OGGI SONO STATO ANCH’IO AL PARCO VERDE DI CAIVANO

Oggi l’Italia tutta si accorgerà di Caivano e del suo Parco Verde. Il circo, in realtà, è già iniziato prima ancora che iniziassero le visite onorevoli ed ufficiali. Lo ha inaugurato, manco a dirlo, Vincenzo De Luca che è già in campagna elettorale e che continua il suo demenziale, vituperevole show dicendo stavolta di voler militarizzare l’area (l’eterno ritorno della strategia del lanciafiamme), in modo da non consentire ai camorristi nemmeno di respirare; prenderà parte, volente o mente, Giorgia Meloni che sarebbe diventata la vittima sacrificale qualunque azione (non) avesse compiuto: se avesse calcato il red carpet steso da don Patriciello, il parroco degli ultimi, allora sarebbe andata a fare passerella; non avesse accettato, allora se ne sarebbe fregata e sarebbe passata quale da borgatara imborghesita menefreghista. Che ci sarà di male a essere di borgata, chissà; poi ci sono quei personaggi non in cerca d’autore perché un autore ce l’hanno già che, nell’occasione, da veri dementi, contestano la Presidente del Consiglio, alla quale hanno diretto anche minacce di morte per aver abolito il reddito di cittadinanza che, invece, serv(irebbe)e a vivere. Che poi non è un proprio così perché gli over 60 continueranno a percepirlo, ai disabili saranno garantiti dei benefit, chi ha perso il lavoro potrà fare fede su degli ammortizzatori sociali, eccetera. Ma tutta quella feccia di disoccupati organizzati – organizzarti per tutto, tranne che per il lavoro – con le mogli vajasse al seguito chiede “lavoro e dignità”. Perché se loro in qualche modo “a Napoli arrangiano sempre”, la dignità deve essere restituita loro dall’alto. Regalata. Che dignità è chi lo sa.
In tutto questo marasma – in cui ce n’è anche per il compagno, pare, di nome e pure di fatto, della Meloni, riconducibile a lei solo per il loro legame e che si è scoperto essere il peggiore dei cristiani pro tempore per aver detto una cosa alquanto ovvia e pure scontata – De Luca ci sguazza e fa pure da capopopolo. E se non ha ancora invocato anche lui Vannacci è solo perché se lo è già accalappiato la Lega. “Lo stato è assente” è il nuovo must di masto Vicienzo. Ed è vero perché l’antistato si insinua laddove lo stato non c’è. Ma chi è questo stato? Non siamo tutti noi lo stato? Non è forse anche De Luca lo stato? I De Luca boys sono già scatenati in difesa di chi fa loro sperare di poter beneficiare del cosiddetto ‘Sistema Salerno” e rilanciano che l’ordine pubblico spetta al Viminale. Sarà per questa ignoranza dell’esistenza della figura del Prefetto che nel borgo Sant’Antonio successe quel popo’ di roba in occasione dell’accensione dei tradizionali fuochi a gennaio scorso? Lo Stato non significa certo (solo) la forza armata. Lo stato non è nemmeno la Chiesa! Può piacere o meno, ma tal Vittorio Brumotti, inviato del tg satirico Striscia la notizia, quando dà spettacolo a bordo della sua bicicletta, dice una cosa sacrosanta: “Riappropriamoci dei nostri spazi, riprendiamoci ciò che è nostro”. Se serve la Forza Pubblica – con i grossi limiti che proprio lo stesso stato (im)pone – è proprio perché questi posti sono stati abbandonati. A loro stessi e, quindi, all’antistato. Vuoi che il Presidente della Regione Campania non sappia che il Parco Verde di Caivano è solo il succedaneo delle piazze di spaccio di Scampia? Lo sa pure Brumotti!
Chissà se Brumotti sa, però, che quando si creano spazi alternativi nelle periferie invivibili, come la palestra Napoli Boxe a Montesanto che ha letteralmente strappato tanti giovani alle grinfie dei clan, il Comune, lo Stato, le Istituzioni, notificano ordini di sfratto senza se e senza ma. Che, tuttavia, esiste una fitta rete solidale di volontari che si impegnano e ci mettono la faccia sempre, anche quando microfono e telecamere sono rivolt(at)e altrove.
Chissà se il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara sa che il suo provvedimento d’occasione (e la sua cultura da centro sociale) destinato, tramite i Presidi che non sono altro che Dirigenti per la buona scuola, alla scuola superiore di secondo grado è del tutto inutile in contesti come quello di Caivano, visto che gli autori della doppia violenza hanno 13 anni e frequentano (?)sì la scuola secondaria, ma di primo grado. Ovvero in quella età in cui le prime pulsioni sessuali sono già belle che attive.
Meloni – e chi per lei – De Luca, Valditara, il Prefetto rappr-esentano lo stato nelle regioni, nelle province, nelle città.
Eppure al Parco Verde la violenza consumata è venuta alla luce grazie al coraggio della denuncia. Quindi, nonostante l’assenza dello stato, con tutto ciò che comporta l’antistato, c’è ancora speranza, c’è ancora coraggio e c’è ancora chi si ribella. Così come non è tutta merda ciò che sta a Scampia.
Dopo oggi, oggi stesso tutti andranno via, i riflettori pian piano si spegneranno, i ragazzi – soli – diventeranno adulti e i bambini adolescenti. Nessuno, però, parlerà di loro, dei restanti, dei restii perché la vittima è stata allontanata (pure? E i carnefici?). Lontano come lo stato, che è già andato e che torna ad andare via. Di nuovo. Ancora. Per ciò che è stato. E quello stato che non è più. Né più, speriamo di no, sarà.

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“INUTIL(IZZABIL)E” ANCHE L’OSPEDALE DI MERCATO SAN SEVERINO: GRAZIE DI CUORE, DE LUCA!!

Dovrà impegnare un bel po’ la scrittura della legge ad personam che dovrebbe permettere a De Luca di candidarsi per la terza volta consecutiva, trasformando così un suo capriccio in realtà e tragedia per tanti campani, se ormai è così preso da non riuscire più nemmeno a guardare ad un palmo dal naso.
Più volte dalle colonne di questo giornale abbiamo dato notizia dei numerosi esposti presentati nelle sedi opportune per denunciare le malefatte dello Sceriffo, fino a fare di questo giornale il polso della (di)gestione sanitaria (nel senso di “servizio igienico”) De Luca.
L’ultimo caso riguardava le condizioni in cui versa il più grande ospedale dell’intero meridione, il Cardarelli (https://www.camposud.it/lospedale-cardarelli-e-nel-caos-ma-per-il-governatore-de-luca-va-tutto-bene/marcello-taglialatela/) che avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello del “sistema De Luca”. Almeno a suo dire.
E, invece, le ultime deluchiate si consumano proprio nella “sua” amata Salerno, sempre più ombelico del mondo. Se finora la mannaia dello Sceriffo si era abbattuta sul Cilento, dove era possibile trovare le ambulanze senza personale medico a bordo – una sorta di noleggio di furgone con conducente che saremmo lieti Vicienzo spiegasse quale funzione emergenziale, sociale, utile possa avere – o anche il divieto di ricoveri presso l’ospedale di Eboli (SA), probabilmente il capolavoro non era compiuto. Serviva qualcosa in più, la ciliegina sulla torta. Non c’è due senza tre. Ed ecco servito quello che dovrebbe essere un nuovo scandalo, ma che in Campania e per chi conosce De Luca e il suo modus (non) operandi non meraviglia affatto: dal primo settembre di quest’anno, infatti, il nosocomio di Mercato San Severino non eseguirà più interventi chirurgici. Il motivo? La penuria di medici rianimatori. E non è tutto! Già, perché come se non bastasse già tutto questo, l’ospedale Gaetano Fucito non eseguirà nemmeno gli interventi chirurgici già prenotati. Magari da mesi, forse anche dall’anno, viste le liste di attesa della Sanità campana. Ma non potrebbe essere diversamente, altrimenti che razza di pazienti sarebbero!
È vergognoso che la distruzione del sistema sanitario pubblico – quasi pubico – si consumi in un territorio di vastissime dimensioni, di distanze spesso chilometriche che dividono due ospedali e in una dei posti più belli d’Italia, dove proprio questo (naturale) valore aggiunto fa sì che si riversi una grandissima percentuale di turisti e visitatori, aumentando esponenzialmente, in piena estate, la necessità di ricorrere alle cure mediche. Necessità non assolta e non assolvibile. Ma non si conosce il motivo.
Così oltre alle ambulanze senza medici, agli ospedali “a numero chiuso”, abbiamo pure gli ospedali che, potremmo definire, “politici”, ovvero che promettono e non mantengono gli impegni presi. E pensare che l’attuale Presidente della Regione Campania non ha mai voluto mollare ad altri la delega alla Sanità, alla stessa maniera in cui non vuol mollare lo scranno più alto di Palazzo Santa Lucia (guardaci Tu! Anche se da lui dovremmo guardarci noi).
Dove l’ha riportato una sciagura pandemica come quella appena vissuta e che, nonostante un’emergenza di tre anni che lui stesso avrebbe voluto prolungare in aeternum, non basta a giustificare, anche solo demagogicamente, lo stato dei luoghi che dovrebbero essere il fiore all’occhiello in una pandemia e la relativa e correlata penuria di medici e personale paramedico, nonostante il mega concorso, alle soglie delle elezioni, non fu congelato quando l’intero territorio campano veniva dichiarato zona rossa.
Ma un decennio è un tempo largamente sufficiente per fare ricredere anche il più sanfedista degli ingordi beneficiati dal “sistema Salerno”, il più bel manifesto dell’amministrazione dello Sceriffo da sciorinare in campagna elettorale: la verità sta nei fatti!

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Chi fa da sé fa per tre: ed è subito DeLucaLand

Napoli, 23 ago – È questa la politica che ci piace, quella dei fatti e non delle promesse. “La politica del fare” per dirla con il politichese. Detto-fatto: Vincenzo De Luca ha presentato la bozza della legge elettorale che darebbe il via libera al De Luca-Ter. La legge che prevede anche l’abolizione al limite dei mandati (non si sa mai che…) e ha abbassato la soglia di sbarramento al 3% o al 2% per le liste. Chissà perché ha presentato solo la bozza e non direttamente la legge in bella copia già bella e fatta. Già votata e approvata. Poi uno dice che la burocrazia in Italia… Solo perdite di tempo, ma come disse Qualcuno: “cosa fatta capo ha”. D’altronde De Luca lo aveva detto che avrebbe fatto quel che avrebbe voluto. Non c’è Schlein che tenga! Non c’è accordo politico o veto di partito che possa nemmeno lontanamente pensare di vietargli di salire per la terza volta (consecutiva) sullo scranno più alto del palazzo della Regione Campania. Poco (gli) importa pure se il Pd nell’ultima tornata elettorale a.c. (ante covid) nemmeno avrebbe voluto candidarlo.

Benvenuti a DeLucaLand

De Luca ne sa una più del diavolo: d’altronde il cosiddetto – dai giudici – “sistema De Luca” è così ben oleato e funzionante, almeno stando ai risultati, da non escludere proprio nessuno. Anzi, lui prontamente, da “avanguardia dura e spuria”, facendo leva sulla sua capacità di “immaginare il futuro” ha già chiamato a raccolta tutti i Presidenti di Regione, “orbi e tordi”, anche quelli di centrodestra – ma poi De Luca è veramente di sinistra? -, “anche quelli più timidi” affinché si coalizzino nella (sua) lotta contro “tutti i governi” per il riscatto del Sud. Peccato che De Luca dimentichi che il governo è uno solo ed è quello nazionale a cui anche la regione Campania deve uniformarsi e al quale anche lui è subordinato e non è quello contro cui combattere. Perché lo “Sceriffo”, in realtà, punta a coalizzare tutto il Centro Sud nella lotta – “antirisorgimentale” – all’autonomia differenziata in primis; in quella per accaparrarsi più fondi possibili destinati al Pnrr, in termini prettamente spiccioli.

Il riscatto del Sud per lui passa innanzitutto attraverso il doversi scrollare di dosso l’etichetta di “groppone dello Stivale”. E per farlo è disposto al tutto per tutto. Persino a stravolgere la sinistra storica: se Giolitti ebbe modo di dire che “per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano”, De Luca la legge addirittura la fa. Per sé. E chi fa per sé fa per tre. Mandati, appunto. Non c’è nemico Silvio che tenga! C’è ancora Silvio persino quando Silvio non c’è più. E i cittadini campani (e quelli campati da) di Vicienzo e del suo modo di am-minestra-re cosa dicono? Niente. E se stanno muti è ancora meglio. Loro mica contano? Hanno valore (elettorale) pari a uno. Ma pure questa cosa andrebbe rivista. Perché la sua è una lotta nobile per equiparare il Sud al Nord, per non creare differenze e per fare sì che tutti siano uguali, anche se qualcuno rischia di essere più uguale degli altri. Lui per primo. Per fregiarsi (o fregarsi) del titolo di Presidente-legiferatore. E, perché no di governat(t)ore del Regno del Sud. Che non si capisce ancora perché deve essere sud – nel senso di stare sotto, sottostare – a qualcosa che ancora si chiama Italia, quando, in verità, DeLucaLand andrebbe benissimo.

Tony Fabrizio

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ZUK CONTRO MUSK: CHI CI PERDE E’ L’IMMAGINE POSITIVA DELL’ITALIA!!

È bastato lanciare l’esca in rete che tanti pesci sono abboccati. Per carità, non parliamo di “modernità”, di pragmatismo, di pubblicità e di valorizzazione. E non buttate nel calderone pure la beneficenza che fa tanto politically correct e basta più. Una buona maschera da mettere a quelli che una faccia non ce l’hanno più perché non possono più mostrarla.
Dopo l’annuncio dei due re del mondo social, Zuckerberg e Musk, di volersi sfidare in un incontro di arti marziali, di tenere una challenge, forse così è molto più international, dopo l’impossibilità di utilizzare quale location nientemeno che il Colosseo, abbiamo assistito al meretricio politico più spurio, che ha valicato i confini della decenza, ha superato la soglia della dignità, ha calpestato spudoratamente persino il decoro. Da nord a Sud dello Stivale, da Verona a Taormina, da Firenze a Pompei è stato un vero e proprio “offrirsi” ai due americani, affinché la “città aperta” ad ospitare l’evento potesse accaparrarsi lo “storico” avvenimento. E come se non bastasse già tutta questa vergogna tricolore, la Campania fa di più, bissa addirittura, non lascia ma raddoppia: se il Sindaco di Pompei mette a disposizione dei due “colossi” social l’Anfiteatro di Pompei, con tanto di bacchettata da parte del Primo Cittadino della vicina Ercolano che invita i due a venire in Campania “per le idee e non per le botte”, immediatamente Mastella, da buon mastino, candida Benevento tra i papabili della scelta col suo – di Benevento, non di Mastella – teatro romano.
Il copione che recita la politica è unico, nel senso che è uguale da nord a sud, isole comprese, monòtono e monotòno. Il politichese perfetto, la demagogia pneumatica incartapecorita di united colors rossa, bianca e blu con le stelline: la pubblicità. La visibilità. Dopotutto abbiamo a che fare con un mondo, quello di Zuck & Musk, perennemente in vetrina. Pubblico. E, forse, pure pubico. Non pudico.
Davvero dobbiamo credere che serviva il “duo yankee” per conoscere e far conoscere nel mondo intero l’Arena di Verona – e, perché no, quella di Pola – Firenze, ma solo su modello Leonardo vs Michelangelo (Nardella evidentemente ignora il taglio romano che i due avrebbero voluto dare al duello), Pompei ed Ercolano, Benevento, Matera e Taormina?
Se tutti questi Sindaci, amministratori che non sono altro, la smettessero di comportarsi come dei novelli promoter, potrebbero davvero iniziare a pensare ai siti archeologici che (s)vendono, in termini di pulizia, salvaguardia, formerebbero personale qualificato, si batterebbero per creare infrastrutture e potenzierebbero i modi per arrivarci. Potrebbero fare di tutto, eccetto, però, assecondare i capricci di due miliardari che vorrebbero rendere i nostri siti archeologici unici al mondo per bellezza, storia, età, conservazione, significato dei meri parchi giochi. Accessibili solo a loro. Ignorando e prestandosi al gioco di mettere un prezzo a ciò che ha solo un valore.
I due, però, potrebbero non essere il peggio dell’intera vicenda. Peggio di loro ci sono i nostri (ahinoi!) rappresentanti, che si sono scapicollati per farsi notare, come delle banderuole al vento, che si sono inginocchiati peggio di uno sciuscià che ha più dignità ed ora che i due sembrano aver bleffato e sono in procinto di annullare l’incontro-evento, la pubblicità promessa all’Italia tutta e, alla fine, non promossa da nessuno, non rimane che un’immane figuraccia, la prova plastica della spina dorsale ridotta a cinquantunesima stella o quattordicesima striscia. Una dimostrazione di fedeltà coloniale ai limiti dell’imbarazzo per l’identità italica e l’orgoglio tricolore.
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Avellino, tra diritto allo svago e violenze in centro città

Avellino, 11 ago – Per chi se n’è accorto tardi o era semplicemente spensierato, com’è giusto che sia in una serata agostana, la scena è questa: un’auto piomba su un muro di gente in centro città e tenta di aprirlo a mo’ di testa di ariete. Ne seguono insulti e ammaccature con calci e pugni alla macchina, finché, sceso il conducente, ne nasce una scazzottata, ingigantita in rissa di 20 “pedoni” contro il solo conducente dell’auto-ariete. Entrano in scena sirene blu di Forze dell’ordine e ambulanze. Risultato: due giovani finiti in ospedale per l’investimento; indagini per accertare chi ha fatto cosa e perché; opinione pubblica divisa tra chi “tifa” residenti e chi si schiera a favore della movida. Movida a parte, poteva sembrare una scena degna della migliore Baghdad o immagini già viste come sugli Champs Elysees, ma siamo ad Avellino in un “normale” mercoledì sera d’agosto. E, forse, per trovare il bandolo della matassa bisogna partire proprio da qui: i “mercoledì del centro storico” organizzati dall’Amministrazione comunale guidata da Gianluca Festa che porta a riversare per le strade urbane una moltitudine di giovani, dall’aperitivo fino a tarda notte. Mattina presto, per i residenti che, attraverso numerosi esposti, fanno sapere di non reggere più la situazione, ormai insostenibile tra schiamazzi notturni, risse e gente che sporca in ogni dove. Il tutto in piena città, nel bel mezzo della settimana. Una trovata da parte del primo cittadino per (ri)animare la città che nel fine settimana è soggetta a esodo nella più vicina Salerno.

Avellino, tra violenze e diritto allo svago

Ieri sera, nello stesso giorno in cui un noto avvocato presentava l’ennesimo esposto a carico di un’altra persona che, nella centralissima piazzetta Kennedy, si è abbassato i pantaloni e ha urinato pubblicamente, come se si trovasse nell’ultima latrina della città più degradata della faccia della terra, si è sfiorata la tragedia tra chi stava esercitando il sacrosanto diritto allo svago e chi ha lo stesso identico diritto di rientrare in casa propria. Che però si trova al centro della movida e delle Ztl, queste non dipinte degli stessi colori dell’arcobaleno, come gli attraversamenti pedonali.

È possibile, però, che, vista la criticità e la recidività dei disagi provocati e, a questo punto, dei pericoli creati, da Palazzo di Città non è stata studiata alcuna soluzione alternativa? È possibile che Avellino, sempre più periferia di Napoli, deve conquistare gli onori delle cronache perché gli ultras della locale squadra di calcio irrompono durante i festeggiamenti per lo scudetto vinto dai partenopei picchiando liberamente chi altrettanto liberamente festeggiava o perché, lungo il centralissimo viale Italia, qualcuno esplode colpi di arma da fuoco in un “normale” sabato sera? Non dovrebbe essere difficile per un’Amministrazione capace di gestire la città come una Pro Loco o un comitato festa, che si gloria dei successi per il concertone di Geolier – a proposito: ma la rissa seguita dopo aver spruzzato dello spray al peperoncino c’è stata o no? È stato accertato il mistero o no? – come fosse stato gli eventi degli eventi, quando un’altra città confinante e altrettanto “provinciale” – e non nell’accezione negativa del termine – il concerto del rapper di Secondigliano lo inserisce in una serie di eventi, di ben altro spessore culturale, come Benevento Città Spettacolo? Che senso ha lanciare l’hashtag in Piazza della Libertà #lovellino, fusione delle parole “love” ed “Avellino”, in vista di eventi estivi e invernali che vedranno il culmine con l’Eurochocolate che si tiene, però, a Perugia, dove potremo scoprire che Avellino ha delle nocciole buonissime, ma che vengono lavorate in opifici non di Avellino? Servirà il turismo biancoverde e basta a portare gente in Irpinia quando questa terra ha delle potenzialità che sono inespresse in loco, ma valorizzate altrove?

Ma per dirla con il sindaco Festa (nomen omen?) che ha fortemente voluto la piattaforma digitale per promuovere le bellezze del territorio irpino e favorire lo sviluppo turistico: “Enjoy”! A protagonisti e spettatori dei fatti occorsi in città ieri sera l’ardua sentenza.

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LA TRISTE STORIA DI UN OPPOSITORE DELLA POLITICA STATUNITENSE: IL CASO EMBLEMATICO DI JULIAN ASSANGE.

Se facciamo un giro in rete ci imbattiamo in una moltitudine totale di pesci, ovvero personaggi che non solo non parlano, ma, a quanto pare, nemmeno sentono. Pezzi di intellighenzia, intellettuali e pseudocolti che hanno k(ili) di seguaci – followers non rende l’idea – e che seguono a loro volta, ma che non vanno in nessun luogo e che non portano da nessuna parte. Eppure costoro hanno un’opinione su ogni cosa, dalla cucina alla geopolitica, dalla sanità alla guerra. Penne raffinatissime, frecce e punte che dovrebbero essere pronte a scoccare dall’arco e che, invece, si riducono ad essere in balia del vento; banderuole quando va bene, meri oggetti ornamentali, stracci quando va male. Mi riferisco precisamente al silenzio mediatico che è calato sulla vita – e la morte – di Julian Assange, l’hacker australiano che ha dichiarato guerra agli Stati Uniti d’America. Né la liberazione di Patrick Zaki – al quale è stata concessa la cittadinanza italiana, mentre per Assange votarono onorevolmente tutti i deputati in massa – né il recente caso di Navalny, l’oppositore più temuto da Putin, sono riusciti a fare anche solo alitare sul caso Assange. Chicco Foti, invece, è stato esibito sul palco del politichese e dell’elettoralismo credulone, tronfio trionfo della incapacità onorevole deputata, prova di fiducia di quel colonialismo che ha portato, invece, ad avere un jet col motore già caldo quando le aule del Tribunale di Perugia non erano ancora state chiuse in faccia ad Amanda Knox.
Eppure, lor signori, i rivoluzionari (di carta), i cantori di gesta eroiche (del passato) che dovrebbero dettare l’agenda ed essere avanguardia, illuminati e illuminanti, sensibili e romantici sono sempre pronti a trovare il collegamento con tutto: parli del clima impazzito (ciclicamente) e vanno a tirarti fuori la tromba d’aria del Montello del 1930; parli della guerra in Ucraina e qualcuno, più coraggioso, arriva fino all’holodomor. Ma su Assange… Silenzio tombale. Profetico. Eppure il silenzio che cala, che è stato fatto calare, è la prova schiacciante che Assange ha ragione. Ma come può avere ragione un hacker, uno che si infila abusivamente e illegalmente  nei server della Difesa americana e ne mette a repentaglio la sicurezza, non solo cibernetica e a livello mondiale? Semplicemente perché ha tolto tanto trucco alla democrazia più potente dell’intero pianeta con un colpo di spugna, raccontando la verità. Ma come, in democrazia, nel Paese democratico per eccellenza, che si gloria di esportare la democrazia tanto che ce n’ha, non si può affermare democraticamente ciò che si conosce? Liberamente? A quanto pare no! La democrazia, il pilastro su cui poggia l’Aquila calva, è essenziale, ma non deve essercene troppa, altrimenti diventa una minaccia persino per sé stessa. Cosa avrà mai trovato Assange di tanto compromettente intrufolandosi negli archivi del Pentagono, della CIA, di SIS e USIC? La prima verità ad essere secretata è stata la “Collateral Murder”, l’uccisione di civili inermi a Baghdad da parte di militari americani su un elicottero che poi sghignazzano e se la ridono come matti. Persino un passante fermatosi per soccorrere, viene assassinato davanti alle figlie. Seguono le risate. Come prima.
Poi Assange, attraverso WikiLeaks, l’organizzazione da lui fondata, tira fuori ( che sta per “pubblica in rete” ) 92 file segreti sulla guerra in Afghanistan, 391mila sulla guerra in Iraq, 251287 sulla diplomazia a stelle e strisce e ben 779 schede su Guantanamo, la prigione americana che non ha bisogno di presentazioni e che potrebbe dischiudere i suoi cancelli proprio al blogger australiano. La Casa Bianca non è certo stata a guardare nel frattempo: se fare la guerra è il loro passatempo preferito, se non la ragione della loro esistenza, figuriamoci cosa possono fare con chi vuol fare loro la guerra. Non escluso Trump, che, dopo essersi affidato ai QAnon e al mondo controinformatore più variopinto, ha pensato di graziare solo chi avesse con esso reati finanziari, ma non Assange, dimostrandosi, non senza sorpresa, un americano tra gli americani.
Atto I: Assange viene accusato (e condannato) per due casi di stupro – come un Clinton o un Biden qualunque – poi ridottisi a molestie sessuali. Aperto una nuovo processo per stupro la cui accusa (meno grave) è aver avuto rapporti sessuali con due donne consenzienti senza l’uso del preservativo (da loro richiesto). Dopo la pubblicazione dei file relativi alla guerra in Iraq, Assange stesso si consegna a Scotland Yard, la polizia inglese – da sempre miglior alleato degli Usa – che lo ferma su ordine della Procura svedese per estradarlo e interrogarlo in merito alla vicenda degli stupri. Assange trova rifugio nell’ambasciata ecuadoriana di Londra, il cui allora presidente era in rapporti ostili con Washington, dove vivrà in una stanza di pochi metri quadri che avrebbe fatto impazzire chiunque. Il suo cervello, però, continua a funzionare e lui si dice pronto a rispondere ad ogni domanda dei giudici svedesi che, tuttavia, non si recheranno mai in terra inglese per interrogarlo. Gli Inglesi minacciano di portarlo via con la forza e in perfetta copia dello stile di Sigonella, circondano l’Ambasciata, che dovrebbe essere un luogo inviolabile anche in guerra. Guerra che effettivamente gli Usa stanno facendo ad Assange e viceversa  e riescono a prendere Assange facendo leva su una legge addirittura del 1917. Portato via come il peggiore dei delinquenti. Un libero cittadino, uno dei più liberi e in mondovisione. Preso in consegna e portato nel carcere peggiore di Sua Maestà, il Prison Belmarsh, il più duro del Regno Unito, insieme con detenuti pericolosissimi, ma senza uno straccio di condanna, in attesa della sentenza – che è praticamente già scritta e che decreterà o meno l’estradizione negli Stati Uniti. Cent’anni fa quasi, Qualcuno ebbe modo di dire “Dio stramaledica gli Inglesi!”: nessuno meglio di Assange potrà dire quanto queste parole siano tristemente profetiche!
Qualora la richiesta fatta alla Perfida Albione dovesse essere accolta, gli States, i democratici states, accoglieranno Assange col carcere duro, con 175 anni di isolamento, sia nella cella di 3X3 metri, senza tivvù né finestre e con lavabo e tazza in acciaio attaccata al pavimento e alle pareti, sorvegliato a vista 24 ore su 24 e con la luce sempre accesa (Ezra Pound, il pazzo, vi dice niente?), sia nelle parti comuni del penitenziario con limitazioni anche per l’ora d’aria che sarà goduta sempre in assoluta solitudine e con sorveglianza affidata ad un corpo speciale di secondini.
Un’americanata che, stavolta, non scorre sulle pellicole di Hollywood di cui tutti noi siamo passivi spettatori senza nemmeno aver scelto di seguirne il copione e che servirà a dare una lezione a chi vuole essere più democratico dei democratici. Ne hanno colpito uno per educarne cento, anche se non siamo in Cina. E a vedere lo stato di “disciplina” di reporter e giornalisti, di corrispondenti ed inviati , di editorialisti fino all’ultimo correttore di bozze, dalle tivvù di stato alle tivvù (finte) libere devono aver fatto un gran bel lavoro. Chissà, che questo silenzio non è altro che l’impegno profuso nel preparare il necrologio funebre e l’epitaffio più bello. Quelle parole vuote e vane perché postume con le quali scatterà la gara di velocità quando il boia avrà deciso, quelle parole che non serviranno a montare coscienze né a purificare cervelli, ma saranno solo catene per gli stessi giornalisti, scrittori, studiosi, intellettuali che le pronunceranno. Parole inutili, che più non serviranno. Ma che servono. Che ottimamente servono. Come questa Italia serva. Che serve.

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“Fitto” mistero sui 16 milioni di euro all’ex Opg di Napoli

Roma, 6 ago – Ora usciranno pazzi per davvero. Si interrompe la favoletta dell’ex Opg (ospedale psichiatrico-giudiziario) di Napoli che non godrà più della pioggia di fondi del Pnrr. Ne dà notizia addirittura Open di Mentana, che a leggerlo è come la ciliegina sulla torta. L’ex struttura fatiscente del rione Materdei, dopo essere stata abbandonata nel 2008 dal corpo di Polizia Penitenziaria, è stata occupata dai centri sociali rossi molto vicini all’allora sindaco della rivoluzione arancione e fautore della flotta napoletana, oggi reinventatosi autore teatrale – chissà se di tragedie politiche magari autobiografiche – Gigino de Magistris, e successivamente presi a balia anche dal suo successore a Palazzo San Giacomo ed ex rettore della Federico II, Gaetano Manfredi, che, da buon figlio di papà e papà di cotanti figli, congela lo sgombero dello stabile e convoca in comune gli okkup-anti; quindi, di concerto con i novelli ribelli, valuta i progetti con cui poter dare una giustificazione di esistenza alla vecchia struttura di via Jannelli e successivamente inventarsi un modo per assegnare la sede al centro sociale “Je so pazz” e a Potere al Popolo.

L’ex Opg di Napoli, tanti saluti ai 16 milioni

Poco importa che l’edificio, a detta di Prefettura e Demanio, che intanto ne era diventato proprietario, risulti essere pericolante, persino per gli occupanti e proprio per questo avevano più volte tentato lo sgombero. Le proteste di piazza e le campagne giornalistiche della stampa amica hanno impedito che tutto ciò avvenisse, almeno fino all’inizio dell’anno corrente quando pare che la Prefettura fosse intenzionata a mettere tutti alla porta con l’uso della forza. Almeno fino a quando il primo cittadino non si era messo di traverso ed era riuscito ad inserire il recupero della struttura tra i beneficiati del PNRR. “Perché, se l’edificio era pericolante e doveva essere messo in sicurezza, non c’era nulla di più urgente da fare”. Almeno fino a quando sulla “Napoli rossa” non si è abbattuta la scure di nome Raffaele Fitto, attuale ministro per gli Affari europei, le politiche di coesione e il Pnrr che non solo ha cancellato la regalia dei 16 milioni di euro, ma ha ulteriormente “inguaiato” il primo cittadino partenopeo, ereditiero delle già disastrate casse del Comune “amministrate” da de Magistris e che ora dovrà sborsare la cifra di 246.248 euro per i lavori già cominciati. Se non hanno idea di dove prenderli, possono sempre attingere dall’”acconto” che i militanti della sezione Berta consegnarono molto generosamente fin sull’uscio di casa, appena il centro fu bagnato dalla pioggia di milioni.

Ma i diretti interessati – si fa per dire – cosa dicono? Hanno fatto sapere che “no pasaran”: non hanno abbandonato quei locali imbrattati con graffiti e disegni che non cancellano l’inagibilità, né hanno reso sicura e minimamente dignitosa la loro roccaforte e annunciano battaglia a suon di feste, concerti e manifestazioni. Magari ancora una volta, come sempre, con il portafogli di papà. Quei papà che, a quanto pare, hanno perso potere, ma che continueranno a mettere bambagia nel mondo finto dei loro pargoli, in modo da continuare a farli giocare senza che si facciano male per davvero. Belli, ciao!

https://www.ilprimatonazionale.it/politica/fitto-mistero-sui-16-milioni-euro-ex-opg-napoli-267904/

COVID CARD REGIONE CAMPANIA: CONTESTATO ALLA CRICCA DE LUCA UN DANNO ERARIALE DI OLTRE UN MILIONE DI EURO!!!

Era maggio 2021 quando dalle colonne di questo giornale (https://www.camposud.it/il-garante-della-privacy-la-covid-card-di-de-luca-a-me-me-pare-na-fessaria/tony-fabrizio/) ci chiedevamo quali costi e perché avrebbero dovuto sostenere i contribuenti campani – senza, tra l’altro, poter proferire parola – per la “genialata” della Covid card. Genialata che, manco a dirlo, porta(va) la firma e la forma del presidente della Regione Vincenzo De Luca. Il buffone di corte, il gigione di tutti i Presidenti che (mal) accettava la “reclusione” a Palazzo Santa Lucia, vissuta sempre più come un confino dei palazzi della politica romana mai raggiunti da De Luca senior. Da dove, quindi, poter fare ciò che più gli pareva in e della Campania.
De Luca, per cui il Covid è stata una vera manna dal cielo, quel tocco di popolarità per il resto dello Stivale di cui avremmo volentieri fatto a meno, pensò, o meglio, arrivò per primo a partorire quella nullità rivelatasi tale che è stato il passepartout per “gli amici del buco” che, grazie alla cosiddetta e conquistata Covid card, avrebbero potuto andare al cinema, al ristorante, sposarsi. Insomma, una carta, anzi una card che fa più international, che avrebbe dovuto garantire una parvenza di vita normale, dopo l’inoculazione di n. dosi di vaccino.
Quei costi ieri sono stati resi noti dagli uomini del nucleo di Polizia economica e finanziaria della Guardia di Finanza che hanno consegnato allo Sceriffo lucano un invito a dedurre della Procura regionale per la Campania della Corte dei conti (una sorta di avviso di garanzia) tramite la quale si contesta, come riporta l’Ansa, un danno contabile complessivo di quasi un milione di euro (oltre 928mila per l’esattezza). Il 25% è direttamente “intestabile” a Vincenzo De Luca, mentre lo stesso avviso è stato consegnato ad altri cinque componenti dell’unità di crisi allestita dalla Regione.
In realtà le Covid card, comprate e basta, non sono mai entrate in uso perché, a stroncarle sul nascere, fu il Garante della privacy che ritenne ledessero la riservatezza dei dati personali dei cittadini.
L’ennesimo capolavoro deluchiano che ci saremmo risparmiati volentieri insomma, sia in termini economici che in quelli di immagine. Entrambi compromessi dal satrapo di palazzo, e con la gestione della pandemia e con le dirette tivvù nelle quali minacciava l’uso di lanciafiamme, la caccia ai runner e ogni altra diavoleria che la sua bocca riusciva a defecare per gestire il suo regno come nemmeno un’enclave.
“L’invito a dedurre non è una condanna ma semplicemente un atto dovuto per accertare la responsabilità di un danno erariale certo”, sottolinea all’Adnkronos Antonio Giuseppone, procuratore regionale per la Campania della Corte dei Conti. E, noi che la Campania la viviamo e il “sistema De Luca” lo subiamo, siamo certi che questo “atto dovuto” volto ad accertare un danno certo, non riguarda certamente (purtroppo) solo le Covid card. Noi di Campo Sud lo sappiamo bene. La notizia dell’avviso a De Luca era ancora calda che subito è stata approntata la polemica politica, fotocopia di quel politichese tutto uguale da destra a sinistra passando per il centro: “gestione scellerata”, “sperpero di soldi pubblici” fino al postumo profetico “Ve l’avevamo detto”, ma la verità vera è che a denunciare i misfatti del Governatore campano, e in tempo reale, tempi non sospetti per i più è stato solo e soltanto il presidente dell’Associazione Campo Sud Marcello Taglialatela. Denunce doverose, mosse da quell’amore per la cosa pubblica, per la propria terra e per le proprie radici che si riveleranno, ne siamo certi, una tegola sulla testa dell’inquilino di Palazzo Santa Lucia.
Il Covid e la sua (di)gestione fecero la fortuna elettorale di don Vincenzo, ma non quella politica i cui risultati sono oggi sotto gli occhi e nelle tasche di tutti i cittadini, campani per primi che, tra non molto, saranno chiamati a scegliere con chi sostituire il Presidente che, sic stantibus rebus, non potrà più candidarsi. In realtà, egli aveva già minacciato di “candidarsi in eterno” e ha annunciato di stare studiando – sicuramente starà facendo solo quello, visto lo stato in cui versa l’intera regione Campania – come modificare la norma che gli permetterebbe la candidatura in aeternum. Fregandosene di ciò che pensano e vogliono i campani. Solo che il Covid adesso non c’è più, ci sono i postumi del feno-meno, i frutti di ciò che ha seminato, i risultati della sua inettitudine mascherata dalla macchietta che portava in tivvù ogni venerdì, come una croce, (ab)usando persino degli spazi istituzionali per fini personali e personalistici.
Chi è causa del suo male…

https://www.camposud.it/covid-card-regione-campania-contestato-alla-cricca-de-luca-un-danno-erariale-di-oltre-un-milione-di-euro/tony-fabrizio/