LA VENERE DEGLI STRACCI 2: OVVERO LA VENDETTA DEL “PISTOLOTTO” DI PISTOLETTO

A volte ritornano… (purtroppo). Errare è umano, perseverare è diabolico. Chi la dura la “vice”. Così deve aver parlato il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi che il prossimo 6 marzo inaugurerà la Venere degli stracci di Pistoletto. ‘N’ata vota? Ebbene sì! Cioè, inaugura una seconda volta la stessa statua che non è mai stata inaugurata prima perché, l’opera, è sempre la stessa, che però ne è un’altra ex novo, una copia, perché la prima andò al rogo. Insomma, né più e né meno di un De Luca che, in epoca di pandemia, inaugurava più volte gli stessi reparti ospedalieri mai entrati in funzione, però in versione metropolitano. Con la variante che la statua esiste davvero. Di nuovo. Di nuovo di resina e di nuovo ignifuga. Come quella andata a fuoco. Con gli stracci donati dai napoletani che, però, hanno versato oltre ventimila euro nel crowdfunding (una sottoscrizione/una questua) per la realizzazione della nuova opera e che oggi si sentono dire pure che l’autore, Michelangelo Pistoletto, l’ha addirittura donata! E allora quei soldi? E quella statua nuova uguale sé stessa che è già copia di un’altra realizzazione uguale? Più che realizzazioni artigianali, l’artista piemontese deve aver aperto un opificio di riproduzioni in serie. Oppure ne sta sfornando talmente tante che ormai… ha preso la mano!
Insomma, insistono: la Venere degli stracci deve stare a Napoli, laddove è stata incendiata, per una seconda volta e per tre mesi. Dopo dovrà essere collocata non si sa dove, ma siamo certi che l’amministrazione Manfredi saprà certamente trovare una degna collocazione al manufatto, così come non ha saputo – leggi voluto – fare per la statua di Maradona dell’artista autoctono Domenico Sepe.
Più che il triste destino di una statua, sembra essere un vero e proprio accanimento artistico, proprio il pistolotto del Pistoletto che Napoli è costretta a subire. Almeno la stagione stavolta sarà quella giusta? Non il caldo eccessivo che potrebbe dare vita ad un rogo spontaneo, ma fine inverno – inizio primavera, in modo da verificare la capacità di assorbimento dell’acqua da parte delle pezze. Ops, stracci.
Insomma, chi raggiunge Napoli dalla stazione marittima dovrà necessariamente imbattersi in questa rappresentazione artistica che, se non tanti consensi ha trovato nell’opinione pubblica, sicuramente da pochissimi è stata apprezzata. A dire il vero, prescindendo dai gusti del singolo individuo, in tanti non l’hanno proprio capita. È pur vero che l’arte va interpretata, ma se un’opera deve essere addirittura spiegata per essere compresa, possiamo parlare di arte? Ma sì, per collocazione: la Venere, infatti, sarà ospitata ancora una volta su quella immensa e sterile colata di cemento senza verde che avrebbe dovuto collegare idealmente la terraferma col suo mare, Palazzo San Giacomo e il porto prospiciente, ormai adibita a “galleria d’artista”: una sorta di spazio temporaneo di allestimenti “artistici” che vanno dall’incredibile omaggio a Giambattista Vico tramite quella discutibilissima statua in cartapesta che avrebbe dovuto rappresentare il San Carlone di Arona fino ai Lupi di Liu Rouwang. Dopo la chiave di Milot, opera rifiutata da tante città e, manco a dirlo, accolta dalla Napoli inclusiva che ha trasformato in obbrobrio un punto strategicamente identitario della città, ora è il momento della Venere degli Stracci 2. La vendetta. Quella del Pistoletto che si accanisce affinché la sua fatica sia permanentemente ospitata a Napoli. Una sorta di rifugio per il “divino straccione”: la Venere rifugiata. Non è che niente niente questo Pistoletto ci sta proprio cuffianno? Non è che questo suo accanimento d’artista vuole comunicarci qualche cosa specifica? Magari che Napoli, la Napoli istituzionale, quella di Palazzo Sangiacomo, dal cui balcone si annunciavano rivoluzioni arancioni, ha visto avvicendarsi gente che le pezze dalla fronte (ce) le ha messe al c…? Chi ha orecchie…
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JULIAN ASSANGE VALE TUTTI NOI !

Avrei voluto vederlo Assange in manette e catene. Avrei voluto vederlo denutrito e deperito e, tra le guardie, cercare uno sguardo familiare al processo in aula. Avrei voluto vedere su di lui i segni del carcere duro. Mica possiamo sorbirci solo il sorriso e la paffutaggine di Ilaria Salis in diretta dal tribunale! Nonostante l’anno compiuto di carcere duro non ho visto non dico una ruga profonda, ma nemmeno un malore dovuto allo stress carcerario e probabilmente provocato dal pensiero di ciò che la aspetterà, come successo proprio ad Assange. Ma niente. Assange non si è nemmeno manifestato in aula. Per ragioni di salute, dice il suo avvocato. Dicono sia invecchiato e trasandato. Dicono, quelli che l’hanno visto. Attende di conoscere nella sua cella, in solitudine, il responso di una condanna già scritta. Attende di sapere se sarà estradato negli Stati Uniti o rimarrà – chissà per quanto ancora – nelle prigioni della perfida Albione. Attende di sapere se lo aspetterà la pena di morte o l’ergastolo. Attende e dovrà attendere ancora perché l’Alta Corte britannica si è riunita per l’ultimo appello, ma si fa attendere per emettere il verdetto finale. Intanto la settimana che avrebbe potuto portare ad una decisione è terminata. Se ne apre un’altra con tanti punti sospensivi. D’altronde perché graziare il criminale concedendogli una morte certa e veloce, quando gli si può allungare l’agonia? Facendolo morire  poco a poco, una goccia alla volta. Perché non fare vivere di false illusioni, perché non fare sperare nella grazia, magari in zona Cesarini, il miracolo nonostante l’intermediazione, prima di dimostrare la sua risolutezza? Come d’aplomb. Lo sanno bene i genitori di Alfie Evans, di Charlie Gard, di Indi Gregory: fino all’ultimo hanno atteso, hanno sperato, forse si sono pure illusi, salvo poi doversi arrendere a ciò che hanno deciso gli ermellini di Sua Maestà. Che resta una garanzia. È stata e resta, infatti, il miglior alleato americano. E la prova provata è che ospitano Assange nel loro carcere più duro, tanto da essere definito il Guantanamo inglese. Debbono trattenerlo ancora un poco Assange, debbono temporeggiare fino a quando si insedierà il prossimo inquilino alla Casa Bianca. A chi giova, a pochi mesi dal voto, passare come il boia o come colui/lei che ha “graziato” Assange, che ha dimostrato che la libertà è un’arma così pericolosa, tanto da compromettere l’apparato di sicurezza di quella che è la democrazia per antonomasia?
Assange se ne sta là e attende. Per sé e per i suoi. Aggiunge ogni poco una ulteriore goccia alla sua sofferenza. Guttam cavat lapidem. I “suoi” sono gli Assange in atto e in potenza. Assange è solo un assaggio di ciò che può succedere a lui e a quelli come lui. Se ci saranno. E non ci dovranno essere.  Almeno per ora. Nemmeno da parte di quelli che considerano la penna un’arma, l’informazione un mezzo atto a difendere, anche se talvolta offende. Niente. Nemmeno da parte di quelli che alitano democrazia e libbertà ad ogni folata di vento, per poi scoprirsi bandierucole. La libertà di Assange, se non si è capito, è la libertà di tutti noi. Al di là della vita di Assange in sé, tutti noi siamo potenziali Assange. O, ci si augura, dovremmo almeno esserlo. La sua condanna è la nostra condanna, semplicemente, perché la sua battaglia è una battaglia condotta a vantaggio di tutti noi. Lui ha osato svelare i segreti delle “missioni di pace” che sono il vero lavoro degli Stati Uniti d’America. Ha osato mettere a rischio la sicurezza della Difesa americana, ha osato non sottostare a delle regole che hanno sancito una sconfitta della democrazia in nome della libertà. Ha magistralmente dimostrato che i limiti della democrazia, la “più democrazia” del mondo, consistono nella semplice attuazione di sé stessa. Ha inteso raccontare le cose come a quanto pare stanno e, (non) osando, ha rischiato di raccontare il vero. Di fare il suo mestiere, quello del giornalista, come ognuno lo dovrebbe fare. Morirà o non morirà, sarà il simbolo che dovrà distruggere sé stesso. Sarà distrutto dal peso della sua stessa ombra. Come l’albatros ne I fiori del male di Baudelaire, il poeta maledetto. Maledetto Assange, maledetta (per noi) la sua libertà che gli è di impaccio, ora che è rinchiuso in una cella, costretto a tenere chiuse le splendide ali che gli permettono di volare. Assange volerà. Continuerà a volare. Il problema della non libertà sarà di chi resta. Il problema sarà di Biden – leggasi Hillary Clinton – e di Trump che, illo tempore, ha graziato tutti, eccetto proprio Assange. In fondo, lui ricopriva pur sempre la carica di mr. President. Assange è ormai un simbolo. E l’Aquila calva ha già irrimediabilmente perso. Toccherà ancora una volta agli albionici, come in Ucraina, salvare le terga allo zio Sam. Che continua a pronunciare, capricciando, la solita vecchia frase “I want you”. Vuole Assange e Assange lo avrà. Dalle mani inglesi o nelle mani inglesi. Che potranno ammazzarlo, dovranno ammazzarlo perché non riusciranno ad averlo. Non riusciranno a imprigionarlo. Se non il suo corpo che a niente servirà. Se non a farne pubblico ludibrio perché non ci siano più Assange che ha pagato con la libertà la sua libertà. Che rischia di pagare con la vita la libertà degli altri. La libertà di tutti noi.

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Avellino: l’ultima morte sul lavoro “uguale a tutte le altre”

Roma, 24 feb – “Una città qualunque in Italia: ennesima morte sul lavoro”. Così tiggì e giornali danno la notizia che logicamente dovrebbe significare nulla, se non un ossimoro. Perché di lavoro si vive e non si muore. Non si dovrebbe morire. Ma questi sono i tempi in cui si vive per lavorare e non si lavora più per vivere.

Avellino, l’ennesima morte sul lavoro che fa male

Avellino come a Firenze. Come Palermo, come Bolzano. Avellino è solo l’ambientazione dell’ultima “fortunata” (per l’audience) tragedia. Tutti hanno saputo della sciagura consumatasi alla Stellantis di Pratola Serra (AV) non per il triste episodio occorso, ma perché l’attenzione pubblica è calamitata dal “brand” internazionale. Nessuno ha saputo, invece, dell’altra tragedia, non meno grave, accaduta solo due giorni prima a Mercogliano, altro capo della città irpina, ai danni di un operaio caduto da oltre tre metri di altezza in un deposito farmaceutico. A dirla tutta, l’operaio morto ad Avellino, originario del napoletano, lavorava per una ditta di Foggia nello stabilimento americano.

L’operaio del settore automobilistico schiacciato da una macchina non è diverso dalla ragazza di Firenze rimasta incastrata nella pressa di un opificio sartoriale. Così come non sono differenti un magazziniere o degli operai edili volati giù da un ponteggio. Stranamente a nessuno viene in mente di distinguere le morti sul lavoro tra maschi e femmine. Nessuno che crei qualche altro petaloso neologismo. Nessuno nemmeno che lanci l’allarme “emergenza”, visto che i morti sul lavoro superano di gran lunga i “femminicidi”. Che, alla fine, non sono tutti tali.

Lavorare con dignità e sicurezza

Si lavora accettando la condizione di produrre di più, di produrre più in fretta, di lamentarsi poco e di chiudere un occhio che, poi, porta a chiuderli entrambi. Tragicamente. Spesso per sempre. Perché la multinazionale subappalta l’incarico all’agenzia interinale che deve sopravvivere pure lei e, quindi, taglia per garantire lavoro e, di rimando, si accetta tutto pur di mangiare. Ad ogni livello.

Ad Avellino gli operai si sono fermati e hanno proclamato lo sciopero, dopo la tragedia. Dopo. Si sarebbero dovuti fermare, comunque. Per rispetto di una vita che non è più. Di una vita che, forse, non era tale nemmeno prima. E, inevitabilmente, sarà tale e quale pure dopo. A meno che non sei Amazon che ricopre con un telo bianco un operaio morto e ancora nello stabilimento, mentre non si smette di impacchettare freneticamente.

Domani lo sciopero non ci sarà più, ci sarà un mazzo di fiori al posto di una persona, se sarà rimasta un poco di sensibilità a chi è rimasto. La macchina sarà ancora lì al suo posto, con un giro di nastro bianco e rosso in attesa di essere tolto quanto prima. Forse, prima ancora che gli inquirenti si siano fatti spiegare dai periti come (non) funziona la macchina. Giusto il tempo, lunedì, della solita riunione, col governo – per altro già programmata – dei soliti sindacati che sono gli stessi che qualche tempo fa sedevano allo stesso tavolo di Confindustria. Per gli interessi dei lavoratori, sia bene inteso.

Tutto come prima, o quasi

Lunedì sarà il giorno dopo il weekend, magari ci sarà la notizia del solito spaventoso incidente stradale, del ripetitivo stupro in discoteca, dell’immancabile rissa tra tifosi allo stadio: insomma una tragedia utile a farne dimenticare un’altra. Utile per dare il semplice accenno a quell’incontro tra governo e sindacati che studieranno nuove mosse atte ad arginare… Niente di più (vuoto) e niente di meno (utile) di un abusato, immancabile punto obbligatorio “varie ed eventuali” in un ordine del giorno di una riunione che… s’ha da fare.

Dopo lunedì ci sarà il cordoglio di tutte le parti istituzionali, come da protocollo. E poi il silenzio d’obbligo. Utile perché Stellantis non c’entra, era solo lo stabilimento dove una ditta esterna si era recata per fare manutenzione ad una macchina.

Prima che i fiori appassiscano, cessino i lamenti e le polemiche perché Stellantis ha deciso di affidare alla fabbrica irpina tutta la produzione delle nuove auto e non più delle mascherine per il Covid. E va ringraziata. Dal governo, dalla Regione, dal Comune, dai lavoratori: invece di produrre in America, Stellantis – che non è la Fiat sì come gli Elkann non sono gli Agnelli – ha trovato l’America in Italia. Per cui “silenzio”. The show must go on. Lunedì alla nuova vedova e ai nuovi tre orfani, al più fortunato di loro, verrà offerta la possibilità di lavorare là dove il marito e il padre è morto per guadagnarsi da vivere. Pronti? Vai!

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DALLE INGIURIE E LE OFFESE AGLI AVVERSARI, ALLA INSOFFERENZA VERSO I “SUOI” E LA SCHLEIN: Morto De Luca, é vivo De Luca!

Vincenzo De Luca sarebbe dovuto morire, politicamente sia chiaro. Con l’estinzione dell’emergenza Covid o con il terzo mandato, se non gli riuscisse il giochetto della legge ad personam. E invece, ancora una volta, l’Italia intera parla di De Luca. Com’era? Nel bene o nel male, purché se ne parli! Così da venerdì tutti gliene stanno dicendo di tutti i colori: che ha marciato su Roma; che è arrivato a scontrarsi con la Polizia; che ha riservato una parolaccia (perdindirindina) nientedimeno che alla Premier in carne ed ossa. Fatto sta che Vincenzo De Luca aveva preannunciato di andare a Roma e a Roma c’è andato davvero. Alla testa di oltre cento Sindaci (campani e qualcuno pure venuto dalla Puglia) e oltre dieci pullman a prendersi i soldi che gli spettano per poter fare l’autonomia che ha voluto fare il governo. Solo che a Palazzo Chigi ha trovato chiuso: il miracolo non si è compiuto. Giorgia Meloni era in Calabria, infatti, e De Luca ha unito la Calabria a Roma per mezzo di una malaparola. Al seguito della testuggine, questo ha visto (anti)Fa-npage, c’era finanche quel democristiano onorevole di Clemente Mastella che non condivide De Luca, ma la protesta. Un machiavellico principe che non rinuncia, se c’è la possibilità, di andare a Roma, affacciandosi da dietro le quinte, pur di non rinunciare al proscenio.
Al netto dell’accaduto, di quanto fatto accadere da De Luca regista e De Luca primo attore, con tempi scenici invidiabili, ieri, oggi e domani l’Italia intera ha De Luca in bocca. Nel bene e nel male. De Luca è quanto di più lontano ci sia dal mio pensiero, sia chiaro. De Luca è il folle dei più folli dell’era pandemica. È quello che ha partorito le stravaganze più assurde in tema di contenimento del contagio. È quello che con il Covid è resuscitato e ci ha campato mentre la gente moriva. È quello che che ha inaugurato più volte gli stessi reparti ospedalieri mai entrati in funzione. È quello che sotto la sua egida di commissario straordinario ha distrutto la sanità campana. È quello che ha fermato il mondo, ma non il “suo” concorsone sotto elezioni. È quello che ha inventato la piovra di “favori”, denominato dai giudici “Sistema Salerno”, ma non è imputato in alcun processo per la pandemia. È quello che ha la capacità di mettere davanti a sé dei parafulmine che gli consentono di uscire integro dalla tempesta. È quello della zona rossa quando la gente aveva paura e si tappava in casa. È quello che la gente aveva paura a togliere la mascherina e lui ne prorogava l’utilizzo. È quell’animale, anzi, la bestia, politica, estremizzazione della concezione demagogica di quest’arte, che, però, riesce a farsi interprete del comune sentire. È quello che voleva rendere “autonoma” la Campania dal governo centrale, prima ancora che questo governo sognasse le elezioni che ha vinto.
Lo so, un politico è colui che anticipa il pensiero e non segue quello dettato da altri, ma De Luca è un politico per la massa, della massa. E dalla massa è apprezzato. Ha la furbizia di farsi interprete del pensiero dei più e passare addirittura per capopopolo facendo il Masaniello a Roma. Orazione. Ovazione. Che non è il discorso dei gauche a caviar con la erre moscia.
Lui è il buzzurro campano, anzi, lucano che è diventato macchiettistico e persino imitazione di Crozza quando Crozza fa l’imitazione di De Luca. È il buffone di corte che non fa più ridere, se mai rodere, quando non c’era niente da ridere e c’è ancora molto da rodere. Con Berlusconi avrebbe potuto condividere le accuse per la legge ad personam – vedasi l’impossibilità per aprire al suo terzo mandato che porterebbe la sua candidatura ad aeternum – e invece con Berlusconi rischia di condividere solo la sua fine. Però, c’è un però: col suo modo di fare, De Luca fa. Oggi fa parlare di sé, ieri è diventato popolare per il suo (non) fare, domani sarà ancora il protagonista di qualche sua uscita per non uscire di scena. Il vero capolavoro di De Luca è essere De Luca. Non fare politica, ma fare il politico. Checché se ne dica e se ne pensi, lui fa il bello e il cattivo tempo. In Campania come nel partito, come nell’Italia tutta. È un pdino-non-pidino.n non pedina. È di sinistra? Ni. È “de destra”? Boh. De Luca è detestato a destra perché è di sinistra ed odiato a sinistra perché fa l’uomo  di destra. Ma a destra, a sinistra o al centro c’è un altro De Luca? Un anti-De Luca? Un vice-De Luca? Purtroppo no. Nel bene e nel male. È questo il “capolavoro” compiuto dal politico De Luca. E se non lo si capisce, se non lo capiscono soprattutto i suoi avversari, di partito, dipartiti, e ideologici, di De Luca si continuerà a parlare ancora per tanto. Per troppo. Purtroppo.

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IL RAI….zzismo ci ha ormai rotto le tasche!!

Sanremo, Imperia, Liguria, Italy – January 03 2022: The Ariston Theatre is one of the most famous cinema-theatre in Italy and hosts the Festival of Italian Song annually since 1977

Voglio dire una cosa, anzi due: Secondigliano è un quartiere di Napoli.
E io, che non guardo Sanremo perché non mi piace – ma per dirlo ho dovuto vederlo qualche volta – tifavo per BigMama. E certamente non per quel campanilismo di facciata che vuole irpina BigMama, ma che si dichiara Salernitana pure se vive a Milano, dove non mi pare sconti né esilio, né confino e vuole Avellino eterna nemica di Napoli.
Ho scoperto chi fosse Geolier quest’estate a seguito di un concerto proprio nel capoluogo della verde Irpinia (alla faccia della rivalità!), il rap non è il mio genere, dunque, non so nemmeno dire se meritasse la vittoria o meno del festival della canzone italiana. Proprio lui che ha cantato in napoletano che non è un dialetto, ma una lingua! E poi c’é da dire che arrivare primo sul palco dell’Ariston non significa proprio niente: Vasco Rossi, ad esempio, a Sanremo è arrivato ultimo e, da allora, non ha mai sbagliato un album nella sua ormai mezzo-secolare carriera.
Non capisco, però, perché di Emanuele, così oggi scrivono quelli che vantano e cantano un’”amicizia” con il repper napoletano, si continua a dire che “viene da Secondigliano”. Come se questo dovesse necessariamente significare qualcosa. Chissà cosa. Forse quel tanto anelato riscatto – da cosa non si sa – che paventano tutti quelli che non hanno ancora capito che Napoli è capofila in tanti campi, dall’arte, allo spettacolo, dalla cultura alla gastronomia e tanto altro?
Della vincitrice ricordiamo forse ad ogni voltata di lingua che è lucana? Che Amoroso è salentina? Che Mannoia è romana? Che Bertè non so bene nemmeno da dove venga. Forse dalla Calabria se non erro e comunque “terrona” anche lei! E non ricordo bene neanche cosa canti perché mi sono fermato alla sempiterna coscia che vale più di tutte le donne impellicciate di cui ci parla quel siculo di Fiorello quando ricorda a noi poveri Cristi che non possiamo affacciarci nemmeno ai balconi per vedere quella kermesse ligure, il cui costo di una serata non lo copri con uno stipendio mensile di quei poveracci che pagano il cachet anche a lui affetto da demenza senile (e speriamo solo quella!). Altrimenti ricorderebbe quando andava in giro come uno zingaro per lo stivale a far cantare i poveri nelle piazze e  “animare” i turisti nei villaggi vacanza. D’altronde lui è riuscito a dire persino che “la Salis non ha fatto niente”, nonostante girino in rete le foto del capolavoro della maestrina di Monza.
Contraddizione per contraddizione ritorniamo ai big: dei big non ricordiamo di certo la provenienza geografica, ma del cantante napoletano la provenienza geografica è diventata quasi un secondo nome al suo nome d’arte. Quanti avrebbero saputo portarlo con tanto orgoglio? Avrebbero voluto vedere ‘o “malamente” con le catene d’oro giallo al collo dello spessore di un braccio e il ferro con matricola abrasa nei pantaloni, che parla di vele e di spaccio (Fiorello il siciliano stavolta non c’entra!), che canta di rispetto reciproco e, invece, almeno da ciò che ho visto, é un ragazzo umile. Nonostante sia un big, non da oggi e non certo per il miracolo operato da Sanremo. E con lui, è caduto lo stereotipo napoletano del “furbo” che voleva rifilare il famigerato “pacco” col televoto e, invece, non ha capito manco un ca..volfiore. che era una (tr)fuffa “bella e buona”!
Miracolo non riuscito quello di avere una rassegna patriarcale e femminista la cui guest star è nientemeno che la sorella di Giulia Cecchetin – la perifrasi ha la stessa valenza del “Secondigliano” per Geolier – e che non ha nome. Nonostante le critiche all’uomo bianco, ricco, occidentale di un’altra figlia del Sud e simile a Fiorello per provenienza geografica e professionale: l’ormai palermitana-lombarda Teresa Mannino.
Nonostante tutto, ha vinto una donna. Lucana. Del Sud. “Normale”, nel senso che. se le piace questo o quello, se la pensa in un modo o nell’altro, ha avuto il buon gusto di tenerselo per sè. Non ostenta alcunché, non fa proclami, non sceglie sul palcoscenico né  destra né sinistra, ma, soprattutto,  pensa a cantare e ad aver successo. Insomma, normale e direi anche, molto di buon senso!
Nonostante BigMama si aggrappi al “bodysceming”, al bullismo subito e subìto, all’ l’utilizzo del regionalismo è per meglio far comprendere anche a lei, Avellino-salernitana-lombarda  inclusiva che più inclusiva non si può (non è bodysceming), si aggrappa…ah no, a quello lei no!
Compaesano della Big (lo ha detto lei, eh!) Mama (che fa molto Via col vento, via che nemmeno la Bora di Trieste quando soffia a 140 km/h!) era tale Biagio Agnes, giornalista e direttore Rai ai tempi della prima Repubblica. Quando l’irpino De Mita era Presidente del Consiglio, i politici irpini facevano il bello e il brutto tempo in Italia, terremoti compreso, e la Democrazia cristiana era la cupola più santa da Palermo a Bolzano. Perifrasi collettiva per significare ‘o posto a tanti dei loro. A tutti quanti loro. Compreso alla Rai, il cui disagio è stato solo quello di fare spostare gli avellinesi a Torino. Salvo poi avere l’avvicinamento. Con tutto questo popò di Sud ieri, oggi e domani in Rai è veramente il caso di polemizzare sul fantomatico razzismo interno allo stivale?
Risparmiamo Garibaldi e Mazzini, allora, ché persino la Rai, proprio lì ci ha fatto casa. E peccato non abbia trionfato BigMama: oggi avremmo potuto parlare dei tanti temi della sinistra arcobaleno che, nonostante l’usata, abusata, gratuita e fuori contesto “Bella ciao” e conseguente imprescindibile certificazione di antifascisti puro sangue, non può piangersi addosso nemmeno ed è costretta a inventarsi nuovamente il razzismo tricolore. Sciorinato da chi ha favorito, a guerra mondiale finita, una fratricida guerra civile il cui apice viene ricordato proprio nel giorno in cui quest’anno l’Ariston cala finalmente il sipario.

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LA PACIFICA MANNINO DALL’ARISTON DICHIARA, CON AMORE, GUERRA ALL’UOMO BIANCO.

Sanremo è il festival della canzone italiana nella misura in cui la destra di governo, a detta della sinistra, ha occupato la tivvù di stato di viale Marconi. Inutile ogni riflessione su potenziali vincitori, su eventuali polemiche ricamate ad arte o singolari trovate atte a creare finti clamori più inutili delle proteste dei giornalisti che chiedono (a chi li paga, ma con i soldi altrui) più libertà e più scontatezza del monologo – che avrebbe dovuto far ridere e riflettere – della comica Teresa Mannino. Ma poiché dal palco dell’Ariston (omen non omen) qualcuno difendeva la categoria dei comici perché sono una sorta di salvagente della democrazia – che, ancora, continua ad essere inspiegabilmente la panacea al pari della riflessione moralistica di una che deve fare ridere – noi di questo parleremo.
Ebbene no, il monologo umor-satirico-moralisticheggiante della comica siciliana non è riuscita a farmi venire i complessi di inferiorità per essere uomo bianco, eterosessuale, amante dell’altra metà del cielo e del buon cibo, guidatore di un’auto diesel, magari sposato e con prole. Che, poi, a me non risulta che lei sia non-bianca, non etero, non accoppiata, anzi, per lei si configura persino l’aggravante della recidiva, ed essendo poliamorosa – nel senso di aver amato più uomini e avere messo al mondo una sola figlia – pare proprio che gli uomini con cui si sia accompagnata non abbiano assolto la sola funzione di portatori di spermatozoi e inseminatori-raptus, così come da lei paventato. Anzi, visto che il suo per nulla originale monologo che bene si incornicia nello steccato woke attualmente imperante e a cui tutto lo showbiz è prono, infarcito fino al vomito di politically correct, è persino offensivo nei confronti del mondo maschile. Dico questo non perché sono minimamente offeso dal contenuto del pezzo oralmente defecato, ma per chiedere alla Mannino se fosse successo a parti inverse, che un uomo avesse considerato la donna come un contenitore di testosterone per poi trasformarla in incubatrice, cosa sarebbe successo. Di cosa staremmo parlando oggi. Cosa avrebbero scritto i giornalisti scioperanti sotto al cavallo ferito che emette l’ultimo nitrito.
E non basta, poi, in conferenza stampa ergersi a maestrina per guadagnare il riscatto dicendo cose scontatissime che le fanno accaparrarsi addirittura la corazza di eroina e tributarle il coraggio di Aver detto pubblicamente che “l’Italia è una colonia americana. Dobbiamo stare zitti e come siamo stati zitti su tutto il resto”. Attenzione: non ha detto che non ce la fa più ad essere colonia, che non vuole più esserlo, ragion per cui, il panegirico anche su di lei, anche no, grazie. Probabilmente dimentica, la Mannino, che se siamo colonia è perché a stare zitti sono stati per primi i suoi compaesani che oggi, da Milano, deride per come (non) parlano. Esistono movimenti politici che hanno fatto della sovranità la loro bandiera ideologica, ma sono visti come la peste bubbonica quando scendono in strada a difendere anche quelli come la Mannino che, dopo 80 anni, pensano di aver scoperto l’acqua calda e lo dicono pure!
Sono uomini bianchi, etero e portatori di spermatozoi: se fossero morti, come ci si augura nel monologo dall’artista, allora sì che ci sarebbe bisogno della Mannino che probabilmente, senza gente come questa, non avrebbe nemmeno potuto parlare. Pure non essendo ancora morta, come da desiderio della comica che stavolta non fa per nulla ridere, questa gente fa una gran fatica perché, forse la Mannino, non si muove con bus, tram, metro, non frequenta stazioni e normali vie cittadine, ma in strada ci sono “nuovi europei”, “nuovi italiani” che trattano le donne proprio come descritto dalla novella sacerdotessa dal palco del prestigioso teatro ligure. Quello dove un altro conterraneo della Mannino, Rosario Fiorello, si prende gioco dei poveri che non possono nemmeno vedere le donne impellicciate entrare a teatro da balconi che costano quanto uno stipendio mensile di un normale italiano. Chissà cosa pensano tutti e due – va bene anche un solo pensiero, unico, partorito dal comune sforzo dei neuroni uniti – dei fatti di Catania, dove una ragazza di 13 anni è stata stuprata, percossa e abbandonata in un parco cittadino e il suo fidanzatino costretto ad assistere. Sipario! Nemmeno il buonismo un tanto al kilo dell’ex animatore di villaggio turistico ha pagato, lui che difende la Salis “perché non ha fatto nulla”. Il capolavoro della maestrina si trova in rete al pari del teatrino di John Travolta. Sipario pure qui!
Il risultato è uno spreco di denaro pubblico, compreso quello proveniente dall’uomo bianco, ricco, occidentale, che ridicolizza la comica che non concretizza che un accumulo di parole vuote, scontate e inutili. Che finisce per fare un elogio – senza che lei e né chi le scrive i testi lo capiscano – alla misandria, non abbandonando la maschera delle vittime, pur essendo carnefici. Un autogol che certifica un fallimento di certe ideologie che ancora si continuano inspiegabilmente a calvare pur di rimanere sulla cresta dell’onda. Come quanto successo con il quasi cognato di un’altra ospite creata, la sorella di Giulia Cecchettin. Quasi non avesse un nome proprio. E quel Filippo Turetta che oggi tutti denigrano che non è altro che il prodotto creato d queste loro bislacche teorie.
Una furbata mal riuscita che, al netto della metafora, offre uno spettacolo che non fa ridere e un pezzo di cui non si sentiva certo la necessità. Su cosa dovremmo riflettere, se non sul grado di tristezza di certa gente prezzolata che può avere un prezzo, ma che non ha alcun valore?
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IL PANEGIRICO DELLA MAESTRA SALIS ANCHE NO. GRAZIE!

Che “ovvove” la maestra sardo-brianzola detenuta in catene nelle carceri ungheresi! Sembra l’Italia degli anni ’70. Ma l’Italia, questa Italia, occupa il 41esimo posto nella classifica per la libertà di stampa. Significa, purtroppo, che la maestra in catene vista in Italia, a casa di Orban è stata riconosciuta mentre malmenava alle spalle un musicista che era fermo al bancomat. La sua colpa? Essere un estremista di destra. Che poi non era manco vero.
Ebbene sì, la maestra, anafora ripetuta fino alla noia come se questo fosse garanzia di qualche cosa, era volata alla volta di Budapest per prendere parte ad una contromanifestazione nel “Giorno dell’Onore”, un raduno di estremisti di fazione opposta alla Salis, così si chiama la maestra, in cui si ricorda l’opposizione da parte di un battaglione nazista teso ad evitare l’assedio della capitale ungherese da parte dell’Armata Rossa.
Il gruppo con cui la maestra si accompagna si chiama Hammerbande, la banda del martello, proprio perché il collettivo antifa se ne va in giro a martellare crani, ginocchia e tibie dei loro avversari politici, quando questi, però, sono soli e indifesi, magari distratti, visto che le aggressioni avvengono alle spalle. Una sorta di Hazaret 36 2.0, per dirla “all’italiana”.
Dopo un anno di carcerazione, dopo gli allarmi del semprevivo fascismo, le polemiche propedeutiche su Acca Larenzia, le quotidiane richieste di abiura da parte di chi siede nell’ala destra del Parlamento e le continue genuflessione di questi, la sinistra fa quadrato e si appella ai diritti umani, spacciandoli per la santificazione della maestra che vanta già una condanna nel 2022 per “resistenza aggravata” e “per aver intonato cori ostili, posizionato per strada sacchi di spazzatura e lanciato immondizia contro i poliziotti”.
Manco a dirlo è stato arruolato tutto, ma proprio tutto il caravan al gran completo: il La è stato dato, fin troppo scontato, da La Repubblica, seguita a ruota, libera per davvero, da Fiorello, passando per la Farnesina. Ebbene sì! Incredibile a credersi, ma ne abbiamo una. Non pervenuta al momento, la novella paladina “anti” Isabella Rauti, ma su di lei siamo fiduciosi.
In realtà, la mobilitazione collettiva nasconde qualcosa di veramente losco: soffiare sul fuoco dell’odio affinché si alimenti il clima divisivo degli anni di piombo in cui si è consumata, che che se ne dica, una vera e propria guerra civile in Italia. (L’Hazaret 36 di cui sopra…)
Probabilmente a questa gente non importa nemmeno nulla della maestra (di aggressioni), la loro crociata nulla ha a che fare col garantismo, non si registrano battaglie sinistre per il miglioramento delle condizioni nelle carceri, ma il solo obiettivo da conseguire è quello della beatificazione della maestra – quale etichetta più rassicurante? – capitata per caso nelle grinfie della giustizia magiara, quando a Budapest non era certo in visita d’istruzione (ma di distruzione evidentemente sì) con i suoi discenti e che, strano ma vero, al momento dell’arresto è stata trovata in possesso di un manganello retrattile che, a detta del papa, sarebbe servito a difendersi: da chi? Da quelli che lei aggrediva alle spalle?; l’obiettivo è sollevare dalla proprie responsabilità “una di loro”. Inevitabilmente questo dovrebbe portare ad uno sdoganamento della violenza, più precisamente delle aggressioni ai danni dei fascisti, identificati come tutti quelli che non sono anti o che, molto più semplicemente, non piacciono a loro. Tutto partendo dalle pretese di vietare le manifestazioni di ricordo in onore delle vittime dell’antifascismo – Acca Larenzia, ad esempio -.
Per ora la sinistra sta riuscendo nel proprio intento: la stampa, il gramsciano quarto potere, che tratta con guanti bianchi la “maestra” Salis; l’accozzaglia tutta della sinistra parlamentare ed extra-parlamentare, moderata e borghese, i centri sociali e i posti fissi col Rolex al polso unita nella collettiva lotta all’antifascismo; il governo in carica scodinzolante che si attiva per salvare la pasionariA rimarcando, qualora ce ne fosse ancora bisogno, la differenza tra cittadini di serie A e di serie Z, eccellenti retrocessi; la fanciulla senza vergogna, ma con l’odio di sempre, persino quello di papà, si appella al governo “de destra” che sarà ugualmente destinatario dell’odio di sempre. Da sempre. Per sempre. Che spettacolo! Tutti fenomeni. Paranormali. Paraculi.

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