NATALE?

È nato. Ma è nato o è nata? È nato maschio o è nata femmina? È nata maschia o è nato femmino?
Se il bambino Gesù venisse al mondo oggi, 2019 anni dopo di Lui, dovrebbe veramente fare un miracolo per r-esistere a questo mondo.
Se si dovesse nuovamente battezzare, potrebbero fargli visita gli ecologicisti, che si direbbero contro lo spreco dell’acqua e proporranno come modello di risparmiat(t)rice tale (s)Carola Rachete. Nemica dell’acqua. E delle regole.
Se, invece, volesse rimanere nell’acqua, anzi addirittura camminArci sopra, sarebbe accusato di scarsa sensibilità e perfino di razzismo: gli verrebbero offerti dai miliardari che (forse) non frequentano chiese, ma (solo) le porporate cucine, mille gommoni per andarsene in giro a sollazzarsi.
Chissà se Cristo sceglierebbe le nostre case piene di vuoto o le nostre chiese sempre più universalmente distanti dall’assemblea, dell’ekklesìa appunto. Ultimamente svuotate da certi “capimastri” che non sono Ma(e)stri manco per niente.
Se si sedesse a tavola potrebbe imbattersi in ogni prelibatezza ma guai a toccare il maiale – non il commensale – o, peggio, se si azzardasse a moltiplicare pani e pesci. Qualcuno potrebbe gridare al miracolo secondo la prece “ce lo chiede l’Europa”.
Se si spostasse lo sguardo sarebbe facile vedere persone che fanno la guerra a mettere quanta più roba possibile sotto l’albero non curandosi, però, se altrettanto ricca è la presenza intorno all’albero medesimo.
Manco a parlare invece della rappresentazione della Natività, della Capanna di Betlemme, in compagnia del bue e dell’asinello (sfruttati! Animalisti manifesti…) perché offende. Chi, come e cosa non si sa, non si sa, ma guai ad averne una. Offende. Proprio adesso che il politically correct è approdato nella kermesse di San Francesco con la Madonna che si riposa e San Giuseppe in veste del nuovo mammo.
Meno male che nessuno ha mai visto Il nutrimento del Signore che continua ad avere a che fare con l’ ἰχθύς, ichthýs, “pesce” in greco ed acronimo di Iesûs Christós Theoû Uiós Sotér, Gesù Cristo Figlio di Nostro Signore. Pesce per pesce, qualcuno gli potrebbe democraticamente imporre di schierarsi con le “sardine”.
Eppure Natale è la Sua festa. Il Suo avvento. La Sua venuta. Forse , persino il suo compleanno. Però facciamo gli auguri tra di noi, secondo tradizione. Quella tradizione che impone banchetti luculliani per anime povere, che impone Natale con i tuoi in ogni casa ma non nella Sua casa. Quella Tradizione di cui tutti parlano e che nessuno fa principiare dalla Chiesa, persino dalla Messa, Banchetto Vero.
Si crede a un babbo ma non ad un Padre.
Quella Tradizione che vorrebbe le donne con mani di farina e capelli di frittura di olio e gli uomini col viso di fumo di brace. Quella tradizione che non dà più spazio al protagonista, che suole (e sòle) festeggiare il Natale senza il Nato.
Quella Tradizione che fa del 25 Dicembre la fiera delle belle parole e l’epifania manifesta dell’ipocrisia.
Che sia Natale davvero. Natale tutti i giorni. Natale… da domani.

SI SCRIVE ILVA, SI LEGGE ITALSIDER


Perché mai dovrebbe stupire che il piano di rilancio dell’area dell’ex Italsider di Bagnoli sia presentato (anche) a Milano, prima a Milano? Perché mai dovrebbe stupire che al piano di rilancio dell’area dell’ex Italsider di Bagnoli che viene presentato prima a Milano non partecipi alcun imprenditore napoletano, men che meno il commissario straordinario all’uopo designato, né alcun rappresentante del Comune di Napoli, proprietario dell’area? Perché mai dovrebbe stupire che al piano di rilancio dell’area dell’ex Italsider di Bagnoli, che viene presentato a Milano cui non partecipa alcun imprenditore napoletano men che meno il commissario straordinario all’uopo designato, né alcun rappresentante del Comune di Napoli, proprietario dell’area, passi per le mani (e per la testa) del ministro per il Sud (?) dall’allogeno nome di Giuseppe Provenzano, già destinatario di una lettera dell’Acen, degli Industriali e dell’Ordine di Architetti e Ingegneri con cui chiedono una pausa di riflessione, eufemisticamente uno stop, un altro, l’ennesimo al progetto per rilanciare quella parte d’area flegrea abbandonata e dare finalmente inizio a quel progetto di rigenerazione urbana?

Nell’attuale Italia, però, quella che prevede lo scudo fiscale per i taglieggiatori del MES, ma non per l’Ilva, quella dove si festeggia il Natale senza il Nato, quella dove rifugiati e immigrati che sono oggettivamente impossibilitati a presentare la documentazione attestante i requisiti per ottenere il reddito e la pensione di cittadinanza sono esentati del tutto dallo stesso INPS, quella in cui per il Ministro della Giustizia “un reato diventa colposo quando non si riesce a provarne il dolo”, è possibile tutto. Anche che il Ministro per il Sud sia pronto e prono a credere che il progetto di riqualificazione dell’area napoletana debba partire da (le cadreghe di) Roma per approdare a Milano, sempre più vera capitale, dove si crede siano concentrati tutti i tecnici, quali architetti e ingegneri, dell’intero Stivale.

Poco importa, dunque, che esista un commissario straordinario per il progetto e che tale commissario, alla seconda chiama anche questo, sia Francesco Floro Flores, imprenditore dell’hinterland flegreo (Arena, zoo e parcheggio dell’area flegrea in sua gestione farebbero gridare al conflitto d’interesse ogni giudice, ma non a Napoli: why not?) e che sia amico di Roberto Fico il napoletano, presidente della Camera dei Deputati, nonché datore di lavoro del fratello del Sindaco, ex togato: la decisione, chissà quale, potrebbe essere presa altrove, magari da altri, non locali, che non conoscono peculiarità e ricchezza topografica, vantaggi e limiti. Ilva docet. Come Taranto, anche Bagnoli ha il mare (e di certo non piccolo) quindi, se si seguissero gli auspici del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio il quale per l’acciaieria pugliese prevedeva un allevamento di cozze, non sorprenderebbe più di tanto se all’attuale compagine partenopea venisse in mente di puntare sulle colture attuali e instaurare persino un allevamento di… sardine.

Poco importa delle radici, di scavare nell’intimo e nel profondo. Senza bonifica. L’importante è la superficie. È apparire e dire la propria. Guadagnarsi la fama. Mentre il territorio “conquista” la fame: nell’ultimo decennio, la Campania ha perso 180 mila posti di lavoro e i giovani campani e del Sud che hanno lasciato la terra natia toccano quota 400 mila. Senza considerare gli ex lavoratori della Whirlpool, della Tirrenia e di Almaviva.

Senza lavoro non c’è futuro e quando si creano delle occasioni per investire, per crescere, per restare e per vivere al Sud non ci si dovrebbe spendere per fare “emigrare” pure quelle. Eppure il Sud dei nostri padri e dei nostri nonni ha duramente pagato lo scotto dei finanziamenti in nome del Mezzogiorno per le “fabbriche fantasma” che mai sono state aperte, di quelle altrettanto fantasma che, se non sono sparite in concomitanza dell’esaurimento dei fondi, hanno sicuramente chiuso i battenti poco dopo lo stanziamento delle risorse, dell’arretratezza conveniente per tutti, eccetto che per la popolazione locale, degli opifici soggetti a delocalizzazione interna alla nostra stessa Penisola. L’attuale classe dirigente, però, sembra intenzionata a ripercorrere la stessa strada già battuta in passato senza far tesoro, col prezioso senno di poi, che ripetendo gli stessi errori, condannano l’intero Sud alla morte totale. Eppure questa è storia. Di più di un secolo fa!

L’Ilva rischia di essere l’Italsider del Terzo millennio, come a ragione ha fatto notare il partenopeo Severino Nappi a proposito del “giardino felice che Grillo sogna per l’Ilva di Taranto si può vederlo a Bagnoli, luogo di trent’anni di chiacchiere e cattiva politica, di masterplan, consulenze, progetti, conferenze di servizi, ma di fatti concreti zero. Allora fu un disegno della vecchia sinistra a cancellare 10 mila posti di lavoro e a creare questo sfacelo: oggi ci stanno pensando i loro nipotini accompagnati da dilettanti grillini”.

Bagnoli è ancora in Campania e non possono portarla via, anche se fa gola a molti. Questa è la nostra Campania, la terra da ricostruire per campare di e al Sud, quello da cui partire per intraprendere finalmente quel progetto di Macroregione e, perché no, di autonomia, da tanto desiderata e sperata e finora solo promessa, barattata in cambio di voti che si sono rivelati essere solo vuoto pneumatico, nulla istituzionale e niente amministrativo, ma che potrebbe essere una solida realtà già nell’immediato, già la prossima primavera, tempo di rinascita e risveglio a partire da Palazzo Santa Lucia.

Caro Bonito, ti ricordi del compianto concittadino on. prof. Alfredo Covelli?

Quanto sei bello, Bonito, ameno paesino dall’aria salubre che, dall’alto della tua collina e con l’Ufita in sottofondo, sovrasti l’intera Baronia, la lontana Alta Irpinia e, fiero, offri le tue meraviglie sino alla Bella Dormiente nel Sannio.

Quanto sei bravo, Bonito a non farti dimenticare da chi ti ha appena conosciuto e a farti apprezzare anche da chi non ti ha ancora scoperto dal vivo, bravo ad abbigliarti di ogni genere di ornamento fino a diventare il detentore del terzo murales addirittura più bello del mondo.

Quanto sei ingrato, Bonito che tra mille orpelli murari sei incapace di affiggere una targa a perenne memoria dei tuoi compianti concittadini, di Bonitesi, parti, colonne di Bonito come l’on. prof. Alfredo Covelli.

Di un Bonitese, tuo figlio e concittadino approdato alla Camera dei Deputati per otto legislature consecutive, Padre Costituente, decorato di guerra, plurilaureato, professore, giornalista ed eurodeputato a Bruxelles, grande oratore e protagonista di innumerevoli appuntamenti di Tribuna Politica, capace di guadagnarsi il rispetto di personaggi come Pamiro Togliatti, antiteci avversari, ma mai nemici, fondatore del Partito “Stella e Corona” fino a farne la quarta forza politica nel 1953 esprimendo ben 40 deputati e 18 senatori monarchici in un parlamento repubblicano, saggio Patriota, fine oratore, grande comunicatore, riformatore e aguzzo politico ante litteram, capace di immaginare quel futuro “partito degl’Italiani, il partito della libertà” già in un discorso del 1948 a Firenze che lo portò ad entrare nel direttivo del Movimento Sociale Italiano di Almirante che divenne Msi-Dn, di cui fu anche presidente dal 1973 al 1977, anno in cui​ guidò la scissione di​ Democrazia Nazionale​ di cui fu ancora presidente e due anni dopo, con la scomparsa di “DN”, preferì ritirarsi dalla​ politica vivendo da spettatore gli anni di Tangentopoli.

Se questo è l’Alfredo Covelli “pubblico ed istituzionale”, per Bonito e i Bonitesi era semplicemente l’Onorevole, la porta di casa sempre aperta, il sostentamento di numerosissime famiglie – e non solo del paese natio – a prescindere dal colore politico, esponente di quella Politica lontana anni luce da quella clientelare e “di scambio” di oggi, di un disonorevole do ut des.

E proprio a Bonito, centro seppur sconosciuto, portato con fierezza in ogni livello di Istituzione senza mai glissare in un generico (quanto indegno) “sono di Napoli” come altri “(il)lustrissimi” concittadini, paese da cui è partito e dove egli è sempre ritornato, per l’ultima volta nel Natale un quarto di secolo fa, vive l’onta peggiore: quella dell’ingratitudine umana.

In ben più di 4 lustri, non si è riuscito a dedicargli una strada, il corso principale che passa davanti alla casa dove tanti concittadini, ancora viventi, si sono recati per chiedere pane e lavoro e, perché no, la piazza principale oggi dedicata a tale Mario Gemma, personaggio talmente importante per il paese di Bonito e per i Bonitesi da non farne menzione nemmeno sul sito istituzionale del Comune.

Poco lontano da Largo (così cita la toponomastica ufficiale) Mario Gemma, abbiamo la via intitolata ai fratelli Cairoli di Pavia, una dedicata a Giuseppe Mazzini di Genova, una strada in nome di Francesco Tedesco di Andretta (AV), una che ricorda Arnaldo da Brescia, un’altra a memoria di Amerigo Vespucci di Firenze, una che ci rammenta Giordano Bruno da Nola, un vico dedicato a Masaniello da Napoli, un altro per il veneziano Daniele Manin, un vico in onore dei Gracchi, romani ed un Vico Elena, forse di Troia!

Una strada all’onorevole Covelli, però, nel Paese natale, nel suo paese non si riesce proprio a dedicargliela!

Eppure molteplici sono state le richieste in questi (troppo) lunghi ventuno anni dalla data della sua morte: in primis dai concittadini che mai lo hanno dimenticato, anche grazie ai comizi dei tanti candidati locali che, benché lontani anni luce dal suo pensiero politico, non hanno mancato di riempirsi la bocca col suo nome per chiedere di “votare per il paesano”, dalle colonne del periodico “Terra Boneti”, dalle numerose associazioni sul territorio non ultima dall’Unione Monarchica Italiana al cui appello, in nome del suo vicesegretario avv. Augusto Genovese, il Sindaco pro tempore, avvocato anch’egli, non si degnò nemmeno di rispondere; alle numerose richieste portate in Consiglio Comunale, invece, fu detto che per l’intitolazione di una strada debbono necessariamente trascorrere 10 anni dalla morte. Quest’anno ne sono trascorsi più del doppio.

Malgrado ciò a Roma, l’allora Sindaco Veltroni, che non proviene certo dallo stesso percorso politico ed ideologico di Covelli, e su interessamento dell’on. Antonio Tajani, dedicò al nostro compianto compaesano una strada dalle parti del Gianicolo. Anche ad Avellino esiste una piazzetta in onore all’on. Alfredo Covelli, ma non a Bonito! Che, però, non manca di dedicare una strada delle botteghe (artigianali!) a dei generici artigiani, la maggior parte ancora vivente.

C’è da registrare, però, che negli anni una targa è stata apposta. Bianca su bianco, in un posto che con Covelli poco, se non nulla, ha a che fare e che niente significa, ma è stata messa. Alla memoria. E da lì bisogna partire, dalla volontà politica di fare, dalla maturità dei tempi e dall’imperdonabile ritardo. Cui, siamo certi, non ci si voglia ulteriormente inutilmente sottrarre e l’onestà intellettuale, prima che politica, l’orgogliosa, e riconosciuta gratitudine e anche del sano campanilismo propri dei bonitesi veraci faranno sì che questo Sindaco, non il prossimo, possa affacciarsi dal balcone del Municipio che dà (finalmente!) su Piazza Alfredo Covelli!

https://www.camposud.it/2019/12/caro-bonito-ti-ricordi-del-compianto-concittadino-on-prof-alfredo-covelli/

(S)CORREGGIAMO IL POLITICALLY CORRECT

Il politically correct, volendo correggere, ha sbagliato tutto. Che poi chi decide cosa è corretto e cosa non lo è? E per chi? Lapalissiano che tale supposta superiorità sia prerogativa sinistra e che per non farci mancare nulla e sentirci sempre più servi di qualcuno importiamo una simile idiozi(ologi)a dalla terra a cui abbiamo consegnato le chiavi di casa nostra 70 anni fa.
Già la perifrasi di definizione in lingua straniera (che-sembra-un-dire-fascista-ma-non-lo-è!) è un affronto a Dante, a Petracca e a Boccaccio che rappresentano il tridente dei mostri sacri (trattasi di ossimoro, non di offesa) della nostra lingua e che hanno speso una vita intera per arricchirci e per farci parlare e che noi ringraziamo “dimenticandoci” di loro.
Così la finzione inizia con la lingua, sempre meno usata per parlare e sempre più utilizzata come strumento per arrampicate (a)sociali che dischiude le porte ai salotti buoni(sti), ma non acCESSIbili a tutti.
Dunque il cieco diventa ipovedente, il bidello un collaboratore (anche se il bidello, quando era solo tale, collaborava molto di più), il paralitico è diversamente abile, che poi poco importa se non si è corretti mentendo sull’abile e lo si prende per il culo col “superabile” perché non supererà proprio niente, nè sarà, purtroppo, super(iore) a nessuno.
Nemmeno culo si può dire, che poi non offende nessuno e anche un’espressione colorita, persino una parolaccia, a volte può conferire maggiore enfasi al discorso! Per dare colore, però, sarebbe meglio non marcarlo, o meglio, per rispetto (?) scolorirlo così il negro meglio definirlo nero senza tenere il punto… sulla G.
I forieri della giornata della parolaccia, i fanculoferi, sono assurti (e assurdi) addirittura in Parlamento e gli inoccupati sono definiti ministri, minestri alla II chiama, dimostrandosi in-capaci. Ovvero dentro la strage.
Ma tutto ciò non importa (loro): al bando, programmi, ideali e idee; l’uno vale uno è l’uno vale l’altro, anche quando l’uno non è più uno e vale zero.
Ecco dunque che il Ministro dell’Istruzione (degnissimo membro della FORMAzione, un 5 stelle super) invita a disertare le lezioni giustificando l’assenza e fa la guerra alle merendine che in realtà dovrebbe essere prerogativa del Ministro della Salute la cui unica speranza è solo il suo cognome!
Mentre nelle scuole si festeggia il Natale senza un nato, è una fortuna se ancora ci hanno lasciato almeno gli articoli a specificare i generi altrimenti Natale senza più la Nato significa non più un avvento, ma una dipartita, ossia non avere più in casa nostra i “padrini” del politically correct.
Anzi, per essere corretti davvero, per integrare non bisogna essere integralisti, ma bisogna annullarsi del tutto! Festa del papà o della mamma? Concetti retrogradi e classisti, persino sessisti perché bisogna pensare a chi una mamma ed un papà non ce l’ha fregandosene di chi ce l’ha. “Per chi ancora è normale” direbbe Checco Zalone.
Ecco, ad esempio, spiegate le sardine, che sono aperte a tutti, ma non ai Fascisti (quelli consegnati alla Storia 80 anni fa), che sono contro l’odio, ma che nascono contro Uno, che in piazza accolgono tutti, ma i Fascisti (ancora loro) solo a testa in giù, che vogliono far politica senza programmi, che non hanno colore, ma sono rossi… cantati.
Il pensiero politically correct chiaramente è scevro da sessismo, ma se un Direttore Editoriale (che non ha competenza sui titoli degli articoli) scrive “patata bollente” a proposito del sindacO Raggi si finisce in Tribunale e poco importa se tali espressioni siano state usate anche da colleghi a manca come la Gruber o dallo stesso Feltri riferito a Ruby Rubacuori: evidentemente una donna marocchina non interessa al politically correct dei buonisti.
Così se l’uomo è un tombeur de femmes, in nome della parità dei sessi, del femminismo, dell’uguaglianza e del politicamente corretto non si può dire che la donna del momento (in realtà di ieri), Nilde Iotti, brillava sotto le lenzuola. Eppure è un complimento! Che Togliatti avrà toccato con mano… e non solo.
Chissà quando il concetto a stelle e strisce ci imporrà democraticamente di non stampare più i dizionari della lingua italiana (almeno salveremo un albero!), di non usare nemmeno più quello dei sinonimi e dei contrari (e salveremo un altro albero!) tanto le cose non possono e non devono più chiamarsi con il loro nome. Chissà se esisterà un politically correct che sostituirà un panettone o anche solo il pane sulle tavole degli ex lavoratori ILVA, oggi in attesa di okkupazione, diciamo pure in mezzo ad una strada, e con loro le loro famiglie, se esisterà un politically correct in grado di mascherare i buchi della chemioterapia per i veleni ingeriti, se esisterà un politically correct in grado di saziare coloro che a Napoli, come a Genova, come a Taranto, come a Cremona, come a Palermo avranno solo fame.
Ma il politically correct ci dice che chi si è autocandidando a risolvere i loro problemi se n’è “andato” all’estero. D’altronde per Gigino anche la Farnesina…

SCIE CHIMICHE: LA RISPOSTA E’ LA NON RISPOSTA

Chissà perché ogni volta che si parla di inquinamento o di guerre andiamo a scovare gli angoli più remoti della Terra, ma non guardiamo mai sopra le nostre teste. Proprio nei nostri cieli si consuma una doppia battaglia: la guerra climatica e l’inquinamento militare.
Ci sarà capitato di sentir parlare di scie chimiche, tra il serio ed il faceto, con il sorriso inevitabilmente susseguente di chi nega e di chi crede siano teorie farlocche lontane da noi anni luce.
Eppure il cielo azzurro, velato da striscioline più o meno larghe fino a diventare vere e proprie bande, è sotto i nostri occhi, proprio sopra le nostre teste, visibile a tutti. C’è chi dice siano scarti di combustibile aereo, chi sostiene siano meri bombardamenti di sostanze chimiche. Da quale parte sia la verità, non la ragione, non è possibile ancora stabilirlo visto che al proposito non esistono studi ufficiali. In compenso, però, esiste un fronte oscurantista. Che, se non ha studi in possesso, sposa convintamente la teoria del “non esiste”.
In questo clima negazionista, oscurantista e fantasioso una voce autorevole, prima che fuori dal coro, arriva dal generale in ausiliaria dell’Esercito Fabio Mini, laureato in Scienze Strategiche e Scienze Umanistiche, già portavoce dello Stato Maggiore dell’Esercito e poi dello Stato Maggiore della Difesa, che attraverso la sua lunga esperienza di comando acquisita in Italia e all’estero e divulgata per mezzo di dibattiti, conferenze e libri, sta tentando di darci informazioni preziosissime per la salvaguardia del nostro pianeta.
Non è un caso che l’allarme arrivi da un militare (che non è mai in servizio passivo anche se a riposo) in pensione, sempre più unico momento della carriera in cui gli uomini con le stellette trovano il “tempo” di diffondere certe notizie.
“Comandare il clima” è un vezzo tipicamente militare per poter disporre dell’ambiente a seconda delle proprie esigenze e ciò può avvenire quando e come si vuole: anche se il gen. Mini non crede ad una “teoria di cospirazione”, tuttavia ammette che i governi – di Paesi come la Cina – sono in possesso di dispositivi in grado di determinare i cambiamenti climatici. Proprio i “rainmekers” con gli occhi a mandorla non fanno certo mistero di servirsi di “bombardamenti” di nubi con ioduro d’argento per aumentare (e diminuire?) l’intensità delle precipitazioni.
Più netta (e ugualmente cauta) la posizione dello scienziato del Cnr Antonio Raschi che, se da un lato ha chiaramente affermato nella trasmissione “Porta a Porta” che è in atto un esperimento planetario riguardo alla modificazione del clima, dall’altro riferisce di essere all’oscuro di un dossier dello stesso Cnr riguardo “l’aviodispersione” di sostanze chimiche condotta per favorire le piogge nell’Italia centrale cui seguì l’alluvione dell’Arno, le cui conseguenze disastrose sono tristemente note.
Attraverso le alluvioni, le inondazioni, gli tsunami, le siccità si può decidere influenzandolo il destino di una popolazione, di una Terra, conducendo di fatto una vera e propria guerra climatica. Ed è già in atto questa guerra le cui armi non sono più missili e fucili ed il territorio interessato (magari per la ricchezza delle materie prime) si conquista non più con il combattimento “ad uomo”, corpo a corpo, ma proprio costringendo la moltitudine a spostarsi, ad emigrare, ad invadere. Questione di sopravvivenza.
Dunque nuove armi militari impiegate per combattere una nuova tipologia di guerra. E proprio ai “colleghi” militari, ai meteorologi dell’Aeronautica in primis, il generale Mini rivolge l’accorato appello affinché pretendano risposte precise ed inequivocabili.
Parlare! Parlare delle scie chimiche chiede Mini: se il servizio meteo militare, i controllori del traffico aereo, le varie associazioni ambientaliste, i ministri e politici tutti di ogni colore sono unanimemente concordi nel non parlare delle scie chimiche, nel dire che tutto va bene e che non esistono, allora bisogna parlarne. Non ultima la stampa, Tv e giornali, arma anch’essa, sempre più informata a non informare.
Mini, che ha la preziosa capacità di spiegare a tutti e in parole povere concetti difficili e solo per i pochi “addetti al mestiere” senza tuttavia semplificarli, ricorda senza troppi giri di parole che proprio in Kosovo, dove egli ha comandato le Forze di pace, la manipolazione climatica, la “manomissione” delle nuvole è stato elemento peculiare della missione: attraverso l’utilizzo di sostanze chimiche quali polimeri, sodio e altri elementi si è proceduto a creare delle nuvole, quindi a disporre della pioggia e del quantitativo d’acqua da far cadere, decidere quando e come.
Con l’acqua precipitano anche le sostanze chimiche che sono disseminate in grandi quantità sotto i nostri nasi. Basti pensare all’uranio impoverito nei Balcani e alle conseguenze sui militari. Anche italiani.
E proprio dell’Italia, i cui cieli non sono immuni dall’ospitare queste scie e dove sono sempre più rare le possibilità di osservare le stelle in qualsiasi stagione, sarebbe interessante conoscere chi sostiene i costi per questi voli oppure se si incassano solamente i proventi e da parte di chi.
Dopotutto questi non potrebbero che essere i primi risultati (e le conseguenze) di un progetto che gli USA (i primi a partire per ogni fronte caldo) dal 1999 finanziano, conosciuto con il nome di “Owning the Weather in 2025” e che si pone come obiettivo proprio quello di avere il pieno controllo del clima, del tempo meteorologico in un determinato luogo e in un determinato spazio temporale. Entro il 2025. È ragionevole pensare, quindi, che nel 2019 bisogna pur dare dei risultati a chi ha investito in tale progetto. Aeronautica militare americana per prima. Mini è attivissimo su questo fronte ed esorta tutti affinché ci si interroghi, si chieda, si indaghi: le scie chimiche sono una realtà visibile e tangibile e se gli esperti spiegano, o meglio negano, tutto con grossolana superficialità allora da questo bisogna trarre la forza per non fermarsi e capire. Anche il negazionismo è una precisa tecnica militare rispondente al nome di denial of service ovvero negare non la verità, l’esistenza o la possibilità, ma negare la notizia stessa.
L’Italia (per fortuna verrebbe da dire) è un Paese in cui i “segreti di stato” hanno la stessa durata delle bugie, prima o poi qualcuno parlerà. Sta a noi, questa la carica suonata dal Bersagliere, trovare qualche spiraglio tra i tecnici, aprire qualche breccia nei ricercatori, contare su qualche militare, magari proprio come il generale Fabio Mini, onesto umanamente prima che intellettualmente, affinché possa cadere questo vergognoso e pericolosissimo muro di omertà.https://www.jpress.it/l-editoriale/scie-chimiche-la-riposta-e-la-non-risposta/

A SCUOLA DI ANPI

Che discolo quel professore che osa esprimere dei concetti partoriti a seguito di una (anche) minima attività sinaptica e che lo fa apertamente, senza eufemismi, né pleonasmi, non ricorrendo a perifrasi o a frasi sotto semaforo (con buona pace all’anima di Totò) e assumendosene ogni responsabilità!
Che giustizialista quel Preside, supposta figura superiore per conoscenza/e, posizione e retribuzione rispetto al semplice professore che, tra supercazzole con scappellamenti a destra e a manca non manca di liquidare (e di smentire) le (mancate) decisione a seguito delle altrui esternazioni, tra l’altro fatte in ambito personale e fuori dal luogo e dal tempo deputato all’insegnamento, come espressioni personali. Successivamente chiede per le stesse dichiarazioni e per lo stesso autore il licenziamento in tronco quindi il massimo chiedibile.

Che intervenga il Ministro (delle merendine), ma solo se non è in piazza con Greta con tanto di assenza dei discenti giustificat(t)a e senza ricorrere al parere dei genitori che ancora esercitano la patria (aborriamo?) podestà.

Non sto parlando del professore di Bologna con simpatia nazista che tutti i giornali hanno sbattuto in prima pagina quale móstro (maschile di móstra, esposizione) del giorno, bensì del taciuto e tacitato docente di Storia e Filosofia del liceo Leonardo da Vinci di Civitanova Marche, il quale, partecipando ad un incontro scolastico organizzato dall’A.N.P.I, quella associazione (quasi partecipata statale con l’unica variante che lo Stato eroga fondi verso questa percependone -voti- utili) che sta all’Italia come il mercoledì sta in mezzo alla settimana, che sta come l’età anagrafica degli pseudo-partigiani alle parole oggi proferite, quindi nulla ha a che fare con la scuola, organizzato sul tema – guarda caso!- del Fascismo, in occasione della presentazione del libro di Andrea Martini, autore del libro “Dopo Mussolini – I processi ai fascisti e ai collaborazionisti”.

Dunque l’A.N.P.I., o meglio gli eredi dei partigiani, o meglio ancora, gli eredi di tutto ciò che hanno fatto i partigiani, che nulla hanno a che fare con la scuola, organizza un convegno cui invita il liceo di Civitanova Marche che a sua volta invita, se non “obbliga”, alla partecipazione le classi V, ovvero quelle che devono maturare cioè che dovranno votare.

Nonostante non sia passata per le classi la solita circolare didattica e, stupite più che incuriosite da tale insolita metodologia di invito, le classi quinte, accompagnate dal professore, presenziano l’evento. A testimonianza dell’essere scevri da idee e preconcetti da parte di alunni e professori.

Dopo una sola ora dall’inizio del convegno alcuni alunni decidono di abbandonare la “seduta”. Non il professore, che resiste (nell’accezione non partigiana naturalmente) ed in religioso silenzio ed attento ascolto arriva alla fine dell’incontro. Quando democraticamente ed educatamente chiede ed ottiene la parola.

Il professore, intellettualmente onesto, fa notare che la locandina e le intenzioni sono quantomeno sbagliate visto che non si è assistito ad un convegno o ad un dibattito, ma ad un vero e proprio comizio. Ebbene sì, perché – dice il professore – per trattare certi temi sarebbe stato utile sentire le due campane, sarebbe stato corretto invitare anche la controparte, sarebbe stato giusto ascoltare almeno le due versioni. Per poi ricercare, quindi scegliere.

Apriti cielo!

Il docente è stato lapalissianamente e semplicisticamente tacciato come Fascista, ma non perché lo stesso abbia espresso giudizi favorevoli rispetto ciò che è stato consegnato alla storia 80 anni orsono, ma solo per aver chiesto imparzialità. Per questo si sarebbe anche sentito chiamato in causa (fascista). Secondo loro.

Esprimendo solidarietà e fiducia al loro docente e capendo quanto accaduto, gli alunni che sosterranno tra sei mesi la prova di esame, hanno già dimostrato di… essere maturi. E coraggiosi visto che hanno fatto quadrato intorno al professore quantomeno per essersi interrogati sia sulle modalità di invito che sulla qualità e sulla provenienza delle informazioni propinate per oro colato. Questo, però, non si deve far sapere sui giornali, alla tv e nemmeno alla radio. Forse l’asinistra in questa maniera si renderebbe conto che l’entrismo nella scuola non è riuscito completamente. Non è stato ancora distrutta del tutto quella capacità, seppur rasente lo zero, di ragionare, di spremere le meningi, di far funzionare quell’organo pure in possesso di ognuno.

Uno studio OCSE di recentissima pubblicazione rivela che proprio gli studenti delle scuole superiori italiane (quelle che al convegno probabilmente avrebbero dovuto “sostenere l’esame) non sono in grado di leggere e comprendere un testo, anche elementare, visto che questo loro “lavaggio del cervello” è finalizzato proprio alla riduzione a zero, se non alla completa eliminazione, di ogni capacità di ragionamento e quindi di conoscenza della alunno.

Per il professore di Bologna è stato chiesto il licenziamento, la massima pena, il professore di Civitanova Marche sicuramente passerà l’anima dei guai, almeno tra i suoi colleghi.

In attesa che la testimonianza di un consigliere Pd (guarda caso al convegno per la scuola…) davanti al p.m. di turno faccia ottenere l’interdizione da ogni circolo didattico, culturale e dopolavoro, l’estradizione, la revoca della cittadinanza con relativo baratto dato il posto libero, i lavori forzati ed il taglio delle corde vocali così non potrà più democraticamente sostenere certe cose contrarie alla resistenza. Perché “In una democrazia non tutte le opinioni possono essere accettate” e “quando si parla di Resistenza non occorre una controparte” come dicono i diretti interessati.

Quell’A.N.P.I., invece, dovrebbe continuare a (s)parlare (e a far danni) in nome di quella libertà che deve essere a tutti garantita e di quella libertà di pensiero che è proprio della Costituzione che, non scritta certo dei partigiani, la garantisce a tutti. Indistintamente.

Anche a quelli come l’A.N.P.I. che finiranno per parlare da soli, in solitaria e per il loro sinistro inutile tornaconto. Come pazzi.

NAPOLI RICOMINCI DA QUI!

Quarant’anni sono un tempo largamente sufficiente per concepire di onorare il ricordo di una persona che tanto ha dato, ma sono altrettanto sufficientemente disonorevoli se trascorsi nel silenzio e nell’indifferenza.
È quanto accade a Napoli, che nonostante i proclami di quella politica comunale e regionale sempre più pura demagogia, si conferma tristemente ingrata verso i suoi concittadini illustri, quelli che su ogni sorriso e risata hanno impresso un marchio di fabbrica universale: NAPOLI.
È il triste caso di Alighiero Noschese, comico, caratterista, attore, showman e non solo limitatamente imitatore dimenticato in primis della sua città natale, nel cui quartiere Vomero nacque 87 anni fa e che a distanza di soli 40 anni dalla sua morte se non l’ha dimenticato, sicuramente non l’ha mai onorato.
Un vero genio dell’imitazione che riusciva a carpire prima l’anima che la voce dei propri personaggi, un pioniere, come nessuno prima di lui, che riuscì a sdoganare la satira politica imitando magistralmente i big dei partiti nazionali, al punto che era lo stesso Noschese a “consacrare” i politicanti che senza la sua parodia rimanevano sconosciuti al grande pubblico.
Un talento purissimo, quando era ancora un semplice studente, tanto da sostenere ben due interi esami universitari imitando la voce di Giovanni Leone, suo professore alla facoltà di Giurisprudenza e poi futuro Presidente del Consiglio e della Repubblica, al cui studio era stato avviato dal padre, e addirittura su curiosa richiesta del diretto interessato.
Una carriera che affonda le sue radici nella riproduzione delle voci dei gatti del quartiere fino a guadagnare l’appellativo di “uomo dai mille volti” con il suo centinaio di personaggi nel suo bagaglio di imitazione (96 per l’esattezza come amava inorgoglirsi egli stesso), “Mister Carta Carbone” come solevano definirlo gli addetti ai lavori tanto le sue parodie ricalcavano il vero, “l’amico rassicurante e gioioso degli Italiani” è stato quasi completamente dimenticato da quel pubblico allietato e divertito che, fortunatamente o sfortunatamente, potrebbe ancora essere testimone non passivo.
Nessuna iniziativa da parte del capoluogo partenopeo: non una strada o una piazza dedicata, nessuna rassegna commemorativa, nessuno spettacolo per commemorarne ed onorarne il ricordo o, azione più onorevole, nessuna intitolazione di alcun teatro in città. La stessa che per la sua rinascita punta, investe (ma a questo punto semplicisticamente spende) in cultura (quale?), arte e letteratura.
Diverso, incoraggiante, lodevole, ma non abbastanza l’atteggiamento del Comune di San Giorgio a Cremano dove egli è cresciuto che, dopo avergli intitolato un murales “Ricominciamo da qui !” (vandalizzato e restaurato) insieme all’altro illustre concittadino Massimo Troisi, nel giorno del 40° anniversario della sua morte dedicherà un’intera giornata al compianto artista poliedrico che inizierà con una deposizione di una corona di fiori sulla tomba cui seguiranno laboratori teatrali atti (finalmente!) alla divulgazione dell’encomiabile lavoro di cui siamo indegni eredi.
Un’artista fragile e sensibile, ferito mortalmente da quel suo impedimento ad esercitare la satira politica in vista del rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse e dal suo matrimonio naufragato con conseguente distacco dalla famiglia più che da quel colpo calibro 38 della Smith & Wesson che fu ritrovata in possesso nella clinica romana Villa Stuart dove era ricoverato per curare la sua depressione. Al di là delle ipotesi che sono circolate in merito al suicidio, ci piace pensare che il “Fregoli delle voci” abbia recuperato la pistola imitando la voce del primario che lo aveva in cura e che gli accordava un permesso per uscire. “Morendo alla sua maniera”, facendo ciò che gli più gli piaceva e che era la sua stessa vita, insomma. Magari raggiungendo il suo collaboratore paroliere e drammaturgo Dino Verde, altro conterraneo dimenticato per scrivere e interpretare insieme un altro irriverente testo circa Napoli, attuale ingrata e indegna.
SOSTIENI ANCHE TU LA PETIZIONE PER L’INTITOLAZIONE DI UNA STRADA DI NAPOLI A ALIGHIERO NOSCHESE
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RIMESCITA CAMPANIA

Che alla fine non sarebbe andata a finire così ci credevano solo loro. Il MoVimento 5 Stelle ed il Pd. La Ciarambino e il presidente De Luca. “’a chiattona” e “Vicinez’ ‘o scheriff’”. L’antitesi incarnata, il dualismo (giam)mal conciliante, gli antagonisti di sempre, gli avversari di una vita, lo zoccolo duro e la spina nel fianco.
Dopo anni, un decennio di lotte politiche, di battaglie di Palazzo e di conflitti in Regione, messa al bando la politica politichese, il programma ultra-completamente realizzato, addirittura superato ed in largo anticipo, e quello solo movimentato, abbandonate le ideologie quando nemmeno le post-ideologie sembrano ormai più bastare, Pd e MoVimento 5 Stelle, dopo l’avventura nazionale, dopo l’Umbria potrebbero correre a braccetto anche in Campania. Forse per sorreggersi a vicenda. E se in Emilia Romagna ed in Calabria Giggino Di Maio, il capo-politico in fieri, aveva pensato bene (ma male per gli attivisti della Rousseau) di non candidarsi per nulla almeno per salvare la faccia, in Campania, nella sua terra ed in quella del presidente della Camera Roberto Fico, la faccia deve mettercela per forza. Lo deve, sperando in un poco politico do ut des, ai tanti “amici” che hanno preso il posto a Roma e che, se vogliono conservarlo, devono meglio attivarsi.
Che il M5S non goda affatto di buona salute è cosa nota a tutti: che sia l’inquilino della Farnesina l’inconsapevole colpevole dei malumori, o la gestione accentrata (ed egocentrica e a tratti egoistica) del MoVimento o il recente accoppiamento, rimasto indigesto, con il Pd non fa tramontare l’ipotesi di una alleanza contro il ciclone devastante della coalizione di Centro Destra capitanata da Matteo Salvini che prende forza ovunque e sempre più.
Forse un’alleanza forzata per la sopravvivenza. Ma sotto seconde spoglie.
Tra le fila grilline, infatti, e a guida della solita e immarcescibile Valeria Ciarambino (alla faccia del cambiaMento!) prende piede il nuovo (effimero? All’uopo?) soggetto politico: “Rinascita Campania”.
Stando alle dichiarazioni delle ultime ore dell’esponente stellata, l’iniziativa sta riscuotendo successo, tanto successo (ma adesioni?) da parte della società civile che vuole impegnarsi in prima linea per garantire a Napoli ed alla Campania quella rinascita etica, culturale, economica che merita e solo promessa da troppi anni. Insomma la solita demagogia pre-elettorale che maschera il nulla politico ed il vuoto programmatico.
Stile diverso, ma sostanza (forse) uguale la lista civica sempre e da sempre anelata da Vincenzo De Luca la cui logica conseguenza, dopo aver investito (forse solo speso) mezzo milione di euro in cultura – stando alle cifre dichiarate dallo stesso Governatore – è quella di aprire a personalità della cultura, della musica, dello spettacolo, delle scienze della letteratura.
A benedire la “mescita campana” è il pdino Antonio Marciano che si spinge oltre e propone entusiasticamente di tentare anche a Napoli l’esperienza di alleanza già tentata altrove. Forse ignaro dei risultati (non) conseguiti o conseguenza degli effetti primari della stessa mescita.
In fin dei conti, si prefigura un surrogato della compartecipazione nazionale Pd – 5 Stelle in salsa partenopea, non troppo legata ai simboli di partito che, se sono fin troppo d’accordo e costretti per la sola sopravvivenza all’assalto della coalizione di Salvini e Meloni, meglio tenerli, opportunamente ed opportunisticamente, alla debita distanza onde evitare insopportabili interferenze.
Interferenze non marcate in questi nuovi (?) soggetti politici che servono solo a tenere pulita, nascondendola, la faccia dei big e del partito da quello che, stando ai sondaggi, s’incammina ad essere un altro, ennesimo flop.http://https://www.camposud.it/2019/11/rimescita-campania/