UN ATTACCO “SECONDO COGNOME”

Chiariamo subito una cosa: l’Italia da oggi non è un Paese più giusto, ma un Paese tristemente uguale a ieri che trascina con sé tutti i suoi problemi. Regressi, pregressi e cronici.

La sola cosa che (non) è cambiata da oggi è la possibiltà di aggiungere il cognome materno – che poi è del padre di lei – al nascituro. In realtà tale pratica, purché concordata tra i genitori, era già prevista dal Codice Civile e si poteva persino sceglierne l’ordine. Non averlo fatto equivale a non saperlo, evidentemente. Dunque, quale sia questa conquista sciorinata come il progresso del secolo non si sa. Però, c’è un fattore importantissimo da rilevare e da non sottovalutare, ovvero quello che in Italia esiste ancora la Corte Costituzionale! Non pare vero.

Dopo che per due anni ci siamo chiesti che fine avesse fatto, mentre il popolo veniva usurpato di ogni diritto umano fondamentale – quale quello al lavoro, quello alla salute, quello alla libera circolazione, quello alla parola, solo per ricordare quelli più “in voga” in tempo pandemico, in attesa che tutto sia compiuto con le privazioni che potrebbe comportare la guerra: il razionamento alimentare, infatti, è già una realtà in tanti supermercati dello Stivale – dopo che ci siamo chiesti se la Corte Costituzionale si fosse anche minimamente accorta dello stupro al Diritto di invenzione romana, italica, ma così, per sentito dire, ora se ne esce con questa “genialata” del doppio cognome. Che per alcuni era già tale, quindi si parte da una base di tre. Da elevare al quadrato ad ogni nascita.

In attesa di capire come funzionerà, se funzionerà, il crescete e moltiplicatevi dei cognomi nel paese della burocrazia imperante, basti pensare, ad esempio, alla mera generazione di un codice fiscale, già si pregustano le sfide della generazione delle “boldrineh” guadenti e plaudenti per questa conquista di civiltà contro il machismo secondo cui si potrà dare anche il loro cognome al nascituro, ovvero quello ereditato dal padre che è, però, un uomo. D’altronde, anche i movimenti femministi della prima ora sono stati partoriti da uomini liberatori a stelle e strisce per sdoganare il consumismo più esasperato: parità è uguale ad uguaglianza? Più uguaglianza vuol dire più divorzi, più divorzi vuol dire più auto, più auto più case, più case più spese, più spese più consumi…

Cosa si nasconde, però, dietro a questa “amata” decisione?

In primis che si è espressa la Corte Costituzionale quindi è come se avesse parlato il Padreterno.

In secundis, che la Magistratura, che nell’Italia delle separazioni dei poteri, detiene il potere giudiziario, ovvero quello di fare rispettare le leggi che il Parlamento approva e il Governo rende esecutive, continua a sostituirsi al Parlamento – esautorato che più esautorato non si può, anche qui tra l’indifferenza generale.

Non ultimo, che questa decisione è da incardinare in quella massiccia opera inarrestabile della demolizione della famiglia. Avessero mai demolito quelle della magia, della ‘nfrangheta e della camorra! È un attacco diretto al pater familias, teso ad estirpare eventuali eredi dalla gens, dalla genìa. E nell’epoca del cancella culture, dei deliranti divieti che vedono opere russe – perché concepite da personalità russe – ma patrimonio mondiale della cultura, non sarebbe un azzardo pensare che un giorno, anche non necessariamente lontano, pure l’Iliade potrebbe essere messa al bando perché Achille viene definito “Pelide”, patronimico di Peleo, suo padre. Ancora una volta un attacco alla nostra civiltà, a Roma che deve esser distrutta al pari di una Cartagine qualunque, quella Roma faro di Civiltà che esiste dopo 3000 anni, quella Roma che è Tradizione, ovvero coniugazione del passato col presente – per dirla con Evola – e non è un caso che in questo globale disegno d’istruzione – che è distruzione la cui apostrofo non è che la prima lacrima – ad essere sott’attacco, ancora una volta, è il concetto di “paterlinearità da parte di chi vuole smontare, pezzo dopo pezzo, l’Idea di Civiltà europea basata su strutture di “lunga durata”, come già evidenziato da Domenique Venner. E poiché l’elemento comune a tutti i poemi epici europei è proprio il concetto di paterlinearità, la messa la bando potrebbe proseguire incominciando dai “classici” come l’Iliade, l’Odissea e l’Eneide. Quanto fastidio darebbe il vecchio Anchise da portare sulle spalle, oggi che gli anziani si confinano, leggi pure ce se ne disfa, nelle RSA sentendone ugualmente il peso? Oggi che si tende a non far familiarizzare nonni e nipoti, da stirpe e discendenza passati ad essere ricettacolo di virus e bombe batteriologiche? Commetteremmo peccato a pensare che il cognome “materno” è solo funzionale, una buona scusa nell’adozione da parte di genitori gay – che paradossalmente si dichiarerebbero maschi e femmine – che sceglierebbero quale cognome mettere per primo e/o non mettere il secondo? E poi la guerra per ottenere il cognome del padre, magari da parte di qualche libertaria troppo libertina, per un figlio nato fuori dal matrimonio.

Un tentativo ben orchestrato per estirpare radici e non essere più di nessuno, non appartenere più a niente e nessuno.

Decisioni che creano scene comiche e paradossali, tutte da ridere se non fosse che siamo sull’orlo di una guerra che potrebbe vederci direttamente coinvolti in casa nostra, visto che già lo siamo in casa d’altri, che siamo in piena recessione, che ci aspetta un futuro incerto, forse triste e doloroso se riuscissimo mai ad averne uno, che tra le mille priorità in calendario, si pensa a legiferare circa qualcosa di assolutamente procrastinabile e avulso dalla realtà. Come questa classe “politica”. Dove la politica è diventata pura demagogia e perenne corsa al consenso elettorale. Da declinare poi, appena messisi in cadrega. Un’occasione ottima da sfruttare per quella sinistra parte che non è differente da quella “diritta” che vuole essere costruttrice – e per una volta che siano davvero senza “c”! – di quel mondo moderno il cui assaggio c’è già bastato. Ed è stato più che amaro. Sarà un caso che il principe della risata Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio aveva scelto di chiamarsi semplicemente Totò?

https://www.camposud.it/un-attacco-secondo-cognome/tony-fabrizio/

 

LA METAMORFOSI DI PUTIN

Dopo Bucha, ancora Bucha. Nessun’analisi cerchiobottista mascherata da fatica intellettuale del dubbio, sterile modo di porre domande a cui nessuno, nemmeno il diretto interessato, sa rispondere, ma utile, utilissima tecnica collaudata negli anni di piombo riproposta in salsa (rossa) -o russa- revanscista. E nemmeno un “cavallo di ritorno” di qualche scappato di casa e rifugiato al centro sociale che porta a spasso ciò che rimane ad animare la scatola cranica più devastata delle vetrine compagne di lotta.
Stavolta il protagonista è lui, ancora lui, il signore della guerra: Vladimir Putin.
Dopo che non s’è capito cosa sia successo ufficialmente e/o propagandisticamente, a Bucha, nemmeno da fonti segrete – o secretate – del Cremlino, Putin ha conferito l’onorificenza al reparto di fanteria che si è trovato nel posto giusto al momento giusto. E chiaramente non ci si spiega il motivo.
A parte la strage – (non) ammesso sia vera – non si ha memoria di epiche battaglie a Bucha, dunque nessun “eroismo di massa, coraggio e determinazione”, come recita il motivo dell’onorificenza. Ovviamente, se questo è il premio per quello che pare sia stato omicidio di bambini e stupro di donne e nulla più, il comandante del reparto non può avere la sola onorificenza, ma è stato insignito dal presidente della confederazione in persona dell’avanzamento al grado di Colonnello. Evidentemente un ottimo lavoro!
Le cose, però, pare non stiano evolvendo secondo i piani, o meglio, non rispecchino quanto promesso da Putin: se è vero che non era sua intenzione condurre una guerra-lampo, è un fatto che otto Generalissimi a lui fedeli sono stati licenziati in tronco, guerra in fieri, per – pare – divergenze con lo zar. Si pensi anche ai dieci giorni in cui all’improvviso e senza un motivo è sparito pure il ministro della difesa Sergej Shoigu, fino a quel momento un vero e proprio eroe nazionale in patria, al punto che i media russi ne riproponevano le gesta fino a sei volte al giorno. Più della posologia di una purga stalinista.
Certo lo Zar, l’Orso bianco – mica è gergo suprematista? – rossobruno, il fine giocatore di scacchi, l’ex comandante del KGB – tanto non frega più un cazzo a nessuno – il rispolveratore di bandiere rosse con falce e martello, il piantatore di statue nuove del vecchio Lenin pare non essere immune da “sbandamenti”: è passato dal voler “denazificare” a salvaguardare i soldati da una sicura carneficina – l’acciaieria Azovstal’. A proposito: nessuno dei dietrologi da salotto ha condotto approfonditi studi dal divano sull’apparentamento del triangolo del simbolo dell’azienda con quello degli illuminati? – dalla difesa dei confini, che tali non sono quelli ucraini perché l’Ucraina non esiste -per lui – è passato all’invasione di quelli altrui(?), dalla conduzione dell'”operazione speciale” all’utilizzo del termine “guerra”, dal combattimento previo avviso di bombardamento, alla pioggia di missili anche su città che non ospitano alcun obiettivo militare, dal voler liberare – proprio così, proprio come il gergo yankee che, a questo punto, perdono il copyright sul termine – le popolazioni russofone, fino a bombardare Odessa. Forse lo sbocco al mare, che la Russia non aveva, non è ancora abbastanza per Putin. Forse non conviene a Putin distruggere l’Azovstal’ che è una fonte di ricchezza per l’Ucraina che, però, non è (ancora) Mosca. Forse il Donbass non era sufficientemente ricco per gli oligarchi della cricca del Cremlino e hanno pensato di incrementare la spesa proletaria.
Se si osserva una semplice cartina geografica degli eventi – non sarà difficile l’interpretazione, dopo aver condotto approfondite analisi di fotografie satellitari – balza all’occhio, anche di quelli che dubitano persino della loro natura sul bidet, la pianificazione degli obiettivi russi: il Donbass è solo l’inizio e il controllo delle popolazioni russofone è solo una scusa per imporre il controllo nella parte orientale e soprattutto meridionale dell’Ucraina che – guarda il caso – coincide con la parte più ricca del Paese, dove si trovano la parte industriale, l’accesso al mare e, quindi, la totalità dei porti, ovvero la possibilità di creare un ponte – proprio come quelli che reca ogni cartastraccia stampata a Francoforte sul Meno – passando per la ricca Transinistria, fino alla Moldavia, dove ci sono altri stato membri NATO. Quindi il discorso potrebbe essere valido fino all’esaurimento… delle vicinanze. Così vicini USA e Russia che, dopo due mesi di guerra, ancora non si sono scambiati un colpo. Sembrano quasi essere supplementari e di mutuo soccorso: io ti aiuto ad estenderti e tu mi riporti in vita un carrozzone militare vecchio e arrugginito che non aveva più ragione di esistere. Inesistente come il confine a Odessa, perla del Mar Nero. Inesistente come la scusa della difesa dei confini da quella NATO in cui si è tentato di entrare, di cui si fa parte come membro esterno e alle cui operazioni si è preso parte attiva. Inesistente come le bandiere della Federazione russa sugli obiettivi conquistati. Inesistente a Bucha. Inesistente la vittoria russa, degradata al massimo solo ad un successo. Se sarà. Che deve arrivare perentoriamente entro il 9 maggio, festa rossa per i nuovi neo-itagliani. Altrimenti la nuova figura di palta lo costringerà a nuove sterzate. Magari a partire da quella verità rilevate e non (più) rivelate dell’Italietta al tempo del covid. Rendendo, così, orfani i pullulanti figli di Putin nostrani.

IL PROBLEMA NON È PUTIN

Mariupol, Chernihiv, Irpin. Non ha importanza dove sia accaduto, visto che è accaduto e accadrà in altri parti d’Ucraina. L’Ucraina è in guerra, dopo sessanta giorni e oltre 20mila soldati russi mandati al macello lo ha dovuto ammettere anche Putin che finora parlava di “operazione militare” e incarcerava chi non lo facesse. In guerra, insieme alla foto di moglie e figli, di qualche razione K e, per chi crede, un crocifisso o un portafortuna, si va solo con la bandiera. Si va per la bandiera. Sulla bandiera il militare presta giuramento e la bandiera è ciò che ci rappresenta, rappresenta la Patria, l’orgoglio di ciò che si è.
Un avamposto conquistato si battezza ammainando l’altrui bandiera e issando la propria sul pennone. Che garrisce. E sventola. E inorgoglisce.
La bandiera della confederazione russa, però, è costituita da tre bandi orizzontali di eguali dimensioni (partendo dall’alto) di colore bianco, blu e rosso. E in Ucraina, i conquistadores moscoviti non hanno issato una sola bandiera ufficiale rappresentante la propria Patria, ma sui carrarmati, sulle roccaforti e su ogni punto conquistato svetta la bandiera rossa con falce e martello. Un gesto così naturale, forse pure scontato, che non ha fatto indignare nessuno. Nemmeno indurre in riflessione. Neppure gli antisovietici di casa nostra. I duri e puri. Quelli che hanno la croce celtica appesa al collo, la fiamma nel cuore e si salutano col braccio teso. Che in Russia sarebbero fuorilegge anche solo per il pensiero. Che, evidentemente, tale non è. Magari Putin avrebbe tentato un ulteriore esperimento (un altro!) di quelli demenziali che ti portano a lasciare 100 euro sul tavolo perché, dovessero entrarti i ladri in casa, questi frugherebbero ovunque, ma non vedrebbero i soldi sul tavolo. Tutta psicologia. Patologica. La verità è che a Putin non gli frega un cazzo di niente di nascondere la sua vera natura: è il superstite del KGB, l’unica struttura superstite dell’URSS di cui lui va fiero e che considera un crimine non prenderla a modello. Quando fu deposto il comunismo con i suoi vari mentori, lui appese alle pareti il ritratto di Pietro il Grande, lo zar, l’imperialista. Non ha mai nascosto di essere stalinista, concezione imbastardita con una visione imperialista, con una spiccata propensione al panslavismo, ovvero una concezione (utopica?) di creare un’area di influenza geopolitica che coincida con la vecchia unione sovietica – una “rifondazione” per dirla con un certo nostalgismo utopico – coincidente con la Moldova, le regioni baltiche, le repubbliche centrali dell’Asia e del Caucaso.
Per Putin l’Ucraina non esiste e “denazificarla” vuol dire cancellarla dalla cartina geografica. Parole sue. In altre parole farla sua, perché è cosa sua.
La legittimità o meno delle mire imperialiste di Putin – non della Russia? – non è l’argomento di questa riflessione. Mi verrebbe, però, da chiedere perché, se si riconosce a Putin di essere l’ultimo baluardo della cristianità, seppur ortodosso, egli non abbia manifestato con altrettanza trasparenza che sfocia nella “epifania” le effigie della croce, del protettore San Giorgio, di qualsiasi altra cosa che non sia la ancora tanto discussa Z che non esiste nell’alfabeto cirillico, ma che in tanti (esperti di semiotica avvinazzati) c’hanno visto l’unione del cielo e della terra, del Padre col figlio e lo Spirito Santo. Perché non esporre il simbolo cristiano con lo stesso orgoglio con cui è stata mostrata da subito la bandiera rossa con tanto di falce e martello sotto la cui effige si è consumato il più alto numero di morti di oppositori pari a cento milioni di povericristi ammazzati (stime loro, eh!)? Cosa c’è di diverso dal comunismo che propina l’abolizione della proprietà privata con l’attuale riforma del catasto (in discussione, si fa per dire, in questi giorni) e l’agenda del 2030 secondo cui “non avrai niente e sarai felice”? D’altronde, anche i primi cristiani praticavano la condivisione dei beni e le grandi utopie dell’età moderna si rifacevano sia a loro che alla società immaginata nella Repubblica di Platone. Si pensi anche a “Utopia” del letterato e politico inglese Tommaso Moro o a “La Città del Sole” del filosofo calabrese Tommaso Campanella: società immaginarie dove il denaro era abolito, e tutti i beni, sia fisici che spirituali, erano condivisi. Condivisi pure l’idea di “famiglia”, una grande famiglia dove pure i figli erano condivisi: utero in affitto e iniziazione dei bambini alle pratiche sessuali sono “comuni” tanto in Russia quanto in Ucraina. Per Marx ed Engels, i problemi che affliggevano il proletariato (povertà, malattia, alti tassi di mortalità) erano causati dallo stesso capitalismo: l’unico modo per eliminarli era rimpiazzare il capitalismo con il comunismo: quale differenza tra gli imperialismi di Usa e Russia?
Punti di discordanza zero, punti di convergenza parecchi. Tra l’Urss di allora e Putin, tra Putin e gli USA. Dovrebbe essere tutto chiaro, ma a quanto pare è una utopia pure questa.
Va da sé, a questo punto, dire che il problema non è Putin.

LA PRIMA VALLE DEL DUBBIO

Sia chiaro: se anche la Russia dovesse perdere la guerra propagandata quale operazione speciale per me non sarebbe un successo. Parlare di vittoria sarebbe ingiusto anche dalle parti del Cremlino. L’operazione di “denazificazione” ha assunto le caratteristiche di una vera e propria guerra che Putin – stando ai figli di P. e alle di lui bimbe che sono meglio, quindi peggio, della fu Čeka- non voleva. Anzi, costoro sapevano pure che lo zar non avrebbe mai attaccato perché, da fine giocatore di scacchi quale loro lo “conoscono”, non avrebbe mai ceduto alle pressioni di Bidenich – Bidè per coloro che dicono anche di combattere il pensiero unico e il conformismo – mentre dalla Casa Bianca, che non è più la residenza di mr. President che, a sua volta, vive e parla tramite ologrammi – perché mai visto che la Casa Bianca non ospita il presidente “v/nero” non si capisce – conoscevano il giorno e pure l’ora in cui Putin avrebbe dato il la.

Al Cremlino non interessa(va) l’Ucraina, ma solo l’eliminazione dei laboratori chimici e, poiché questi erano mascher(in)ati da sedi civili, Putin ha dovuto radere al suolo tutto. E tutti. Però, da ultimo baluardo della cristianità che non va in ferie manco a Pasqua, avvisa prima di sganciare chili e chili di tritolo, zolfo, carbonio e nitrato di potassio. E se la gente muore è perché i nazisti, che non hanno mai rotto le uova a Putin e che Putin ha sovente annientato, anche se poi questi non finiscono mai, si fanno scudo con i civili. Gli stessi nazisti che attendono dietro a sacchi di sabbia in strada e con molotov artigianali i carri zetasegnati, la ferita, la mutilazione, la morte. Da volontari. Anzi, sono loro – sostengono i combattenti dal divano – ad andare a occupare postazioni civili che diventano obiettivi militari, dimenticando tuttavia che si parla di città “civili” per cui, caserme a parte, il combattimento non si può che svolgere tra palazzi, attività commerciali che hanno visto la spesa proletaria, palestre appunto civili, scuole che Putin ha provveduto a far sgomberare in casa d’altri. Che è, dunque, lo stesso principio secondo cui in terra altrui, deposto il suo fantoccio con il fantoccio yankee, si pretende che non vi siano missili e non si entri nella NATO, il catorcio vecchio e inutile rianimato da Putin. Che è la stessa NATO verso cui l’Orso aveva fatto più di un pensierino, partecipando anche a delle missioni di simulazione e addestramento. Ma zio Vlady sta combattendo con le mani legate, anzi con una sola, anzi-ancora con le mani dietro la schiena. Anche dopo aver subito un numero di militi caduti in cinque giorni pari a quelli caduti in Afghanistan in 15 anni? Anche dopo aver licenziato otto Generalissimi fedelissimi? Anche dopo che cresce sempre più il fronte interno – che è segreto come lo sono i servizi a casa nostra – in forte dissenso con la condotta dell'(auto)erede di Pietro il grande? Anche dopo che è stato costretto a dispiegare milizie sull’intero confine, spostare il fronte di guerra e costretto a dover ripiegare sul mercenarismo ceceno e dopo la porta chiusa, seppur garbatamente, in faccia da Pechino e l’ingrossamento delle fila della NATO di altri Paesi confinanti? Possibile che un abile giocatore di scacchi non avrebbe previsto una simile mossa? Possibile che le minacce, addirittura atomiche, di Mosca non sono mai arrivate? Meglio così, sia chiaro. Possibile che, archiviati Dugin, Lilin, Orsini e qualche virostar riciclata e convertita, tutti sconosciuti e lontani dal Cremlino – dove il pensiero e la libertà sono al momento censurati – spunta, sempre lontano dal Cremlino e sempre qui in Italia, un altro “putinologo” che ci fa sapere che l’ex KGB non contempla sconfitte, dunque è un Battisti – forse più Cesare che Lucio – che guida a fari spenti nella notte e non ha intenzione di frenare, mentre noi siamo seduti sul sedile posteriore della stessa vettura? Fonte e dubbio ormai sono il binomio perfetto, co­me falce e martello, come libro e mosche­tto per la par condi­cio di quelli che una volta erano simili da quegli altri che avversavano la bandi­era rossa con la qua­le oggi si trovano più a proprio agio ri­spetto ad una runa. Quante metamorfosi avrebbe scritto Kafka! Non sarebbero bast­ati gli eserciti per leggerle tutte.
I pasdaran del dubbi­o, quelli che non sa­nno metterti in tavo­la nemmeno una pasta al burro senza che si aggrappino ai tut­orial della rete, or­mai sono veri e prop­ri fondamentalisti e pasionariә della nuo­va fase dell’esperim­ento: rianimano, sco­prendone (finalmente) l’esistenza, quel neurone ormai atrofi­zzato di cui nemmeno ricordavano per­sino l’esistenza e iniziano a porsi doma­nde, inutili, infond­ate, demenziali – co­me suggerito – diven­endo, non rendendose­ne conto, fanatici dell’irragionevolezza. Una vecchia tecnica messa a punto da Lotta Continua. È un caso che oggi il dub­bio viene “capeggiat­o” da chi “nel 1967 aderì al Partito Com­unista Italiano lasc­iandolo l’anno dopo per aderire poi a Lo­tta Continua, che in­izia l’attività di giornalista nel 1979, lavorando a proprio al quotidiano Lotta Continua, per il qu­ale segue l’America Latina, e diviene pr­ofessionista nel 198­3, nel 1999, con abb­ondante calma e casu­almente dopo una dec­ina di anni dalla ca­duta del Muro, scrive all’improvviso sul dramma delle foibe (era figlio di profu­ghi istriani anche al tempo del PCI), che nel 2021 però i gr­andi amori nostalgici ritornano, con uno speciale sui 100 an­ni del Comunismo e il resto è nell’oggi, con una evidente fa­ziosità a tratti app­arentemente cerchiob­ottista fatta passare da “dubbio intelle­ttuale”?
Sono gli stessi dubbi che gli stessi per­sonaggi praticavano già mezzo secolo fa: l’omicidio Calabresi ad opera di neofas­cisti – quindi doman­de su domande sul suo viaggio investigat­ivo in Svizzera, sul­la somiglianza del killer con un certo Nardi – o la strage di Primavalle, quando casa Mattei andò a fuoco per dissidi in­terni alla sezione. Anche lì dubbi su du­bbi, depistaggi su depistaggi, mentre mo­rirono Virgilio di 22 anni militante mis­sino Nel Corpo Volon­tari Nazionali e il fratellino Stefano di 10 anni. Mario Mat­tei riuscì a scappare gettandosi dal bal­cone, la moglie Anna Maria e i due figli più piccoli, Antone­lla di 9 anni e Giam­paolo di soli 3 anni, riuscirono a fuggi­re dalla porta princ­ipale quando il fuoco cominciò a diffond­ersi. Lucia di 15 an­ni grazie al padre si calò nel balconcino del secondo piano e da lì si buttò, pr­esa al volo dal Matt­ei già a terra nonos­tante le ustioni sul suo corpo. Silvia, 19 anni, si gettò dalla veranda della cu­cina: batté la testa sulla ringhiera del secondo piano, la schiena sul tubo del gas, fu trattenuta per qualche istante dai fili del bucato e quindi finì sul mar­ciapiede del cortile riportando la fratt­ura di due costole e tre vertebre. Gli altri due figli, Virg­ilio e il fratellino Stefano, morirono bruciati vivi non riu­scendo a gettarsi da­lla finestra per scampare alle fiamme. Il dramma avvenne dav­anti ad una folla che si era radunata nei pressi dell’abitaz­ione e che assistette alla morte di Virg­ilio, rimasto appogg­iato al davanzale a cercare aiuto, e di Stefano, scivolato all’indietro dopo che il fratello maggiore che lo teneva con sé perse le forze. I corpi carbonizzati vennero trovati dai vigili del fuoco vic­ino alla finestra st­retti in un abbracci­o.
L’incendio è un vile atto di terrorismo, un trasversale omic­idio politico: milit­anti comunisti di Po­tere Operaio, borghe­si benestanti figli della migliore socie­tà, colpiscono a mor­te la famiglia di un lavoratore di una proletaria periferia romana. Un atto infa­me, assassino, a cui segue una vicenda paradossale: tre mili­tanti di Potere Oper­aio, Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo, pur condan­nati, diventano prot­agonisti di una stor­ia giudiziaria infin­ita, contraddistinta innanzitutto da latitanza, rimozione de­lla verità, mancata giustizia, da una vergognosa campagna in­nocentista della sinistra italiana, dalla copertura economica e morale agli assassini da parte di esponenti della “cultura conforme e politicamente corretta” come Franca Rame e il Nobel concubino Dario Fo. Anche qui tutto era iniziato col dubbio, coperto da depistaggi firmati da chi oggi spaccia, alla stessa maniera, il beneficio del dubbio utile e in gran rispolvero.

QUALCOSA ANCORA DA CAPIRE

Forse dirò qualcosa di impopolare, qualcosa che farà storcere il naso agli economisti laureatisi all’università della vita. O forse no. Tuttavia, io continuo a pensare che, avessimo avuto un Presidente del Consiglio degno di questo nome, degno dell’Italia Nazione, pandemia prima e guerra poi sarebbero stati degli ottimi input per fare di necessità virtù. Con la pandemia – e il relativo giro di denaro ad essa correlato – si sarebbero potuti ammodernare, ristrutturare e costruire nuovi ospedali, rivedere la medicina domiciliare, eliminare il numero chiuso alla facoltà di Medicina a favore di una “selezione naturale” durante il corso di studi, in nome della meritocrazia.

Nel caso del conflitto in terra ucraina, attesa la mia contrarietà ad ogni forma di sanzione verso quel Putin che è stato e dovrà continuare ad essere un partner commerciale col quale fare affari, considerata la più totale ripugnanza per la cancellazione della cultura russa, il momento sarebbe stato propizio per riscoprire il grano nostrano, le potenzialità del tavoliere delle Puglie, mettere finalmente mano alle nostre riserve naturali di gas e portare a pieno funzionamento i 752 dei 1298 punti di estrazione del (nostro) gas, oggi chiusi. Limitare la fuga di cervelli e di materiali verso la Francia che viene a ordinare da noi pezzi per le loro centrali nucleari, viene a prendere le menti dei nuovi ingegneri cui fare assemblare impianti e produrre energia che poi l’Italia, paradossalmente, (ri)compra. Rivalutare la peculiarità dell’olio pugliese in cui ha investito Baffino che possiede – lo so, è compagno, ma posso assicurare che sono di proprietà – uliveti dal Salento fino alle Marche inoltrate. Non di solo commercio d’armi vive quell’uomo.
Sono utopie, giusto per rimanere in tema? Sono obiettivi perseguibili? Non so, ma è così che intendo la politica: il Ministro deve avere l’idea, poi spetterà ad assistenti parlamentari, di gabinetto e tecnici vari tradurre in atto ciò che è solo potenza.
Ecco perché non ho mai accusato, offendendo, Di Maio di aver fatto il bibitaro – certo, se il Ministro degli Esteri conoscesse le lingue straniere e il Ministro della Salute fosse anche solo un infermiere sarebbe un ottimo punto di partenza – e quanto sostengo è confermato proprio dallo zar del conflitto, Vladimir Putin che, cinquant’anni fa, vendeva limonate in strada, come un Di Maio qualunque.
Certo, poi mi piacerebbe poi capire cosa sia successo dopo che Clinton, sì proprio quello americano, su consiglio di Kissinger e dopo che la Russia si stava sciogliendo come neve al sole, lavorò per limitare il tonfo rosso nella steppa, prima favorendo l’israelita Primakov, padrino di Putin, e poi intervenendo attivamente nel disarmo dell’Ucraina. Con relativa beneficenza al Cremlino.
Mi piacerebbe capire, ora che abbiamo superato i cinquanta giorni di guerra, in che modo la NATO – cui andrà il mio sempiterno disprezzo – possa rappresentare il nemico di Mosca, visto che, ad oggi, non ha ancora sparato un colpo. Capire come la sua espansione ad est possa rappresentare una minaccia, se proprio la Russia di Putin è stata tentata da un ingresso nel trattato (difensivo) nordatlantico al punto da partecipare, quale membro associato, addirittura ad azioni addestrative congiunte. Fino a che punto la Russia può essere garantista verso gli stati dell’ex Unione che si sono rifugiati sotto l’ala americana, appena vista la Russia di nuovo messa in piedi – evidentemente chi ha conosciuto il Comunismo vero se ne guarda bene – Ucraina e Georgia in primis che sono gli unici due stati “rifiutati” dal patto e, guarda caso, sono quelle attaccate militarmente dalla Russia. Che continua a puntare missili, testate nucleari per la precisione, anche su Aviano. Che, figli di Putin, è Italia. Ma i cattivi stanno dall’altra parte. Sempre e comunque. È la ciclicità della storia, figlia delle bombe alleate e liberatorie. Servi di due padroni, sempre russi o americani. Ai quali obbediscono e che tradiscono contemporaneamente i padroni dell’Unione europea – francesi e tedeschi – traini del carro bestiame di Bruxelles santificato ad Aquisgrana e col culo prono a Mosca. Quella Mosca che ha tradito il “patto” – di cui Macron ha annunciato la “morte celebrale” – ben tre volte: nel 2008 con l’attacco della Georgia, nel 2014 quando il fantoccio di Putin – Yanukovitch – fu cacciato da una insurrezione popolare dopo che fu beccato a svendere a Mosca le ricchezze ucraine e a cestinare la richiesta di Kiev di entrare nell’Ue con buona pace del Memorandm di Budapest e oggi con l’aggressione all’Ucraina per gli identici motivi. Quel patto che Mosca è riuscita a riportare in vita, quasi un “pegno d’amore” verso quegli Usa col quale vorranno replicare una seconda Yalta.
Capire perché gli ucraini che in casa – al netto dei bombardamenti, è chiaro – loro, sparano ai russi sparano sui fratelli e lo stesso legame non vale per i russi che vanno ad ammazzare i loro fratelli nelle case – si fa per dire – abbattute.
Capire perché la Russia non ha capito che l’Ucraina sarebbe diventata un nuovo Afghanistan ed essa stessa sarebbe finita tra le braccia di Pechino che le sorride di rimando.
Mosca è tenuta per le palle da Pechino che non ha intenzione di aumentare la fornitura di gas o petrolio russo, né di garantire in rubli mediante la propria moneta e se, malauguratamente, i geni dell’occidente, il migliore dei migliori su tutti dovessero praticare l’embargo, Mosca rischierebbe di andare a gambe all’aria, allo stesso modo in cui un manipolo di soldati tiene per le palle in esercito imperiale.
Abbiamo guardato con disprezzo, timore e resistenza – è proprio il caso di dirlo – il modello cinese su cui il tanto odiato green pass è tarato, quello del riconoscimento facciale ai semafori e del premio all’ubbidienza e ora si corre il rischio di passare dalle grinfie del drago alle fauci del dragone, dopo aver strappato di mano la bandiera del sovranismo e averla sostituita con quella rossa con le cinque stelle e la falce e martello. Senza farsene accorgere. Rigorosamente tifando. Non per se stessi.

 

A VOLTE RITORNANO

Che peccato Puzer! Nemmeno il tempo di dare la notizia che è stato di nuovo eclissato. Riabilitato male. Che è un bene. Vero che c’è la guerra in Ucraina, per taluni “operaZione speciale”, poi nella notte arriva la vittoria che riconferma Victor Orban alle presidenziali in Ungheria, ma, cari brutti figli di Putin, a Puzer è stato annullato il D.A.SPO.!

Mezzo trafiletto sui giornali, nemmeno un cenno ai tiggì, ma, soprattutto, in festa nemmeno una bacheca di quelle che pullulavano di foto del profilo col triestino, foto di copertina spalmate con tiratura maggiore persino delle figurine Panini. Non ho mai creduto che i portuali di Trieste avrebbero potuto fare la rivoluzione, ma a loro va un plauso grosso come il mare perché c’hanno provato, c’hanno messo la faccia e non solo sui profili social. Strumentalizzati, illusi, folli, non importa: loro hanno fatto e l’azione, se coerente, ha sempre ragione.
Il provvedimento comminato al Puzer era del tutto illegittimo, come gli ultimi governi, lo avevano capito persino Di Maio e Tonelli. Era un palese abuso, come il ministero di questi due e degli altri loro degni compari, ma il punto è che l’hanno fatto. Come costringere la classe lavoratrice a dotarsi di un certificato di ubbidienza politica, che di sanitario non ha nessun fondamento, per poter lavorare. Che è il premio.
Il D.A.SPO. urbano serviva a Puzer e ai suoi follower per dire loro che non dovevano rompere i coglioni, a Roma come a Trieste, e a sottolineare che loro sono il governo e se ne fottono delle leggi dello stato (che non sono loro), delle mille euro di sanzione al Viminale che, nonostante sia un luogo di lavoro dove si decide della sicurezza di un Paese intero, diviene improvvisamente un luogo inanimato. Così come la multa a chi non si è messo in riga con i voleri dei poteri. Come la concessione di andare a fare la spesa senza certificazione. La concessione è persino peggiore della certificazione con tanto di schedatura. Tutto in archivio e PuZer – lo scriviamo con la lettera scarlatta in evidenza nella speranZa che diventi di nuovo attuale – arichiviato. Italico benservito, secondo i dettami USA&GETTA, mos maiorun del Bel Paese since 1945. Che è bello, ma quello del vicino è sempre più bello. Fosse l’Afrancia dei gilet gialli – loro sì che hanno le palle – fosse la Russia di Putin – lui si che fa il bene del suo popolo – fosse – oggi – l’Ungheria di Orban, lì sì che si vive bene. Non l’Ucraina, che è di Zelensky e non degli ucraini. Gli ucraini sono naZisti – scritto così è politically correct? – dicono quelli che per combattere i neonazi giustificano l’operazione speciale sotto le effigie della falce&martello e si affidano a mercenari della divisione Wagner il cui leader ha tatuato il simbolo delle SS sulle spalle e l’aquila imperiale tedesca sulla schiena.
Che ogni soldatino da divano abbia degli ideali, persino da Netflix, è un bene, che li cambi con la stessa facilità con cui Salvini cambia una maglietta è meno un bene, ma il punto è che sempre più spesso si finisce per prendere a modello tutto ciò che è altro da noi, altro dall’Italia: chi vuole lasciare l’Italia, chi vuole emigrare, chi esalta le condizioni di vita di questo o quello stato e chi, invece, è costretto a rimanere nel posto dove è nato e che gli è stato dato gratis dai propri avi, diesidera ora Trump, ora Putin, ora Orban. Non si riesce più a credere in se stessi, a formare una coscienza nazionale, un popolo orgoglioso di essere ciò che è e legato alla propria Terra. E più grave di tutto è il fatto che non si avverte minimamente la crisi di IDENTITÀ da cui si è affetti. Irrimediabilmente attaccati al biberon del piano Marshal, geneticamente modificati con la favoletta dei buoni liberatori, cronicamente malati di dipendenza. Di leaderismo che ti porta ad identificarti con il personaggio del momento sia esso Salvini, Berlusconi, Meloni, Paragone, Grillo, Renzi, Bersani, Di Pietro, Occhetto, le sardine e non con l’idea da essi predicata. E una idea dovrebbe avere più vita rispetto alla durata di vita di un uomo. Che, umano, troppo umano, può anche fallire. Ma i leader de noantri – Roma è ancora il centro della civiltà del mondo – sono, ancora, in grado di concepire una Idea, se anche il nuovo che avanza è fondato su conseguenze e non sui problemi, sugli effetti e non sulle cause, se godiamo o meno nel fare la spesa in rubli dimentichi che noi la facciamo già in euro e non in lire e che il problema ancora una volta si chiama Unione europea e si chiama euro? E subito dopo si chiama NATO? E prima ancora si chiama sovranità? Che è sinonimo di indipendenza! Che significa controllo dei confini! Che significa Italia!
Orban ha stravinto per un solo motivo: perché fa il bene della sua Nazione e del suo popolo, attraverso la cura di ogni settore: penso ad esempio all’estromissione della Center European University – l’università di Giorgio Soros- dal suolo nazionale o ad altri tentativi di avvelenamento patrio quali le imposizioni buone buoniste migratorie o le sanzioni economiche secondo i capricci di Bruxelles. Nel pieno interesse nazionale. Tutto cio si può riassumere in una sola parola: Tradizione. Ovvero, per dirla con Evola, coniugazione del presente col passato, di ciò che siamo stati in funzione di ciò che vorremmo essere.

SIAMO FUORI!

È veramente così: da oggi 1 aprile siamo fuori dallo stato di emergenza. Quell’emergenza proclamata e prorogata ad cazzum, come un accanimento terapeutico, come una vigile attesa di chissà quale immane catastrofe che – vivaddio – non è arrivata. 

Pare non sia nemmeno un pesce d’aprile. O, forse, sì. Della gente, del governo, dei mandati in Parlamento tutti che si sono rivelati essere i veri mandanti.

Fuori dallo stato d’emergenza da oggi e abolizione del supergreenpass che resta obbligatorio per cinema, palestre, piscine, teatri e discoteche i cui gestori saranno morti di fame, intanto.
Abolizione del supergreenpass anche per i lavoratori ultracinquantenni, categoria a rischio, fragile e da buttare nel cesso, ma troppo tutto per mandarla in pensione. Costoro, potranno addirittura tornare a lavoro, ma con il green pass base, ovvero con il tampone. Regalando, dunque, mezzo stipendio alla santità di Speranza, dopo che paga per andare a lavorare. Pagarsi il tampone per andare a lavorare per pagarsi il tampone per lavorare è il nuovo leitmotiv.
Ovviamente non sono esenti i bambini che non dovranno più indossare le FFP2 per bambini che poi non sono tali, ma erano solo occlusioni delle vie aeree di misura più piccola, non adatte a loro con tanto di certificato, ma indicate solo per lavoratori che hanno a che fare – non di sicuro per 8 ore – con sostanze pericolose quali vernici, zolfo ed altre esalazioni “pesanti”, ma non certo di più di quelle che già si respirano in questa buona squola. Dovranno obbligatoriamente continuare ad indossare le chirurgiche, cioè perdura per loro l’immissione nel corpo di anidride carbonica che il corpo espelle automaticamente e autonomamente da miliardi di anni. Ricordate il leitmotiv “andare a lavorare per pagarsi il tampone per lavorare”? Il principio è lo stesso, la ciclicità identica, la follia idem.
L’esperimento sociale ha funzionato, l’impalcatura regge e pure alla grandissima.
Il lavoro è ormai divenuto una concessione, altro che articolo primo di quella costituzione bellissima, purissima perché antifascistissima che vale – perché è sempre valsa – meno di uno strappo di carta igienica monovelo. La gente continua a tenere la mascherina anche quando è all’aria aperta o, peggio, da sola in macchina. Perché si sente sicura. Perché si è abituata. E qua scatta l’orgasmo cosmico mondiale-mondialista degli ideatori dell’esperimento transumanista.
E il certificato verde è diventato il nuovo accessorio da mostrare, da esibire, di cui andare fieri al pari di una borsa griffata, di una pelliccia esosa, di un paio di labbra gonfiate a culo di gallina.
Nemmeno più ci sono i guardiani a vedere se ti comporti bene. Tu arrivi, misuri la febbre che a casa non avevi e ti guardi bene dal prenderla, mascherina che ti rende irriconoscibile tanto al posto dei tratti somatici e del QI c’è il QR code, il catcalling è pratica desueta, tanto poi persino i rapporti tra congiunti sono sconsigliati, la manomorta si fa rigorosamente con i guanti che rende il tutto più irriconoscibile di una mascherina.
Il tutto a partire da oggi che è l’anno 0 della nuova (a) normalità. Accolta come progresso, come sicurezza, come fedeltà all’obbedienza che è il nuovo per essere buoni. Che non vale.
Siamo fuori, ma non ne siamo usciti e più ci siamo dentro e meno si rendono conto di essere fuori!