IL “CASO” DURIGON: Alla fine ha vinto l’abiura !!

Governo e Parlamento rientreranno dalla pausa estiva orfani, ma non claudicanti.
No, non è una beffa. Piuttosto lo è per il popolo: nonostante lo stato d’emergenza imperante, prorogato al massimo del prorogabile e le conseguenti restrizioni che lambiscono la follia, visto che logicamente non ce le si spiega, con tutti i problemi annessi e connessi, presenti e futuri, onorevoli, deputati, sottosegretari, portaborse, uscieri e collaboratori vari se ne sono andati beffardamente in vacanza. Per trenta o quaranta giorni, rispettivamente se il politico è espressione del governo, o piuttosto appartenga ad una delle due Camere. Il che sarebbe già da sola condizione sufficiente ed essenziale per chiamarsi fuori da questo guazzabuglio promiscuo e meticcio. Ma ciò non avviene per nessuno (di loro). Purtroppo. Ciò che in compenso avviene è che un membro del Governo, il Sottosegretario di Stato al Ministero delle Economia e finanze, Claudio Durigon, leghista, venga fatto dimettere. Non perché abbia rubato, non perché sia colpevole di chissà quale scellerato delitto, non perché sia inadatto – l’epiteto “incapace” non piace al politically correct né lo concepisce l’assunto istituzionale “uno vale uno che poi vale l’altro che alla fine vale zero” – ma è fuori per una idea. Personale, intima, culturale e non espressa nell’esercizio delle proprie funzioni. Non scherziamo, questo è pur sempre il governo dei migliori con i Di Maio, gli Speranza, gli Arcuri e le Fornero. Non é consentito a costoro nessuna “sbavatura” o esternazioni non gradite!
La questione infatti, si solleva a proposito del parco cittadino di Latina – tu chiamala, se vuoi, Littoria – dove, durante un comizio, il sindacalista leghista si era detto favorevole a intitolare nuovamente il parco cittadino ad Arnaldo Mussolini, fratello del Duce.
Apriti cielo! Al solo sentire pronunciare quel cognome è insorta tutta la sinistra radical-chic, sono caduti i rolex dai polsi sinistri ex proletari, attici e ville degli “erremosciati” figli di papà discendenti di genitori sessantottini e pronipoti di banditi partigiani hanno sputato di tutto, A partire dall’odio e dal veleno che hanno in corpo e persino i soldi stipati nella cuccia del cane della off limits Capalbio. Quella sinistra che ha accettato – loro dicono “incluso” – un’altra Mussolini, arcobalenata (s)vestita per la causa. Loro e di Zan. Menomale che la pressione sul Claudione di governo è stata smorzata dalla Cirinnà che ha fatto sapere che si è trovata a fare da cuoca, lavandaia e ortolana dopo che la cameriera che condivideva la tenuta di campagna con due pastori abruzzesi, di cui una gravida, l’ha lasciata. Ed era pure assicurata, ha precisato. Fico! Povera Cirinnà, che vita di merda! Si sarà rovinata le vacanze!
La cordata sinistra è stata guidata addirittura da Marco Travaglio – un nome, una lagnanza, visto che si parla di cognomi… – il quale ha promosso un appello su Il Fatto Quotidiano, organo di in-formazione del MoVimento 5 Stelle che è finito per essere la testa di legno di quella sinistra che ormai non ci mette più, o più non può, nemmeno la faccia.
Il Fatto Quotidiano per Travaglio, per i 5 stelle, per Boldrini, per la sinistra gauche caviar ha chiesto e la Lega, con l’assenso di Salvini ha risposto. A doppio, anziché picche: dimissioni e abiura!
Dopo la poltrona lasciata in via XX Settembre, arriva immancabile l’abiura ufficiale, la punizione sinistra, la condanna “rossa”: “NON SONO MAI STATO FASCISTA”.
Ah, adesso tutti tirino un sospiro di sollievo e i problemi dell’Italia sono finalmente svaniti. Stiamo vivendo l’epoca del cancel culture, del black lives matter e in Italia, con l’avallo del governo su richiesta dello stesso governo, siamo alla condanna del pensiero, dell’idea. Sancita, tra l’altro, da quella stessa Costituzione antifascista, bandiera ormai ridotta a pezza e bavaglio, vilipesa e calpestata quotidianamente dai loro stessi fautori.
Quella stessa Costituzione che non vieta affatto che qualcuno abbia simpatie per lo storico Regime, atteso che dopo ottant’anni sia ancora possibile. Anzi dice chiaramente che nulla osta acciocché un simpatizzante possa far parte del governo, passato un quinquennio dal 1948. Pare siano passati quindici volte cinque anni! Quella costituzione, che al 21 articolo tutela proprio la libertà di pensiero. Quella che aveva espresso Durigon. Che è ben lontano dal pragmatismo di chi quel pensiero ha contribuito a formarlo: «Se un uomo non è disponibile a correre qualche rischio per le proprie idee, o le sue idee non valgono nulla o è lui che non vale nulla», di chi ha abbracciato un’Idea arrivando a morire per essa. Penso ai ragazzi della RSI, penso ad Achille Starace, a Ettore Muti, ai ragazzi del “Dio stramaledica gli Inglesi”, della non lontano Sant’Angelo in Formis, alla fierezza del giovanissimo Franco Aschieri.
Ormai ad essere morta è la cultura, il sapere, quello scomodo e quello veritiero, quello nascosto e che non ci piace. È morta la verità. Ad ammazzarla è stato il pensiero unico, quello che non ammette differenze, ma da se stesso, quello che è superiore e saccente e che non ammette contraddittorio. Con la complicità di chi ha paura dell’onestà intellettuale, che non impone il coraggio delle proprie idee, che ha paura di pensare fuori dagli schemi, che ha il panico di non essere omologati. Sarà per questo che in tutte le commemorazioni ufficiali, da trent’anni ormai, si omette di dire che la vittima di mafia dr. Paolo Borsellino era iscritto al MSI e che proprio una pattuglia del partito che ha raccolto il testimone del Fascismo in Parlamento, propose la  candidatura di quel Giudice alla Presidenza del Consiglio.
Quel Fascismo che per mezzo del Prefetto Mori riuscì nell’impresa di controllare e azzerare la mafia in Sicilia. E forse è proprio questa l’Italia che questa gente merita: con la mafia, senza le bonifiche delle aree paludose, senza l’urbanizzazione di terre incolte, senza città, palazzi, scuole, ponti, vie che ancora resistono, senza i decori che trovi dalla fognatura al palazzo ancora in uso, senza l’IRI e la riforma del sistema bancario, senza la scuola che forma ed informa, ma tutti obesi sul divano ad ingolfarsi di cibo spazzatura al delivery, al ritmo scandito dalla tv spazzatura dai programmi della durata di un lockdown.
Ora che Dorigon è stato accolto nel club dei supponenti previa pubblica abiura, stracciatevi pure le vesti per i diritti lesi, ma quelli altrui, continuate a coltivare la trasgressione di vestirvi di bianco d’estate. Ma attenti alle mani inzozzate di gessetti colorati e continuate pure a credere che i talebani siano solo in Afghanistan.
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Le nuove esternazioni del governatore dopo la pausa estiva!!

Sarà stato il troppo sole della pausa estiva, sarà stata l’astinenza da microfoni e telecamere, ma Vincenzo De Luca riprende in grande stile e lo fa a modo suo.
L’occasione è la visita all’AIR, l’azienda di trasporti irpina, ed è subito show. Manco a dirlo sulla tematica tormentone che tiene banco ormai da due anni: il covid.
Il Presidentissimo critica il “governo delle mezze misure” dove lui non è riuscito ad approdare e con piglio da consumato statista di polso sinistro incalza i duecentocinquanta astanti circa, che sono poi tutti dipendenti dell’azienda di trasporto pubblico locale: “Vaccino obbligatorio per tutti i lavoratori del settore!”.
La Campania, a detta del detentore del lanciafiamme, punta a raggiungere eccellenti traguardi arrivando a vaccinare con entrambe le dosi 4 milioni e 600 mila cittadini per “riavvicinarci alle nostre vite a ottobre”. Incuranti di ciò che loro pensano. Proclama che ha tutto il sapore del tormentato tormentone governativo del “chiudiamo adesso per salvare il Natale, per riprenderci poi l’estate e abbracciarci infine domani”. Teatrino emergenziale che va avanti da due anni e mezzo, teatrino che risponde al nome di “emergenza sanitaria” quando il massimo organo in fatto di salute (l’OMS) ha solo parlato ufficialmente di epidemia e mai di pandemia. Ma per De Luca la cosa è ininfluente. Come la sanità da lui “amminestrata” che, proprio nel momento dell’emergenza pandemica, ha mostrato tutte le sue falle, fruttandogli più di una denuncia.
De Luca, si sa, è un democratico partito, ignorante del fatto che i lavoratori che decidono di non sottoporsi alla vaccinazione lo fanno proprio in ottemperanza ad una legge che, per scelta o incapacità del governo centrale, non impone ancora l’obbligatorietà vaccinale. Almeno quella diretta. Perché anche lui, uniformandosi al (dis)fare del governo che quotidianamente critica, sceglie la via indiretta del mezzo ricatto: se il vaccino è obbligatorio, ma solo in Campania e solo secondo lui per il comparto dei trasporti, va da sé che chi non si vaccina non può lavorare. Ma poi con la consueta faccia tosta da esponente di certa politica consumata, o meglio, consumato da certa politica, rassicura i lavoratori, non disdegnando l’immancabile zeppata al morente Gigino de Magistris e alle (fu?) ANM e CTP, con fare da vero Maramaldo: “noi tuteliamo i posti di lavoro”. Prova di coraggio (e di stomaco) per l’inquilino di Palazzo Santa Lucia che lo dice proprio in quella azienda che ha visto “avvicendarsi” l’ingegner Alberto De Sio, salernitano manco a dirlo, scelto – leggi imposto – direttamente da De Luca al posto dell’irpino Angelo D’Amelio, difeso dall’acerrimo nemico-amico deluchiano Ciriaco De Mita.
Un altro salernitano, proveniente dalla dirigenza della Salerno Mobilità, società in house al comune di Salerno, nominato questa volta Amministratore Unico dell’Autoservizi Irpini. In ottemperanza al famigerato e famelico patto di Marano che ha visto l’opera di completa distruzione dei territori interni a due mani.
Immancabile anche la stoccata al medagliere impettito del gen. Figliuolo e della sua scelta di avvalersi del commissario sanitario. Scelta disprezzata e condannata da Vicienzo in virtù del fatto che il generale deve occuparsi della logistica per cui non gli servirebbe il parere di un perito tecnico. Immediatamente poi, pur non essendo lui un tecnico, ma forse solo “perito”, sveste i panni da tuttologo e veste quello del disinformatore interessato, spacciando come definitivo l’ok per il vaccino Pfizer. In realtà, non è proprio come dice De Luca che deve aver fatto un bel po’ di confusione: la FDA, l’agenzia che regola la distribuzione dei farmaci negli Stati Uniti (non in Italia!) ha pubblicato due lettere. In una lettera autorizza la distribuzione del vaccino Comirnaty. Nell’altra, conferma lo status di autorizzazione d’emergenza del vaccino Pfizer. C’è un problema però. Il dottor Malone spiega che il vaccino Comirnaty prodotto sempre dalla Pfizer non è ancora disponibile sul mercato. La FDA ha quindi autorizzato qualcosa che ancora non è stato distribuito. Sempre la FDA e i media hanno giocato (?) volutamente su questa ambiguità per poter far credere al pubblico – e pure a De Luca – che fosse stato il vaccino Pfizer in realtà ad essere autorizzato. Pertanto, siamo di fronte all’ennesima informazione non ortodossa o, se vogliamo, all’ennesima manipolazione mediatica.
Poi, per coerenza, il governat(t)ore rincara la dose: “i no vax non lavoreranno in Air”. Chissà cosa ne penseranno i dipendenti della mobilità del comparto casertano Clp a cui ha promesso di entrare in Air, vantandosi di aver creato posti occupazionali pari a quattro volte la Whirlpool. Chissà se prima o dopo la chiusura, ma comunque quella salvata da Di Maio, allora ministro del lavoro.
Un successo pari a quello venduto da De Luca dei posti in terapia intensiva moltiplicati che manco Gesù col pane e coi pesci: quotidianamente, esponenzialmente, a dismisura, ma solo a parole. Da disponibili, in occupabili, in attivabili, in ipotetici, in…ventati.
Insomma, De Luca ritorna sulla cresta dell’onda e lo fa secondo il suo consueto stile, senza vergogna né pudore, che ormai, se non fa più ridere, inizia ad assumere i caratteri del patologico cronico degenerativo.

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DIEGO: I VUOTI A PERDERE DELLA RICIONOSCENZA NEOMELODICA

La Napoli divisiva e competitiva non è la Napoli di Diego.
Napoli, città dai mille volti e dalle mille contraddizioni, dove con naturalezza si accostano il Bambinello e il “monaciello”, dove si respira arte in ogni vicolo  di questa città in cui la disoccupazione è elemento tipico, dove in un semplice​ “panaro”​ calato dal balcone si cela e contemporaneamente si manifesta tutta la generosità di un popolo. Un popolo capace di amare e di fondersi come pochi: per San Gennaro, la pizza, la musica, Maradona.
Esiste la Napoli che ha conosciuto Maradona, che l’ha venerato quando era ancora in vita e una Napoli che ha apprezzato Diego. L’uomo. Il lato fragile del campione. Dal connubio di Diego e di Maradona viene fuori il D10S, per cui Napoli tutta diventa un “unicum” fedele. La venerazione esponenzialmente una, universale. Viene fuori il Diego che gira le strade e i vicoli di quella Napoli perennemente grata, ma che lo esaspera, che lui ama, ma che lo consuma e lo risucchia. Quella città governata da certi “avvoltoi” spacciatisi per aquile dall’inguaribile lotta all’utile, al profitto interessato e alla speculazione di convenienza. Nemmeno tanto intelligente.
La notizia della scomparsa del Pibe de Oro era ancora fresca in quel 25 novembre dello scorso anno, scolpito nell’animo di ogni tifoso, che prontamente si inaugurò la lotta dei proclami: se il sindaco de Magistris rilanciò immediatamente la notizia dell’intitolazione dello stadio scippandola persino a San Paolo, il Presidente della regione De Luca repentino, intitolò non solo una fermata della Cumana, ma addirittura bissò commissionando tanto di murales. Se il Sindaco uscente s’inventò la “sinfonia della felicità”, ovvero la “questua” presso i napoletani per commissionare una statua che il Comune avrebbe scelto, affidata la lavorazione ed installato, i novelli pretendenti allo scranno di palazzo San Giacomo, per la campagna elettorale, pensano di candidare capolista il fratello di Maradona, che però è ancora sprovvisto di cittadinanza.
Napoli che onora Maradona come un monumento è la Napoli capace di far guerra anche su una statua a lui dedicata: il Comune riceve in dono il capolavoro del maestro Domenico Sepe e il patron De Laurentis, pare,  ne commissioni un altro alla Fonderia Nolana. Se la statua di ADL è sofisticata ed ha visto la collaborazione di Stefano Ceci, ex manager di Diego, basata sul vero calco delle mani e dei piedi del campione argentino preso prima della sua scomparsa, il capolavoro di Domenico Sepe, omaggio gratuito a tutti i napoletani -questa la sola richiesta dell’artista – ritrae Diego con la tecnica del bronzo a cera persa, la stessa usata per i bronzi di Riace. Nella scultura dell’artista napoletano – manco a dirlo – Diego sembra essere proprio un dio greco, intento nella corsa, magistralmente calibrato, che avanza palla al piede, mentre l’altro poggia su una base che ricorda la sagoma geografica dell’Argentina, da dove è partito per poi ergersi in tutta la sua statuarietà – l’opera è a grandezza naturale – verso quei cieli che Dieguito ha conquistato.
Ognuno aveva la “sua” statua da esporre, ma il campionato è iniziato senza omaggio e senza cerimonia: de Magistris aveva organizzato pure l’evento con cinquecento bambini che avrebbero dovuto formare una coreografia con la scritta D10S alla quale, però, non avrebbero partecipato i calciatori, causa impegni. Fatto sta che, per il mancato dialogo tra Comune e Società, i napoletani non possono apprezzare il dono che il Maestro Sepe ha fatto alla città.
Un altro evento che ha tutto il sapore della speculazione politica e che assume tutto il significato dell’ennesima brutta figura.
E non è l’ultima!
Per il primo anniversario della scomparsa di Maradona, il Paternal – la casa museo dedicata al fenomeno argentino – per bocca del suo presidente Miguel Martin Perèz, ha scelto ancora Napoli e i napoletani invitando alla commemorazione un altro artista, il pittore acerrano Cuono Gaglione. Meglio conosciuto come il pittore di Maradona. Al Gaglione, che ha esposto già nel 2003 alla sede della Commissione Europea di Bruxelles e nel 2005 al Parlamento Europeo di Strasburgo, sono state commissionate ben venticinque opere che andranno ad affiancare in maniera permanente il celebre quadro donato al campione e che oggi è custodito nel museo ribattezzato La Casa de D10S.
Se tra le Istituzioni è in atto una vergognosa lotta all’esibizione del proprio trofeo, nessuno tra Comune, Regione e Società Sportiva si è fatto avanti per patrocinare l’”ospitata” in terra argentina. Nessuno che si inorgoglisca della “chiamata” e del ricordo di Napoli e dei napoletani. Tanto  per l’invito, quanto per la presenza nel Paese del calciatore scomparso. Nessuno che voglia collaborare al protocollo delle opere che rischiano di essere inviate oltreoceano alla stregua di un insignificante pacco postale, orfane di padre, senza l’anima del loro creatore. Evidentemente l’Argentina non porta voti. E l’opera d’arte di Sepe, evidentemente, non è ancora riuscita a essere inquadrata nei gangheri della speculazione politica.
Un vero e proprio affronto alla cultura, un oltraggio al genio cittadino, un mancato apprezzamento del valore ( tra l’altro gratuito) da parte delle Istituzioni tutte.
Gaglione e Sepe, due volti dell’eccellenza napoletana, italiana, mondiale, non riconosciuta e non valorizzata, uno sfregio all’arte addirittura prima di essere esposta.
Ma Napoli è città di cultura e sentimento e – per fortuna e grazie a Dio – non è ancora tutta melensa: la scrittrice e saggista premio Masaniello Marina Salvadore ha sposato la causa del pittore di Maradona e ha trovato nell’ex calciatore dall’animo nobile Danilo Filippini, oggi impegnato in attività no-profit per bambini speciali, un sensibile e valido collaboratore all’iniziativa. Ma non basta.
Un appello, perciò, va rivolto alla società civile e ai tifosi tutti che sono rappresentanti ed essenza autentica della Napoli vera e del Napoli affinché, grazie a loro che incarnano la pura identità, il nome di Napoli sia ancora tenuto alto. A loro rappresentanza, per il buon nome della città, nella memoria di Diego Armando Maradona.

https://www.camposud.it/2021/08/forze-politiche-allo-sbando-e-rincorsa-allaccaparramento-dei-trasformisti-hanno-fatto-dimenticare-le-iniziative-per-la-casa-museo-di-maradona/

COSE DA PAZZI

Primo lunedì di rientri, traffico più sostenuto, saracinesche che – spero – si rialzeranno, ma ciò che mi auguro non riapra è il Parlamento italiano. Camera dei deputati e Senato della Repubblica possono star chiusi, debbono star chiusi: sono completamente inutili oramai. Non c’entrano le pensioni d’oro o la settimana di lavoro ultracorta. La vacanza di un mese per spostare le chiappe dal velluto della cadrega all’acqua salina è una beffa più per loro che per la gente comune: la verità è che il Parlamento ha perso la sua funzione: non legifera più, il governo e la pubblica amministrazione applicano norme mai votate, mai promulgate, disposizioni illogiche, illegittime e irricevibili. Siamo alla mercè del ministro di turno e di come si sveglia la mattina, siamo alla riduzione della rappresentanza della gente in Parlamento, ma poi formiamo task force che governano al posto del governo così come dice il governo, perché, quando cozza con il parere dei dicasteri – se di loro parere si tratta – la task force formata da esperti, luminari e illuminati non le tiene minimamente in considerazione.

Il parlamento è stato esautorato della sua funzione, il professorino impomatato Peppuccio Conte, che con la legge mangia, stava per estrometterlo del tutto. E l’opposizione lasciava fare. Silente. Mascherinata. Appecorinata. Vedi mai dovesse bruciarsi un po’ di consenso. Toccò ad un manipolo di bivacchi, feroci e con le zanne, che avevano proposto e promesso ferrea opposizione e lancio delle sedie, imbracciare cartelli e –  testa sul collo – metterci la faccia ricordare che l’Italia è(ra ancora) una repubblica parlamentare a quei 920 dipendenti del popolo italiano, che loro avrebbero qualcosa da dire e da fare. Inutilmente.

Nelle due camere non si dialoga, non si litiga, non ci oppone, non ci si impegna. La politica oggi si fa sui social, non più nelle piazze, tra la gente, ma attraverso il display del telefonino il leader arriva direttamente sul divano di casa, dove tutti sono ormai parcheggiati in attesa che ce la faremo, che andrà tutto bene.

Che tristezza i profili social dei politici, sembrano quelli di adolescenti brufolosi il cui unico pensiero è quello di augurare il buongiorno e la buonanotte, di postare la foto del cagnolino piuttosto che il menarca o la panza di sostanza. Abbuffate luculliane sbattute in faccia a chi, grazie al loro menefreghismo, non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena. Che per colpa loro non sa se avrà più un lavoro. Privati persino della dignità e della libertà. Ma che diritti vogliamo accampare? Siamo in pandemia, sanitaria seppur mai dichiarata, l’OMS ha sempre e solo parlato di epidemia. Siamo in emergenza! Emergenza sanitaria la cui soluzione è sempre e solo economica affrontata in maniera politica da chi politico non è e la politica, per sua stessa ammissione, non l’ha fatta mai. Emergenza che dura due anni e che pare durerà ancora. Un’emergenza insoluta e che non si deve risolvere perché è utilizzata quale mezzo di governo.

Emergenza mascherine, emergenza ossigeno, emergenza sanitari (che non sono i cessi, o non tutti!), emergenza climatica, emergenza sbarchi. Ora siamo all’emergenza Afghanistan. Che è un poco come il nostro governo in vacanza per un mese ed il parlamento chiuso per quaranta giorni. Che non è in quarantena, nonostante l’emergenza. Che è un po’ come i buonisti nostrani che pensano alle privazioni delle libertà delle donne afgane, mentre loro indossano la mascherina ed escono previa esibizione del green pass. Che si scandalizzano per le pratiche talebane mentre in Italia gli esperti consigliano di non avere rapporti con il concupito, che non accettano il divieto di uscire, ma che sgattaiolavano come topolini per non sgarrare col coprifuoco.

Però i talebani sono altrove, mica in Italia e dare sempre la colpa al lupo fa comodo alle pecore, il cui unico obiettivo è l’immunità di gregge. Attenzione: i talebani non sono altro che pastori! E da pastori hanno sconfitto l’Armata Rossa prima e gli U.S.A. adesso. Quegli USA che lasciano in eredità non la democrazia esportata, ma un arsenale di armi ai loro nemici. Cose da pazzi! Che lasciano il popolo afghano al suo fatalistico destino, lasciano che i bambini rivalichino il filo spinato in mezzo alla polvere, lasciano che gli aquiloni non possono più volare. Missione compiuta? Missione finita. E l’ISIS? Il motivo per cui erano laggiù. L’ISIS sterminata con la cattura e l’uccisione di Osama Bin Laden mai mostrata o, se vogliamo, sempre nascosta. L’ISIS vuol dire Arabia Saudita, non Afghanistan, ISIS vuol dire Qatar e Israele. Se parliamo di terrorismo islamico dobbiamo parlare di Nasser Al Saed, scrittore saudita che già dalla fine della Seconda guerra mondiale, iniziò a denunciare i Saud per avere aiutato Israele, non muovendo un dito, ad espellere i palestinesi dalle loro case. Successivamente Al Saed dimostrò come le origini saudite fossero in realtà ebree dopodiché sparì. Rapito in Libano dai Sauditi e poi buttato giù da un aereo. Però la colpa è dei talebani, buoni a passar da capro espiatorio a vantaggio dei sauditi che nessuno tocca né intacca i loro legami controllati dal clan sionista. Sarà un caso che i tagliagole non hanno mai sfiorato sauditi e Israele? Israele che fa guerra all’Iran. Israele che ammazza e dissangua la Palestina. Israele che occupa e si (auto)elegge popolo eletto. Israele che perseguita. Israele che per tutti è perseguitata. Israele compagna e moglie dell’Amerika, quell’Amerika sionista che ha alzato le mani in Afghanistan, lasciando campo libero alla Cina. Quell’Amerika cinese proprietaria del laboratorio di Wuhan. Da cui tutto ha avuto origine e che ha permesso ai politici vacanzieri di creare questa emergenza. Che è stata la fortuna di tanti, di tutti. Inventati, infettati, mescolati, ripescati, riciclati, sempre loro. Sciatti, finti, venduti, comprati, servi. Come la nostra Italia in mano a loro. Come la libertà che tentano di propinarci, che in realtà non è che la concessione che si fa allo schiavo il giorno della festa.

LE 53 GIOVANI VITE SPEZZATE DEI NOSTRI MILITARI CADUTI IN UNA GUERRA INUTILE E SANGUINOSA: Offende oltremodo la repentina ritirata deli americani e degli alleati occidentali

La notizia arriva in una serata rovente di un ferragosto strano, privato del suo significato e della sua essenza: sul palazzo presidenziale di Kabul è stata ammainata la bandiera rossoneroverde della repubblica islamica ed è stato issato il lugubre drappo dei talebani. La notizia si rivelerà poi una bufala, come se la gravità del fatto non bastasse già da sé ad attirare l’attenzione e fosse necessario ricercare lo scoop o calcare la mano. Ciò che, invece, è una realtà che non si cambia è che questa notizia l’ha ascoltata la madre di Giuseppe La Rosa, 31 anni e primo militare italiano a morire in Afghanistan, nella provincia di Farah. L’ha vissuta la mamma di Giovanni Bruno, caporalmaggiore 23enne, ultimo a tornare avvolto nel tricolore da laggiù. E come loro ha trafitto l’animo delle altre 51 mamme, delle altre 51 famiglie dilaniate in vent’anni da altrettanti lutti. I loro figli caduti nell’adempimento del proprio dovere, caduti perché credevano in ciò che facevano, caduti e oggi reso vano persino il loro estremo sacrificio.
La notizia viene data dalla giornalista della CNN in abaya – il velo afgano che copre i capelli e il collo lasciando scoperto il viso – e immediato sale vibrante il coro monòtono e monotòno: tutti a gridare alla libertà delle donne che ha il sapore della polemica trita e ritrita ogni qualvolta un convoglio battente il tricolore veniva colpito a fuoco e cadevano, abbattuti, i nostri militari.
Polemiche, accuse, cordoglio, funerali in pompa magna, magari in diretta, ottimi per la passerella istituzionale, Ripensamenti di circostanza e poi di nuovo un altro alzabandiera seguito dall’ammainabandiera tra le strade polverose di Kabul, di Farah, di Herat.
Man mano che iniziavano a familiarizzare con nomi quali Camp David, base avanzata, lince, rullista… già perché ogni mamma, padre, moglie o figlio “sapeva” che il “loro” soldato laggiù sbrigava pratiche di ufficio, era impiegato presso la base e non usciva in pattuglia. Per evitare polemiche, preoccupazioni, pensieri.
Gli Italiani in quella parte di Asia hanno costruito pozzi, ponti, scuole, hanno distribuito derrate alimentari e assistito la popolazione e il solo caduto civile in un conflitto a fuoco dimostra che esiste un italian style anche nel combattimento. Quel combattimento che non era nostro, quella guerra fatta per (ri?)stabilire la pace, quell’impegno assunto perché siamo “parte integrante della NATO”. E così, mentre i nostri militari laggiù erano impiegati in una “missione” di pace e di istruzione ( il neologismo ipocrita con cui (non) si USA e osa definire  guerra)  attraverso cui sono stati apprezzati dalla popolazione locale e si guadagnavano la fiducia e la riconoscenza degli “occupati”, gli ideatori a stelle e strisce della stessa missione combattevano il terrorismo islamico e il fondamentalismo religioso in un territorio che, sottoposto al loro “attento controllo”, raddoppiava, triplicava, incrementava esponenzialmente la produzione di oppio fino a diventare il primo Paese al mondo per la coltivazione di quel prodotto trasformato poi in eroina e morfina.
Cosa resta oggi degli insegnamenti alla popolazione locale dei nostri 53 ragazzi morti anche per loro? Quale introvabile altare visiteranno gli orfani degli immolati? Italiani che nel caldo asfissiante e polveroso, tra un tramonto mozzafiato e un’alba troppo giovane hanno insegnato alle locali forze di polizia il controllo del territorio, l’istruzione, il sacrificio, oggi ripagati con le immagini delle colonne di mezzi militari abbandonati sul ponte al confine con l’Uzbekistan dall’esercito americano in fuga. Quale il significato dei soldiers in ritirata che passano correndo davanti ad uno stranito militare che ha tutta l’aria di essere un nostro Carabiniere, che ancora imbraccia la sua Beretta Pm12? Strano modo quello di ripagare la sofferenza e il sacrificio dei lunghissimi e rinnovabili centottanta giorni di permanenza in territorio straniero – che poi non sono mai tali, perché il cambio non arriva mai puntuale – con militari e diplomatici saliti sui tetti per guadagnarsi il loro posto nel fuggi fuggi a bordo di un elicottero. Siamo lì per aiutare la popolazione locale – così dicono – che lasciamo dopo vent’anni abbandonata al loro destino. Che lasciamo nelle stesse condizioni di prima. Se non peggio. In mano ai talebani. O ai tagliagola dell’ISIS. Siamo lì per esportare la democrazia – ci dice l’Amerika – la sua demokrazia, per un profondo senso della giustizia e della libertà, proprio noi che siamo diventati l’Italia di Palamara. Proprio noi parliamo di libertà che siamo sottoposti silenti, dormienti e consenzienti alla folle imposizione liberticida del green pass. Cosa direbbero i 53 soldati caduti a vedere ridotta così la loro Patria, diventata ormai solo una brutta parola?
Dov’è il bastimento equipaggiato dei Boldrini, dei Del Rio, dei Letta, degli Zan che salpa repentino per andare a parlare di libertà ed emancipazione ai tagliagola del nuovo califfato islamico? E prima, hanno chiesto alle donne locali se non è un’imposizione togliere loro il velo in casa propria? È questo il frutto del nostro impegno di uomini e risorse economiche. Questo è il traguardo raggiunto dopo vent’anni. Che non sono certo un Ventennio! In vent’anni il mondo è cambiato, ma a non cambiare sono stati i talebani. Che piedi scalzi e barba in faccia hanno lottato e sconfitto la Russia prima e l’America dopo. Da umili pastori. Senza tecnologie e senza l’industria bellica dai grandi capitali. Il mondo è cambiato e la “cortina di ferro”, che ha gli anni della NATO, ha un nuovo fronte. Che è quello cinese. Che proprio USA  e UE troppo spesso sottovalutano o dimenticano addirittura. Quella UE ridotta a grande ONG, buona sola per i migranti. Quella Italia che sarà il corridoio umanitario attraverso cui passeranno anche i tagliagola, i terroristi, i fondamentalisti. Che, se non sosteranno, di certo non si limiteranno solo a passare. Forse è il caso di riconsiderare il nostro impegno nella NATO e nella UE, forse è il caso di impiegare finalmente i nostri militari per la difesa dei sacri confini della Patria, dell’Italia. Solo così un sacrificio non sarà vano nè vanificato da altri. Che è l’atto peggiore. Forse andrà considerato che non si possono servire due padroni: obtorto collo, siamo colonia dal 1943 e oggi non possiamo inventarci partner commerciali della Cina che compra l’italia a pezzi, facendoli scivolare su quella Via della Seta che è la corsia preferenziale per portarci la guerra in casa. Mentre i nostri militari vengono impiegati a fare la caccia a chi la domenica mangia gli arrosticini, piuttosto che andare a interrompere la Santa Messa. Quei militari che manganellano i loro stessi connazionali che si battono per la privazione dei diritti. Anche di quelli in divisa. Che si indignano ugualmente, pur non indossando l’uniforme, quando li vedono mangiare sulle scale della mensa con il rancio consegnato in un sacchetto di carta. Forse i talebani non stanno solo in Afghanistan, dove per adesso hanno promesso un passaggio di comando deciso, ma incruento, hanno aperto al diritto di istruzione per le donne e altre libertà che, oggi in Italia, non sono più così scontate. Manterranno le promesse? Vedremo. Ciò che, al contrario, non rivedremo più sono i 53 militari che a Kabul, a Herat, a Farah ci hanno lasciato la vita. Che l’Italia ha dato loro. Che i governanti di questa Italia  sciatta e senza dignità hanno strappato loro!

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CONTE CORRE SOLO E VINCE

E anche le Olimpiadi ce le siamo tolte dalle scatole. Peccato per i politici che adesso dovranno tornare a postare la nutella piuttosto che il memorandum con le pagine ancora tutte linde e immacolate, giusto per non far capire agli Italiani che, in un periodo di emergenza (di due anni!) il Parlamento e il governo chiudono per ferie per un mese e più.
Gli stessi politici, novelli e pischelli semi poli-ttici e polli-ttici per amore dell’ibrido e del meticciato, che hanno avuto la faccia tosta di esultare e gioire per ogni successo – loro preferiscono il termine su-ccesso perché “vittoria” è gergo tipicamente fascista, nazionalista e discriminatorio nei confronti di chi è arrivato secondo, ops… vale argento, su-ccesso meglio si adatta a loro – sono gli stessi che hanno chiuso le palestre perché hanno catalogato lo sport quale attività non necessaria.
Abbiamo assistito agli europei di calcio più politicizzati della storia, di quella storia manipolata che non saprà che il 2021 ha recuperato le manifestazioni sospese l’anno prima, tra inginocchiamenti e cadute che però non c’entrano col vairus, quindi non potevano non politicizzare le Olimpiadi. Che hanno fermato le guerre – solo Di Maio non sa cosa sia la ekechiería, letteralmente “le mani ferme” che non è un un consiglio a Grillo jr. di cui nulla più si sa, bensì si tratta della tregua olimpica – ma non è riuscita a fermare il vairus.
Il vero vincitore dei giochi, rivelatesi autentici gioghi per gli antitaliani autoctoni, è stato lo ius sanguinis, che costoro vogliono tramutare in ius soli, nonostante la fiera appartenenza italica ribadita dai diretti interessati. Così un nero con la cittadinanza italiana, che ha rinunciato alla doppia cittadinanza americana, nato da mamma (si può dire, vero?) italiana, nato, cresciuto e pasciuto in Patria, che per tutti italiano lo è sempre stato, è diventato italiano nero per quelli che dicono che nero non esiste.
E, di conseguenza, ci siamo anche dovuti subire la portabandiera nera, magari omosessuale, italiana, che è solo l’ultimo aggettivo atto a identiFICArla (si scrive proprio così), photoshoppata a tre metri sopra al cielo tanto da essere invidiata dai disegnatori giapponesi ideatori degli eterni salti di Mila Azuki e i kilometrici dialoghi nel colpo di testa tra Holly Hutton e Mark Lenders messi insieme!
Atleti nostrani vestiti di bianco come tanti spermatozoi e con un grosso tricolore circolare sulla stomaco. Indigesto.
Persino il CONI multietnico si è stupito di record mai conseguiti prima, eppure i giornali prezzolati hanno dimenticato di segnalare una nuova specialità, appena ideata e già portata a casa.
Si tratta della maratona in solitaria, la lunga corsa che ha visto spuntarla ancora una volta ad un italiano. Un uomo del sud, appulo, pugliese-romano, nazionale. Uno che ha scoperto il caporalato in Puglia quando era a Roma, dai modi sì fini ed eleganti tanto da correre con la pochette e ringraziare con la erre moscia e la zeppola in bocca. Uno così regale, dall’estrazione patronimica araldica unita ad una umile origine nazional-popolare: Conte Giuseppe. Un campione anche con la testa, preparatissimo al punto da essere persino stato in prestigiose università che non lo hanno mai visto. Il che fa curriculum. Lungo lo fa. Come il naso. O, forse, è il dono dell’ubiquità, merito di Padre Pio che sente vicino. Solo geograficamente. Infatti Padre Pio è serio, è santo e non scherza con i conti.
Ebbene costui, dopo essersi inventato premier, primo ministro in pecore, in doppio pectore e tante pecore, dopo essersi trasferito a Palazzo Chigi nonostante il suocero possedesse un albergo manco a dirlo condonato e graziato, ha trovato l’umiltà di approntare un banchetto in piazza Montecitorio, appena sfrattato. Una persona cristallina e trasparente che si può vedere persino Rocco CasalinA dietro. Il che ha i suoi rischi. Presidente della commissione per la delibera dei banchi a rotelle e avvocato, professore che si è portato a collaborare un suo assistente di cattedra elevandolo a Guardasigilli: “un reato quando non è doloso e colposo” disse Fofò. Una massima entrata di diritto negli annali. Un po’ come “se mi sbalierò, mi corrigerete” ma meno umile. Un accostamento come Gorbaciov e Cicciolina, dopo di cui anche Amleto ha sciolto i suoi dubbi. Ha sciolto pure le catene dei cavernicoli di Platone e se ne sono andati tutti a casa.
Ebbene quello che è stato definito la plastica rappresentazione della politica, dopo lo scarso, lo storto, lo Zero, la rappresentazione compiuta del vuoto, il vuoto, il dpcm in persona, un conte così vanesio da soffiare il posto persino alle congelate signorine-buonasera, uno che è stato mercenarizzato da Grillo, dragoni & ko. e rifiutato dal pd che ha sempre votato in piena crisi di identità tanto da inventarsi Carola Rachete e Fedez, alla vigilia della manifestazione di chiusura delle olimpiadi giapponesi ci ha regalato la svolta avvocatizia: Giuseppe Conte ha corso da solo per la presidenza del MoViMento e ha pure vinto! Un’altra merdaglia olimpionica, un su-ccesso di cui sopra e a 5 stelle. A 5 punte. Concentriche, concentrate e concertate.

VIA AL GREEN PASS

Ed eccoci giunti alla fase successiva dell’esperimento sociale, quella della certificazione verde, il lasciapassare per andare a far la pipì al bar inventato dagli stessi personaggi che urlano e latrano un giorno sì e l’altro pure che non esistono barriere e che i confini non esistono. Che poi sono gli stessi che cianciano in nome della libertà e defecano una proposta di legge alla Camera per adottare Bella Ciao quale canzone (proprio così hanno scritto) della libertà. Che poi sono sempre gli stessi che parlano di libertà ma guai a dissentire dal loro pensiero unico che è quello di distruggere il diverso, da loro ovviamente e lottano contro la discriminazione attraverso una porcata come il ddl zan che è tutto tranne che tutela della diversità. Che sono sempre gli stessi che ti invitano a vagginarti perché ti vogliono bene, ma che belano di aborto fino al nono mese succhiando il cervello del nascituro con una canula, che anelano la legalizzazione dell’eutanasia e che difendono chi la morte la vende già in vita. Magari con la scusa di scappare dalla guerra e che poi non si fa scrupolo alcuno a scannare e squartare una ragazzina mettendola in due valige.
Se ci avessero anticipato solo lo scorso anno ciò che stiamo vivendo avremmo detto che tutto questo sarebbe stato fantascienza, che non sarebbe mai potuto accadere e che era roba da complottisti. Ma lo scorso anno ci dicevano di stare a casa ché tutto sarebbe andato bene. Sì, per loro. E per quelli come loro. E non mi riferisco al fatto di non potere andare a magiare una pizza piuttosto che non andare al cinema. L’anno scorso lo hanno vietato loro, almeno quest’anno scelgo io di non andarci. E per un solo motivo: perché la certificazione verde è un insulto all’intelligenza dell’essere umano.
Un documento (?) che tratta dei dati sensibili da esibire a chi non è deputato al controllo, che va accompagnato al documento d’identità che un ristoratore non può chiederti perché è compito delle FF.OO. che, però, non possono controllare la certificazione di avvenuto vaggino o di tampone negativo.
Che capolavoro di incapacità!
Con queste premesse vivremo il nostro primo giorno d’apartheid, dove gli ubbidienti alle disposizioni, che sono tutt’altro che sanitarie andranno a pranzo fuori e rischieranno di mangiare in compagnia del condizionatore perché l’ultimo posto all’aria aperta se l’è fregato un no vax. Che magari è solo un dissenziente. Termine inesistente nella narrazione pandemica, forse non compresa nella mazzetta di governo che affronta questa pandemia, questo problema sanitario con soluzioni economiche facendone però una questione politica. Si assuma la responsabilità la politica, obblighi al vaggino assumendosene la responsabilità, ma non partorisca demenze come questa della certificazione verde che è una “primizia” geni(t)ale per tornare all(a)normalità, un provvedimento in cui sono insite delle restrizioni in nome della libertà, il solo mezzo per una ripresa economica del Paese – loro l’Italia la chiamano così – dimezzando, se non riducendo ulteriormente, i clienti nelle attività di commercio. Che poi questi clienti che dovrebbero affollare ristoranti, cinema e musei sono quelli che hanno paura persino di respirare, che si sono chiusi in casa senza storie e che hanno accettato di poltrire sul divano davanti al grande fratello, mentre ingurgitavano kebab o il sacchetto del Mc Donald’s, convinti che stavano salvandosi la vita.
Se costoro saranno i prescelti a non ingolfare gli ospedali, come ci raccontano i giornali in questi giorni, c’avranno visto bene, il vaggino ha vinto, i non vagginati saranno intubati; se, invece, come trapela i degenti sono per lo più i vagginati, é acclarato che il siero va “migliorato”: in entrambi i casi quale sarebbe l’utilità, il vantaggio, il significa(ca)to della certificazione? È complottismo anche porsi delle domande? Quale reato si configura per chi pensa male di questi sciacalli di palazzo? Che ci vogliono così bene da volerci salvare a tutti i costi la vita, ma non ci obbligano a far ricorso all'”unico strumento” per debellare il vairus. Perché loro il vairus lo vogliono debellare, vero?
E siccome le buone azioni si fanno in silenzio, dall’inizio di questa settimana, governo tacito e opposizione silente, hanno aperto allo scannatoio fiscale per riscuotere le quote non versate dai contribuenti che sono stati in difficoltà e che magicamente, dopo diversi confinamenti (questo significa letteralmente lockdown) domiciliari che per alcune categorie non è mai cessato, adesso saranno in grado di versare quanto dovuto. Più gli arretrati. Però, a pensarci non dovrebbe essere difficile mettere su una stamperia di cartastraccia come hanno fatto loro a Francoforte sul Meno! Altrimenti si può sempre racimolare danaro in casa per andare a comprare a strozzo quello battente straccio azzurro con stelle gialle, anziché produrlo nella nostra zecca a costo zero. Che poi questo è il vero lavoro in cui riesce ottimamente quel signore che finge di fare il presidente del consiglio dei ministri!
Aumenteranno così disoccupati, aumenteranno le aziende costrette a chiudere e aumenterà la svendita della Nazione che era quarta potenza mondiale, che uscì dalla crisi del ’29 e vinse sfide come vaiolo e spagnola. Debellandole. Però, se guardiamo al passato siamo capaci solo di leggere Manzoni che parla della peste, ma non di ricordarci che lo stesso Manzoni ha scritto che “liberi non sarem se non siam uni” piuttosto che imparare da Tucidide quando ci ha tramandato che “non la peste, ma la paura della peste distrusse Atene”.
Ed ora avanti con la guerra tra i poveri issando il vessillo dei privilegiati, soggetto a ritiro e prima che scada.

DE LUCA UNO E TRINO : della serie, due mandati non mi bastano più!!

 

Uno, due e… te. No, non è una conseguenza del meriggiare pallido e assorto di questa rovente estate virale, nessun effetto di una qualche botta di calore, ma l’ultimo sogno deluchiano, vaneggiato, coltivato e addirittura reso pubblico!
Il presidente della Giunta Regionale della Campania Vincenzo De Luca, direttamente dallo scranno di Palazzo Santa Lucia dove ha sede il “suo” personale megafono col gonfalone, ha reso noto di pensare alla possibilità di un terzo mandato alla guida della regione più importante del Mezzogiorno. Ma come, se esiste il vincolo di mandato? La soluzione è semplice: se la legge per i nemici si applica e per gli amici si interpreta, per se stesso si cambia addirittura!  Ad personam, per dirla con un linguaggio finora utilizzato  dagli stessi soggetti per detestare, riconvertito in per restare.
“E sì – ammette candidamente (e pure senza vergogna) il governatore col lanciafiamme – non facciamo né più né meno di ciò che già avviene in Veneto e in altre regioni”. Proprio lui? Colui che si ergeva a paladino per il resto della Nazione, il modello di cui si poteva e si doveva solo essere e-muli, quello che era nato per tracciare e illuminare la strada agli altri, adesso sostiene di copiare da quel nord a lui tanto inviso? Sì, proprio lui : carne, spirito ed ossa. Gli interessi prima di tutto. E se c’è la possibilità di guadagnare – in senso lato, ma anche no – chi se ne frega di idee e principi, di morale e di valori: copiamo! E che terzo mandato sia!
Ma la gente, il popolo, gli elettori cosa diranno? Nulla! Saranno contenti di ridare la fiducia a chi col covid, pandemia mortale, è risorto (politicamente)? Non potranno dire nulla loro, perché l’elezione del Presidente della Giunta Regionale spetterà poi all’assemblea, in questo caso al consiglio regionale. E con diciannove liste a lui collegate, una sanità, di cui egli riveste la carica di Commissario Straordinario di Governo, completamente deluchizzata, concorsi e promozioni ad hoc, chiamate per direttissima conoscenza e riconoscenza (De Mita jr. è solo l’ultimo dei casi ecla-tanti) a cosa servirebbe più l’elettore e il suo voto? Uno vale uno! Ma mica uno qualunque. Questa è l’Italia del vincolo dei due mandati di cui il primo è quello zero che non si conta! E lo sceriffo in quanto a contare è uno specialista: pensiamo ai posti letto in degenza e terapia intensiva, tanto per rimanere nella stretta attualità: i posti lievitavano di giorno in giorno, Vicienzo quotidianamente compiva “mira-culi” non sottraendosi al proselitismo urbi et orbi, ma chi orbo (e De Luca) non è, si accorgeva che il miracolo sciorinato avveniva cambiando solo le parole. Perché a questo ormai è stata ridotta l’arte sacra della politica: a parole, a chiacchiere, a pura demagogia da perenne campagna elettorale.
Così, mentre i campani rischia(va)no di non campare col covid, lo sceriffo si divertiva a tramutare i posti letto da attivati in attivabili, da disponibili in ipotetici. Una truffa! Consumata sulla pelle dei cittadini, dei contribuenti, dei cristiani tutti. Un atto di sciacallaggio puro. Nei confronti del popolo e in beffa alle Istituzioni Alle quali non rimaneva che affibbiare i colori della contagiosità delle diverse regioni, come bimbi che giocano con i gessetti colorati reggendo il gioco – in tanti casi giogo – a De Luca. Si proprio lui, divenuto nel mentre maschera e macchietta di se stesso. Recitando la nenia di colui che é scontento per il colore non gradito. E continua(va) con ogni mezzo a beffarsi dei cittadini inasprendo le misure restrittive per il bene comune, ma che in realtà erano solo tranelli per evitare, se la situazione fosse precipitata o precipitasse, di far venire a galla i tanti imbrogli “operati” in (e ai danni di) quella sanità “straordinariamente” amministrata che, in realtà, ha più buchi di un colapasta. E che finisce per rappresentare il vero pericolo per i malati. Quel comparto distrutto in nome del profitto e che, se anche ci fosse stato un qualcuno che, pur lucrando, avesse tenuto a cuore la salute pubblica, avrebbe potuto rilanciare davvero la Campania, creando infrastrutture, assumendo personale, creando occasioni concrete per uno sviluppo decente e possibile. E invece no! La Sanità Campana vive solo di indagini delle Procure, la Guardia di Finanza sale e scende dai palazzi delle ASL, le gare d’appalto sono più fasulle e truccate di sempre !! Purtroppo tutto ciò non è stato capito dal 70% dei campani o si finge di non capire.
Si pensa in grande, dunque, in Regione, idee e progetti a lungo termine, tanto che non basta pensare a far bene in questo quinquennio, le cui premesse dei cinque anni precedenti non sono delle migliori, ma addirittura si pensa di qui a dieci anni. “Tanto la salute c’è” ha detto Vicienzo. Tuttavia e per prudenza “la modifica allo statuto meglio farla già entro l’anno”. Un terzo mandato, dunque, per continuare ad operare miracoli, da sanità a santità, cosicché poi dovremmo sentirci spacciare anche il panegirico del Presidente uno e trino. Secondo lui. Di vedere triplicati i danni secondo “gli altri” , in vero sempre più numerosi, ma altrettanto impauriti dallo strapotere minaccioso del Gran Capo salernitano.

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BRUSCIANO celebra il suo eroe di guerra con un atto che sa di rivoluzionario !!

È stato inaugurato ieri mattina a Brusciano il murales intitolato al Sergente pilota Giovanni Esposito, eroe della Guerra d’Africa, caduto in battaglia nei cieli di Dessiè in Etiopia il 15 febbraio 1936.
Il pilota bruscianese fu “decorato al valore con la medaglia d’argento del Nastro Azzurro” e ricordato quale pilota ardito, entusiasta, esempio fulgido di volontarismo in Africa Orientale. In numerose azioni, affrontava tutti i rischi pur di raggiungere risultati pari alla sua fede di combattente. Il suo aereo (un Savoia Marchetti S.81) precipitò per cause ancora sconosciute, probabilmente in seguito ad un attacco e, nel tentativo di atterrare e salvare la sua vita e quella del suo equipaggio, trovò la morte con i suoi camerati” dell’equipaggio. E’ quanto si legge nel comunicato a suo tempo diramato dall’Arma Aeronautica e ripreso dall’Associazione “La Cima” che ha ideato, fortemente voluto e realizzato l’iniziativa.
A lui è già dedicata l’arteria principale del suo paese, ma in tanti, grazie all’encomiabile lavoro di questi ragazzi, hanno potuto conoscere chi fosse davvero questo eroe dimenticato.
Numerosi sono stati gli astanti che, fieri, nel corso della manifestazione, hanno ringraziato l’Associazione “La Cima” per aver riportato alla luce questa storia del loro illustre compaesano finora taciuta o addirittura sconosciuta. Un sussulto di orgoglio e di appartenenza, di legame con il paese vesuviano, proprio come testimoniato dallo stesso Giovanni Esposito il quale era solito passare a volo radente i cieli sopra Brusciano per “salutare” il suo paese. Un particolare suggello a testimonianza del suo legame con il paese natale, dove lasciava cadere anche un fazzoletto profumato in dono per la sua promessa sposa, mai più salita all’altare dopo la morte del suo amato Giovanni.
Il murales che ritrae il volto del sergente pilota bruscianese in compagnia del suo aeroplano, in un tripudio di colori, incorniciato dall’immancabile tricolore sullo sfondo di cieli solcati, è opera del locale artista Pasqualino Mocerino.
Commovente anche la cerimonia, al suono di una tromba che ha intonato il Silenzio fuori ordinanza e l’Inno d’Italia, tra gli scroscianti applausi della cittadinanza commossa e lo sventolio del tricolore.
Un vero atto rivoluzionario quello compiuto dall’Associazione “La Cima”: viviamo i tempi del Black Live Matter, dove appartenenza e radici vengono estirpate in nome di un politically correct che più irrispettoso non si può. Dove i monumenti e le vestigia dell’antico splendore, ma anche del pensiero non non uniformato a quello imperante vengono imbrattate con la speranza di cancellarle. Ma a Brusciano, con una maestosa creazione artistica, viene glorificato un “proprio” eroe caduto per difendere la propria Patria fuori i confini nazionali. Dove “proprio” è da intendersi non in quanto bruscianese, o non solo bruscianese, ma della Patria, dell’Italia intera. Quella difesa, glorificata e resa sacra attraverso il dono della vita.
Un esempio di spirito di abnegazione per le generazioni presenti e quelle future, uno sprone a conoscere ciò che eravamo per marcare la propria identità e proiettarla nel futuro, (re)stando «Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!…»

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