IL TRIDOLORE

IL TRIDOLORE
In occasione della ricorrenza dell’8 settembre e a distanza di più di tre quarti di secolo da quell’8 settembre 1943 ci sembra doveroso riconsiderare razionalmente quei tragici eventi e valutare serenamente le circostanze in cui tanti italiani di quella generazione si trovarono ad operare ed a scegliere la “retta via” che non era né facile da individuare né semplice da seguire. Possiamo fare tranquillamente piazza pulita di tutti quei giudizi prevaricanti ed ingiusti che sono stati formulati senza risparmio da amici e nemici ed anche da tanti cosiddetti storici di casa nostra. Possiamo farlo serenamente perché il tempo trascorso è tanto e perché la riflessione sui fatti ci porta a formulare un giudizio pacifico, onesto e scevro da eccessi “tifo”. Il maestro della storiografia moderna Benedetto Croce disse, con frase lapidaria, che “la storia non si fa con i sé e con i ma”, la storia sono i fatti, le fonti. La storia che proponiamo oggi è quella del napoletano Giovambattista Salvadore, sottufficiale della Regia Marina. Dopo che il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio dai microfoni dell’Eiar lesse il “famoso” proclama dell’armistizio (che in realtà fu una resa incondizionata a tutti gli effetti, un mero passaggio di consegna della nostra Nazione nelle mani americane) le Forze Armate si trovarono senza più un capo, né disposizioni. Complice anche un passaggio della dichiarazione del Maresciallo d’Italia volutamente ambiguo […] Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza [….]. In realtà, dopo il Re e la Regina, il fuggi fuggi generale coinvolse anche Badoglio ed altri pezzi dello Stato Maggiore che ripararono a Brindisi, divenuta sede degli Entri istituzionali in fieri, lasciando di fatto le truppe allo sbando più totale. Lo stesso Salvadore racconta ai suoi cari che “l’8 settembre, come ero in batteria a Piombino alla 190.a. Il 9 settembre sono entrate in porto due cacciatorpediniere tedesche, 14 mezzi da sbarco e un piroscafo armato. La batteria è stata circondata da marinai tedeschi armati e dopo una mezz’ora è venuto un tedesco e ha detto che potevamo rimanere ai nostri posti, bastava che non facessimo atti di ostilità; egli avrebbe messo due suoi marinai di servizio al semaforo per le segnalazioni con le navi di passaggio nel canale di Piombino… e così avvenne. Io ero, quel giorno, di ispezione ed ebbi l’ordine dal comandante che a tempo debito avrei dovuto disarmare i due marinai suaccennati. Andai da loro e mentre parlavo del più e del meno, verso le ore 18, le navi dal porto incominciarono a sparare a fuoco serrato sulla batteria. Noi tre che eravamo sul terrazzo del semaforo, ci gettammo pancia a terra e strisciando scendemmo giù. Presi i due marinai con la scusa di correre verso il ricovero; ad un certo momento, mi girai di scatto, fingendo con una mano in tasca di avere una rivoltella e gridai “ALT!”. I due “giannizzeri” alzarono le mani e si fecero disarmare, poi li consegnai al personale di guardia all’aerofono. Il comandante dette ordine di andare ai pezzi ed in tutto non eravamo che una quindicina di persone, perché il rimanente se l’era squagliata. In tutti i casi, aprimmo il fuoco con tre cannoni e riuscimmo ad affondare un caccia, il piroscafo ed una decina di mezzi da sbarco. A mezzanotte, il porto di Piombino ardeva e per diverse ore e sempre si combatteva, perché i marinai tedeschi si erano asserragliati nel ricovero antiaereo del porto e di lì, con le armi automatiche, sostenevano il combattimento. La mattina seguente, il comandante telefonò al comando DICAT, spiegando ogni cosa e chiedendo di mandare i carri armati per farla finita… ma dal comando DICAT, dopo promesse, non si ottenne nulla e verso le 10 del mattino, il comandante ritelefonò, dicendo che se non avessero mandato per le undici i carri armati, sarebbe andato lui con i suoi uomini e che avrebbe portato tutti i tedeschi prigionieri al Comando. Di fatto, scoccarono le 11 e nulla si era ottenuto. In batteria non eravamo rimasti che 9 marinai, 2 sottufficiali ed il comandante quindi l’impresa era abbastanza rischiosa… ma noi l’intraprendemmo. Dietro ordine, ci caricammo il petto di bombe a mano e andammo all’attacco. Ad un certo punto, intravedemmo dietro un cespuglio un berrettino tedesco ed io lanciai una bomba a mano e di lì sortirono ben dieci marinai tedeschi che disarmammo subito. Ci portammo al di sopra del ricovero e incominciammo a buttar giù le bombe a mano, a quattro a quattro per ogni uomo, in modo che scoppiavano contemporaneamente 44 bombe a mano. A quel fracasso, dopo la terza scarica di bombe, i tedeschi cacciarono fuori un bastone con uno straccio bianco e il comandante parlò, nascondendosi dietro un ufficiale tedesco, dicendo che avrebbe mandato giù un sottufficiale con due marinai per disarmarli, man mano che sarebbero venuti fuori: così, andai io con due marinai a disarmarli. Erano diverse centinaia di tedeschi fatti prigionieri da noi -​ undici, in tutto – e quando ci videro rimasero​ a bocca aperta. Di lì a poco venne il comandante del DICAT, Bagarini, il quale parlò con un maggiore tedesco e vidi che, dopo, tutti si imbarcarono sui mezzi disponibili e presero il largo. Noi rimanemmo in batteria ed il comandante stilò la relazione, citando noi due sottufficiali ed i nove marinai “SUPERIORI AD OGNI ENCOMIO”. La mattina alle 5, mentre dormivamo sull’erba, vennero a mitragliare la batteria alcune motosiluranti tedesche e noi rispondemmo al fuoco. Il comandante telefonò al comando DICAT ma invano: TUTTI SE L’ERANO SQUAGLIATA, senza neanche avvisarci. Il comandante, quasi con le lacrime agli occhi, capì l’impossibilità di continuare a resistere, perché in pochi ed anche perché i tedeschi avanzavano dal mare e da terra quindi dette ordine di abbandonare la batteria. Ci distribuì viveri ed a me dette cento lire, perché ero privo di soldi, così abbandonai Piombino, diretto verso Pola, a piedi, perché qui c’era Maria con Loredana (moglie e figlioletta ndr) prive di ogni risorsa ed in più Nini (il cognato ndr) invalido di guerra e ammalato. Dopo ben quattordici giorni, quando stavo già per raggiungere Pola, a Degnano fui preso dai tedeschi. Presentai loro i miei documenti e cercai di fargli capire che non ero un partigiano. Ero in condizioni pietosissime, i piedi li avevo laceri e sanguinanti e riuscii ad andare a casa per un mese. Allo scadere del mese non mi presentai. Verso la metà di ottobre fecero il censimento degli uomini e dovetti presentarmi… e lì, sfortuna volle, incontrai proprio un maresciallo tedesco che mi aveva preso a Degnano, il quale mi riconobbe e voleva farmi subito vestire tedesco. Parlava molto bene l’italiano ed io gli spiegai che ero in condizioni familiari disastrose e ottenni di indossare la divisa di Marina Italiana e così fui inviato al battaglione Marina, formatosi l’8 settembre. Al dicembre del ’43 mi mandarono a Lussino con trenta marinai, a Monte Asino, batteria tedesca. Riuscii ad andare a Pola dopo 18 giorni, perché mi presentai al comandante e gli dissi che io non ero pratico di cannoni e che non ero all’altezza di… nulla. Così, lui mi mandò al mio comando di Pola. Ebbi un arronzone dal comandante, con la minaccia che se non avessi fatto il mio dovere, mi avrebbero mandato in Germania. Continuavo sempre a fare i miei comodi, cercando di scansare il campo di concentramento. Ebbi, dopo un anno, delle note caratteristiche, così compilate: “carattere apatico, inservibile sotto tutti i punti di vista, mediocre”. Ogniqualvolta si doveva uscire, per rastrellare i partigiani, io ero sempre ammalato, in modo che non ho mai preso parte a rastrellamenti. Per punizione, mi mandarono al comando Marina, dove il comandante Baccarini, capitano di corvetta, mi fece un altro arronzone, dicendo che se non avessi fatto il mio dovere, mi avrebbe denunciato alle SS, per l’internamento in Germania. Andai in missione a Vicenza e ritornai a Pola dopo 50 giorni… e il comandante mi disse che voleva dichiararmi disertore – ritornai con la famiglia che, allora, avevo sfollata in Asiago, perché Pinuccio (il secondo figlio, neonato) stava poco bene ed a Loredana non confaceva quell’aria – poi, il 31 gennaio, morì Pinuccio ed io lo feci presente al comandante e dissi pure che, date le condizioni della mia famiglia, io avevo bisogno di essere sempre a casa. Lui, stufo del mio modo di procedere, mi mandò via per selezionamento e scrisse una nota al Ministero, dicendo che io avevo preso parte ai combattimenti contro i tedeschi, l’8 settembre, e che ero un sottufficiale di scarsissimo rendimento e da espellere dalla marina repubblicana. Così, il 7 marzo del ’45 ottenni il congedo e il 27, con un foglio di viaggio falsificato, potei sfollare con la famiglia a Capodistria, levandomi dai pericoli delle ricerche delle SS. Il mio comandante in batteria era il capitano dell’esercito AVV. Andrea Magarini, abitante in via Valdarno a Firenze. Lui potrà testimoniare quanto io feci a Piombino, elogiandomi”. Esaminare i fatti, considerarli con assoluta serenità e fare pulizia di tutti quei luoghi comuni cari a tanta parte di Italiani, sempre pronti a denigrare i comportamenti dei loro compatrioti, badando bene però ad autoescludersi da ogni considerazione men che positiva, ma pronti ad esprimere con forza e convinzione giudizi negativi sui comportamenti individuali e collettivi di tutti gli altri è il solo modo che abbiamo per dare voce a quella verità taciuta in nome di loschi interessi, di onorare i nostri Padri che hanno contribuito, con il loro sangue ed il loro eroismo (11 CONTRO 100 MAI RICONOSCIUTO!), a lasciarci una Terra da loro resa sacra, il solo modo per continuare a definirci figli grati della nostra Nazione. Ingrata, post mortem, verso i loro Padri.