Basta sparlare di Napoli se con Napoli ci volete mangiare!

Ans(i)a ci riprova. Dopo le favolette propinate agli italiani (https://www.camposud.it/il-quarto-potere-che-divide-litalia-tra-realta-e-finzione/tony-fabrizio/) e la notizia battuta – mai termine fu più appropriato – della festa dell’accoglienza che i lampedusani avevano acconciato per le risorse che si sedevano ai deschi italici imbanditi per l’occasione dagli autoctoni, anzi, addirittura erano attese e accolte “a braccia aperte” (citazione di La Repubblica) per poi proseguire la serata non nei centri di identificazione e accoglienza, ma nelle piazze e alle sagre di paese a dividersi tra danze e sollazzi con il meglio sesso debole che l’isola potesse offrire che manco il lockdown del Decamerone di boccaccesca memoria, adesso tocca a Napoli. Titolo “identitario”, un topos della tradizione, quasi ilare, ma di quella ilarità degna nemmeno di una carta straccia; un luogo comune di quella bassezza ingannatrice che ormai l’in-formazione sforna ad ogni occasione. Il titolo recita testualmente “Raccoglie firme per sicurezza a Napoli, gli rubano lo scooter”. E nel sottotitolo si menziona persino il nome del malcapitato che appuriamo essere l’avvocato (questa cosa di identificare con la professione una persona non mi è mai piaciuta nemmeno per Gigino il fu bibitaro e oggi inviato – quasi menomale! -) Guarino, promotore della petizione per Noi moderati. Che è una formazione politica e, forse, anche un modo di essere. Quasi colpevole, secondo l’Ansa.
Il luogo comune di bassa lega è subito servito: Napoli non è città sicura perché, mentre ci si impegna con una sottoscrizione per la sicurezza – che poi le sottoscrizioni servono da sempre solo ed esclusivamente a contarsi – firmata da anziani e mamme con bambini al seguito – il che fa molto tragedia: prima anziani, donne e bambini – gli fregano lo scooter. Questa zona (via Firenze, zona stazione, quartiere Vasto) è diventata invivibile, protesta il promotore della petizione. Il che è verissimo, solo che da tempo il Vasto è zona dove un napoletano non lo trovi manco a pagarlo. È un quartiere di immigrati, principalmente africani, dove non esiste ordine né legge, se non quella della Giungla, probabilmente. Almeno a vedere ciò che vediamo. Ma quando “altri” protestavano, vedendo avanti già decenni addietro, e richiamando l’attenzione sul degrado a cui si condannava il quartiere, innanzitutto col silenzio, gli “altri” erano cattivi perché ben poco moderati. Un ritardo di qualche decennio che fa molto “politica”. La stessa contro cui ci si scaglia nel comunicato accusandola di essere troppo impegnata a stare dietro le scrivanie e a burocratizzare la vita della città. Un po’ di vittimismo sale & pepe quanto basta, visto che, leggendo la notizia, si apprende che lo scooter, di cui si cita anche marca e modello, è stato trafugato in zona Via De Gasperi, dove l’avvocato ha lo studio – per chi non lo sapesse – nelle prospicienze della caserma della Guardia di Finanza. Incredibile a leggersi, Noi moderati, nella persona dell’avvocato Guarino, dichiara testualmente all’Ansa “[…] Ci vogliono mezzi straordinari, leggi ad hoc, esercito per strada e l’intervento più convinto di chi occupa ruoli apicali”. Esercito per strada dopo che si sono fottuti il Beverly  sotto la caserma? E rincara la dose: “Chi non è in grado di affrontare queste sfide, deve farsi da parte”. Sicuri dopo il ritardo di qualche decennio per accorgersi sulla situazione del Vasto e l’esercito per strada che scongiurerà la delinquenza davanti alla caserma, ma solo perché i militari erano chiusi dentro a lavorare? Più che una notizia che dovrebbe comunicare non si sa che cosa, non era meglio annunciare a mezzo stampa che il tale giorno, alla tale ora, in tale parte della città si teneva il banchetto di “…” per “…”? Perché sputare sul nome della città, sparlare di Napoli per poterne tratte un vantaggio dalla stessa città? È questo l’amore per il capoluogo campano? È questo il modo di fare politica, ridotta sempre più ad un termine che non le fa onore?
Un grazie all’Ansa, però, va detto perché, se è vero quanto è riportato (https://www.ansa.it/amp/campania/notizie/2023/09/16/raccoglie-firme-per-sicurezza-a-napoli-gli-rubano-lo-scooter_7ccf2aea-7e87-41cc-bf99-bb9ee704420f.html), almeno contribuisce farci conoscere “la politica” che, probabilmente, ritroveremo in corsa nella prossima tornata per le, ormai imminenti (vedasi De Luca e la sua legge ad personam per diventare candidato in aeternum) elezioni regionali. I tempi sono ormai maturi e di questi tempi…
San Gennaro, aiutaci tu!

Francesco Cecchin è ancora presente

Roma, 16 giu – E con questo 16 giugno sono quarantaquattro. Quarantaquattro gli anni trascorsi dalla morte di Francesco Cecchin, volato nell’Olimpo degli eroi, dopo essere volato dal parapetto di un’abitazione al civico 5 di via Montebuono, nel quartiere Salario a Roma, una volta riconosciuti i suoi aggressori che, nel frattempo, erano diventati “solo” i suoi inseguitori. Gli stessi con cui nel pomeriggio Francesco aveva avuto un alterco per una questione di manifesti. Dopo quasi mezzo secolo sappiamo chi è Francesco Cecchin e sappiamo della sua militanza politica nel Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile dell’MSI.

Francesco Cecchin, sappiamo tutto

Sappiamo della sua lunga agonia – coma indotto per diciannove giorni – così come sappiamo delle fratture su tutto il corpo, eccetto mani e gambe: strano modo di cadere per uno che vola da un’altezza considerevole. O meglio, di atterrare. Di testa.
Sappiamo del cranio fracassato, sappiamo della milza spappolata, sappiamo delle chiavi di casa piegate ancora tra le mani, usate per difendersi e del pacchetto di sigarette (gettato) vicino al ragazzo ferito. Sappiamo che sul suo corpo è stata eseguita un’autopsia il cui esito è indiscutibile e sappiamo che, nonostante quella perizia, non è mai stata fatta giustizia.

Sappiamo che gli assassini di Francesco avevano tutta l’intenzione di uccidere – l’accusa fu di omicidio volontario che, molto verosimilmente, era solo il nuovo significato da attribuire alla parola “caduta” – ma non sappiamo perché l’unico indagato, nonostante abbia mentito spudoratamente al processo riguardo il proprio alibi ed essere andato al cinematografo Ariel per assistere alla visione de Il Vizietto nonostante quella sala non avesse in proiezione il film indicato – s’è potuto guadagnare, con la falsa testimonianza sostenuta, il premio per non aver commesso il fatto. Il fatto sarebbe il concorso in omicidio, ma non si sa con chi. Altro vizietto tipico della italica giustizia. Come quello di non trovare il colpevole. Che pure esiste. Come esiste qu­ella verità storica che non può più esse­re nascosta, o peggi­o, ulteriormente negata, in attesa che la giustizia scr­iva la parola fine su questa feroce esec­uzione.

Una parola fine che serve a non ammazzare ancora una volta Francesco, cui il Viminale, il “deputato” all’ordine pubblico della sicurezza di questa repubblica, ha negato anche la possibilità di essere inserito tra le vittime del terrorismo. Come se gli anni di piombo siano stati solo una marachella adolescenziale. Come se il suolo d’Italia in quegli anni non sia stato calpestato dall’odio politico, spesso avallato e coperto nella stanza dei bottoni con lo stesso telo bianco con cui si è da sempre tentato di coprire la verità e sotto il quale è stata sepolta la giustizia.

Sappiamo che il giovane Cecchin era un militante che credeva in una Idea difesa col sangue. Quella Idea di cui oggi altri, magari suoi coetanei, hanno potuto raccogliere il testimone e le conseguenti fortune politiche elettorali. Fortuna altrui che è figlia di un sacrificio nell’accezione latina del termine, il rendere sacro, persino sé stesso, per l’Idea. Sappiamo che lui l’ha fatto. Sappiamo, quarantaquattro anni dopo, che lui è ancora presente.

https://www.ilprimatonazionale.it/politica/francesco-cecchin-ancora-presente-264834/

Giggino Di Maio, un riciclato nel Golfo Persico (con 12mila euro al mese)

Roma, 24 apr – Tra le cose che meno interessano agli italiani c’è sicuramente quello di porsi il problema di come passi le giornate l’ex ministro Giggino Di Maio. Che “ha da fa’ pe’ campà”, giusto per farlo intendere anche a lui. Anche perché la stragrande maggioranza di loro non vedeva l’ora di toglierselo dalle scatole, visto che il “suo” Impegno Civico ha raccolto meno dell’1% all’ultima tornata elettorale e, da ministro uscente che non è altro, non è bastato l’inciucio col Pd e la mano del sempreverde Tabacci per riconquistare la cadrega in Parlamento. Certo, l’italiano ancora presente a sé stesso ancora si interroga su come sia stato possibile che un personaggio come “Giggino da Pomigliano” abbia potuto farsi strada nei meandri della politica e soprattutto arrivare ad essere parlamentare prima e doppiamente ministro poi. Ma da qualche ora si dovrà pure chiedere – spiegare sarà difficile, almeno scientemente – come possa proprio Di Maio essere “il più indicato”, a parità di… “curri-cula”, dei 27 Paesi con la stellina a rappresentare l’Unione Europea nel Golfo Persico.
Giggino Di Maio, riciclato nel Golfo a 12mila euro al mese
Se pensiamo che il suo nome non sarà (più?) legato a quello dell’Italia, si potrebbe persino pensare di esultare. Guadagnerà 12mila euro al mese e beneficerà pure della tassazione agevolata dell’Unione per fare non si sa ancora bene cosa, ciò che dovrebbe far riflettere sono le “qualità e le competenze” sciorinate nel curriculum: che abbia preso spunto dal racconto di carriera del suo ex Peppuccio Conte, frequentatore di prestigiosi atenei stranieri dove nessuno lo ha però mai visto? Ah, se solo al posto dei tanti (in)successi decantati su carta, a Bruxelles avessero ricordato anche solo i compaesani di Giggino impiegati alla Whirlpool di Napoli, oggi tutti disoccupati, nonostante le vittorie intestatesi che Pirro al confronto è un principiante o anche le famiglie dei 18 pescatori di Mazara del Vallo sequestrati per oltre 100 giorni dopo “un viaggio di lavoro” del nostro ministro degli Esteri per i quali, accampati in tenda in piazza Montecitorio per mesi, il telefono della Farnesina rimase sempre muto. Tanto per citare solo due episodi di quando sedeva all’uno e all’altro ministero.
Uno vale l’altro
Se la scelta avrebbe dovuto proprio ricadere sull’Italia, avremmo potuto senza dubbio esprimere candidati di ben alt(r)o spessore, ma ciò che spiazza (e non stupisce) è il silenzio da parte delle forze di governo, fatta eccezione per qualche lamento della Lega, perché la “preferenza” europea cade ancora una volta dalla parte opposta a quella espressa dai cittadini che hanno scelto di relegare Di Maio nell’oblio. “Menomale” che l’astensionismo è in aumento, che i giovani sono disabituati alla politica, almeno a quella elettorale che è il volto peggiore della politica, e che i loro modelli sono ormai costituiti da influencer, youtuber, tiktoker e tutto ciò che finisce con “er” che tutto possono fare tranne che insegnare, altrimenti dovrebbero guardare a Di Maio, su cui siamo davvero al lapalissiano, come un modello di uomo di successo: pure che non conosce la lingua in cui si esprime, pure che non ha completato gli studi né si è specializzatosi in qualsiasi cosa – sarà questo il significato insito nel motto a cinque stelle “uno vale uno”, diventato per convenienza uno vale l’altro, pure se questo vale zero? – come appunto “uno” che può arrivare ad essere ministro degli Esteri senza conoscere alcuna lingua straniera e subito prima ministro del Lavoro senza aver mai lavorato.
Lo so, qui scadiamo nella retorica che più blanda e superficiale non si può, ma assicuriamo che è tutto solo merito di Giggino. Ora anche lui dovrà fare la valigia e lasciare casa, gli affetti e la propria terra e provare l’ebbrezza di dover emigrare per lavorare, certi che non costituirà un grosso problema per il cosiddetto fenomeno del brain drain che ci attanaglia. E non perché non sia una fuga. Tuttavia, un insegnamento Giggino ce lo lascia: in mancanza di dignità, di coraggio e di rispetto della volontà degli elettori non si può non riconoscere onore al merito di aver saputo stringere le amicizie che contano, almeno per il proprio tornaconto e alla capacità di sapersi riciclare: esulti pure Greta e tutti i suoi gretini.

https://www.ilprimatonazionale.it/politica/luigi-di-maio-si-ricicla-e-lo-spediscono-nel-golfo-persico-260808/

(NON) ABBIAMO SCOPERTO L’AMERICA

Solita corona di fiori, retorica fiera delle belle parole, nave della legalità. Mica della giustizia! Anche quest’anno è stato approntato l’indegno spettacolo per la commemorazione della strage di Capaci, dove tutti sanno che persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie, giudice anche lei, Francesca Morvillo e tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montonato e furono feriti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza. Oltre ad un’altra ventina di anonimi che passavano disgraziatamente per lo svincolo di Capaci.

Come ogni anno, anche quest’anno tutto è stato approntato per l’indegno ricordo, per un’altra puntata farsa di quella commedia che si ripete ormai da trent’anni. Un canovaccio hollywoodiano su cui imbastire una narrazione per tanti anni ancora, tanto… non si recita certo a soggetto, volendo farsi beffa di un altro illustre siciliano. Che parlava, giustappunto, di maschere e di volti. Una sceneggiatura che pullula di elementi vuoti al pari delle cicche di sigarette che fumi quando sei nervoso. Un intreccio buono da dare in pasto all’opinione pubblica e ad una magistratura inquirente, ma che non indaga. O almeno, non come dovrebbe. Il brutto e cattivo contro cui la gente può divertirsi e accanirsi. ‘o verru – il porco – o lo scannacristiani, come è stato definito, per la sua ferocia con cui era solito ammazzare le persone. Uno capace di uccidere anche a mani nude. Uno che è stato definito sostanzialmente un “picuraro”, anzi, una pecora – per come eseguiva gli ordini – in mezzo a tanti pecorari, senza offesa per nessuno. Che si è intestato centinaia di omicidi, da quello del piccolo Di Matteo sciolto nell’acido sino a quello del giudice Chinnici, quando aveva già adoperato l’autobomba. “Più di cento, ma meno di duecento”, così tanti da non ricordare tutti i nomi. Ma tutti con dovizia di particolari. Come le cicche che l’FBI ha analizzato – fatte trovare? – e su cui ci sono le tracce di Brusca. Un pecuraru capace di fare saltare in aria un uomo dello stato, uno dei più potenti, uno che conoscevano anche – e forse soprattutto – all’estero, visto che giornali del calibro del New York Times aprivano parlando di lui, ma che lascia le cicche a terra. Uno che è uno scannacristiani che ha sciolto, sezionato e dato in pasta a maiali e familiari un bambino di 12 anni e che è nervoso per premere un telecomando. Sempre che un pecuraru sappia come usarlo un telecomando. O che i telecomandi non siano due. E un secondo telecomando sarebbe stato azionato da altrettanti pecurari? Pecurari in grado di progettare, architettare un simile attentato al cuore dello stato? In grado anche di calcolare la curva della carica cava come un perito di esplosivostica? Dieci centimetri più giù e la Croma bianca si sarebbe alzata in aria senza che succedesse nulla. Se Falcone fosse stato sul sediolino posteriore – li dove avrebbe dovuto essere – si sarebbe addirittura salvato, come si è salvato il suo autista. Al suo posto.
Cosa Nostra aveva al suo interno una simile intelligence “militare”, visto che anche la maggior parte delle deposizioni sono state lasciate nemmeno in lingua italiana?
Abbandonando un poco il copione ufficiale – che altri hanno provveduto a scrivere per noi – potremmo chiederci se l’elemento su cui riflettere sia davvero la badilata di tritolo, la dinamica esplosiva, di chi fosse il ditino che ha pigiato il bottoncino o è utile – per le indagini, per la verità, per la giustizia – di cui, però, manca la nave – su chi abbia avvisato chi che Giovanni Falcone aveva appena lasciato il Ministero di grazia e giustizia ed era diretto all’aeroporto di Ciampino, da dove si sarebbe imbarcato su un volo privato con destinazione Punta Raisi – aeroporto intitolato a lui e al suo amico Borsellino, altra beffa di stato-.
Quel volo, oltre ad essere privato, era riservato, dei servizi, volava in segreto e nessuno, oltre chiaramente ad apparati dello stato, sapeva, avrebbe dovuto sapere di quel volo: orario di partenza, di decollo, di atterraggio e chi trasportasse e dove.
Chi ha analizzato le intercettazioni telefoniche ha potuto notare delle telefonate in orari particolari, localizzazioni e destinazioni che destano più di un sospetto. Un numero 0337, clonato, effettua delle chiamate in America, nel Minnesota da dove non si è mai saputo chi abbia risposto. Il perché, forse, sì. L’autore – Antonino Gioè – è misteriosamente morto in carcere. E il mistero che aleggia sulla sia morte è solo frutto delle stesse indagini. Della lettera che il giudice Signorino, invece, scrisse prima della sua morte nemmeno se ne sente parlare. Si sente parlare, però, di Ingroia – che mentre Falcone gli diceva del tritolo arrivato in Sicilia per lui – parlava delle ferie imminenti. Si parla di un altro magistrato-giustiziere, made in Usa, Andonio Di Pietro e la Tangentopoli che spazzò via una intera classe dirigente. Con la fine della cosiddetta prima repubblica, ci propinarono Giuliano Amato a palazzo Chigi, un uomo metà politico e metà tecnico, solo una presidenza transitoria per aprire la strada al primo banchiere di nome Carlo Azeglio Ciampi. Solo pochi giorni dopo, il 2 giugno, fecero la festa alla repubblica a Civitavecchia sul panfilo inglese Britannia dove iniziò la svendita del patrimonio italiano. Sempre nello stesso anno il magnate “filantropo” Giorgio Soros partecipò alla svendita della lira speculando contro la Banca d’Italia. La lira perse oltre il 30% del suo valore e ne conseguì l’uscita dal Sistema Monetario Europeo. Ma l’emrgenza era un’altra ed era costituita dai “naziskin” con casi montati ad arte e talk che iniziavano a nascere per preparare la gente ad ingoiare il primo reato d’opinione, la legge Mancino. Così facendo la stessa gente non ha mai chiesto alla tivvù, perché è stata messa in condizione di non chiederselo più, se la mafia potesse architettare il congegno, l’organizzazione, la predisposizione, lo studio, la scelta, il momento, il perché di una strage come quella di Capaci, come quella di via D’Amelio.
Il (de)corso creato in quel lontano 1992 oggi è visibile a tutti più che mai, dall’euro all’impedimento della manifestazione di un movimento innominabile sui social, ma l’unico a scendere in piazza e che vuole solo esprimere il dissenso contro questo governo che – guarda caso – ritrova dopo 24 anni quegli stessi uomini che, mentre Falcone saltava in aria, loro salpavano sul Britannia. Quel movimento – non elettorale – che è l’erede di tale Cesare Mori che debellò il fenomeno mafioso in Sicilia e che fu richiamato per entrare nei ranghi dello stato che, gramscianamente, è potere anche se non è governo. Quella mafia riapparsa, guarda caso, nuovamente sul finire della guerra, nel 1943, insieme ai “liberatori alleati”. Con loro sbarcò la democrazia che abbiamo visto tutti cosa è in ogni parte del mondo, ma tutti ancora si appellano alla democrazia quale salvagente contro le dittature. Ancora troppo presto per rimpiangere Mori, ormai troppo tardi per non piangere Falcone.

IL ROSSO E IL NERO. E NON E’ STENDHAL!

Honestà! Che che ne dicano e ne sappiano i novelli figli di Putin nostrani, inguaribili esterofili e amanti dell’erba del vicino che è sempre più verde, incredibile a credersi, anche questa Italia liberata, rifiutata, ripudiata e sostituita, vittima per “viltade del gran rifiuto” ha il suo 9 maggio. E se non lo celebra in pompa magna – per una festa al mese basta il 1° maggio di rosso – lo ha elevato a giornata internazionale per le vittime del terrorismo, che come tutte le “giornate internazionali o mondiali di” non serve esattamente a nulla.
Il 9 maggio il (fu) Belpaese ricorda (più?) la giornata in cui fu ritrovato cadavere il corpo di Aldo Moro in via Fani a Roma. Rosso (non?) come certe feste e certe piazze, come il lenzuolo che lo ricopriva e su cui impattarono gli 11 colpi della mitraglietta Samopar Vizor 6.1, dopo che la Walther PPK 9X17 si inceppò. Rossa come la Renault 4 rubata mesi prima a bordo della quale il presidente della DC fu fatto salire, dopo essere entrato in una cesta di vimini e dopo avergli detto di essere stato graziato. “Per non farlo soffrire inutilmente”. Rosse come le brigate che rivendicarono il sequestro, ma che sbagliarono a tracciare persino il loro segno, aggiungendo una sesta punta alla loro stella e che occupavano l’unico appartamento del condominio di via Gradoli 96, a sua volta occupato interamente da personalità del Sisde e che non fu perquisito perché non c’erano quegli abitanti che di notte sembravano “battere un alfabeto Morse” – a detta dei vicini lamentosi – ma dove gli operanti non ravvisarono dagli altri condomini motivo di sospettare una presenza brigatista e che in assenza dei quali non si pensò di buttare giù la porta, come da prassi in quegli anni.
Buchi neri sulla storia del cadavere più eccellente di questa Italia in rovina. Nero come il missino Pinuccio Rauti che qualcuno ha tirato in ballo quale testimone del sequestro, visto che abitava in una strada che faceva angolo con via Fani e che dal balcone avrebbe visto una parte della scena. Ma nessuno ha mai visto sulla scena del sequestro l’emergente boss della ‘ndrangheta Nirta, né dopo si è domandato il perché di quella presenza. O della presenza di due “civette” del sequestro che poi si è scoperto essere agenti dei Servizi e che uno di loro passasse, come dichiarato, in via Fani per andare a pranzo. Benché fossero solo le 9 del mattino. Un buco nero come quello della DIGOS che rispose che non esisteva alcuna via Gradoli a Roma. Nella Roma ultra-blindata per 55 giorni, tanto che si pensò di perquisire il paesino lacustre di Gradoli, nel viterbese. Quella Roma ultra-blindata, ma in cui i brigatisti quella tragica mattina riuscirono ad attraversare tutta la città per arrivare al centro storico, con l’ingombrante carico nel portabagagli, in via Caetani, dietro Botteghe Oscure, sede del Pci e poco distante da piazza del Gesù, sede della Dc.
Tanti buchi neri – e, forse, pure rossi – voragini ancora oggi e che portarono la famiglia Moro a rifiutare i funerali di stato, per un uomo dello stato. O, forse, solo delle Istituzioni. E anziché puntare ancora la luce sulla nostra storia, su quella che ci riguarda e, che ancora dopo quasi mezzo secolo, brancola nel buio più pesto (ma presto) ci occupiamo e, in alcuni (irrecuperabili) casi, festeggiamo la vittoria. Degli altri. Per gli altri. Ma se non ci si è interrogati finora sui “fatti nostri”, ci si può mai interrogare ora che hanno ridotto ogni facoltà intellettiva ad automa e automatica passiva accettazione di ogni cosa – seppur obbrobriosamente offensiva – spacciataci, ogni reminiscenza storica, politica, culturale, neuronale sostituita, in nome del cancella-culture imperante ed ossequiante, da una sterile approvazione da QR code.
Dunque, meglio imbucarsi alle feste altrui, imbacuccarsi con i loro vessilli seppur finora detestati – chissà se per davvero – e, da meri vassalli, non chiedersi perché si festeggia una vittoria, se il numero dei caduti supera, se non duplica, quello dei loro avversari. Se quello dei morti prodotti è quello più alto – stime loro – di ogni altra dittatura o regime in oltre duemila anni di storia. Che vittoria sarebbe chiedersi perché, persino a Norimberga tanto in voga in questo tempo in cui tutti sono assetati di giustizia, perché la stessa Russia stava dall’altra parte del banco degli imputati, se non si capisce che – anche per questi motivi – Norimberga fu un processo farsa? Se non ci si domanda che senso ha chiedere giustizia, se la giustizia nostrana è palamarizzata e vive il periodo di sputtanamento maximo della storia di questa disastrata repubblica. Disastro iniziato con la piaggeria verso la prima toga-star e finita(?) con i deleteri effetti dello stato che oggi tutti noi subiamo sulla nostra pelle. Con l’avallo proprio della giustiziah. E ancora oggi a rappresentarci a destra e a manca, ad ogni livello ci propinano dei magistrati. Inguaribili amanti del ’92. Ci si dovrebbe chiedere se quella vittoria non sia stata contro di noi, italiani, contro chi ci è simile e soprattutto perché. Ma si tende solo a cambiar padrone. Passivamente. Ora che anche gli atei santificano il dubbio che non è tale, ma è solo una tecnica (ben collaudata: cfr. strage di Primavalle) lottacontinuista, intrisa del più becero cerchiobottismo. Che stordisce solamente. Niente spirito. Solo alcol. Meglio se vodka. E allora, intrufoliamoci pure in casa d’altri, a festeggiare le loro vittorie – che è poi solo un successo – non tanto diverse da quella Italia che festeggia la sconfitta e non la vittoria, il 25 aprile e non il 4 novembre. Ora, persino il 1° maggio. Senza lavoro, ma con tanti ricatti. Raccattando la sopravvivenza e non la vita. Chiamando vita l’attesa della morte. Il 9 maggio la nuova liberazione. Come la nostra. Pura utopia. Come la piazza di Mariupol, sede dell’annunciata parata, tristemente uguale alla Piazza Rossa di Mosca. Tristemente uguale alla terza Roma. Tristemente uguale a quella vittoria di chi ha combattuto contro di noi e che oggi trova proprio noi al loro fianco solo per combattere la NATO americana, padrone della nostra Terra che, da “mera espressione geografica”, è ridotta, o meglio, adibita a più grande portaerei nel Mediterraneo con la bandiera blu – sia essa stars&stripes o con le stelline dorate, che poi è la stessa cosa – che combatte tramite nazi(onali)sti di cui però non si apprezza la lotta. Di male in peggio. Con tutti gli scheletri e i cadaveri nell’armadio. Nostri. Nostrani. Mostri. Da consegnare alla storia. Che è verità.

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UN ATTACCO “SECONDO COGNOME”

Chiariamo subito una cosa: l’Italia da oggi non è un Paese più giusto, ma un Paese tristemente uguale a ieri che trascina con sé tutti i suoi problemi. Regressi, pregressi e cronici.

La sola cosa che (non) è cambiata da oggi è la possibiltà di aggiungere il cognome materno – che poi è del padre di lei – al nascituro. In realtà tale pratica, purché concordata tra i genitori, era già prevista dal Codice Civile e si poteva persino sceglierne l’ordine. Non averlo fatto equivale a non saperlo, evidentemente. Dunque, quale sia questa conquista sciorinata come il progresso del secolo non si sa. Però, c’è un fattore importantissimo da rilevare e da non sottovalutare, ovvero quello che in Italia esiste ancora la Corte Costituzionale! Non pare vero.

Dopo che per due anni ci siamo chiesti che fine avesse fatto, mentre il popolo veniva usurpato di ogni diritto umano fondamentale – quale quello al lavoro, quello alla salute, quello alla libera circolazione, quello alla parola, solo per ricordare quelli più “in voga” in tempo pandemico, in attesa che tutto sia compiuto con le privazioni che potrebbe comportare la guerra: il razionamento alimentare, infatti, è già una realtà in tanti supermercati dello Stivale – dopo che ci siamo chiesti se la Corte Costituzionale si fosse anche minimamente accorta dello stupro al Diritto di invenzione romana, italica, ma così, per sentito dire, ora se ne esce con questa “genialata” del doppio cognome. Che per alcuni era già tale, quindi si parte da una base di tre. Da elevare al quadrato ad ogni nascita.

In attesa di capire come funzionerà, se funzionerà, il crescete e moltiplicatevi dei cognomi nel paese della burocrazia imperante, basti pensare, ad esempio, alla mera generazione di un codice fiscale, già si pregustano le sfide della generazione delle “boldrineh” guadenti e plaudenti per questa conquista di civiltà contro il machismo secondo cui si potrà dare anche il loro cognome al nascituro, ovvero quello ereditato dal padre che è, però, un uomo. D’altronde, anche i movimenti femministi della prima ora sono stati partoriti da uomini liberatori a stelle e strisce per sdoganare il consumismo più esasperato: parità è uguale ad uguaglianza? Più uguaglianza vuol dire più divorzi, più divorzi vuol dire più auto, più auto più case, più case più spese, più spese più consumi…

Cosa si nasconde, però, dietro a questa “amata” decisione?

In primis che si è espressa la Corte Costituzionale quindi è come se avesse parlato il Padreterno.

In secundis, che la Magistratura, che nell’Italia delle separazioni dei poteri, detiene il potere giudiziario, ovvero quello di fare rispettare le leggi che il Parlamento approva e il Governo rende esecutive, continua a sostituirsi al Parlamento – esautorato che più esautorato non si può, anche qui tra l’indifferenza generale.

Non ultimo, che questa decisione è da incardinare in quella massiccia opera inarrestabile della demolizione della famiglia. Avessero mai demolito quelle della magia, della ‘nfrangheta e della camorra! È un attacco diretto al pater familias, teso ad estirpare eventuali eredi dalla gens, dalla genìa. E nell’epoca del cancella culture, dei deliranti divieti che vedono opere russe – perché concepite da personalità russe – ma patrimonio mondiale della cultura, non sarebbe un azzardo pensare che un giorno, anche non necessariamente lontano, pure l’Iliade potrebbe essere messa al bando perché Achille viene definito “Pelide”, patronimico di Peleo, suo padre. Ancora una volta un attacco alla nostra civiltà, a Roma che deve esser distrutta al pari di una Cartagine qualunque, quella Roma faro di Civiltà che esiste dopo 3000 anni, quella Roma che è Tradizione, ovvero coniugazione del passato col presente – per dirla con Evola – e non è un caso che in questo globale disegno d’istruzione – che è distruzione la cui apostrofo non è che la prima lacrima – ad essere sott’attacco, ancora una volta, è il concetto di “paterlinearità da parte di chi vuole smontare, pezzo dopo pezzo, l’Idea di Civiltà europea basata su strutture di “lunga durata”, come già evidenziato da Domenique Venner. E poiché l’elemento comune a tutti i poemi epici europei è proprio il concetto di paterlinearità, la messa la bando potrebbe proseguire incominciando dai “classici” come l’Iliade, l’Odissea e l’Eneide. Quanto fastidio darebbe il vecchio Anchise da portare sulle spalle, oggi che gli anziani si confinano, leggi pure ce se ne disfa, nelle RSA sentendone ugualmente il peso? Oggi che si tende a non far familiarizzare nonni e nipoti, da stirpe e discendenza passati ad essere ricettacolo di virus e bombe batteriologiche? Commetteremmo peccato a pensare che il cognome “materno” è solo funzionale, una buona scusa nell’adozione da parte di genitori gay – che paradossalmente si dichiarerebbero maschi e femmine – che sceglierebbero quale cognome mettere per primo e/o non mettere il secondo? E poi la guerra per ottenere il cognome del padre, magari da parte di qualche libertaria troppo libertina, per un figlio nato fuori dal matrimonio.

Un tentativo ben orchestrato per estirpare radici e non essere più di nessuno, non appartenere più a niente e nessuno.

Decisioni che creano scene comiche e paradossali, tutte da ridere se non fosse che siamo sull’orlo di una guerra che potrebbe vederci direttamente coinvolti in casa nostra, visto che già lo siamo in casa d’altri, che siamo in piena recessione, che ci aspetta un futuro incerto, forse triste e doloroso se riuscissimo mai ad averne uno, che tra le mille priorità in calendario, si pensa a legiferare circa qualcosa di assolutamente procrastinabile e avulso dalla realtà. Come questa classe “politica”. Dove la politica è diventata pura demagogia e perenne corsa al consenso elettorale. Da declinare poi, appena messisi in cadrega. Un’occasione ottima da sfruttare per quella sinistra parte che non è differente da quella “diritta” che vuole essere costruttrice – e per una volta che siano davvero senza “c”! – di quel mondo moderno il cui assaggio c’è già bastato. Ed è stato più che amaro. Sarà un caso che il principe della risata Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio aveva scelto di chiamarsi semplicemente Totò?

https://www.camposud.it/un-attacco-secondo-cognome/tony-fabrizio/

 

LA METAMORFOSI DI PUTIN

Dopo Bucha, ancora Bucha. Nessun’analisi cerchiobottista mascherata da fatica intellettuale del dubbio, sterile modo di porre domande a cui nessuno, nemmeno il diretto interessato, sa rispondere, ma utile, utilissima tecnica collaudata negli anni di piombo riproposta in salsa (rossa) -o russa- revanscista. E nemmeno un “cavallo di ritorno” di qualche scappato di casa e rifugiato al centro sociale che porta a spasso ciò che rimane ad animare la scatola cranica più devastata delle vetrine compagne di lotta.
Stavolta il protagonista è lui, ancora lui, il signore della guerra: Vladimir Putin.
Dopo che non s’è capito cosa sia successo ufficialmente e/o propagandisticamente, a Bucha, nemmeno da fonti segrete – o secretate – del Cremlino, Putin ha conferito l’onorificenza al reparto di fanteria che si è trovato nel posto giusto al momento giusto. E chiaramente non ci si spiega il motivo.
A parte la strage – (non) ammesso sia vera – non si ha memoria di epiche battaglie a Bucha, dunque nessun “eroismo di massa, coraggio e determinazione”, come recita il motivo dell’onorificenza. Ovviamente, se questo è il premio per quello che pare sia stato omicidio di bambini e stupro di donne e nulla più, il comandante del reparto non può avere la sola onorificenza, ma è stato insignito dal presidente della confederazione in persona dell’avanzamento al grado di Colonnello. Evidentemente un ottimo lavoro!
Le cose, però, pare non stiano evolvendo secondo i piani, o meglio, non rispecchino quanto promesso da Putin: se è vero che non era sua intenzione condurre una guerra-lampo, è un fatto che otto Generalissimi a lui fedeli sono stati licenziati in tronco, guerra in fieri, per – pare – divergenze con lo zar. Si pensi anche ai dieci giorni in cui all’improvviso e senza un motivo è sparito pure il ministro della difesa Sergej Shoigu, fino a quel momento un vero e proprio eroe nazionale in patria, al punto che i media russi ne riproponevano le gesta fino a sei volte al giorno. Più della posologia di una purga stalinista.
Certo lo Zar, l’Orso bianco – mica è gergo suprematista? – rossobruno, il fine giocatore di scacchi, l’ex comandante del KGB – tanto non frega più un cazzo a nessuno – il rispolveratore di bandiere rosse con falce e martello, il piantatore di statue nuove del vecchio Lenin pare non essere immune da “sbandamenti”: è passato dal voler “denazificare” a salvaguardare i soldati da una sicura carneficina – l’acciaieria Azovstal’. A proposito: nessuno dei dietrologi da salotto ha condotto approfonditi studi dal divano sull’apparentamento del triangolo del simbolo dell’azienda con quello degli illuminati? – dalla difesa dei confini, che tali non sono quelli ucraini perché l’Ucraina non esiste -per lui – è passato all’invasione di quelli altrui(?), dalla conduzione dell'”operazione speciale” all’utilizzo del termine “guerra”, dal combattimento previo avviso di bombardamento, alla pioggia di missili anche su città che non ospitano alcun obiettivo militare, dal voler liberare – proprio così, proprio come il gergo yankee che, a questo punto, perdono il copyright sul termine – le popolazioni russofone, fino a bombardare Odessa. Forse lo sbocco al mare, che la Russia non aveva, non è ancora abbastanza per Putin. Forse non conviene a Putin distruggere l’Azovstal’ che è una fonte di ricchezza per l’Ucraina che, però, non è (ancora) Mosca. Forse il Donbass non era sufficientemente ricco per gli oligarchi della cricca del Cremlino e hanno pensato di incrementare la spesa proletaria.
Se si osserva una semplice cartina geografica degli eventi – non sarà difficile l’interpretazione, dopo aver condotto approfondite analisi di fotografie satellitari – balza all’occhio, anche di quelli che dubitano persino della loro natura sul bidet, la pianificazione degli obiettivi russi: il Donbass è solo l’inizio e il controllo delle popolazioni russofone è solo una scusa per imporre il controllo nella parte orientale e soprattutto meridionale dell’Ucraina che – guarda il caso – coincide con la parte più ricca del Paese, dove si trovano la parte industriale, l’accesso al mare e, quindi, la totalità dei porti, ovvero la possibilità di creare un ponte – proprio come quelli che reca ogni cartastraccia stampata a Francoforte sul Meno – passando per la ricca Transinistria, fino alla Moldavia, dove ci sono altri stato membri NATO. Quindi il discorso potrebbe essere valido fino all’esaurimento… delle vicinanze. Così vicini USA e Russia che, dopo due mesi di guerra, ancora non si sono scambiati un colpo. Sembrano quasi essere supplementari e di mutuo soccorso: io ti aiuto ad estenderti e tu mi riporti in vita un carrozzone militare vecchio e arrugginito che non aveva più ragione di esistere. Inesistente come il confine a Odessa, perla del Mar Nero. Inesistente come la scusa della difesa dei confini da quella NATO in cui si è tentato di entrare, di cui si fa parte come membro esterno e alle cui operazioni si è preso parte attiva. Inesistente come le bandiere della Federazione russa sugli obiettivi conquistati. Inesistente a Bucha. Inesistente la vittoria russa, degradata al massimo solo ad un successo. Se sarà. Che deve arrivare perentoriamente entro il 9 maggio, festa rossa per i nuovi neo-itagliani. Altrimenti la nuova figura di palta lo costringerà a nuove sterzate. Magari a partire da quella verità rilevate e non (più) rivelate dell’Italietta al tempo del covid. Rendendo, così, orfani i pullulanti figli di Putin nostrani.

IL PROBLEMA NON È PUTIN

Mariupol, Chernihiv, Irpin. Non ha importanza dove sia accaduto, visto che è accaduto e accadrà in altri parti d’Ucraina. L’Ucraina è in guerra, dopo sessanta giorni e oltre 20mila soldati russi mandati al macello lo ha dovuto ammettere anche Putin che finora parlava di “operazione militare” e incarcerava chi non lo facesse. In guerra, insieme alla foto di moglie e figli, di qualche razione K e, per chi crede, un crocifisso o un portafortuna, si va solo con la bandiera. Si va per la bandiera. Sulla bandiera il militare presta giuramento e la bandiera è ciò che ci rappresenta, rappresenta la Patria, l’orgoglio di ciò che si è.
Un avamposto conquistato si battezza ammainando l’altrui bandiera e issando la propria sul pennone. Che garrisce. E sventola. E inorgoglisce.
La bandiera della confederazione russa, però, è costituita da tre bandi orizzontali di eguali dimensioni (partendo dall’alto) di colore bianco, blu e rosso. E in Ucraina, i conquistadores moscoviti non hanno issato una sola bandiera ufficiale rappresentante la propria Patria, ma sui carrarmati, sulle roccaforti e su ogni punto conquistato svetta la bandiera rossa con falce e martello. Un gesto così naturale, forse pure scontato, che non ha fatto indignare nessuno. Nemmeno indurre in riflessione. Neppure gli antisovietici di casa nostra. I duri e puri. Quelli che hanno la croce celtica appesa al collo, la fiamma nel cuore e si salutano col braccio teso. Che in Russia sarebbero fuorilegge anche solo per il pensiero. Che, evidentemente, tale non è. Magari Putin avrebbe tentato un ulteriore esperimento (un altro!) di quelli demenziali che ti portano a lasciare 100 euro sul tavolo perché, dovessero entrarti i ladri in casa, questi frugherebbero ovunque, ma non vedrebbero i soldi sul tavolo. Tutta psicologia. Patologica. La verità è che a Putin non gli frega un cazzo di niente di nascondere la sua vera natura: è il superstite del KGB, l’unica struttura superstite dell’URSS di cui lui va fiero e che considera un crimine non prenderla a modello. Quando fu deposto il comunismo con i suoi vari mentori, lui appese alle pareti il ritratto di Pietro il Grande, lo zar, l’imperialista. Non ha mai nascosto di essere stalinista, concezione imbastardita con una visione imperialista, con una spiccata propensione al panslavismo, ovvero una concezione (utopica?) di creare un’area di influenza geopolitica che coincida con la vecchia unione sovietica – una “rifondazione” per dirla con un certo nostalgismo utopico – coincidente con la Moldova, le regioni baltiche, le repubbliche centrali dell’Asia e del Caucaso.
Per Putin l’Ucraina non esiste e “denazificarla” vuol dire cancellarla dalla cartina geografica. Parole sue. In altre parole farla sua, perché è cosa sua.
La legittimità o meno delle mire imperialiste di Putin – non della Russia? – non è l’argomento di questa riflessione. Mi verrebbe, però, da chiedere perché, se si riconosce a Putin di essere l’ultimo baluardo della cristianità, seppur ortodosso, egli non abbia manifestato con altrettanza trasparenza che sfocia nella “epifania” le effigie della croce, del protettore San Giorgio, di qualsiasi altra cosa che non sia la ancora tanto discussa Z che non esiste nell’alfabeto cirillico, ma che in tanti (esperti di semiotica avvinazzati) c’hanno visto l’unione del cielo e della terra, del Padre col figlio e lo Spirito Santo. Perché non esporre il simbolo cristiano con lo stesso orgoglio con cui è stata mostrata da subito la bandiera rossa con tanto di falce e martello sotto la cui effige si è consumato il più alto numero di morti di oppositori pari a cento milioni di povericristi ammazzati (stime loro, eh!)? Cosa c’è di diverso dal comunismo che propina l’abolizione della proprietà privata con l’attuale riforma del catasto (in discussione, si fa per dire, in questi giorni) e l’agenda del 2030 secondo cui “non avrai niente e sarai felice”? D’altronde, anche i primi cristiani praticavano la condivisione dei beni e le grandi utopie dell’età moderna si rifacevano sia a loro che alla società immaginata nella Repubblica di Platone. Si pensi anche a “Utopia” del letterato e politico inglese Tommaso Moro o a “La Città del Sole” del filosofo calabrese Tommaso Campanella: società immaginarie dove il denaro era abolito, e tutti i beni, sia fisici che spirituali, erano condivisi. Condivisi pure l’idea di “famiglia”, una grande famiglia dove pure i figli erano condivisi: utero in affitto e iniziazione dei bambini alle pratiche sessuali sono “comuni” tanto in Russia quanto in Ucraina. Per Marx ed Engels, i problemi che affliggevano il proletariato (povertà, malattia, alti tassi di mortalità) erano causati dallo stesso capitalismo: l’unico modo per eliminarli era rimpiazzare il capitalismo con il comunismo: quale differenza tra gli imperialismi di Usa e Russia?
Punti di discordanza zero, punti di convergenza parecchi. Tra l’Urss di allora e Putin, tra Putin e gli USA. Dovrebbe essere tutto chiaro, ma a quanto pare è una utopia pure questa.
Va da sé, a questo punto, dire che il problema non è Putin.

LA PRIMA VALLE DEL DUBBIO

Sia chiaro: se anche la Russia dovesse perdere la guerra propagandata quale operazione speciale per me non sarebbe un successo. Parlare di vittoria sarebbe ingiusto anche dalle parti del Cremlino. L’operazione di “denazificazione” ha assunto le caratteristiche di una vera e propria guerra che Putin – stando ai figli di P. e alle di lui bimbe che sono meglio, quindi peggio, della fu Čeka- non voleva. Anzi, costoro sapevano pure che lo zar non avrebbe mai attaccato perché, da fine giocatore di scacchi quale loro lo “conoscono”, non avrebbe mai ceduto alle pressioni di Bidenich – Bidè per coloro che dicono anche di combattere il pensiero unico e il conformismo – mentre dalla Casa Bianca, che non è più la residenza di mr. President che, a sua volta, vive e parla tramite ologrammi – perché mai visto che la Casa Bianca non ospita il presidente “v/nero” non si capisce – conoscevano il giorno e pure l’ora in cui Putin avrebbe dato il la.

Al Cremlino non interessa(va) l’Ucraina, ma solo l’eliminazione dei laboratori chimici e, poiché questi erano mascher(in)ati da sedi civili, Putin ha dovuto radere al suolo tutto. E tutti. Però, da ultimo baluardo della cristianità che non va in ferie manco a Pasqua, avvisa prima di sganciare chili e chili di tritolo, zolfo, carbonio e nitrato di potassio. E se la gente muore è perché i nazisti, che non hanno mai rotto le uova a Putin e che Putin ha sovente annientato, anche se poi questi non finiscono mai, si fanno scudo con i civili. Gli stessi nazisti che attendono dietro a sacchi di sabbia in strada e con molotov artigianali i carri zetasegnati, la ferita, la mutilazione, la morte. Da volontari. Anzi, sono loro – sostengono i combattenti dal divano – ad andare a occupare postazioni civili che diventano obiettivi militari, dimenticando tuttavia che si parla di città “civili” per cui, caserme a parte, il combattimento non si può che svolgere tra palazzi, attività commerciali che hanno visto la spesa proletaria, palestre appunto civili, scuole che Putin ha provveduto a far sgomberare in casa d’altri. Che è, dunque, lo stesso principio secondo cui in terra altrui, deposto il suo fantoccio con il fantoccio yankee, si pretende che non vi siano missili e non si entri nella NATO, il catorcio vecchio e inutile rianimato da Putin. Che è la stessa NATO verso cui l’Orso aveva fatto più di un pensierino, partecipando anche a delle missioni di simulazione e addestramento. Ma zio Vlady sta combattendo con le mani legate, anzi con una sola, anzi-ancora con le mani dietro la schiena. Anche dopo aver subito un numero di militi caduti in cinque giorni pari a quelli caduti in Afghanistan in 15 anni? Anche dopo aver licenziato otto Generalissimi fedelissimi? Anche dopo che cresce sempre più il fronte interno – che è segreto come lo sono i servizi a casa nostra – in forte dissenso con la condotta dell'(auto)erede di Pietro il grande? Anche dopo che è stato costretto a dispiegare milizie sull’intero confine, spostare il fronte di guerra e costretto a dover ripiegare sul mercenarismo ceceno e dopo la porta chiusa, seppur garbatamente, in faccia da Pechino e l’ingrossamento delle fila della NATO di altri Paesi confinanti? Possibile che un abile giocatore di scacchi non avrebbe previsto una simile mossa? Possibile che le minacce, addirittura atomiche, di Mosca non sono mai arrivate? Meglio così, sia chiaro. Possibile che, archiviati Dugin, Lilin, Orsini e qualche virostar riciclata e convertita, tutti sconosciuti e lontani dal Cremlino – dove il pensiero e la libertà sono al momento censurati – spunta, sempre lontano dal Cremlino e sempre qui in Italia, un altro “putinologo” che ci fa sapere che l’ex KGB non contempla sconfitte, dunque è un Battisti – forse più Cesare che Lucio – che guida a fari spenti nella notte e non ha intenzione di frenare, mentre noi siamo seduti sul sedile posteriore della stessa vettura? Fonte e dubbio ormai sono il binomio perfetto, co­me falce e martello, come libro e mosche­tto per la par condi­cio di quelli che una volta erano simili da quegli altri che avversavano la bandi­era rossa con la qua­le oggi si trovano più a proprio agio ri­spetto ad una runa. Quante metamorfosi avrebbe scritto Kafka! Non sarebbero bast­ati gli eserciti per leggerle tutte.
I pasdaran del dubbi­o, quelli che non sa­nno metterti in tavo­la nemmeno una pasta al burro senza che si aggrappino ai tut­orial della rete, or­mai sono veri e prop­ri fondamentalisti e pasionariә della nuo­va fase dell’esperim­ento: rianimano, sco­prendone (finalmente) l’esistenza, quel neurone ormai atrofi­zzato di cui nemmeno ricordavano per­sino l’esistenza e iniziano a porsi doma­nde, inutili, infond­ate, demenziali – co­me suggerito – diven­endo, non rendendose­ne conto, fanatici dell’irragionevolezza. Una vecchia tecnica messa a punto da Lotta Continua. È un caso che oggi il dub­bio viene “capeggiat­o” da chi “nel 1967 aderì al Partito Com­unista Italiano lasc­iandolo l’anno dopo per aderire poi a Lo­tta Continua, che in­izia l’attività di giornalista nel 1979, lavorando a proprio al quotidiano Lotta Continua, per il qu­ale segue l’America Latina, e diviene pr­ofessionista nel 198­3, nel 1999, con abb­ondante calma e casu­almente dopo una dec­ina di anni dalla ca­duta del Muro, scrive all’improvviso sul dramma delle foibe (era figlio di profu­ghi istriani anche al tempo del PCI), che nel 2021 però i gr­andi amori nostalgici ritornano, con uno speciale sui 100 an­ni del Comunismo e il resto è nell’oggi, con una evidente fa­ziosità a tratti app­arentemente cerchiob­ottista fatta passare da “dubbio intelle­ttuale”?
Sono gli stessi dubbi che gli stessi per­sonaggi praticavano già mezzo secolo fa: l’omicidio Calabresi ad opera di neofas­cisti – quindi doman­de su domande sul suo viaggio investigat­ivo in Svizzera, sul­la somiglianza del killer con un certo Nardi – o la strage di Primavalle, quando casa Mattei andò a fuoco per dissidi in­terni alla sezione. Anche lì dubbi su du­bbi, depistaggi su depistaggi, mentre mo­rirono Virgilio di 22 anni militante mis­sino Nel Corpo Volon­tari Nazionali e il fratellino Stefano di 10 anni. Mario Mat­tei riuscì a scappare gettandosi dal bal­cone, la moglie Anna Maria e i due figli più piccoli, Antone­lla di 9 anni e Giam­paolo di soli 3 anni, riuscirono a fuggi­re dalla porta princ­ipale quando il fuoco cominciò a diffond­ersi. Lucia di 15 an­ni grazie al padre si calò nel balconcino del secondo piano e da lì si buttò, pr­esa al volo dal Matt­ei già a terra nonos­tante le ustioni sul suo corpo. Silvia, 19 anni, si gettò dalla veranda della cu­cina: batté la testa sulla ringhiera del secondo piano, la schiena sul tubo del gas, fu trattenuta per qualche istante dai fili del bucato e quindi finì sul mar­ciapiede del cortile riportando la fratt­ura di due costole e tre vertebre. Gli altri due figli, Virg­ilio e il fratellino Stefano, morirono bruciati vivi non riu­scendo a gettarsi da­lla finestra per scampare alle fiamme. Il dramma avvenne dav­anti ad una folla che si era radunata nei pressi dell’abitaz­ione e che assistette alla morte di Virg­ilio, rimasto appogg­iato al davanzale a cercare aiuto, e di Stefano, scivolato all’indietro dopo che il fratello maggiore che lo teneva con sé perse le forze. I corpi carbonizzati vennero trovati dai vigili del fuoco vic­ino alla finestra st­retti in un abbracci­o.
L’incendio è un vile atto di terrorismo, un trasversale omic­idio politico: milit­anti comunisti di Po­tere Operaio, borghe­si benestanti figli della migliore socie­tà, colpiscono a mor­te la famiglia di un lavoratore di una proletaria periferia romana. Un atto infa­me, assassino, a cui segue una vicenda paradossale: tre mili­tanti di Potere Oper­aio, Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo, pur condan­nati, diventano prot­agonisti di una stor­ia giudiziaria infin­ita, contraddistinta innanzitutto da latitanza, rimozione de­lla verità, mancata giustizia, da una vergognosa campagna in­nocentista della sinistra italiana, dalla copertura economica e morale agli assassini da parte di esponenti della “cultura conforme e politicamente corretta” come Franca Rame e il Nobel concubino Dario Fo. Anche qui tutto era iniziato col dubbio, coperto da depistaggi firmati da chi oggi spaccia, alla stessa maniera, il beneficio del dubbio utile e in gran rispolvero.

QUALCOSA ANCORA DA CAPIRE

Forse dirò qualcosa di impopolare, qualcosa che farà storcere il naso agli economisti laureatisi all’università della vita. O forse no. Tuttavia, io continuo a pensare che, avessimo avuto un Presidente del Consiglio degno di questo nome, degno dell’Italia Nazione, pandemia prima e guerra poi sarebbero stati degli ottimi input per fare di necessità virtù. Con la pandemia – e il relativo giro di denaro ad essa correlato – si sarebbero potuti ammodernare, ristrutturare e costruire nuovi ospedali, rivedere la medicina domiciliare, eliminare il numero chiuso alla facoltà di Medicina a favore di una “selezione naturale” durante il corso di studi, in nome della meritocrazia.

Nel caso del conflitto in terra ucraina, attesa la mia contrarietà ad ogni forma di sanzione verso quel Putin che è stato e dovrà continuare ad essere un partner commerciale col quale fare affari, considerata la più totale ripugnanza per la cancellazione della cultura russa, il momento sarebbe stato propizio per riscoprire il grano nostrano, le potenzialità del tavoliere delle Puglie, mettere finalmente mano alle nostre riserve naturali di gas e portare a pieno funzionamento i 752 dei 1298 punti di estrazione del (nostro) gas, oggi chiusi. Limitare la fuga di cervelli e di materiali verso la Francia che viene a ordinare da noi pezzi per le loro centrali nucleari, viene a prendere le menti dei nuovi ingegneri cui fare assemblare impianti e produrre energia che poi l’Italia, paradossalmente, (ri)compra. Rivalutare la peculiarità dell’olio pugliese in cui ha investito Baffino che possiede – lo so, è compagno, ma posso assicurare che sono di proprietà – uliveti dal Salento fino alle Marche inoltrate. Non di solo commercio d’armi vive quell’uomo.
Sono utopie, giusto per rimanere in tema? Sono obiettivi perseguibili? Non so, ma è così che intendo la politica: il Ministro deve avere l’idea, poi spetterà ad assistenti parlamentari, di gabinetto e tecnici vari tradurre in atto ciò che è solo potenza.
Ecco perché non ho mai accusato, offendendo, Di Maio di aver fatto il bibitaro – certo, se il Ministro degli Esteri conoscesse le lingue straniere e il Ministro della Salute fosse anche solo un infermiere sarebbe un ottimo punto di partenza – e quanto sostengo è confermato proprio dallo zar del conflitto, Vladimir Putin che, cinquant’anni fa, vendeva limonate in strada, come un Di Maio qualunque.
Certo, poi mi piacerebbe poi capire cosa sia successo dopo che Clinton, sì proprio quello americano, su consiglio di Kissinger e dopo che la Russia si stava sciogliendo come neve al sole, lavorò per limitare il tonfo rosso nella steppa, prima favorendo l’israelita Primakov, padrino di Putin, e poi intervenendo attivamente nel disarmo dell’Ucraina. Con relativa beneficenza al Cremlino.
Mi piacerebbe capire, ora che abbiamo superato i cinquanta giorni di guerra, in che modo la NATO – cui andrà il mio sempiterno disprezzo – possa rappresentare il nemico di Mosca, visto che, ad oggi, non ha ancora sparato un colpo. Capire come la sua espansione ad est possa rappresentare una minaccia, se proprio la Russia di Putin è stata tentata da un ingresso nel trattato (difensivo) nordatlantico al punto da partecipare, quale membro associato, addirittura ad azioni addestrative congiunte. Fino a che punto la Russia può essere garantista verso gli stati dell’ex Unione che si sono rifugiati sotto l’ala americana, appena vista la Russia di nuovo messa in piedi – evidentemente chi ha conosciuto il Comunismo vero se ne guarda bene – Ucraina e Georgia in primis che sono gli unici due stati “rifiutati” dal patto e, guarda caso, sono quelle attaccate militarmente dalla Russia. Che continua a puntare missili, testate nucleari per la precisione, anche su Aviano. Che, figli di Putin, è Italia. Ma i cattivi stanno dall’altra parte. Sempre e comunque. È la ciclicità della storia, figlia delle bombe alleate e liberatorie. Servi di due padroni, sempre russi o americani. Ai quali obbediscono e che tradiscono contemporaneamente i padroni dell’Unione europea – francesi e tedeschi – traini del carro bestiame di Bruxelles santificato ad Aquisgrana e col culo prono a Mosca. Quella Mosca che ha tradito il “patto” – di cui Macron ha annunciato la “morte celebrale” – ben tre volte: nel 2008 con l’attacco della Georgia, nel 2014 quando il fantoccio di Putin – Yanukovitch – fu cacciato da una insurrezione popolare dopo che fu beccato a svendere a Mosca le ricchezze ucraine e a cestinare la richiesta di Kiev di entrare nell’Ue con buona pace del Memorandm di Budapest e oggi con l’aggressione all’Ucraina per gli identici motivi. Quel patto che Mosca è riuscita a riportare in vita, quasi un “pegno d’amore” verso quegli Usa col quale vorranno replicare una seconda Yalta.
Capire perché gli ucraini che in casa – al netto dei bombardamenti, è chiaro – loro, sparano ai russi sparano sui fratelli e lo stesso legame non vale per i russi che vanno ad ammazzare i loro fratelli nelle case – si fa per dire – abbattute.
Capire perché la Russia non ha capito che l’Ucraina sarebbe diventata un nuovo Afghanistan ed essa stessa sarebbe finita tra le braccia di Pechino che le sorride di rimando.
Mosca è tenuta per le palle da Pechino che non ha intenzione di aumentare la fornitura di gas o petrolio russo, né di garantire in rubli mediante la propria moneta e se, malauguratamente, i geni dell’occidente, il migliore dei migliori su tutti dovessero praticare l’embargo, Mosca rischierebbe di andare a gambe all’aria, allo stesso modo in cui un manipolo di soldati tiene per le palle in esercito imperiale.
Abbiamo guardato con disprezzo, timore e resistenza – è proprio il caso di dirlo – il modello cinese su cui il tanto odiato green pass è tarato, quello del riconoscimento facciale ai semafori e del premio all’ubbidienza e ora si corre il rischio di passare dalle grinfie del drago alle fauci del dragone, dopo aver strappato di mano la bandiera del sovranismo e averla sostituita con quella rossa con le cinque stelle e la falce e martello. Senza farsene accorgere. Rigorosamente tifando. Non per se stessi.