NAPOLI E LA SUA DIMENSIONE DELL’ESSERE

Se Napoli è la città del Natale, dove è festa 365 giorni all’anno, andando a spasso per cardi e decumani, vicoli e vicarielli non si può non imbattersi nel suo presepe vivente. Mai lo stesso eppure sempre uguale. Non stiamo parlando di San Gregorio Armeno, la via famosa nel mondo intero per i mastri presepiali che continua a vivere nonostante l’accattonaggio cinese ai tempi del lockdown, ma di quella full immersion che nessuna guida ti racconterà mai. Un po’ come quella regola tutta napoletana che sfugge alle regole a cui tutti si uniformano, napoletanità tipica e topica, di far diventare tronche tutte le parole, ma la parola tronca per davvero diviene sdrucciola: così avremo ‘e sigarètt’, ‘o pullmàn, o meglio, l’autobùs. Ma il paesino piemontese che dà il nome alla storica fermata della antica “Direttissima”  (oggi linea metro 2) nei pressi del Museo Archeologico Nazionale diviene rigorosamente Càvour. Questo è vivere Napoli, è capire che la pizza per dirsi davvero napoletana deve tagliarsi con il coltello la cui lama è rivolta verso l’alto. È come voler mettere il rum in abbondanza, senza sapere che chi nasce stru** nun po’ addiventa’ babà. E per parlare della Napoli dei napoletani parleremo di tre personaggi che sono l’essenza di Napoli. Ma non quella turistica, bensì la Napoli vera, quella che scopri solo vivendola e non visitandola: Giannina; ‘o pa’ ‘o pa’ e Giuseppe Polone. A chi non è mai capitato di rimanere senza sigarette, magari a tarda sera in piena movida a Piazza Bellini, zona Port’Alba, dopo l’orario di chiusura dei tabacchini? Nessun problema: c’era lei, Valeria delle sigarette. Pare si chiamasse Giannina, all’anagrafe Gianni, trans dagli occhi azzurri incorniciati da lunghi capelli biondi mai curati, fisico asciutto e curvo e modi spiccioli, a tratti sgarbati. Vendeva sigarette di contrabbando con un piccolo surplus e e la riconoscevi solo dal suo ritornello “Sigarètt’, cartìn’, buc*hìn” in ossequioso rispetto alla regola di rendere tronca ogni parola pronunciata. Se la trovavi “di genio”, ovvero quando era particolarmente triste e piangente, quando non aveva clienti – e non per le sigarette – potevi ascoltare la sua storia che la voleva figlia di un maresciallo (dei Carabinieri?) e prima avversaria del padre per il suo essere spirito libero, attivista e tra le prime a sdoganare – e non è una battuta per il contrabbando delle sigarette – i diritti per gli omosessuali. Sebbene fedele alle sue idee e al suo essere, Valeria era la prima critica nei confronti del mondo di appartenenza, visto che spesso e volentieri alla fine del suo racconto chiosava “’e ric*hiun’ ‘e mo nun tenen’ ‘e pall’!”. La leggenda vuole che sia stata la musa ispiratrice della canzone di Pino Daniele “Chillo è nu buono guaglione”, brano che conteneva anche un epiteto che non si è mai capito se fosse a lui/lei gradito o meno, visto che non era difficile che il suo racconto si concludesse ben prima di questa rivelazione d’eccezione e senza troppi giri di parole ti attribuiva la destinazione: un bell’invito… di moto a luogo. Di lei non ci sono fotografie e pare che, prima di morire all’ospedale Pellegrini, sia stata vista aggirarsi per port’Alba in compagnia solo di una stampella.
L’altro personaggio aveva anche lui il suo “richiamo”: “‘o pa’, ‘o pa’…”. Qualche fortunato pare abbia assistito anche alla variante “’o pa’, ‘o pa’ a me!”. Nome onomatopeico e interpretativo di “il pane, un po’ di pane per me” e notizie ancora più scarse di quelle di “Giannina”. Trattavasi di un (ormai vecchio) mendicante educatissimo e mai insistente che soleva chiedere una moneta senza petulanza, una sola volta, tanto che non era difficile che, mentre la si recuperava in tasca o in borsa, ‘o pa’ ‘o pa’ si era già allontanato. Ringraziava con lo sguardo e scappava via, a testa bassa, con la sua tipica camminata ondulante, ma rapida. Sarà per questa caratteristica o per il dono dell’ubiquità che gli ha attribuito la leggenda che era facile trovarlo in più posti contemporaneamente? Un mistero quanti chilometri percorresse ogni giorno, da Chiaia ai Quartieri Spagnoli, da Mezzocannone ai Tribunali. Nessuno sapeva niente di lui: come si chiamasse, dove abitasse fino a quando ‘o pa’ ‘o pa’ è stato ricoverato in ospedale e lì un medico, uno dei tantissimi che lo hanno conosciuto quando si aggiravano entrambi per la zona universitaria, lo ha riconosciuto ed ha rivelato quell’aura di mistero che lo ha avvolto per tutta la vita: Umberto Consiglio, morto ad 88 anni.
Ad arricchire il presepe vivente napoletano c’è anche un genio della matematica: Giuseppe Polone. Chi non si è mai imbattuto nel capannello di gente che, incredulo, fissa le sue tabelle piene di numeri magici e turisti e passanti curiosi di capire come funzionasse quei labirinto di numeri che in verticale, in orizzontale o in diagonale danno sempre lo stesso numero! Non c’è trucco e non c’è inganno: Polone è un vero genio della matematica, sebbene abbia conseguito appena la licenza elementare. E fa di più: ti fa scegliere un numero e da questo numero scelto, in appena tre minuti, ti crea seduta stante un quadrato composto da un numero di quadrati indicati dal partecipante la cui somma in tutte e tre le direzioni darà sempre la cifra poc’anzi scelta. Quindi ti premia consegnandoti ufficialmente la laurea in Matematica dell’Università della strada rilasciata rigorosamente dalla sua cattedra di Spaccanapoli. “Napoli è città d’amore”, diceva d’altronde un altro figlio della città come Luciano De Crescenzo, alias il Professor Bellavista, e la missione di Polone è proprio un atto d’amore per la sua città. Originario di Porta Capuana, Polone ha vissuto in giro per il mondo fino a quando ha deciso che la sua passione per i numeri dovrà portare Napoli nel Guinness World Record, allorché si costruirà in Piazza Plebiscito una torre alta 40 metri fatta di quadrati la cui somma farà sempre 40. Prima i metri erano 36, come le reti segnali da Higuain; dopo il tradimento i metri sono aumentati a 40, certo che ci  sarà un calciatore che ne metterà a segno altrettante. Che sia quest’anno l’anno buono? Non si dice, è scaramanzia! Non è vero, ma ci credo… “Voglio dimostrare quanto sono intelligenti i Napoletani” è il suo mantra. E di intelligenza si deve effettivamente parlare, visto che Polone, per sua stessa ammissione, non sa eseguire nemmeno i calcoli con le parentesi, ma sulle divisioni non lo batte nessuno. Dietro ai suoi quadrati magici o al prisma pentagonale recante 625 numeri scritti rigorosamente a mano senza ripetersi mai con cui arreda i muri delle vie del centro storico, c’è una passione vera che ricorda – e supera – quella di Robinson Crusoe: Polone fu costretto per cinque giorni nella Foresta Amazonica e, per non perdere la cognizione del tempo, iniziò a far “quadrare i conti”. E sempre da Polone si legge un cartello, se vogliamo anche autocelebrativo, ma pieno di tutta quella saggezza partenopea che recita “Ogni 2000 anni nasce un genio. 2000 a.C. Pitagora. 2000 d.C. Leonardo. Dal 2000 al 4000 Polone!” Un invito a non disperare, anche per quanto riguarda il presepe vivente napoletano perché, si sa, ‘o napoletano se fa sicco, ma nun more.
Questa è la Napoli bella, questa è Napoli, quella da vivere e da conoscere, non solo da raccontare, questa Napoli che dovrà creare ancora quei nuovi personaggi che diventeranno icone della Napoli che sarà e che daranno vita al nuovo presepe napoletano. Che faranno parlare e non vivere di quella “napolitudine” che ormai sta prendendo piede. Con tanta napoletanità e quel pizzico di cazzimma che è la saggezza ermetica del “non t”o dico ch’è ‘a cazzimma, e chesta è ‘a vera cazzimma!”.

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E LO SCONTRINO?

E che palle questa Italia di questi Italiani! Mai contenti di niente, ormai ridotti a due grossi filoni: quelli che, abbeverandosi all’informazione ufficiale, tracannano di tutto e quelli che, controinformandosi, vedono complotti e marcio ovunque. I primi sono i fan del vaccino e le vittime della “pandemia”, i secondi sono i cosiddetti no-vax e sono ugualmente vittime della “pandemia”. I primi strenui difensori dell’agnello sacrificale ucraino – non di Zelensky, ma nemmeno del suo popolo, bensì solo del “simbolo” Ucraina, quasi come un’entità astratta, senz’anima né corpo, né identità, praticamente come loro pascendi in questa Patria – i secondi adulatori di Putin, incapaci di interrogarsi o meno se lo zar (caesar in latino, traslitterato in csar – evidentemente non andavano d’accordo con le “e” – e poi storpiato in zar) sia effettivamente un macellaio, perché sono tutti impegnati a scartavetrare le palle con le immagini di repertorio di qualche cineteca online, a misurare col righello di Word le dimensioni del pisello di Bidenich, ignari se stiano discettando del pre o del post erezione. Vedono in Mosca, ops nella nuova Roma, il Bene assoluto, pur se le sue truppe al comando dell’Uomo del KGB, del fine stratega, dell’eccelso giocatore di scacchi siano cadute nel tranello dell’invasione, sicuramente provocato da quella Nato che non aveva più ragione di esistere – ora, di nuovo, grazie a Putin, sì – con cui la Grande Madre Russia (di Putin) ha partecipato ad esercitazioni esterne, dopo che aveva chiesto di entrare a farne parte. Confini netti: male ad ovest della Russia, bene da destra dell’Ucraina. Entrambi, però, vittime di questo gigantesco esperimento sociale, se non altro perché sono stati “divisi” e resi divisivi: che siano putiniani o fan di Zelensky poco importa. Importa che non facciano fronte comune. Importa che si schierino per l’una o l’altra fazione del solo imperialismo ammesso, non certo che facciano il tifo per loro. Non che prendano consapevolezza del loro reale valore. E così, con questo modus ragionandi, debbono leggere ogni cosa: dal diritto/dovere di andare a votare (che non significa certo credere nel (solo) modo e non moto per cambiare le cose), dalla scelta di scendere o meno in piazza in virtù dell’indice di gratitudine e tolleranza (personale) per questo o quel personaggio (mica del motivo per cui si scende in piazza!) fino all’arresto dell’ultimo capomafia, passando per l’outfit della signora premier. Cosa avrebbe dovuto fare? Non andare a Palermo? Bene, l’avreste criticata lo stesso. V’indignate per il fatto che Matteo Messina Denaro fosse in Sicilia alla stessa maniera con cui ricorrete alla mamma o alla moglie per trovare i calzini nel cassetto del comodino. Magari ai Carabinieri la ricerca del superlatitante lo “stato” l’ha fatta fare per davvero e, se è vero che hanno dovuto scremare in 5 anni – perché pare che fino al 2018 lo stesso fosse in Germania – i registri oncologici di mezza Europa, dopo intercettazioni telefoniche di alcuni parenti che solo per decifrarle si è impegnato un paio d’anni, poi lavorare su documenti falsi (o falsificati, che non è la stessa cosa) da cui ricavare i connotati fisici, accorgersi che un soggetto malato su tutti gli indagati non si è presentato ad un appuntamento per due volte in due differenti cliniche della Sicilia, avendo la conferma solo da lui stesso quando ieri mattina è stato fermato, beh se questa è la verità, il lavoro di ricerca vale addirittura doppio. E dovrebbe indignare il triplo se nello “stato” c’è chi sa ed ha retto il gioco. Se non il giogo.
Tanto già dal giorno dopo, da oggi, liberato lo sfogo, la vicenda assumerà lo stesso interesse che assume l’attività parlamentare dei politici. E pensare che c’è chi va a votare per categorie, senza nemmeno leggere il programma: destra-sinistra, russia-ucraina, vax-novax, bene-male.
Sarà vero successo per lo stato contro l’antistato se riusciranno a far parlare Matteo Messina Denaro perché, consegnatosi o meno (a proposito: ma uno che campa di terrore incusso, di connivenza e omertà, di delinquenza e stragi e che non s’è fatto scrupolo di sciogliere un bimbo nell’acido, davvero non riesce a procurarsi una chemio, dopo che è stato operato per un cancro e devi affidarsi allo stato? Era persino in possesso della tessera sanitaria!) resta il custode dei segreti del periodo delle stragi e del patto stato-mafia (questo lo è?) su tutto. Vuoterà il sacco sulla famigerata Massoneria dello Scontrino, il centro culturale frequentato nientepopodimeno che dal signor, dottor, professor Sergio Mattarella, attualmente presidente della repubblica italiana e appartenente a quella DC che ha distrutto l’Italia, che è stata spietata persino nei confronti di (suoi) personaggi quelli Aldo Moro? Cosa rivelerà di questa massoneria, pare imparentata con la P2 che annoverava tra i suoi accoliti Silvio Berlusconi, oggi nel governo? Questo sarà il vero successo, altrimenti sul cesso l’onorevole stato avrà messo i suoi servitori. Sarà vero successo se si potrà dire con chiarezza che la mafia non è solo quella della delinquenza in Sicilia, ma che esiste (anche) una mafia più onorevole, legalizzata, proprio come l’IVA, le accise, le tasse in genere. E per combatterla, per azzerarla devi essere un “Cesare di ferro”, là dove il ferro è da intendersi come purezza di spirito, come estraneità alla corruzione, che è il vero cancro di questo paese in metastasi.
Chissà quanto durerà in carcere il malato Messina Denaro, chissà quale compatibilità con la sua condizione di malato oncologico e di amante della minchia e delle cavuse dâ sita, della bellavita. Quelle cavuse dâ sita che non potremmo vedere più indossare alla Lollobrigida di cui si parlerà un’ultima volta (confido nella bontà) ai suoi funerali, morta finalmente dopo che l’hanno fatta morire il figliolo e il tutore, resa incapace di intendere e di volere, resa boccone appetibile da fagocitare dai soliti “personaggi in cerca d’attore” come quel magistrato prestato alla politica e poi ritornato alla toga che però presterebbe volentieri il culo allo scranno di velluto di quell’Ingroia che reclamava a Paolo Borsellino il suo diritto di andare in vacanza subito dopo la morte di Giovanni Falcone e che ora, immaginiamo, non sa a quale vento votarsi: se a quello della(nti)mafia o a quella della Lollo, da lui scirtturata a favore di Potere al Popolo. Triste destino quella della Lollo che ha avuto la sfortuna di morire nel giorno della cattura/consegna de ‘u siccu, dopo che per una vita l’in-formazione ha provato a metterla in lotta contro un’altra diva come Sophia Loren. Che poi rivali di che? Quelli erano tempi che non si recitava per finta: il talento o ce l’avevi o no, le tette o ce l’avevi o no! Era un cinema vero, un recitare e non un fingere: un teatro, dove tutto è finto,
ma niente c’è de farzo e questo è vero, per dirla con Proietti. Già allora due fazioni con cui schierarsi: con l’avvenente Bersagliera o con la giunonica Sophia. Una Tina Pica non era ammessa. Tertium non datur. Ma ci sono date che sono fatte così: o tanto o niente, date che parlano come ebbe a dire Baiardo, come quelle della cattura di Riina e quella di Messina Denaro. Però Baiardo lo aveva (pre)detto in tivvù, a vantaggio dello spettacolo da quel Giletti che, però, non chiede come mai Baiardo stesso possa dire certe cose e perché sa certe cose. Tremendamente attuali. Soprattutto ora che si sono verificate. Al pari di come sia potuto accadere che Ninetta Bagarella, moglie di Riina, abbia partorito per cinque volte e non nello stesso anno in una delle migliori cliniche della centralissima via Dante a Palermo. Meglio allora parlare di Dante fascio, da parte di quella politica che prende in prestito politici dalla società civile che politici non sono, di quel Sangiuliano prima santo e poi ministro che ha operato il miracolo di fare prendere in mano qualche libro a tanti, eccezion fatta per Gasparri rimandato sulla guerra di Crimea. Meglio il clamore che il vero significato, meglio il contorno che la sostanza in sé, meglio lo spettacolo di Messina Denaro che il denaro con la ratifica del MES. Sicuri che la prossima volta che si parlerà dello Scontrino sarà per rompere il cazzo per l’ennesima volta al malcapitato barista evasore – non come il libera tutti di Buonafede, omonimo di M.M.D e grazie a cui beneficerà qualche detenuto eccellente – per non aver battuto il costo del caffé sul registratore di cassa.

NAPOLI: La chiave di Milot trova pace tra finta accoglienza e tanto “dialogo”

Solo qualche giorno fa, riflettevamo proprio sulle colonne di questo giornale su cosa sia diventata Napoli. E su cosa (non) abbia fatto la propria classe dirigente inetta e autoreferenziale per aver costretto questa città all’attuale decadenza. Se a questi politici stia bene che Napoli ormai sia solo “la pizza, la pizza, la pizza e niente cchiù”. Ed ecco che, manco lo sapessimo, arriva l’annuncio dell’amministrazione comunale che ci dà prontamente ragione.
Palazzo San Giacomo, per l’occasione “enjoy” – deve essere l’influenza del sindaco di Avellino Gianluca Festa – annuncia cacchio cacchio e tomo tomo che ospiterà da marzo prossimo e per la durata di tre mesi l’installazione dell’opera dell’artista albanese Milot e denominata “Key of Montevergine”.
La chiave di Montevergine è una installazione artistica realizzata in ferro dalle enormi dimensioni (25 metri × 7 in pianta e raggiunge l’altezza di 15) realizzata dall’artista Milot, Alfred Mirashi all’anagrafe, subito ribattezzato dai giornali italiani quale italo-albanese. Ma, in realtà, egli è orgogliosissimo di essere albanese e lo si vede già dal nome. Milot è infatti la città di origine – tanto da tornare spesso in Albania, da dove partì su un barcone negli anni ’90 per approdare sulle coste pugliesi. Ma è in Campania e, precisamente a cavallo tra Sannio e Irpinia, nel comune di Cervinara, che trovò chi fu pronto ad accoglierlo e, riconosciute le inclinazioni artistiche, a pagargli gli studi all’Accademia di Brera.
La realizzazione di Milot, il cui prototipo è ospitato proprio nel comune di Cervinara (AV), è pregna di significato, per così dire, “autobiografico”: è un invito ad utilizzare la chiave del dialogo e dell’accoglienza, è una chiave che serve ad aprire tutte le porte e che, una volta aperte, deve essere ripiegata su sé stessa, in modo da non poter essere riutilizzata. Magari per chiudere quelle stesse porte. Occasione da non farsi sfuggire e significato da reinterpretare, è proprio il caso di dirlo, in “chiave” politica, tristemente attuale. Retoricamente vuota e ipocritamente buonista da tutti quelli che nella politica ci vedono solo il “mezzo” per poter raggiungere i propri scopi. Napoli capofila. Non è certo da discutere sui gusti, come saggiamente ci hanno insegnato i Latini, ma qualche dubbio viene proprio circa la collocazione, circa la location tanto per sentirsi più international, dell’opera: Piazza Mercato, il quartiere più storico di Napoli. Innanzitutto perché questa amministrazione non è certo una mosca bianca nell’iter consumistico-progressista globalizzato del “mercato”  che affligge una certa politica e, poi, perché Napoli ha già dato numerosissime volte dimostrazione di essere una “città d’amore”, per dirla col napoletanissimo Luciano De Crescenzo: vogliamo forse ricordare gli alloggi IRO allestiti a Capodimonte per ospitare i profughi istriano-giuliano-dalmati?; non certo una città in cui “anche un vicino di casa è un lontano di casa” parafrasando i temi che il nordico maestro elementare Marco Tullio Sperelli assegnava agli scugnizzi di “Io speriamo che me la cavo”. È, inoltre, “marchio” riconosciuto nel mondo intero l’animo generoso dei napoletani, al pari della pizza, degli spaghetti e della mozzarella. Forse, pure in difetto se da Piazza Mercato ci spostiamo poco più in là, nel Lavinaio o nel Vasto, per vedere quanto siamo stati generosi nei confronti di immigrati, extra comunitari e pure clandestini consegnando interi quartieri al degrado, all’insicurezza e alla delinquenza.
Ma Piazza Mercato, dicono gli addetti ai lavori, è stata scelta perché chiunque arrivi in città possa godere di questo potente messaggio. Probabilmente un tentativo di bissare la già mal riuscita pubblicità per la scultura permanente by Gigino de Magistris “Nessuno escluso”, la rotonda in ferro che si trova sulle teste di chi entra in città da via Vespucci.
E pensare che non questa amministrazione e nemmeno quella precedente e nemmeno quella precedente ancora sembra ricordare che proprio a Piazza Mercato fu ritrovata l’erma di Partenope, un monumento funerario così grande – racconta nientemeno che Strabone – che accoglieva ogni persona che arrivasse a Napoli dal mare. In realtà il monumento doveva essere collocato tra Palazzo Reale e il Maschio Angioino, ovvero nel porto utilizzato da Partenope, l’insediamento sorto nei pressi di Pizzofalcone, e successivamente dalla Nea Polis, la nuova città appunto, ma quando i napoletani ritrovarono l’erma decisero che quella era “‘a capa d”a sirena”, la testa di Napoli.
Piazza Mercato (Campo Moricini, in illo tempore) ospita anche il “cippo dei cuoiai”, dove fu probabilmente decapitato appena sedicenne Corradino di Svevia per mano di un boia-macellaio o da un cavaliere francese con la sua stessa spada. Il tutto incorniciato da una navata trecentesca della chiesa di Santa Croce e Purgatorio al Mercato, manco a dirlo, oggi chiusa al pubblico. Chapeau per le amministrazioni! Sulla stessa piazza, all’interno della Basilica del Carmine, custodito in un monumento funebre costruito in marmo foggiato dallo scultore neoclassico, il danese Bertel Thorvaldelsen su commissione dell’imperatore Massimiliano II re di Baviera, riposa anche il corpo del ragazzo, dove la leggenda vuole che i monaci nascosero le spoglie dell’ultimo degli Hohenstaufen per impedire il trasporto in Germania, per volere di Hitler e, dove da 754 anni, si celebra una messa in suffragio.
Ci si potrebbe dilungare a lungo su quanto Napoli di bello e di storico abbia da offrire, ma, invece, ci tocca assistere all’ospitata della chiave da parte di questa “chiavica” – nel senso buono, eh! – di amministratori che addirittura sfidano il parere degli esperti in materia della Soprintendenza e del Ministero dei Beni Culturali. Ebbene sì, perché sappiamo che Cervinara, Mercogliano e Avellino in quanto a visibilità non sono certo Napoli, ma è altrettanto bene sapere che la Chiave della pace, del dialogo e dell’accoglienza non trova pace perché non ha trovato accoglienza: doveva, infatti, essere installata all’ingresso della città di Avellino e più precisamente nella rotonda all’uscita del Casello autostradale di Avellino Ovest della A16, ma il Ministero della Cultura, tramite la Direzione generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Avellino e Salerno, rifilò una sonora bocciatura al progetto. Non venivano certo messe in discussione i valori dell’opera (“se non per le notevoli dimensioni”), bensì «il suo rapporto e il relativo riferimento, dal punto di vista paesaggistico, all’ambiente destinato ad ospitarlo» perché «non dialoga, ma interferisce e predomina sul paesaggio che lo ospita e lo circonda», si legge proprio nella relazione. Non si ritenne congrua la collocazione in uno spazio aperto come lo svincolo autostradale di Mercogliano perché avrebbe annullato le bellezze paesaggistiche, lasciando irrisolte le altre criticità, chissà come si fa a ritenere congrua l’installazione in una piazza che trasuda storia e arte da ogni mattone. D’altronde il Sindaco di Mercogliano aveva promesso che si sarebbe provveduto alla ricollocazione della scultura anche in altri contesti. E la politica è sinonimo di promessa. Solo che ogni promessa è debito. Promessa da parte del D’Alessio e debito da parte di Napoli con la propria storia, con la propria cultura e con la propria identità. La chiave in piazza non durerà che tre mesi, ma le chiaviche a Napoli… purtroppo dureranno un po’ di più!

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CAPITO(L) (H)IL(L)… BRASILE?

Questa cosa dei paragoni sembra essere sfuggita di mano nelle redazioni di giornali e tivvù. Pelé-Maradona, Ratzinger-Bergoglio, Capitol Hill-Brasilia. Da intendersi, petalosamente, che il confronto spesso è scontro. Piccolo inciso: Capitol Hill si chiama così perché Jefferson voleva emulare il colle (del Campidoglio) dove sorge il tempio a Giove Optimus Maximus, il re degli dei. E già tanto basta per schifarli. Nell’occasione Jefferson inaugurò “l’invenzione” con tanto di cerimonia massonica e un arrosto di 250 kg. Punto. Per davvero.

Dicev(an)o, Brasilia come Capitol Hill, sciamano compreso, anche se i soliti bene in-formati hanno già reso noto tanto di tweet di anni addietro che il cornuto in salsa carioca era già in azione in illo tempore. E come a Capitol Hill, la rivoluzione è stata fatta con tempi addirittura minori rispetto alla durata in carica del segretario del PD di turno. Azione coalizzata in salsa sudamericana che attacca simbolicamente i tre punti nevralgici del Paese: la capitale e più nello specifico il Congresso, il Palazzo presidenziale e il Tribunale supremo, ovvero i palazzi del potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Il tempo di far battere la notizia alle agenzie di stampa – la voce dell’unico padrone – che arriva la Polizia e i golpisti se ne vanno comodamente a casa, non prima, però, di aver scambiato convenevoli con i (magari) questurini. La situazione rientra nella normalità e, tempo due giorni, vengono emessi mandati di cattura internazionale per i finanziatori del tentato golpe. Questo sì che è ordem e progresso! Il tutto per contestare l’elezione di Lula, incoronato presidente con un margine risicatissimo di vittoria ai danni di Bolsonaro. La stampa, ovvero, il megafono del padrone, con queste cose ci va a nozze e per dare in pasto la notizia ai tanti boccaloni che osservano con la bocca aperta e il vuoto cranico da farcire, appioppano innanzitutto delle etichette: Bolsonaro de destra e Lula de sinistra. Che, poi, ci siano una miriade di sfumature “di area” poco se ne fregano: l’importante non è catalizzare il consenso dell’opinione pubblica – ormai pubica – ma far sì che la gente sia divisa. E divisiva. E per far capire da che parte stare, basta collocare ad hoc la parolina magica a mo’ di cancro: viuleeeenza! Che significa fascismo. A destra, per forza. Per Bolsonaro. Che è come dirlo alla Meloni, per intenderci. E, per intenderci ancora di più, in Italia “ha vinto” perché c’è chi ci crede.

Ma perché ciò che succede nello stato più grande del Sudamerica dovrebbe interessare al mondo intero e in particolar modo al Bel Paese? Innanzitutto perché l’asinistra nostrana vedeva realizzarsi in Brasile ciò che non era riuscita a realizzare qui. E, quindi, la sinistra progre$$ista, tutta ambientalismo e teoria gender, era in pieno orgasmo. Dal del…atore GASsman (l’uomo-puzzetta) al Sumahoro dei suoi stivali, via ANPI. E chissenefotte – dice la sinistra – degli scandali di Lula e della sua Petrobras, dell’assoluzione avvenuta per un vizio di forma e non per estraneità ai fatti, per innocenza. Lula è l’amico, anzi, il compagno che si oppose al rientro in Patria dell’assassino pac-comunista Cesare Battisti!

Al Brasile è sempre stato riservato un trattamento di favore da parte degli Stati Uniti che lo hanno sempre osservato in maniera speciale, ma non mancavano di fargli qualche concessione, come nella lettera di Tommasino in Natale in casa Cupiello: “fa’ stà buono pure a zio Pasqualino, però con qualche malattia!”. Il bastone e la carota, insomma. Soprattutto con l’avvicinarsi da parte dei Carioca alla Russia in piena guerra fredda. Avvicinarsi che in termini geopolitici è da intendersi come dipendenza. Del grano, dei fertilizzanti, del gas. Voce deo verbo “soffermati e rifletti”.

Dipendenza e partnership del Brasile – le cui spinte egemoni sono sempre guardate con un certo sospetto da Washington – si concretizzano in un patto di cui il paese sudamericano sarà uno dei fondatori, il BRICS, il sistema economico che si contrappone al dollaro.

Come fare argine, dunque? Serviva un cavallo di Troia e il suo nome è proprio Lula. Già, perché Lula ha subito una metamorfosi nel corso dei suoi tre mandati, arrivando ad essere quel comunista che tanto piace agli Usa. Ma anche a quelli di casa nostra tutti Rolex e caviale: differenze sociali ancora più marcate, palate di finanziamenti all’agro-business, nessuna misura contenitiva contro i colossi privati della comunicazione – giusto per manipolare quel tanto che basta, che serve – sistema fiscale generoso per i multimilionari. Il coronamento all’ottimo lavoro che Lula stava portando avanti arriva direttamente da mr. President in persona e più volte pure, addirittura in mondo visione: i complimenti sdolcinati di Barack Hussein Obama che lo definì “il presidente più popolare del Brasile”, ricambiato con il dono della maglia del Brasile al G8 di Genova, la bramosia di Bidenich che “non vede l’ora di lavorarci insieme”.

Un gran bel colpo da parte degli Usa quello di avere il loro fido nel sistema economico dei propri avversari economici. Apro parentesi: ma Putin non è un fine giocatore di scacchi, uno stratega di spessore? E, se è tale, allora è complice? Chiudo la parentesi.

Dunque, si fa un po’ di casino, giusto un paio d’ore di pomeriggio, poi a ora di cena tutti a casa, si smonta tutto e il circo si sposta da Capitol Hill in Brasile. Prove generali per l’Iran che, insieme al Brasile è un polo fondamentale per il comparto energia: il Brasile è tra i poli più attrattivi per l’investimento di petrolio e gas naturale, mentre l’Iran detiene la riserva naturale di gas più grande del mondo, seconda solo alla Russia. Si tenga presente, infine, che anche l’Iran ha fatto richiesta per entrare a fare parte del BRICS.

È chiaro adesso cosa sta succedendo in Brasile? A discapito persino della guerra in Ucraina – altra terra ricchissima – che ha perso spessore, tanto che in queste ore il Segretario Generale della NATO ha dichiarato che il Patto ha terminato le riserve di armi. Tanto a Putin è stato tolto il North Stream, la vera arma (di ricatto) della guerra.

Guerra fin(i)ta, dunque? C’è un’altra guerra pronta adesso. USiamo questa, gettiamo l’altra, consumisti che non sono altro. E mentre i signori del mondo si fanno la guerra attraverso la povera gente, la gente povera, in guerra ci si schiera. L’importante è schiera a favore di se stessi. Se l’Ucraina rischia di essere fagocitata da Mosca, si benedicano pure le armi europee. L’Europa è un boccone troppo appetibile per tutti: prima dipendente dalla Russia e ora legata a doppia mandata agli Usa. Festeggiate la liberazione, ma in realtà vi fanno strozzare col piano Marshall!L

La rivoluzione non è un pranzo di gala e Usa e Russia (leggi Cina) sono ancora comodamente appropinquati al desco di Jalta. In tanti, invece, non contenti di stare sotto al tavolo a racimolare le briciole, litigano persino per la sedia presso cui (sotto)stare.

NAPOLI TUTTO ESAURITO NELLE FESTE NATALIZIE: SARA’ VERA GLORIA??

NAPOLI SOLDOUT: IN REALTÀ SONO AMARI CONTI
Finite le feste, per gli organizzatori è tempo di bilanci. Si tirano le somme, senza essere “ciucci da soma”, né grosse cime. A dire il vero, i giornali già in occasione del ponte dell’Immacolata celebravano e al Comune si beavano e si godevano i titoloni – buoni solo per la “Campania elettorale” – NAPOLI SOLDOUT. Tutto esaurito. Non di certo gli amministratori cittadini che non si scapicollano di certo per promuovere la città e incentivare il turismo.
A dire il vero, in questo scorcio di 2022, Napoli ha goduto del miracolo già realizzato del pienone di turisti. Per Napoli, per Partenope, dopo due anni di confinamenti domiciliari. Dal canto loro, gli asseggiolati – che non sono certo i più onorevoli Sedili – nella stanza dei bottoni si sono passivamente goduti lo spettacolo e anche il successo di Napoli che, come i napoletani, è caduta tra le loro mani.
Dai quartieri spagnoli alla Pignasecca, dalla Sanità alle vie dello shopping di Via Toledo, Napoli, nonostante tutto, continua ad incantare.
La sua particolare struttura urbana, rimasta immutata nel corso dei secoli, che conferisce peculiarità a piazzette, vicoli e vicariell’, salite e calate porta i turisti ad assieparsi per Spaccanapoli, resa unica dalla napoletanità di San Gregorio Armeno, la strada di botteghe-musei a cielo aperto dove è Natale 365 giorni l’anno – e non certo per la cinesizzazione dell’attività lavorativa! – dal genio del panaro, all’uopo divenuto solidale, dai cantanti “improvvisi” e non improvvisati dai balconi, dall’estro dell’arte urbana di edicole sacre e profane disseminate qua e là: dominano letteralmente i San Gennaro, le Sant’Anna e la Madonna dell’Arco, tante e tali da poter costituire due distinti percorsi tra i quartieri San Lorenzo e San Lorenzo e Pendino, fino a quelle “profane” del capello di Maradona incorniciato, appunto, come una reliquia. E se Napoli è una città di fede, religiosa e/o calcistica che sia, non potevano certo mancare numerosissime chiese dall’imparagonabile bellezza: Santa Chiara con il suo affascinante chiostro, immediatamente difronte la barocca chiesa del Gesù Nuovo che, oltre alla tomba del medico santo, compositore della celeberrima Quanno nascette Ninno, antenata della più(?) conosciuta “Tu scendi dalle stelle”, tanto che avrebbe dovuto annoverarlo anche tra i Padri della Patria, continua a far discutere della particolarità della facciata su cui qualcuno ci vede (ancora) un’antica partitura musicale. E poi ancora il Duomo gotico, la celeberrima Madonna del Carmine ed il suo famosissimo incendio del campanile, Sant’Antonio con le sue “patronimiche” tredici scese. E come non citare Sant’Anna dei Lombardi, San Lorenzo o San Giovanni a Carbonara. O altre che sono dei veri e propri musei come la cappella di San Severo che custodisce l’incanto del Cristo velato – da non vedere per nessuna ragione al mondo prima della laurea! Almeno così vuole l’imperante tradizione… profana – che non si può non godere separatamente dal Disinganno e dalla Pudicizia, terna d’eccellenza artistica. E a proposito di arte si può non menzionare la Galleria (Umberto è pleonastico) con i suoi segni zodiacali da calpestare o Palazzo Reale? Palazzo Mannajuolo o Palazzo donn’Anna? Le bellezze naturalistiche dell’isola della Gaiola o la veduta mozzafiato dell’intera città dalla Certosa di San Martino? Ma Napoli è contraddittoria al punto tale che dal cielo di porta in terra, anzi sottoterra con Napoli sotterranea e il caratteristico Cimitero delle Fontanelle, dove mito e leggenda si intrecciano.
Non basterebbe certo uno sterile elenco per far conoscere le bellezze di Napoli che per secoli hanno farcito libri, tomi, fatto parlare scrittori – Saviano non rientra in tale categoria anche perché sparla e copia e incolla e pub(bl)ica- ma è l’ennesima conferma delle potenzialità inespresse, e se espresse, affogate e tacitate, dell’indiscusso fascino che questa straordinaria città continua ad esercitare sui tanti turisti di tutto il mondo. Conferma a costo zero per gli amministratori che, come d’uopo, non solo non fanno nulla per incentivare le attrazioni della città, ma spesso tentano proprio di distruggere quello che di buono c’è. Il caso più eclatante è quello del Presidente della Regione Vincenzo De Luca che tra accordi per far sbarcare le navi da crociera a Salerno e i tagli alla cultura, emblematico quello ai danni del primo teatro del mondo, il San Carlo di Napoli. Il sistema “salernocentrico”, volto a fare dell’intero globo terrestre un protettorato di Salerno capitale, d’altronde, è ben noto a tutti. Magistratura compresa. E se da Palazzo Santa Lucia andiamo a quello di San Giacomo, la musica non è certo differente: il “buon” Gaetano Manfredi dimostra a gran titolo di essere degno erede di don “rivoluzione arancione” Gigino de Magistris, della “morta vivente” ma con un po’ di mal di schiena – che fa tanto lettera di Tommasino nella napoletanissima Natale in Casa Cupiello – Rosa Russo Iervolino e addirittura del re che prospera sui suoi disastri, Antonio Bassolino.
Non manca la responsabilità del lato istituzionale, la cui mano alla città viene offerta da un sistema vergognosamente inefficiente dal servizio di trasporto pubblico fino ad offrire una città sporca, ridotta a latrina per i bisogni degli innumerevoli senza tetto, perlopiù immigrati, o meglio, clandestini, che bivaccano ad ogni ora del giorno e della notte rendendo zone e interi quartieri completamente off limits. A partire dagli stessi napoletani  che si sentono in pericolo anche per andare a fare una semplice spesa.
Silenzio totale, o meglio, tombale sull’invidiato e incommensurabile patrimonio artistico-culturale steso – è proprio il caso di dirlo – all’ombra del Vesuvio: dalla scultura alla musica, dalla letteratura al teatro, dallo sport alla solidarietà.
Il mondo moderno, invece, quello dei social ci presenta una Napoli come un immenso ristorante, una cucina h24 a cielo aperto, dove si può mangiare la pizza più buona del mondo ad ogni ora piuttosto che pasta, provola e patate in strada, tra male parole e ammuina¸ degustare l’amletico dubbio della sfogliatella liscia o riccia e finire con la tipica e topica gassosa a cosc’ aperte. E se hai poco tempo – a dire il vero il napoletano per antonomasia non va mai ‘e pressa – quando il mondo intero scopriva lo street food a Napoli la pizza a portafoglio era già una “consumata” realtà, una variante per dirla con termini pandemici, che hanno fatto guadagnare a Napoli e al suo Ospedale Cotugno il riconosciuto primato di “ospedale a contagio zero”. Tanto da essere studiato in ogni parte del mondo. Quel mondo che ci invidia scienziati del calibro del prof. Giulio Tarro, napoletano per scelta. Quel mondo che finge di non conoscere – perché ha già dimenticato – la cosiddetta paranza dei bambini. Il pizzo, il racket che si nasconde dietro i ristoranti, le pizzerie, i baretti di cui Napoli pullula.
È davvero questa Napoli? Pizza… e niente più? Finanche contro i caratteristici panni stesi s’è scagliato il Primo Cittadino! È di nuovo (e ancora) la “Pulecenella ca faceva ridere e pazzia’, ca mo s’arraggia miezz’ a uerr’ e ce parl’ ‘e libbertà”, come già cantava il compianto Pino Daniele?
Fanno festa al Comune e hanno ragione a far festa: gli introiti per le feste si aggirano intorno ai 200 milioni di incasso, di cui 20 milioni potrebbero arrivare dalla sola tassa di soggiorno per il 2022.
I conti tornano, ma al netto delle azioni intraprese, delle cose fatte, dell’amministrazione comunale sempre in affanno, dei servizi essenziali completamente assenti o carenti offerti ai turisti, ma soprattutto ai suoi cittadini.  Insomma, un vero disastro di metropoli che va avanti faticosamente e sopravvive grazie alla sua storia, alle sue bellezze, al suo patrimonio culturale senza eguali. E allora, rallegriamoci pure per la fortuna che abbiamo avuto di vivere in una città unica e generosa. Ma adoperiamoci da subito per svegliarci dal sonno o dal torpore del clima favorevole per creare i presupposti di una autentica rivoluzione copernicana in città. A partire dalla rimozione definitiva e completa di una classe politica autoreferenziale, incompetente e fannullona che ha condotto per mano Napoli sino al quart’ultimo posto nella classifica nazionale della vivibilità urbana tra i capoluoghi di provincia italiani. E scusate se é poco!
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MORTO IL PAPA NON SE NE FA UN ALTRO

Prima che ci avvelenino con maratone televisive che manco Mentana si sognerebbe di sopportare,  tentiamo di regalare un ricordo quantomeno dignitoso di Benedetto decimosesto – sono certo che lui gradirebbe/gradisce questa aggettivazione – al secolo Joseph Aloisius Ratzinger.
Diffidiamo, dunque, degli speciali ad hoc mandati in onda dal mainstream prezzolato, in modo visione, “urbi e tordi” perché proprio i cantori mediatici, gli in-formatori hanno contribuito a “far morire” papa Benedetto. Che essendo il vicario di Cristo è morto sì, ma secondo la concezione cristiana.
I media tutti, dopo essere stati riuniti, invece di parlare, anziché indagare sul perché delle dimissioni, almeno sui motivi oscuri, mai chiariti e persino sorprendenti, hanno preferito accogliere il successore, il secondo Papa o meglio, il papa secondo alcuni, in pompa magna: Francesco, il papa dei poverelli e dell’umiltà: non dicendo che il nome scelto nulla ha a che fare con il poverello di Assisi, ma è un “omaggio battesimale” ad uno dei padri gesuiti. Quel Francesco che rifiuta l’oro della croce e del piscatorio: ma non hanno mai chiarito la raffigurazione, quindi, il significato della croce di ferro che porta al collo. Nemmeno quando altri l’hanno analizzata per capire (e sono sorte dietrologie o, almeno, dubbi, polemiche oscure, insinuazioni di verità?). Francesco che esce fuori dagli schemi (non siamo scemi!) ma sempre dentro gli schermi: Francesco che cammina a piedi, Francesco che telefona a casa della gente. Mica Francesco che non va in Argentina e perché; Francesco che si autodefinisce sempre e solo Vescovo di Roma e non Papa al cospetto del Papa Emerito; Francesco che in Vaticano riceve i potenti della terra, ma non l’allora presidente della nazione più potente della terra (Donald Trump) e le oscure ospitate in Vaticano di lobbisti, dei signori della finanza internazionale da parte di chi dovrebbe (re)incarnare la povertà; del perché egli stesso alloggi nel complesso di Santa Marta e non nell’appartamento papale. Per dirla, appunto, in maniera papale papale.
Francesco è più diretto, arriva più facilmente alla gente semplice, rispetto al “pastore tedesco” – testuale definizione de Il Manifesto – che, invece, ha la colpa di essere un fine teologo, pare essere considerato addirittura il più importante del XX secolo, uno studioso come non se ne vedevano da tempo, un coniugatore di Tradizione e innovazione, di Fede e Ragione, di ellenismo e cristianesimo, uno strenuo difensore dell’Europa cristiana e delle sue radici.
Se Cristo s’è fermato a Eboli, papa Benedetto XVI è morto a Ratisbona. Proprio nell’università che l’ha visto studente (tra i migliori) e dove è ritornato per tenere una Lectio Magistralis  (come quella tenuta ugualmente a La Sapienza di Roma, dove gli fu impedito di entrare)  che sancì la sua “fine” e pure il suo fine: nella città bavarese, ebbe modo di pronunciare un paio di frasi destinate a scuotere il mondo. Frasi non sue, in verità, ma di Manuele II Paleologo, padre dell’ultimo imperatore dell’Impero Romano Costantino XI che, mentre era ostaggio del sultano ad Ankara, con sapienza greca affrontava un saggio persiano dicendo “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo e vi troverai solo cose cattive e disumane, come la sua direttiva di difendere per mezzo della spada la fede che egli predicava” e ancora, “Non con la spada, ma con la ragione si trasmette la fede perché Dio non si compiace col sangue”. Parole che suonarono come delle autentiche bombe in una Europa in ostaggio degli attentati terroristici alla metropolitane di Londra e Madrid – la cattolicissima Spagna – al Bataclan, all’esterno dello Stade de France in occasione dell’incontro di calcio Francia-Germania, a Saint-Étienne-du-Rouvray, quando, due uomini armati di coltelli, entrano in una chiesa uccidendo il parroco e presero in ostaggio alcune persone, ed altri ancora.
Il messaggio era chiaro: o rimuovete “il fine teologo” o avrebbero continuato. Anche perché papa Ratzinger aveva incarnato un non certo arrendevole difensore di un’Europa antica, ma sempre viva, ormai sentita come quasi estranea e superata. In nome di una Chiesa di un discutibile Cristianesimo orientata ad occuparsi sempre più (ideologicamente) di temi sociali, di una umanità asservita e piegata – leggi sottomessa – alla tecnica e alla chimera della scienza. Che procede, come egli stesso sosteneva, “etsi Deus non daretur” – come se Dio non ci fosse – per ridurre l’uomo ad una sola dimensione orizzontale. L’Europa, e con lei la Chiesa, doveva seguire una rotta (da altri) già tracciata che avrebbe portato ad approdare ai porti sicuri dell’accoglienza senza distinzione (tra chi ha veramente bisogno e chi no) in nome di una giustizia sociale, di impronta socialista, di tutti i migranti, se lo dice una qualunque ong, dell’ambiente delirante, o secondo i capricci di una bambina viziata come Greta Thumberg.
Un programma che trova la sua personificazione (un caso?) proprio nel successore di papa Benedetto che riceve curiosi riconoscimenti di Cristo con falce e martello, Cristo guevarista da dittatori cubani e boliviani, rendendolo così amato da lobbisti ed elite bancarie, dai regimi sudamericani (forse non è più tornato a Buenos Aires perché in Argentina non c’è un regime), da trafficoni e trafficanti di merce umana da ridurre a offerte da scambio e schiavitù. Tutti temi graditi ad una certa sinistra, sempre più colorata, tanto che sempre Il Manifesto ebbe a dire che la sinistra è appesa ad un pontefice, ad un prete. Vista l’emorragia di segretari, da Vendola a Frantoiani, passando per la decina e oltre di segretari del PD che si sono avvicendati, che sia proprio papa Francesco il reggente ed il collante affinché la gente torni a votare rosso… porpora?
Ciò che papa Francesco ha fatto finora, in realtà, è tutto ciò che il suo predecessore temeva: anche solo (?) l’assecondare la transizione globalista dal Dio confessionale al dio dissacrato (a tratti anche sostituito: pachmama vi ricorda qualcosa?), sdivinizzato, un diosenzadio, un ateo, un ibrido incrocio bastardo tra un mezzo idolo new age e una statuetta della rivoluzione francese. Tutto è mescolato, tutto è relativo e, poiché niente risulta essere davvero qualcosa, tutto è annullabile. A partire dall’identità. Poiché il Papa Emerito non era uno che faceva le cose a metà, ma era uno che doveva apparire tedesco, cattivo per antonomasia – chissà perché non lo hanno mai ritratto con l’elmetto di ferro in testa, come da copione, avendo fatto parte della Hitler-Junged – aveva avviato una campagna di “tolleranza zero” contro le “sporcizie della Chiesa”, in riferimento a delle molestie sessuali consumatesi da un prete ospitato nella sua diocesi con lo scopo “di farlo curare”. Pare, almeno da ciò che finora è emerso dal processo, che Ratzinger non fosse nemmeno direttamente responsabile, anzi un altro sacerdote si è assunto la propria responsabilità di non aver comunicato a Benedetto, allora vescovo, quanto accadeva. Evidentemente non si doveva scoperchiare un vaso in cui erano custoditi i segreti di tanti. Se fossero stati anche i suoi segreti, avrebbe avuto interesse a “tollerare zero”? È evidente che chi tocca certa cacca con le mani finisce per sporcarsi: lo sappiamo bene noi in Italia che abbiamo processato e continuiamo ad accanirci ancora e ancora contro un ultranovantenne servitore dello stato come Bruno Contrada, pur se le accuse sono sostenute sulle dichiarazioni dei soli pentiti. A convenienza.

È notizia del post mortem del Papa che il processo a suo carico continuerà e a pagarne (eventualmente?) saranno gli eredi. Non ci stupirebbe se chi non potrà difendersi sarà giudicato colpevole. Per l’altrui salvezza, se vogliamo leggerla secondo il cristianesimo 2.0, quello di Pachmama e da lavanda di piedi a suon di baci carponi.
Sarà strano, ma é la prima volta che un Papa celebrerà i funerali di un altro Papa. Non sarà la prima volta, però, che non sarà dichiarata la sede vacante, condizione imprescindibile per dare luogo a nuove elezioni: era già accaduto con Bergoglio. Se, dunque, la sede vacante è la condizione imprescindibile per la nuova elezione e questo non è avvenuto, l’elezione dovrebbe essere nulla.

Quindi il papa non è Papa. E non ci sarà nemmeno una nuova elezione, visto che avremmo un Papa-non-Papa, o almeno non ufficiale. Quindi ci sarebbe una sede vacante, che è condizione per poter indire una nuova elezione.

Al netto dei tecnicismi e dei cavilli, contano le azioni per rimanere nell’eternità. E quelle di Benedetto XVI pare siano andate tutte, se non verso la Santità, sicuramente sulla via tracciata dalla Parola. Ché è stato un Pontefice ripudiato da quella Chiesa che non l’ha difeso, perché non piaceva all’Islam. E non certo per l’amore per la birra, per la cucina tedesca, per Mozart in cui rivedeva l’armonia di Dio e perché si fermava a parlare con i gatti che si dice fossero numerosi al suo seguito.

Umano troppo umano. Anche. In netta antitesi con il gigante della sua ultima enciclica “Caritas in veritate”, dove sembra dire che va bene il perdono, va bene la carità, ma non al costo da compromettere la Fede, quella cristiana, no categorico all’abiura. Può solo questo, tutto questo, essere condizione sufficiente per tradire, per ripudiare non come Giuseppe di Nazareth, ma come Iscariota che pure era un fedele discepolo, un eletto ammesso alla mensa e pure il più “affettuoso” degli adepti?

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