Sulla strage di Capaci (non) abbiamo scoperto l’America

Roma, 23 mag – Solita corona di fiori, retorica fiera delle belle parole, nave della legalità. Mica della giustizia. Anche quest’anno è stato approntata la commemorazione della strage di Capaci, dove persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie, giudice anche lei, Francesca Morvillo e tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montonato, che furono feriti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza. Oltre ad un’altra ventina di anonimi rimasti tali che passavano disgraziatamente per lo svincolo di Capaci. Come ogni anno, anche quest’anno tutto è stato curato per il ricordo, per un’altra puntata farsa di quella commedia che si ripete ormai da trent’anni.

Strage di Capaci, quello che ancora non è stato chiarito

Un canovaccio hollywoodiano su cui imbastire una narrazione per tanti anni ancora, tanto… non si recita certo a soggetto, volendo farsi beffa di un altro illustre siciliano. Che parlava, giustappunto, di maschere e di volti. Una sceneggiatura che pullula di elementi vuoti in numero pari alle cicche di sigarette che fumi quando sei nervoso. Un intreccio buono da dare in pasto all’opinione pubblica e ad una magistratura inquirente, ma che non indaga. O almeno, non come dovrebbe. Il brutto e il cattivo contro cui la gente può divertirsi e accanirsi. ‘O verru – il porco – o lo scannacristiani, come è stato definito, per la sua ferocia con cui era solito ammazzare le persone. Uno capace di uccidere anche a mani nude. Uno che è stato definito sostanzialmente un “picuraro”, anzi, una pecora – per come eseguiva gli ordini – in mezzo a tanti pecorari, senza offesa per nessuno. Che si è intestato centinaia di omicidi, da quello del piccolo Di Matteo sciolto nell’acido sino a quello del giudice Chinnici, quando aveva già adoperato l’autobomba. “Più di cento, ma meno di duecento”, così tanti da non ricordare tutti i nomi. Ma tutti con dovizia di particolari. Come le cicche che l’FBI ha analizzato – fatte trovare? – e su cui ci sono le tracce di Brusca. Un pecuraru capace di fare saltare in aria un uomo dello Stato, uno che conoscevano anche – e forse soprattutto – all’estero, visto che giornali del calibro del New York Times aprivano parlando di lui, ma che lascia le cicche a terra. Uno che è uno scannacristiani che ha sciolto, sezionato e dato in pasto a maiali e familiari un bambino di 12 anni e che è nervoso per premere un telecomando. Sempre che un pecuraru sappia come usarlo un telecomando. O che i telecomandi non siano due. E un secondo telecomando sarebbe stato azionato da altrettanti pecurariPecurari in grado di progettare, architettare un simile attentato al cuore dello stato? In grado anche di calcolare la curva della carica cava come un perito di esplosivostica? Dieci centimetri più giù e la Croma bianca si sarebbe alzata in aria senza che succedesse nulla. Se Falcone fosse stato sul sediolino posteriore – lì dove avrebbe dovuto essere – si sarebbe addirittura salvato, come si è salvato il suo autista. Al suo posto.

Cosa Nostra aveva al suo interno una simile intelligence “militare”, visto che anche la maggior parte delle deposizioni sono state lasciate nemmeno in lingua italiana?
Abbandonando un poco il copione ufficiale – che altri hanno provveduto a scrivere per noi – potremmo chiederci se l’elemento su cui riflettere sia davvero la badilata di tritolo, la dinamica esplosiva, di chi fosse il ditino che ha pigiato il bottoncino o è utile – per le indagini, per la verità, per la giustizia (di cui, però, manca la nave) – su chi abbia avvisato chi che Giovanni Falcone aveva appena lasciato il ministero di Grazia e Giustizia ed era diretto all’aeroporto di Ciampino, da dove si sarebbe imbarcato su un volo privato con destinazione Punta Raisi, aeroporto intitolato a lui e al suo amico Borsellino, altra beffa di stato. Quel volo, oltre ad essere privato, era riservato, dei servizi, volava in segreto e nessuno, oltre chiaramente ad apparati dello stato, sapeva, avrebbe dovuto sapere di quel volo: orario di partenza, di decollo, di atterraggio e chi trasportasse e dove.

Chi ha analizzato le intercettazioni telefoniche ha potuto notare delle telefonate in orari particolari, localizzazioni e destinazioni che destano più di un sospetto. Un numero 0337, clonato, effettua delle chiamate in America, nel Minnesota da dove non si è mai saputo chi abbia risposto. Il perché, forse, sì. L’autore – Antonino Gioè – è misteriosamente morto in carcere. E il mistero che aleggia sulla sua morte è solo frutto delle stesse indagini. Della lettera che il giudice Signorino, invece, scrisse prima della sua morte nemmeno se ne sente parlare. Si sente parlare di Ingroia, che, mentre Borsellino gli diceva del tritolo arrivato in Sicilia per lui, Ingroia parlava delle ferie imminenti. Si parla di un altro magistrato-giustiziere, made in Usa, Andonio Di Pietro e la Tangentopoli che spazzò via una intera classe dirigente. Con la fine della cosiddetta prima repubblica, ci propinarono Giuliano Amato a Palazzo Chigi, un uomo metà politico e metà tecnico, solo una presidenza transitoria per aprire la strada al primo banchiere di nome Carlo Azeglio Ciampi. Solo pochi giorni dopo, il 2 giugno, fecero la festa alla repubblica a Civitavecchia sul panfilo inglese Britannia, dove iniziò la svendita del patrimonio italiano. Sempre nello stesso anno il magnate “filantropo” Giorgio Soros partecipò alla vendita della Lira speculando contro la Banca d’Italia. La lira perse oltre il 30% del suo valore e ne conseguì l’uscita dal Sistema Monetario Europeo.

Chi ha sconfitto la mafia e chi l’ha riportata in Italia

Ma l’emergenza era un’altra ed era costituita dai “naziskin”, con casi montati ad arte, con i talk che iniziavano a nascere per preparare la gente ad ing(r)oiare il primo reato d’opinione, la legge Mancino. Così facendo la stessa gente non ha mai chiesto alla tivvù, perché è stata messa in condizione di non chiedersi più, se la mafia potesse architettare il congegno, l’organizzazione, la predisposizione, lo studio, la scelta, il momento, il perché di una strage come quella di Capaci, come quella di via D’Amelio.

Il (de)corso creato in quel lontano 1992 oggi è visibile a tutti, dall’euro fino ai vari (tentativi di) bavagli e di un movimento innominabile sui social, ma l’unico a scendere in piazza e che ha voluto solo esprimere il dissenso contro i vari governi antitaliani che – guarda caso – ha ritrovato dopo 24 anni quegli stessi uomini che, mentre Falcone saltava in aria, salpavano sul Britannia. Quel movimento – non elettorale – che è l’erede di tale Cesare Mori che debellò il fenomeno mafioso in Sicilia e che fu richiamato per entrare nei ranghi dello Stato che, gramscianamente, è potere anche se non è governo. Quella mafia riapparsa, guarda caso, nuovamente sul finire della guerra, nel 1943, insieme ai “liberatori alleati”.

 

NAPOLI SVENDESI : 620 immobili comunali diranno addio alla città (con qualche eccezione)

Erano i tempi di Mario Draghi premier. Gli era stata appena passata la campanella, quando “alcuni italiani” lo accolsero con striscioni in tutta Italia per ribadire il loro NO al “Draghi liquidatore di stato”.
Di Mariolino Draghi, nel frattempo, si sono perse le tracce, ma si riconoscono i segni del suo operato. Come non ricordare il famoso, meglio famigerato, Patto per Napoli, immediatamente ribattezzato su queste colonne (https://www.camposud.it/una-calorosa-stretta-di-mano-per-sancire-il-nuovo-pacco-per-napoli/tony-fabrizio/) “pacco per Napoli”? Ebbene, quel patto scellerato inizia ad avere esecuzione.
È notizia recente, infatti, che il Comune di Napoli ha messo in vendita ben 620 immobili per salvare sé stesso dalla scriteriata gestione dei sindaci che si sono succeduti. La notizia è più che ufficiale e riportata anche sul sito istituzionale con riferimento alla Delibera di Consiglio n° 66/2017 in cui si fa riferimento alla “preziosa collaborazione del Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Napoli, Torre Annunziata e Nola e della Borsa Immobiliare di Napoli (BIN)” con cui si avvia una messa all’asta di una parte consistente del patrimonio immobiliare comunale. Ricordate il primo cittadino Gaetano Manfredi, che al Patto per Napoli aveva vincolato la sua salita a Palazzo San Giacomo, quando andava dicendo “Valorizzare il patrimonio immobiliare per metterlo a reddito”? Politichese. Tradotto significa soltanto cederlo. O per meglio dire, svenderlo.
Significa che Napoli e i napoletani saranno privati – leggi impoveriti – di veri e propri gioielli storici e architettonici quali la Galleria Principe di Napoli, Palazzo Cavalcanti, il complesso del Carminiello a sant’Eligio, l’ex Deposito ANM di Posillipo, le caserme della Polizia di Stato in via Medina e quella della Guardia di Finanza in via Quaranta, l’ex Villa Cava a Marechiaro.
Queste non sono tutte le proprietà di cui il Comune si disferà, ma solo quelle di cui si disferà nell’anno in corso. A queste vanno aggiunte altre strutture come lo Stadio Diego Armando Maradona – ex San Paolo – e altri impianti sportivi come il Palazzo del Consiglio Comunale di via Verdi. Non fanno eccezione le partecipate come l’ANM, Asia, Napoli Servizi ed altre aziende controllate dal Comune che, dopo il turn over, potranno valere molto di più rispetto all’attuale valore. O almeno così dovrebbe essere.
Eppure, qualche ex collega di Gaetano Manfredi, come il prof. Alberto Lucarelli, docente di Diritto Costituzionale nell’Ateneo guidato proprio da Manfredi, uno dei giuristi italiani più noti, che può vantare anche una breve parentesi da assessore nella giunta de Magistris, aveva lanciato un campanello d’allarme paragonando il Patto agli “aiuti” che la Commissione Europea aveva messo in campo per la Grecia di Tsipras, quella Grecia in cui si negò persino il latte ai bambini.
E, tra le cose gravi, questa non è certo la più grave: pur di salvare sé stesso, il Comune di Napoli ha accettato una svendita senza alcuna condizione. Un po’ come la resa incondizionata dell’Italia nella II Guerra Mondiale, fatta passare per armistizio, impastata con la liberazione, firmata a Cassibile le cui clausole ancora oggi, quasi cent’anni dopo, continuano ad essere segrete. Anzi, secretate. Così nel Patto per Napoli – dove quella semplice preposizione avrebbe dovuto sancire quantomeno un complimento di vantaggio – sarà lo Stato italiano, per mezzo di una Società per Azioni – la Imvit, – non solo ad occuparsi della liquidazione dei beni immobili del Comune, ma addirittura a dettarne le condizioni. Che saranno pari a zero o che rasenteranno tale livello, visto che l’obiettivo è vendere per fare cassa. Per Imvit, per Napoli e per lo Stato. Come ricorda(va) ancora – e inutilmente a quanto pare – il prof. Lucarelli “I soldi erano quelli della legge finanziaria del 2022 ma legati ad un contratto di diritto privato dove il contraente – lo Stato, ha dettato tutte le condizioni al Comune di Napoli. Altro che valorizzazione del patrimonio pubblico cittadino: qui si tratta di alienazione, di vendita, di svendita. E non faranno eccezione castelli, monumenti, edifici di interesse storico che potranno andare in mano di privati che potrebbero anche decidere di non far godere di storia, cultura e bellezza il pubblico.
Se questa è la “legge”, però, subito è stato trovato l’inganno, perché un’eccezione c’è ed è rappresentata dall’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Materdei, oggi centro sociale occupato dalla sinistra che ha pensato di stabilirci la sede del partito Potere al popolo.
Il palazzo occupato non rientrerà nella compra-(s)vendita di stato perché per i piccoli rivoluzionari rossi si sono mossi i paparini che hanno fatto inserire lo stabile negli immobili da “riqualificare” con i soldi del Pnrr, ovvero con i soldi di tutti che potevano essere utilizzati per l’intera comunità napoletana.
Non resta che aspettare giugno 2023, dunque, quando la Corte dei conti di concerto con il MEF (chissà se avere lì Gigino sarebbe stato “interessante”) avvierà gli accertamenti per la liquidazione e per il commissariamento di gioielli quali il Maschio Angioino e Castel dell’Ovo e sperare nell’inflessibilità da parte del governo Meloni affinché possa tutelare in qualche modo (ma quale?) il fu patrimonio pubblico. Perché vedere il Comune e i suoi okkupanti ridotti, nella migliore delle ipotesi, ad un ruolo di semplici supervisori non rappresenta certo una soddisfazione nemmeno per quelli che – giustamente – non hanno mai avuto fiducia in loro.
https://www.camposud.it/napoli-svendesi-620-immobili-comunali-diranno-addio-alla-citta-con-qualche-eccezione/tony-fabrizio/

Con l’acqua alla gola…

“Non perché non accada più, ma per quando accadrà di nuovo. Perché accadrà. Dobbiamo imparare a conviverci”.
La sintesi dell’alluvione in Romagna è questa. Che poi è la stessa usata per il covid e che può tranquillamente andare bene anche per la crisi climatica. Energetica. Alimentare.
Perché non è che si deve capire, studiare, prevenire, no. Si deve accettare! E basta. Non ci si vede nemmeno interrogare, ma è così perché così dovrà continuare ad essere. È fatalismo, l’accettazione. Meno chi provoca. E pensare che Venner per invitarci a insorgere contro questo fatalismo si è sparato un colpo alla tempia a Notre Dame. Ma questo la tivvù non lo dirà. I giornalisti non diranno né scriveranno che la Romagna di oggi è (anche) il coronamento di un capolavoro di tal Matteo Renzi che ha cancellato la Guardia Forestale, oggi Carabinieri. Che tipo di correlazione c’è chi lo potrà capire mai. Lo stesso Renzi che potrà tranquillamente essere ricordato e invocato e spergiurato tra qualche settimana, con l’inizio degli incendi che manderanno in fumo le nostre aree verdi. Sempre quel Renzi che oggi, in ottemperanza al precariato (ma solo di facciata, voce del verbo “col culo degli altri”) dirige – sì, proprio così, dirige! – un giornale, ma senza mollare l’attività politica, ridotta ormai a mera demagogia: ricordate quando il bischero toscano proponeva di voler abolire il Senato e di lasciare la politica se avesse perso il referendum? Bene, a referendum perso continua a fare il bello e il cattivo tempo da Palazzo Madama. Viva l’Italia! Anzi no, Italia viva. Finché non muore. E poiché è uno abituato a tenere il piede in due scarpe, oggi fa parte di quella schiera prezzolata che può dirsi fatta solo di comunicat(t)ori che mandano in onda il dramma nel dramma. Per vendere qualche copia in più. Per lo share. Per l’audience. Nessuna riflessione, nessuna domanda scomoda, tipo quella a Bonaccini e Schlein, oggi divisi(vi), ma una volta a braccetto tra Emilia & Ro-magna e che hanno restituito (Dio voglia!) i fondi da utilizzare per le alluvioni e che non hanno saputo utilizzare. Nessuna arrembante prova del giornalismo d’inchiesta che si inerpechi su sentieri poco o per nulla battuti, tipo quelli che portano a Bonaccini e Schlein, oggi divisi(vi), ma una volta a braccetto tra Emilia & Ro-magna e che hanno restituito (Dio voglia!) i fondi da utilizzare per le alluvioni e che non hanno saputo utilizzare.
Nessuno che (si) chieda che fine abbiano fatto e perché i cantonieri, quegli ominidi – tali perché estinti – di cui ogni strada, via, regio tratturo e sentiero pullulava e, pensa un po’, avevano diritto anche ad una casa per tenere pulito costantemente il tratto di strade, cunette, argine dei fiumi e simili.
Nessuno, perché tutti debbono trasmettere l’immagine del pargolo a cavalcioni sull’eroe di turno che sarà da dimenticare presto, non appena il fango permetterà la stesa del tappeto rosso per la (pre)parata di onorevoli, ministri e sottosegretari. Tutti preferiscono immortalare il dramma di chi ormai è disperato, di chi ha perso tutto e che andrà ad ingolfare la fila dei nuovi poveri. Con (mal)celato intento propedeutico. D’altronde è questa la velina che è stata passata ed è questo il messaggio che bisogna passare. Pecunia non olet. Anzi… Da Casamicciola a Cesena. E se dovesse capitare di fare vedere un uomo scampato a morte certa per via dell’acqua che invade il sottoscala, meglio puntare sul terrore dipinto sul volto dell’uomo piuttosto che sulla solidarietà umana, di gente, di popolo che ha permesso con mezzi di fortuna di spaccare i vetri, tirar via la grata e tendere mani e braccia al malcapitato. Non parliamo di avambracci in questa terra, per carità! D’altronde non è questo il compito della c.d. controinformazione? Speculare, complementare, concomitante all’informazione ufficiale. Entrambe accessorie nel farsi dire le cose che si vogliono sentire: è l’emergenza siccità! Macché, è il cambiamento climatico! Cazzo dici, è un modo per farci fuori, visto che siamo in troppi; sono bombe, d’acqua, provocate dalla guerra alle nuvole. Qualsiasi sia la tesi, preferita o meno, valida o meno, irreale o fantascientifica, il fine unico, permesso e consentito, non è la ricerca della verità – che non sta nel mezzo, come la democrazia cristiana, ma alla quale ci si può arrivare tramite il confronto, che è arricchimento. Anche culturale – ma che non ci deve essere confronto che è il frutto della democrazia, così come non c’è democrazia. Che a dirla tutta è solo un frutto marcio. Ma ormai ci dobbiamo nutrire di vermi e muffa. Ci deve essere scontro, non incontro. Ci si deve ancora una volta dividere: “sciatori chimici” contro gretini, verità versus gomblotto. Per cui meglio inveire contro i boccaloni che credono al gretinismo, (consentire di) assiepare le fila delle generazioni FFF, fare passare per pazzoide chi crede ad un secondo fine dell’alluvione e che magari prima “negava” la siccità e il Po in secca. Meglio odiarsi che unirsi. Meglio litigare che fare fronte comune. Meglio accampare scuse, pure fantasiose, che inchiodare un compagno alle proprie responsabilità. Meglio blaterare che andare a spalare fango. E continuare ad assistere allo spettacolo propinatoci da giornali e tivvù. Ma anche con un semplice clic dal divano di casa perché tanto lorocielodiconopure!
The show must go on…

Napoli, cosa ci dice la (auto)distruzione del Maradona di Sepe

Napoli, 9 mag – La festa scudetto a Napoli ci ha regalato ogni tipo di scena: criticabile, condivisibile, capibile, esagerata. In una sola parola “napoletana”. La vittoria del campionato di calcio ha portato anche i tifosi a contestare il patron Aurelio De Laurentiis che, con la complicità di un comitato per l’ordine pubblico, li aveva “disarmati” di bandiere e tamburi. Dell’identità, insomma. Lo stesso patron che poi ha fatto la pace con i tifosi con tanto di foto di rito. La prima gara interna da campioni d’Italia ha portato al Maradona anche l’ex rettore dell’Università Federico II e oggi sindaco juventino (non da oggi) Gaetano Manfredi, che, come Draghi e come Conte, “arruola” la sua bambina alla quale viene affidato il messaggio – preconfezionato – d’amore per la città di Napoli. Da napoletana stereotipata emigrante e studente di un altro ateneo mica quello retto da papà. E poi caroselli di auto, gente in strada, palazzi bardati a festa con gli immancabili nastri azzurri.
Mentre tutta Napoli, però, faceva festa e con essa i napoletani sparsi in giro per il mondo, da New York a Londra, dall’Australia al nord Europa, un altro napoletanissimo artista è stato costretto a “fare festa” a modo suo, il maestro Domenico Sepe, autore del magnifico capolavoro di Diego Armando Maradona a grandezza naturale, impreziosito dal calco originale del piede del D10S.

Lo scultore che distrugge la sua opera: breve storia del Maradona di Domenico Sepe

Si sarebbe dovuto parlare della magnificenza del capolavoro che ritrae il Pibe de Oro come un dio greco, apprezzare la tecnica a cera persa, la stessa dei bronzi di Riace, inorgoglirsi per l’omaggio dell’artista a Diego e al popolo napoletano tutto, visto che la sola richiesta del Sepe è stata quella di collocare la statua laddove tutti napoletani potessero vederla. Niente affatto. Già de Laurentiis, non si sa il perché, ordinò alla morte del campione argentino la “sua” statua presso le Fonderie Nolane – dalle parti di origine del sindaco – che “regalarono” un prodotto più “industriale” rispetto all’artigianalità plasmata dal Sepe che riuscì ad esporre la sua creazione per una sola giornata al Maradona. Dopodiché il Comune di Napoli non sapeva cosa fare – e come disfarsene, soprattutto – di questo omaggio artistico, fino a quando ha fatto sapere di non potere accettare perché la donazione artistica potrebbe comportare da parte dell’autore la richiesta degli alimenti. E non c’è cavillo o burocrazia da scomodare stavolta.

Leggi anche: Statua di Maradona, la tristezza di una buona iniziativa finita nel nulla

Poi sono venute le richieste di acquisto dei comuni limitrofi – Afragola e Casalnuovo su tutti – mai prese in considerazione da parte dell’artista. Fino a quando dal proprio profilo social Sepe ha annunciato che “solo l’artista decide il destino della sua opera”. E nel clima di gioia tanto attesa, mentre impazza(va)no i festeggiamenti e monta(va) il delirio, Sepe ha cominciato la distruzione della sua opera. L’autodistruzione. “Il tramonto del D10S”, come l’ha rinominata lui, una decisione sofferta che non va commentata, ma solo rispettata. Un’ingiuria, un’offesa alla cultura da parte di una classe dirigente autoreferenziale, un’incapacità di saper riconoscere il valore, se non quello della cancella culture, da parte di quell’intellighenzia Ztl cittadina che identifica ottimamente nient’altro che se stessa.

Dopo il caos (che non ha generato alcuna poltrona saltata) dell’inspiegabile e gratuito divieto di trasferta per i tifosi dell’Eintracht, dopo l’interdizione del tifo, se non a favore di uno stadio dove tutti sono seduti, composti e muti, ora le mummie se la prendono con le statue. Anzi con “la” statua, quella del D10S mentre Napoli si “consacra” ancora al fuoriclasse argentino scomparso, persino nella vittoria dello scudetto e loro incassano i fischi del Maradona nonostante la gioia del successo. Per questi interessati sciacalli un’altra medaglia alla capacità di distruzione conquistata sul campo, da appuntarsi sul petto ed esserne fieri. Meritatamente.

https://www.ilprimatonazionale.it/cultura/napoli-cosa-ci-dice-la-autodistruzione-del-maradona-di-sepe-261803/

TRISTE EPILOGO DI UNA STORIA INCREDIBILE: (AUTO)DISTRUTTA LA STATUA DEL DS10S DEL MAESRO SEPE.

Napoli in festa per la conquista dello scudetto ha fatto emozionare il mondo intero, da New York a Pechino, da Buenos Aires a Sidney perché questi sono i confini di Napoli. Eppure, mentre tutti i napoletani festeggia(va)no e gli altri ammira(va)no il “modo” di fare festa dei tifosi azzurri, c’è un tifoso in particolare che ha fatto, ha dovuto far festa “a modo suo”. Si tratta dell’artista e vanto della città, Domenico Sepe, fine scultore, della cui amara vicenda Campo Sud si è prontamente interessata (https://www.camposud.it/napoli-gia-sogna-ma-la-statua-di-maradona-viene-rifiutata-dal-sindaco/tony-fabrizio/).
Come si apprende dal profilo social dello stesso maestro Sepe, la statua del D10S, rifiutata dal Comune, mai collocata in un punto di accesso per tutti i napoletani – la sola richiesta dell’artista – che aveva ricevuto vere e proprie offerte di acquisto da (ben) altre amministrazioni comunali quali quelle di Casalnuovo ed Afragola, ma mai prese in considerazioni dall’artista per ovvie ragioni morali anche abbondantemente esplicate, non esiste più.
Dunque, mentre i tifosi erano in delirio, la città di era bloccata e tinta d’azzurro, oltre il cielo, oltre il mare, de Laurentis incassava ringraziamenti, dopo aver stretto mani a destra e a manca, e il primo cittadino Gaetano Manfredi incassava fischi all’unisono dal Maradona, previo rispolvero della figlia napoletana che dichiara il suo amore per la squadra, il Sepe distruggeva la sua meravigliosa creazione. “Il tramonto del D10S” : ha intitolato il suo sfogo distruttivo lo stesso autore dell’opera.
Un vero capolavoro di “buona amministrazione” quello messo in piedi dall’attuale Amministrazione comunale di Napoli, iniziato con il caos burocratico del divieto di trasferta ai tifosi dell’Eintracht e che non poteva non avere migliore finale che quello dei meritatissimi fischi. E pensare che la notizia non era ancora di dominio pubblico. Un autogol clamoroso quello messo a segno dall’intellighenzia ZTL della città di Partenopee, incapace, per chissà quale oscura ragione, di trovare un cavillo affinché il Comune, di cui si è solo amministratori e (fortunatamente) non per sempre, potesse onorarsi del dono definitivo e a titolo gratuito dell’artista che è stato apprezzato in questo stesso campo, ma su altri stadi.
Una decisione “indotta” quella dell’artista che ha commentato laconicamente “Solo l’artista decide il destino delle sue opere”.
Una vera opera d’arte a più mani quella creata da parte dell’attuale Amministrazione Comunale con la partecipazione della dirigenza del Calcio Napoli che bene identificano questi personaggi in cerca di un improbabile ruolo.
https://www.camposud.it/triste-epilogo-di-una-storia-incedibile-autodistrutta-la-statua-del-ds10s-del-maesro-sepe/tony-fabrizio/