la tradizione con l’innovazione. E menomale che c’è Venere – che conferisce valore all’opera – a svettare sopra la montagna di stracci muticolor che da giorni affollano Piazza Municipio, incuriosendo turisti e guadagnando lo sdegno dei soliti bene informati.
Come saggiamente i Padri hanno tramandato “de gustibus non disputandum est”, ma ciò su cui ci interroghiamo non è certo il valore (discutibile) dell’opera, ma il modus operandi di questa classe dirigente autoreferenziale e inetta.
Dopo la chiave di Milot che non sappiamo quanta gente abbia potuto attrarre in città, ora ci viene presentata “Napoli contemporanea”, la manifestazione attraverso cui – parole del primo cittadino Gaetani Manfredi – “Vogliamo far vivere pezzi di città attraverso l’arte contemporanea facendo realizzare installazioni da grandi maestri dell’arte”. O ancora “Questo programma vuole anche essere il segno di una Napoli fiera della propria storia e tradizione, ma che è anche proiettata verso il futuro attraverso la proposizione di opere che fanno discutere sui grandi temi del presente proprio come la Venere degli stracci che unisce l’arte classica con i temi della povertà e della sostenibilità”. A dirla tutta, questa installazione può essere il vero emblema della Napoli di Manfredi, dove regnano caos e disordine, sporcizia e accozzaglia ad ogni angolo della città. Ed è emblema del politichese cui questa classe politica ci ha tristemente abituati: vorremmo chiedere al Sindaco della prima città del Mezzogiorno se, quando cita i “grandi maestri d’arte” o anche la “Napoli fiera della propria storia e tradizione”, si riferisce alla stessa Napoli che non è stata capace di trovare una giusta collocazione – non è azzardata la perifrasi “ha in tutti i modi avversato” – alla statua del Maradona del napoletanissimo maestro Domenico Sepe. Il grande artista chiamato in altra patria, in altri stadi, come il Dall’Ara di Bologna, che ha commissionato un’opera che è un vero e proprio capolavoro. I Padri insegnano anche questa volta: “Nemo propheta in Patria”.
Chissà se il Signor Sindaco e gli accoliti di Palazzo San Giacomo si siano, anche minimamente, resi conto che Napoli, ormai da mesi, è su tutte le pagine di giornali e telegiornali, la città pullula di turisti, gli alberghi hanno fatto registrare il “tutto esaurito” da tempo. Ci auguriamo vivamente di no, altrimenti non si spiegherebbe come mai la città è sempre più sporca e disordinata, in balia di senzatetto che fanno tutto ciò che vogliono ovunque vogliono, che il disordine e la sporcizia la fanno da padrone, che non c’è un servizio di trasporto pubblico degno di questo nome. Questa è la Napoli contemporanea! Che senza “Napoli contemporanea” ha ridato smalto ad una città che non ha bisogno di niente e di nessuno, menchemeno di “genialate” free ed ecosostenibili di una sinistra arcobaleno, Ztl, tutta gauche caviar.
L’autentico miracolo lo ha fatto da sola Napoli, grazie alla sua Storia e alla sua Tradizione; grazie a quei monumenti che “grazie” a quello scellerato “Patto per Napoli”, per la regia del liquidatore di stato “Mariolino” Draghi, oggi è costretta a (s)vendere; a quella collocazione paesaggistica che il mondo intero ci invidia; a quella cucina che, nonostante imbarbarimenti e imbastardimenti, continua ad essere il riferimento della dieta mediterranea; a quella napoletanità invidiata e mai riuscita a copiare, ad imitare, ad esportare. A rubare, tiè! All’arte, alla storia, alla cultura che, con una botta di politically correct, si vuole cancellare. Eppure, anche nel giorno dell’inaugurazione, quando i tassisti scorrazzano turisti, mentre la Municipale blocca il traffico perché si è fatta una sosta dove non si potrebbe fare creando file e ingorghi, mentre macchine e motorini sfrecciano in ogni direzione possibile, dove un bus turistico non fa in tempo a fermarsi che arrivava un bangladese con la sua mercanzia – ma ce lo vedete uno che dal Bangladesh spiega al tedesco di turno il rito apotropaico di iniziazione di un cornetto affinché faccia effetto? – il rumore assordante del traffico che per qualche secondo viene sovrastato dalle ruote dei trolley tirati a forza sui basamenti di pietra lavica, come d’incanto, nel tratto che va da Piazza Trieste e Trento fino alla Biblioteca Nazionale, tutto questo frastuono s’interrompe, non è più parte del corredo urbano che viene soavemente sostituito dalle note della Marcia Trionfale dell’Aida di Verdi e di quelle dell’Inno Nazionale che valicano i confini delle finestre del Regio Teatro San Carlo. Quando una comitiva di Tedeschi, con cappellino in testa e infante sul groppone, si ferma e aspetta il “Sì” – che non verrà mai pronunciato – conclusivo dell’opera per riprendere la marcia. Questa è la Napoli contemporanea! Ma che ne sa Manfredi…

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Francesco Cecchin è ancora presente

Roma, 16 giu – E con questo 16 giugno sono quarantaquattro. Quarantaquattro gli anni trascorsi dalla morte di Francesco Cecchin, volato nell’Olimpo degli eroi, dopo essere volato dal parapetto di un’abitazione al civico 5 di via Montebuono, nel quartiere Salario a Roma, una volta riconosciuti i suoi aggressori che, nel frattempo, erano diventati “solo” i suoi inseguitori. Gli stessi con cui nel pomeriggio Francesco aveva avuto un alterco per una questione di manifesti. Dopo quasi mezzo secolo sappiamo chi è Francesco Cecchin e sappiamo della sua militanza politica nel Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile dell’MSI.

Francesco Cecchin, sappiamo tutto

Sappiamo della sua lunga agonia – coma indotto per diciannove giorni – così come sappiamo delle fratture su tutto il corpo, eccetto mani e gambe: strano modo di cadere per uno che vola da un’altezza considerevole. O meglio, di atterrare. Di testa.
Sappiamo del cranio fracassato, sappiamo della milza spappolata, sappiamo delle chiavi di casa piegate ancora tra le mani, usate per difendersi e del pacchetto di sigarette (gettato) vicino al ragazzo ferito. Sappiamo che sul suo corpo è stata eseguita un’autopsia il cui esito è indiscutibile e sappiamo che, nonostante quella perizia, non è mai stata fatta giustizia.

Sappiamo che gli assassini di Francesco avevano tutta l’intenzione di uccidere – l’accusa fu di omicidio volontario che, molto verosimilmente, era solo il nuovo significato da attribuire alla parola “caduta” – ma non sappiamo perché l’unico indagato, nonostante abbia mentito spudoratamente al processo riguardo il proprio alibi ed essere andato al cinematografo Ariel per assistere alla visione de Il Vizietto nonostante quella sala non avesse in proiezione il film indicato – s’è potuto guadagnare, con la falsa testimonianza sostenuta, il premio per non aver commesso il fatto. Il fatto sarebbe il concorso in omicidio, ma non si sa con chi. Altro vizietto tipico della italica giustizia. Come quello di non trovare il colpevole. Che pure esiste. Come esiste qu­ella verità storica che non può più esse­re nascosta, o peggi­o, ulteriormente negata, in attesa che la giustizia scr­iva la parola fine su questa feroce esec­uzione.

Una parola fine che serve a non ammazzare ancora una volta Francesco, cui il Viminale, il “deputato” all’ordine pubblico della sicurezza di questa repubblica, ha negato anche la possibilità di essere inserito tra le vittime del terrorismo. Come se gli anni di piombo siano stati solo una marachella adolescenziale. Come se il suolo d’Italia in quegli anni non sia stato calpestato dall’odio politico, spesso avallato e coperto nella stanza dei bottoni con lo stesso telo bianco con cui si è da sempre tentato di coprire la verità e sotto il quale è stata sepolta la giustizia.

Sappiamo che il giovane Cecchin era un militante che credeva in una Idea difesa col sangue. Quella Idea di cui oggi altri, magari suoi coetanei, hanno potuto raccogliere il testimone e le conseguenti fortune politiche elettorali. Fortuna altrui che è figlia di un sacrificio nell’accezione latina del termine, il rendere sacro, persino sé stesso, per l’Idea. Sappiamo che lui l’ha fatto. Sappiamo, quarantaquattro anni dopo, che lui è ancora presente.

https://www.ilprimatonazionale.it/politica/francesco-cecchin-ancora-presente-264834/

SALERNO, L’ANPI vieta di presentare i libri e vieta chi non vuole vietare!

Una mattina mi son svegliato e ho scoperto che un rispettabilissimo Docente universitario di storia medievale ha pubblicato un libro – di storia, pensa un po’ – e che intende presentarlo in una sala di una pubblica libreria – che strano, eh ?

Si tratta di “Controstoria della Resistenza”, la nuova fatica letteraria dal prof. Tommaso Indelli, edito da Altaforte Edizioni.

Allora, un’altra mattina mi sono svegliato e, tutto sudato, “batto” un comunicato congiunto, con tutto quanto può includersi nella mega galassia antifà, atto a vietare ad una libreria della città campana l’utilizzo della sala che avrebbe dovuto ospitare la presentazione del volume e che, di fatto, ha finito per boicottare sia l’opera che l’autore.

“Una semplice opinione” da parte di CGIL, CISL, UIL, Arcigay, schwa & asteriski vari che tentano così di mettere un “democratico” bavaglio alla controcultura. O meglio, alla cultura “non conforme”, alla vulgata in “uso” e consumo since 1945. La storia che nessuno deve conoscere e, se qualcuno la conosce, nessuno deve poter raccontare. Quella che per quasi un secolo ha portato a nascondere una tragedia immane, un vero genocidio ai danni dei propri connazionali, come é stato per le foibe.
Ora come allora, qualcuno non ci sta e, quindi, si attiva per riportare l’ago della bilancia quantomeno vicino alla verità vera, ben consapevole che non potrà mai godere di un “democratico” e civile contraddittorio in libreria.
In religiosa ottemperanza agli usi e costumi di lorsignori che li vuole ben nascosti e ottimamente assiepati,  a quei partigiani nuovi di zecca  viene chiesto, a casa loro, tramite un goliardico striscione “inclusivo”, se avessero per caso paura dei libri.
La reazione rossa – o meglio, verde – non si è fatta attendere, seppur di sabato, strano giorno per “lavorare”: giornali, tivvù, forza pubblica, militanti, “mili-pochi” a giudicare dalle immagini raccolte, tutti sono accorsi ad asciugare le lacrime versate e a raccogliere il grido di sdegno contro chi ha osato ribellarsi ai loro democratici divieti. Uno smacco insopportabile, un atto di ribellione non gradito, una protesta troppo poco politically correct quella semplice domanda che ha mandato in cortocircuito l’intellighenzia cittadina che non si è ripresa dall’illogicità della loro stessa richiesta: perché vietare quando ci si può confrontare? Perché tacitare quando il dibattito può arricchire? Perché cancellare ciò che non ci fa comodo sapere? Sinistre domande, perfino per loro.
Una mattina mi sono svegliato e, dopo aver vietato, minacciando la verità, penso bene che il sogno debba continuare calcando la mano e chiamando in causa persino il “clima da anni ’70” che, però, fanno notare gli avversati esponenti ribelli che la storia la conoscono e non la dimenticano, ha visto proprio nella stessa città campana la morte di un odiato giovanissimo avversario mezzo cieco come Carlo Falvella per motivi meramente politici. Di odio politico. Odio evidentemente mai sopito, in primis per la verità. Per la coerenza. Per interesse, visto che l’unica cosa che ha contato è stata la parcella degli avvocati assoldati per difendere i compagni assassini.
Interesse nel non sapere leggere un semplice striscione che ha avuto il merito di sottolineare tutta l’incoerenza di quanto fino a quel momento predicato, di quanto sia strumentale la loro concezione di democrazia, di quanti problemi abbiano con l’inclusione, quella vera, in un semplice confronto dialettico, culturale. Forse perché loro la “cooltura” la fabbricano. Con balle. Con stravolgimenti e con invenzioni. Con cancellazioni e riscrittura.
Una mattina mi sono svegliato e, pure se sono il sindacato dei lavoratori, “me ne frego” e impedisco ad un semplice esercente di lavorare, semplicemente perché mi è scomodo, sparando ogni cartuccia ancora disponibile e immaginabile, come l’azione intimidatoria – uno striscione! – il pericolo per la democrazia, quando sono loro stessi ad imporre divieti: ma, se proprio non si riesce a sostenere un dibattito culturale, se proprio non si riesce a leggere il libro, non era meglio, di sabato, continuare a dormire?

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