VENERE VS FENICE : Scontro tra un figlio e un figliastro.

Se la Venere degli stracci in Piazza Municipio è durata un paio di settimane in tutto, le critiche e i propositi d’occasione seguite al rogo dell’opera del Pistoletto da Torino, sono durate ancora meno. Alla fine, la statua ha avuto più pubblicità per la sua distruzione che per la sua ammirazione. Eccetto quel “costume” – è una metafora, non offenderemmo mai gli stracci parte dell’opera – che stava per prendere piede “ad opera” di passanti e visitatori che facevano sì le foto, ma non con l’opera, bensì con una parte di essa. Con la Venere? No, con un’altra parte di essa. Con i glutei marmorei, sotto i glutei scolpiti, per la precisione. Dalla parte di Palazzo San Giacomo, lato stanza del Sindaco, per intenderci.
La Venere, però, si è sciolta manco fossero le ali di Icaro, gli stracci ignifughi si sono incendiati, la polemica è divampata, i soldi – dei cittadini (ignari) – sono andati in fumo e ora si dice di voler ricostruire ciò che è stato cancellato. Come? Con un “crowdfunding”. Una sottoscrizione, per intenderci. Cioè chiedendo nuovamente ai cittadini soldi per il valore pari a X per ricostruire la statua che dovrebbe avere, però, (anche) un valore e non solo un prezzo. La strategia è già ben rodata e oleata: la sottoscrizione era già partita con l’allora giunta de Magistris, il sindaco con la pezza arancione in fronte (e altre pezze altrove), che, per mezzo dell’assessore Eleonora de Majo, tentò una questua tra i cittadini per regalare alla città una statua di Maradona che avrebbero scelto, però, loro del Comune. Poi l’idea fallì, non senza inchiesta giudiziaria. E prima che si pensasse alla ricostruzione della Venere, i gendarmi avevano già individuato il colpevole pur non avendo questo un nome, trattandosi di un senzatetto, mentre Pistoletto dai social e da Torino urlava al femminicidio – davvero! – e parlava di una baby gang che sui social anticipava l’atto vandalico. E la vigilanza che, stando alle rassicurazioni del Comune, avrebbe dovuto vigilare h24? Vabbè, non soffia sul fuoco nemmeno l’artista piemontese che si appella alla vigilanza cittadina – che è più delirante del femminicidio della (rifatta) Venere di plastica – avrà fatto la fine dell’opera .
Solo che mentre gli occhi erano puntati su Napoli, sempre in Campania si consumava un altro rogo. Forse pure più importante, sicuramente molto più grave. Nell’agro nocerino, a Sant’Antonio Abate, forse a causa di fuochi pirotecnici accesi per festeggiare un matrimonio, un incendio di vaste proporzioni ha interessato la storica industria conserviera La Torrente. Stando a quanto ricostruito dai Vigili del Fuoco, dei fuochi d’artificio sarebbero caduti su alcune pile di pedane in legno poste ai lati della fabbrica che ha fatto da innesco per delle plastiche che hanno distrutto irrimediabilmente un capannone e danneggiato seriamente parte dell’opificio. Al punto che la lavorazione si è dovuta fermare – nel periodo di massima produzione – con tutte le perdite del caso, rappresentate dal mancato incasso e dalla distribuzione del prodotto. Un incendio serio e pericoloso anche per chi abita nelle vicinanze della fabbrica costretto all’evacuazione.
Per i lavoratori de La Torrente, vera eccellenza del posto, tipica e tipica, che “punta a valorizzare le eccellenze locali”, per dirla con le parole usate dalla rassegna “Napoli contemporanea”, nessun politico ha espresso solidarietà, nessun rappresentante dei cittadini – che probabilmente sono stati pure votati, che, anzi, sicuramente sono stati pure votati – si è messo in moto per aiutare, nessun benefattore ha aperto un crowdfunding almeno per far ripartire al più presto la produzione, per scongiurare eventuali licenziamenti, per limitare i danni già ingenti o gettare semplice acqua sul fuoco.
Che nessuno sia profeta in Patria è una triste verità, soprattutto in un mondo dove non si riconosce la Patria e la si cancella annullando i confini, ma allora anche i confini di Sant’Antonio Abate non sono altro da quelli di Napoli, della Campania, di Torino e di Biella, Patria di Pistoletto, sicuramente più lontana del borgo facente parte della città metropolitana di Napoli, dal cui palazzo di governo, dal balcone della stanza del Sindaco, proprio dietro la Venere che non c’è più, ormai è possibile intravedere le ceneri de La Torrente. Sperando sia una fenice!

https://www.camposud.it/venere-vs-fenice-scontro-tra-un-figlio-e-un-figliastro/tony-fabrizio/

Borsellino, Via D’Amelio e il depistaggio che dopo 31 anni “(non) c’è stato”

Roma, 19 lug — Questa è una storia all’incontrario, che si inizia a raccontare dalla fine, tale solo per la sua cronologia, degna di un Paese (purtroppo) rovesciato. È una storia di contraddizioni tipiche e topiche di questa Italia ormai identificazione dell’ossimoro per antonomasia. È una storia di ricordi, che per ricordare ti impone di dimenticare. È la storia dei 31 anni della strage di Via d’Amelio, che 31 anni dopo ancora non si chiama con il proprio nome: depistaggio! Perché depistaggio è “stato” o, se vogliamo, di depistaggio si è “trattato”. Accade così che si ricorderà la morte di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli con il solito florilegio d’occasione, opportun(istic)amente preparato.

Borsellino, le origini

Accade così che anche quest’anno – e quest’anno più che mai – ci si ricorderà di dimenticare le origini del personaggio Paolo Borsellino, quel giovane studente liceale che dirige un giornale destrorso – L’Agorà – e poi nel 1959, da studente di Giurisprudenza iscrittosi al FUAN, rappresentante della lista “Fanalino”, fino ad entrare a farne parte e diventare in solo tre anni il vice di Guido Lo Porto. Suo amico di allora era Pippo Tricoli, storico esponente della Destra siciliana che gli presentò un altro uomo “di valore”, un giovane assistente universitario, Adriano Romualdi, altro intellettuale della “parte sbagliata”, morto prematuramente a 33 anni in uno strano incidente stradale. Personalità della parte sbagliata, ma di talento, che avevano il senso dell’onore e che rischiavano per le proprie Idee anche la vita perché, come scriveva Ezra Pound, “Se qualcuno non è disposto a lottare per le proprie Idee, o queste non valgono niente o non vale niente lui”.

E Paolo Borsellino è uno che per le sue Idee aveva sentito forte il desiderio di mettersi al servizio della Nazione e di lottare contro la mafia, fino all’estremo sacrificio della sua vita, accolto con eroico fatalismo. Egli, però, non è il solo eroe e martire di questa ingloriosa repubblica, fastidiosa da quando ha avuto l’ultimo – speriamo vivamente di no – sussulto di orgoglio patrio con la faccenda dell’Achille Lauro. Che, è bene sappiano le nuove generazioni, non è solo il sindaco più glorioso che Napoli abbia mai avuto, né l’indegno (del nome) urlatore defecato a Sanremo.

Gli altri eroi della lotta alla mafia 

Se si parla di eroi caduti nella lotta alla mafia non si può non ricordare il giornalista Mauro De Mauro, aderente alla RSI con la gloriosa X MAS probabilmente eliminato per le sue indagini scomode – allora il giornalismo si faceva così – sulla morte di Enrico Mattei. Scomodo come Beppe Alfano, una vita tra Fronte della Gioventù, Ordine Nuovo e MSI-DN, per le sue inchieste – era un giornalista! – sugli appalti pubblici sui cui Cosa Nostra aveva messo le mani e che lo “premiò” con tre colpi di pistola. Fino ad arrivare al Prefetto di ferro, Cesare Mori i cui risultati non hanno bisogno certo di presentazioni, ma di tanta mistificazione, misto a revisione, vista la sua appartenenza di governo. Risultati inquinati dagli stessi autori dello strappo di Sigonella, mezzo secolo dopo.

E sfidiamo a trovare qualcuno che sui libri si storia – stando al lasso di tempo di questo si tratta – abbia trovato anche solo citato il nome di Mariano De Caro, ragioniere e abile tiratore arruolato nella fanteria Trapani e inviato al fronte da ufficiale nella Grande Guerra. Lo ritroviamo nei Fasci di Combattimento, dove spese la sua vita per quel senso di giustizia sociale che passò per la riscossa di braccianti e salariati schiavi di quei latifondisti interessati solo al proprio tornaconto personale e incuranti dello sfruttamento dei lavoratori.

Un depistaggio c’è stato, ma non si sa chi sia stato

Anche per questo occorre ricordare di dimenticare. Allo scopo, è utile qualsiasi favoletta preconfezionata come quelle pronte da spacciare per ogni occasione. Chi se ne frega, allora, di far sapere quale sia il depistaggio se nel processo Borsellino quater (che sta per quattro processi, ognuno composto di tre fasi di giudizio che hanno stabilito che c’è “stato” inequivocabilmente il depistaggio) le accuse a carico degli imputati sono andate in prescrizione! Che non significa che non hanno colpe.

Dunque, un depistaggio c’è stato, ma non si sa chi sia stato. Neppure quei soggetti-oggetti pezzi di istituzioni accusati di aver vestito il “pupo” Scarantino sulla cui parola sono state emesse sentenze – definitive, anche di ergastolo – quando è appurato e dimostrato che Scarantino è ritenuto inattendibile. Uno che – lo dice lui, eh! – in una riunione deliberativa di commissione (mafiosa), quella in cui Totò Riina comunicò di uccidere anche Borsellino e si raccomandava di fare attenzione perché Falcone, se fosse stato al suo posto in auto, sarebbe stato ancora vivo, entra a prendere un bicchiere d’acqua. In una riunione di commissione. Deliberativa.

E su queste dichiarazioni di questo personaggio, in nome del popolo italiano di questa disastrata repubblica si è emesso una sentenza di condanna all’ergastolo di un povero cristo – chissà cosa ha pensato del quesito ad hoc del referendum sulla giustizia di cui tanti se ne sono fottuti – che il lunedì mattina (20 luglio) apre la sua officina, si accorge di un furto di targhe di una 126 e, recatosi al commissariato Brancaccio, viene trattato come il peggiore dei criminali.

L’arrivo dei Servizi Usa

Che ad esplodere in via D’Amelio sarà una 126 lo si appurerà solo nel tardo pomeriggio del 20 luglio, quando un tecnico FIAT venuto da Termini Imerese riconoscerà un blocco motore (solo) compatibile con quelli montati sulle 126 ma che dalle immagini girate dai Vigili del fuoco non compare mai. 126 che viene già menzionata nel lancio di un’agenzia di stampa (Ansa) tre quarti d’ora dopo l’esplosione, il giorno prima. Dopo, però, l’arrivo dei Servizi Segreti (americani) che arrivano in sito nel giro di un quarto d’ora “vestiti tutti uguali e senza una goccia di sudore – è domenica 19 luglio a Palermo! – freschi che sembravano stessero dietro l’angolo” dirà un poliziotto in qualità di teste.

È pur vero che in Via D’Amelio c’erano tutti quel 19 luglio. Anche chi fece repertare tutto e, raccogliendo la roba in sacchi della spazzatura neri, di quelli condominiali e catalogando alla carlona con un generico “si sequestra quanto ivi contenuto” – cioè nulla – inviò tutto a Roma a disposizione dell’FBI. E perché? E perché l’FBI non ha mai nemmeno fatto (pervenire?) un verbale? Una catalogazione? C’è una pista americana anche per via D’Amelio? Gli stessi americani che non digerirono Sigonella? Che, pare, siano stati la regia della strage di Capaci, dove gli esperti di esplosivistica hanno “sentenziato” che non si può fare saltare in aria un’autostrada tramite un cunicolo, se non vi è un muro laterale che faccia sì che l’esplosione non avvenga appunto di lato?

I pentiti

E che in via D’Amelio il depistaggio inizi proprio dalla 126 di cui gli inquirenti sono così sicuri tanto da fare rimangiare ai “pentiti” le dichiarazioni secondo cui l’esplosivo è stato messo in un bidone della calce. Gli stessi inquirenti, coadiuvati da “pezzi di istituzione” che hanno distrattamente (o)messo verbali – inesistenti per loro stessa ammissione in fase processuale di interrogatori di taluni pentiti – in faldoni di “ignoti”, ovvero tra le denunce dormienti dello scippo e del furto di bicicletta. Ma se la legge è uguale per tutti e c’è qualcuno più uguale degli altri, perché mai questo non dovrebbe valere per i pentiti, il cui “valore’ è direttamente proporzionale al numero di persone ammazzate? Pentiti che non esistevano quando nei palazzi non avevano ancora dato il compito di creare il “pentificio” di stato a chi è assente da ogni processo, da ogni intervista e non risponde alle accuse né ad elogi. Niente. Spariti. A mo’… di latitante.

Quel chi che ha, però, utilizzato – come altri – la mafia e la Sicilia quale trampolino di lancio per sfavillanti carriere. In Polizia come in Magistratura. Qualcuno pure in politica, dalla magistratura, per poi tornare indietro e riciclarsi. Come se nulla fosse. Magari incurante della memoria a tempo e delle dichiarazioni prive di riscontro come l’incontro con persone morte, incontri avvenute in stanze mai esistite e in tempi incompatibili per delinquenti rinchiusi in carcere. Al 41 bis. Oppure no. Il che apre alla connivenza istituzionale. Pezzi di… istituzioni che anche quest’anno saranno in prima fila a Capaci prima e in via D’Amelio poi, magari appenderanno anche il peluche petaloso in via Notarbartolo raccomandando(si), ancora una volta, di ricordare di dimenticare.

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Capodanno del Mugnaio, l’importanza di produrre Grano Nostrum

Capodanno del Mugnaio, l’importanza di produrre Grano Nostrum

5 Luglio 2023 2 comments
grano nostrum

Caserta, 5 lug – Un appuntamento che si rinnova ancora, usi e costumi che ormai sono diventati un rito, una innovazione che inizia a percorrere il binario della tradizione. È giunto già al settimo anno il “Capodanno del Mugnaio”, la festa che sancisce l’inizio della mietitura del grano che si celebra a Frignano (CE) e che quest’anno, oltre al consueto banchetto approntato di ogni bendidio che deriva dal grano – dal dolce al salato, dalla pasta ai dolci – ha visto la presenza anche del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, il presidente della Camera dei deputati Lorenzo Fontana e l’assessore regionale Gianluca Cantalamessa.

Capodanno del Mugnaio, l’importanza del Grano Nostrum

Tra trebbiatrici in azioni, spighe che si raccolgono per la benedizione, offerta, condivisione e assaggio di ogni prelibatezza farinacea da consumarsi rigorosamente nei campi, la parola d’ordine è una sola: produrre “Grano Nostrum”, ovvero produzione di farina 100% del sud Italia (basso Lazio, Campania, Puglia, Molise, Abruzzo e Basilicata), controllati dalla semina alla macinazione – a cura del Mulino Caputo di Napoli, vero valore aggiunto della progettazione – che ha portato alla lavorazione di un progetto comune che ha dato vita ad una vera e propria filiera alimentare, certificata dalla facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II che ha potuto attestare ben cinque varietà di frumento tenero (Trafalgar, Bisanzio, Apulia, Ala 360, Giocondo), così come riporta lAnsa.

Un vero e proprio laboratorio sperimentale che tocca vari settori: dalla semina del grano avvenuta nel mese di febbraio 2023 – e non in novembre dell’anno precedentemente, come da convenzione – sino all’innovazione tecnologica che prevede l’impiego di una concimazione totalmente naturale, nell’ottica di aumento della sostenibilità ambientale delle pratiche agricole, passando per il “rigido disciplinare”, ovvero il protocollo di garanzia che garantisce sia la qualità del prodotto che il rendimento economico dei coltivatori che vi aderiscono. Non ultimo, il concetto, più volte rimarcato dal ministro Lollobrigida circa il sovranismo alimentare, necessario da raggiungere per rendere l’Italia autosufficiente, almeno dal punto di vista del fabbisogno dell’approvvigionamento alimentare di base, necessario per far fronte a casi che potrebbero rivelarsi un problema, come quello appena occorso ad esempio, e che ha interessato l’importazione del grano dall’Ucraina cui si è dovuto far fronte a seguito dell’aggressione da parte della Russia.

Grano che raggiungerà il momento di massima visibilità pubblica in vista del riconoscimento dell’Unesco che dovrebbe arrivare intorno al 2025. Iniziativa che – a detta del ministro – “rappresenta un’occasione per poter raccontare quello che siamo, orgogliosamente perché l’orgoglio è una cosa importante. Ma essendo consapevoli della potenzialità di immaginare un mercato che si apre ancora di più e porta i nostri 60 miliardi di euro di export a diventare 120, 180, infiniti rispetto al mercato che si apre se la qualità resterà l’elemento con il quale si sceglie il cibo”. Anche il cibo si sta andando sempre più a tutelare, ricorda il numero uno del dicastero di via Venti Settembre, con un progetto di legge che va contro il cibo sintetico: la sua approvazione farà dell’Italia la prima nazione che proibirà la produzione, l’importazione e la commercializzazione di tutto quel finto cibo che non rappresenta il corretto rapporto tra uomo, natura, lavoro che ha portato a crescere la civiltà in migliaia di anni e che dobbiamo difendere”.

Speriamo non sia solo “politichese” quanto affermato da Lollobrigida e che ancora una volta non dobbiamo assistere a vergognosi “inchini istituzionali” che più volte abbiamo dovuto vedere pur di piacere a quelli che bisogna com-piacere per forza. Al Capodanno del Mugnaio si è toccato con mano l’Italia dell’eccellenza, l’Italia della qualità, l’Italia che, nonostante imbarbarimenti, inquina-menti e cancellazioni di ogni genere, nonostante epidemie, carestie e guerre, continua ad essere e a fare l’Italia.

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