La nostra satira Il governo allenta la morsa delle restrizioni? Ce pensa Don Vicienzo!!

L’indice RT scende, il contagio rallenta, il virus zoppica, i malati sono pochi, i morti pure, i vaccinati sono in numero esiguo perché non ci sono (più) vaccinabili, gli hub chiudono, le dosi avanzano, le dosi si regalano, le dosi si iniettano pure quelle scadute, si amalgamano, si scheckerano, la gente esce, respira, vive, tenta di riappropriarsi dei propri spazi e delle funzioni che sono insite nell’essere umano, perché ormai saturi di restrizioni. Sfiniti nel vero senso del termine dal ritornello usato ed abusato “resta a casa”, “andrà tutto bene”?
E allora ? Ce pensa Vicienzo!
Il presidente del Consiglio Mario Draghi “premia” gli Italiani graziandoli dall’obbligatorietà dell’uso della mascherina all’aperto e il “politico-nemico” mette il cappello, il suo, su tale obbligo caduto. Buono per essere spacciato in tema di consensi nonostante questo divieto non sia mai esistito in base alle legge 159 del 2020 !! Questa è lesa maestà: ce pensa Vicienzo!
Nel corso del (purtroppo) consueto appuntamento con la “croce del venerdì” ovvero, quando il presidente De Luca ogni sette giorni si sfoga in diretta radio-tele-cavo-piccione-omnia-streaming davanti al gonfalone della Regione e ad un bicchiere d’acqua (?), il Presidentissimo anticipa che ha già conferito mandato ai legislatori del Regno di mettere in campo la giusta pena per chi mancherà di ottemperare all’ordinanza n.19. Il “regio lagno” prevede il categorico divieto di vendita con asporto di bevande alcoliche di qualsiasi gradazione dalle ore 22:00 alle ore 06:00 da parte di qualsiasi esercizio commerciale e di distributori automatici. Ovviamente c’è anche un punto B che precisa e integra il punto 1 nella misura in cui le bevande alcoliche sono vietate fuori dai locali e negli spazi pubblici all’aperto anche se te le porti da casa. Va da sé che l’alcol (anche a fiumi) resta consentito al banco del locale perché alla porta deve esibire il green pass della Regione, che ne regola la topicità e tipicità della deglutizione.
Poi raccomanda (che non è una brutta parola) ai Comuni ed altre Autorità non meglio specificate la vigilanza atta a impedire che si formino assembramenti nella zona della movida e negli orari di cui sopra.
Poi, solo poi, si ricorda che la Campania, Contea da lui stesso amministrata, è parte di un più ampio territorio delimitato da confini nazionali. E allora fa appello all’ordinanza del Ministero della Salute ( nazionale)  che obbliga all’utilizzo di dispositivi di protezione (non solamente mascherine, quindi) delle vie respiratorie in situazioni in cui non è garantito il distanziamento sociale (?) e in luoghi non isolati quali centri cittadini, piazze, lungomari.
Ma quant’è bravo Vicienzo??!! Bravo certamente, ma ad imbastire la campagna elettorale. Ma non è stato rieletto solo pochi mesi fa? Sì, ma adesso a Napoli si vota di nuovo per le amministrative e De Luca prepara la “sua” campagna elettorale! D’altronde, se è riuscito a farsi riciclare dal suo partito pronto a scaricarlo, da quel Pd per cui è tesserato; se è riuscito a sfruttare una pandemia a proprio uso e consumo per “sfregare” ancora un po’ con le sue terga lo scranno più alto di Palazzo Santa Lucia; se è riuscito a trasmettere il panico fobico ai suoi corregionali per non farli ricorrere alle prestazioni sanitarie in ospedale,  piuttosto dirottandoli verso quella sanità territoriale (i distretti sanitari di base) che lui ha “straordinariamente” auto-commissariato, distruggendoli; chiudendo ospedali; inaugurandone altri anche più volte; ma sempre gli stessi che non sono mai entrati in funzione, riconvertendo reparti, facendo avanzare carriere in odor (o tanfo) di elezioni. Perché, dunque, non continuare a reggere il gioco (e il giogo) in vista della competizione per Palazzo San Giacomo? Sempre che DeMa non se lo venda prima!
Che poi a leggere, anche distrattamente, l’ordinanza n.19 del 25 giugno 2021, più che dettare disposizioni e raccomandazioni in materia di contrasto e prevenzione del contagio da Covid-19,  sembra ascoltare una filippica contro l’uso dell’alcol dalle ore 22:00 alle ore 06:00 . Eppure  esiste ancora un gran numero di Italiani che nel resto della giornata non bivaccano ubriachi in preda a ogni genere di sostanza che altera psiche e mente. Ma che, piuttosto, lavorano per mandare avanti questa Nazione nonostante tutto ancora viva. E cosa dire dei gestori di pub, ristoranti, pizzerie, chioschi, chioschetti, bar, baretti, vinerie e supermercati in genere che, secondo il modo di vedere degli Amministratori pubblici di ogni ordine e grado, sembrerebbe essersi trasformati in untori, interessati esclusivamente a vendere virus più che birra, contagi a go-gò più che vino, assembramenti pericolosi più che cocktail e aperitivi. Ma tranquilli amici miei : tra alcol e Covid non c’è alcuna relazione!  E questo sembra esser noto anche a  quell’uomo di….. spirito del nostro Don Vicienzo!!

FRANCESCO CECCHIN: ORA PIU’ CHE MAI PRESENTE FRA NOI!!

Quarantadue anni sono un tempo sufficiente per guardare le cose col disincanto del tempo ma, per fortuna, un tempo non troppo lontano da poterne offuscare il ricordo e comprometterne la verità.
Sono passati già quarantadue anni da quando Francesco Cecchin, dopo un’agonia lunga diciannove giorni, diventava un mito eterno. Quarantadue anni che hanno visto indagini sommarie, sentenze discutibili ma, soprattutto, che non hanno visto nessun colpevole.
La storia di Francesco è tristemente nota, anche con dovizia di particolari grazie al meticoloso lavoro di ricerca di prove e testimonianze compiuto dai suoi tanti camerati, ma non è stata sufficiente a far condannare l’unico processato, il comunista Stefano Marozza. Personaggio pericoloso e animo criminale che insieme con (almeno) un altro suo compagno aguzzino inseguiva Cecchin per le vie del quartiere Trieste a Roma, sino a compiere il tremendo delitto proprio sotto casa del giovane malcapitato. Aguzzino che  tuttavia aveva trovato il tempo, prontamente, di dichiarare alle Forze dell’Ordine di aver preso parte, la sera dell’agguato, alla visione del film  “Il Vizietto” presso il cinematografo Ariel di Roma. Poco importò agli inquirenti che mai in quella sala cinematografica fosse stata proiettata quella pellicola.  Una falsa dichiarazione che gli valse il premio dell’assoluzione per non aver commesso il fatto. Di qualche suo compagno di ventura nemmeno se ne ricorda più la memoria. A nulla valse nemmeno la perizia autoptica perché i segni ritrovati sul corpo di Francesco, precipitato da un ballatoio da oltre tre metri di altezza e ritrovato con la schiena e la testa fracassate su un lampione e con le chiavi e le sigarette in mano, escludevano che il giovane missino fosse stato con certezza picchiato prima di precipitare. Ma rimaneva appurato che la vittima fosse stata  scaraventata giù dal muretto con la chiara intenzione di fargli del male. Un gesto criminale, al limite della bestialità e dell’odio politico, da parte di chi non è mai stato giudicato un assassino.
Eppure Francesco non aveva colpe, non era un fascista, se questo può essere una colpa agli occhi degli uomini. Era troppo giovane per esserlo, ma era un militante che credeva in un’Idea che onorava con passione e dedizione. Un’Idea per la quale ha sacrificato la sua stessa giovane vita. Non diversamente da altri ragazzi di quell’epoca: Carlo Falvella, Sergio Ramelli, Stefano Recchioni, Franco Bigonzetti,  Francesco Ciavatta, i fratelli Mattei. Solo  alcuni dei nomi di giovani militanti missini caduti in quegli anni feroci e tutti vittime del medesimo odio comunista.
Erano gli anni di piombo i loro. Anni pericolosi e letali, gli anni in cui uccidere un fascista non era reato: eppure c’erano giovani che non rinunciavano ai propri ideali, che portavano alta la loro bandiera non indietreggiando davanti ad un nemico feroce e invasato dalla propaganda e dalle falsità a buon mercato diffuse ad arte per invelenire il clima politico di quegli anni bui e trarne vantaggio politico per la sinistra parlamentare. Che rimaneva a guardare soddisfatta. E a farne le spese furono tanti di loro. Quei giovani di ogni parte d’Italia, poco più che adolescenti, che combatterono strenuamente per la libertà di poter esprimere le proprie idee. Per affermare il diritto alla propria esistenza, alla propria cultura, a ciò in cui essi fortemente credevano. Sino al punto di sacrificare la propria vita.
A distanza di quasi cinquant’anni, a chi ha sentito il dovere di tenere ancora accesa quella fiamma nel loro ricordo, in continuità con gli stessi valori e ideali che hanno radice comune, (quella così profonda da non gelare mai) sono affidati quegli esempi e quegli insegnamenti. Oggi attuali e validi più che mai. Penso a quei ragazzi di Firenze, ancora una volta militanti di destra, che sono stati recentemente imprigionati tre lunghi mesi per un volantinaggio nella loro scuola, o meglio, nel liceo diretto da un preside del PD. Un surrogato di quelli che una volta erano i comunisti, oggi mascherati da “catto”, poi “evoluti” in democratici, ma che hanno la comune appartenenza all’odio del diverso in forma buonista. Spacciata per politicamente corretta.
Penso, al contrario, ai tanti “pasionari” di quella stessa ideologia di morte, autori di ogni infamia possibile, che oggi si mascherano dietro le insegne grottesche delle sardine, spacciandosi per giovani vogliosi di partecipare alle decisioni della politica, ansiosi di poter cambiare la società e di orientare la politica verso nuove forme di collaborazione e di condivisione delle scelte sulla società, sull’ambiente, sul futuro delle nuove generazioni. E invece non sono altro che i figli e i nipotini di quei terroristi degli anni 70. Pronti a distruggere e a prevaricare chi non la pensa come loro. E anche loro, come i loro progenitori, vigliaccamente protetti e coccolati da una stampa di regime che li esalta tutt’ora e li incoraggia.
Ma penso anche e con preoccupazione, ai ragazzi in età scolare, tutti indifferentemente reclusi dietro un pc ad apprendere nozioni di una scuola una volta luogo di socializzazione, aggregazione e formazione per eccellenza e oggi ridotta a didattica a distanza. Sono loro che realizzeranno il futuro del nostro Paese. Ma in questo modo, con questa scuola e con queste restrizioni della libertà quale futuro sapranno costruirsi? Iniziando proprio ai loro danni il rimbambimento di massa, collettivo, globale. Gli anni ’70 sono stati sinonimo di droga libera, per poi passare al permissivismo, all’amore libero, Peace & love, i figli dei fiori, il corpo è mio e lo gestisco io, con conseguente distruzione della famiglia tradizionale. Oggi invece bambini e adolescenti sono abbandonati alle tecnologie e all’immobilismo. E poi cibi spazzatura & videogiochi. E chi più ne ha, più ne metta, nella speranza di massificare loro cervello e pulsioni. Speranze e aspettative. In una parola, predeterminando il loro futuro.
E che dire della gente comune, di qualsiasi età, di tutte le condizioni sociali e di ogni estrazione culturale e politica incapaci di far valere i propri diritti per esercitare i propri doveri, inabili a ribellarsi per la difesa della propria libertà e per quella che essi tramanderanno ai propri e figli e nipoti, che accettano tutto e tutti con indifferenza e irresponsabilità, che non insorgono minimamente contro il fatalismo divenendo così i primi, diretti responsabili in un mondo di rovine, inadeguati persino a rimanere in piedi, mentre il mondo crolla.
Francesco Cecchin e mille altri come lui hanno avuto coraggio e magnanimità e lo hanno avuto per noi, combattendo in prima persona contro un mondo già in quegli anni in declino e condannato all’oblio. Pagando un prezzo molto alto per la loro coerenza, il loro credo politico, i loro valori. Quei ragazzi sono stati dei fari che hanno illuminato il percorso per tanti di noi. Sono stati quelli che hanno fatto proprio l’insegnamento dantesco del Virgilio che illumina la strada per chi verrà dopo di lui.
Francesco è stato ammazzato, ma non é morto invano, è più vivo che mai, più vivo di tanti che oggi vegetano credendo di vivere, che si aggrappano all’elisir dell’immortalità ma che sono inconsapevoli di essere già morti, che sprecano il loro tempo rendendolo vuoto e vano, che rischiano di essere i migliori alleati dei propri carnefici e dei propri aguzzini. Poiché esserlo inconsapevolmente non è per nulla una giustificazione e tanto meno una discolpa. Basterebbe solo seguire il suo esempio, basterebbe seguire quello che è stato il  motto di vita di Francesco Cecchin : “Cammina soltanto sulla strada dell’onore. Lotta e non essere mail vile. Lascia agli altri le vie dell’infamia”.
Allora e oggi più di allora , Francesco Cecchin è presente !!

UNITED COLORS OF RACISM : La tragedia tutta italiana del razzismo ad ogni costo!

Seid Visin e Saman sono due facce della stessa medaglia, l’una d’oro e l’altra di stagno. Nocera e Novellara, nord e sud di uno stivale sempre più multietnico, sfruttato e bistrattato, trattato a proprio uso e consumo e poi rinnegato. Quell’Italia terra di nuova vita e di morte, croce e delizia.
Seid, ragazzo adottato da genitori italiani che in Italia diventa figlio e poi calciatore,l coronando il sogno della maggior parte degli adolescenti. Morto suicida per motivi che solo i genitori conoscono e che hanno voluto tenere privati in un primo momento, ma poi costretti a svelare.
Saman arriva in Italia dal Pakistan insieme con la famiglia per una speranza di vita migliore, per un futuro che la sua terra non gli ha offerto, per scelte che chi l’ha messa al mondo ha fatto anche per lei, fino a condannarla a morte. Allo strangolamento.
Seid è immediatamente diventato un caso da “sfruttare”, da rivendere sulle pagine dei giornali e sulle “prime pagine” di quelle trasmissioni televisive di tuttologi che abbondano in ogni dove. Poco importa se non si sa cosa sia davvero accaduto. La storia è di quelle strappalacrime che va subito rivenduta e veicolata per la speculazione e lo sciacallaggio dal Berizzi di turno e in ottemperanza al politically correct. Così uno sfogo adolescenziale su un social scritto tre anni prima diventa il motivo per cui il ragazzo si è suicidato: il razzismo. Magari una forma di sottile e deprecabile bullismo compiuta da coetanei su un ragazzo di un piccolo paesino del sud che ha subito il cambio e l’impatto come quello che una città come Milano può dare?  Ma no. Said aveva la pelle nera per cui è il razzismo il motore di tutto. Ma la mamma e il padre adottivi smentiscono. Costretti a rilasciare dichiarazioni e a tutelare, in un momento tragico e privato, la loro immagine e quella del figlio, per una cosa fondamentale che si chiama verità. Ma il mainstream ha deciso: ad ammazzare Said è stato il razzismo. L’udienza è tolta e la sentenza è emessa: un ragazzo di colore non può avere problemi di depressione, d’amore, di nostalgia, di stanchezza, di stress e mille altri mali che affliggono il nostro tempo. Magari per un lockdown che è stato un vero e proprio confinamento lontano da casa e dagli affetti e che è pesato un po’ troppo. No! Seid è morto di discriminazione.
Quella discriminazione, al contrario, cui non si è fatto minimamente cenno nella tragica storia di Saman, sparita ormai da più di un mese e con una confessione di strangolamento dello zio che si spera faccia almeno ritrovarne il cadavere.
La colpa? La libertà di volersi integrare. Di voler magari rinunciare al velo e di decidere di chi innamorarsi. Una colpa “italiana” così grave e poco diffusa, tanto da attribuire con ipocrita disinvoltura di certa stampa “allineata”, l’etichetta di  “ragazza ribelle” alla giovane e sfortunata Saman.  E poco importa se la ragazza sia stata, piuttosto, costretta a fuggire dalla propria famiglia. Un nucleo familiare numeroso e composito che pare l’abbia invitata a ritornare ingannandola. O, forse, il ritorno a casa sia dovuto al recupero dei documenti per un allontanamento definitivo. Qui la famiglia non parla con i giornalisti, non cerca di dare spiegazioni in merito. Fugge all’estero piuttosto. Non prima di essersi  riunita in una sorta di “consiglio” per decretare la condanna a morte della diciottenne, in nome dell’islamico Corano. Elemento fin troppo evidente, fatto passare sottogamba. Una autentica e ipocrita  mistificazione islamista taciuta e silenziata ad arte.
Qualche timido tentativo di derubricare l’accaduto in femminicidio, che è quanto di più spregevole si possa attribuire ad una donna, equiparata ad ogni costo all’uomo, mai (e mai più) complementare ad esso e per la quale non esiste demarcazione che differenzia maggiormente la donna dal resto del genere umano come il termine femminicidio. Quasi che l’omicidio non includesse la donna come appartenente alla specie umana. Per Saman non ci sono accuse di razzismo all’Islam, alla famiglia, alla mancata integrazione di chi vive nella nostra stessa terra, ma pretende che questa Italia sia solo un’appendice dell’islamico Pakistan o della più sperduta provenienza geografica.
Nessuna accusa e nemmeno una presa di posizione da parte dell’intero “quarto potere”. Nessun politico inginocchiato, non una femminista che rivendica diritti e libertà per le donne. Solo tanto silenzio. Eloquente. Complice. Omertoso. Che nemmeno la peggiore Sicilia dei tempi d’oro di Corleone.
Non è forse questo un caso di razzismo al contrario? Non è forse questo un caso di mancata integrazione verso il Paese ospitante? Non è forse questa una mancanza di rispetto verso l’Italia e gli Italiani, terra e gente che ha offerto ospitalità e integrazione senza nulla pretendere e che pare non essere mai abbastanza. Tanto da essere rifiutata nel modello educativo, formativo, di vita?
Giammai qualcuno che si indignasse al contrario, in difesa del bianco considerato suprematista a prescindere. Colpevole pure di respirare e di vivere, persino di essere nato e mai e poi mai vittima di una qualche anomala forma di discriminazione, di episodi di razzismo al contrario che dovrebbero pesare il doppio se commessi da chi abbiamo accolto. E invece no: lo stereotipo imposto vuole che il razzismo abbia la faccia nera, più nera possibile.  Magari con lo sguardo trafelato ma soddisfatto di chi arriva col barcone stringendo in mano il telefonino cellulare di ultima generazione. E ciò nonostante é ritenuto “vittima” a priori. Coccolato e osannato da una finta e ipocrita politica dell’accoglienza che non garantisce neanche la sicurezza e una sopravvivenza decorosa per tanti disperati abbandonati a se stessi nelle periferie-ghetto delle nostre città. Con buona pace dei “buonisti” di turno!
https://www.camposud.it/2021/06/united-colors-of-racism-la-tragedia-tutta-italiana-del-razzismo-ad-ogni-costo/

DAL DIARIO DI UN GIOVANE RATTO DA LABORATORIO

Io me la ricordo la mia prima volta. È stato un fine settimana fantastico, non vedevo l’ora che arrivasse mattina per poterci andare, finalmente. Anche se era consentito farlo per tutta la notte. Che trasgressione!
Mesi e mesi di attesa, sembrava non avessi mai avuto vita, prima. La notte prima non avevo dormito, tanta era l’ansia e l’attesa e la voglia.
Mi avevano descritto sensazioni inenarrabili. Pianto, commozione, gioia. Un fastidioso doloretto. Per tutti quelli che l’avevano fatto prima di me. Ma ora finalmente toccava a me! I miei 18 anni – qualcuno nell’emancipato nord anche 12 e 16 anni- ora avevano il loro valore. Finalmente avrei potuto anche io fare la mia storia, la mia foto da incorniciare, da mettere negli anali… ops annali.
Allora ho ubbidientemente atteso il mio turno prima di ricevere anche io il mio sigillo, ero un mezzo in mezzo a tanta gente ma io non socializzavo, non parlavo con nessuno perché mantenevo la distanza di sicurezza, quella sì che è sociale! Il telefono, quella diavoleria tecnologica con la quale ora si può fare tutto, non era sintonizzato su nessun canale di informazione alternativa, l’obiettivo della fotocamera mi puntava inesorabile. A dire il vero non era necessario nemmeno più lo sforzo perché anche i canali ufficiali lo dicevano chiaramente, ma io, noi niente…. fake! Fake! Fake! Fake anche il comunicato n. 387 dell’Aifa in cui si dice chiaramente che la Lorenzin, governo Renzi, nel 2014 firmava la porcata con cui l’Italia, non loro, in cambio di copiosissimi posti di lavoro da parte di Big Parma mai arrivati, accettava di fare da laboratorio sperimentale dei vaccini a livello mondiale. I famosi 10 vaccini senza i quali non si viene ammessi alla scuola dell’obbligo.
Persino sotto il consenso informato, dove io ho apposto il mio autografo, c’era scritto che la trasmissione del contagio poteva esserci tranquillamente anche con il vaccino. Dicevano che non sapevano quali gravi reazioni allergiche poteva provocare il vaccino, dicevano che le probabilità di contrarre il virus si riducevano solo dell’1% dopo il vaccino. Dicevano che non avevano fatto nemmeno i test di cancerogenità. Dicevano chiaramente che chi avrebbe fatto il vaccino accettava di fare da cavia ad un vaccino sperimentale con potenziali danni irreversibili solo per ridurre dell’1% le possibilità di contrarre il virus. Ma io il consenso informato non l’avevo letto, ma solo firmato sollevando da ogni responsabilità il medico inoculatore, il farmacista inoculatore, l’aspirante inoculatore. Desideroso di entrare anche io nel club degli inoculati, di avere anche io il codice di identificazione sotto pelle come gli altri, di sfoggiare la medaglia con la primula, di spararmi in corpo anche io la prima dose di merda. Gli altri, quelli che avevano subito trombosi, cecità, scomparsa del ciclo mestruale e svariati danni tutt’a un tratto non contavano più. Così come non contava più il fatto che quella dei 18enni era la categoria meno colpita eppure quella che aveva aderito in massa ad una vaccinazione inspiegabile. Azzarderei addirittura inutile.
Dicevano che le mascherine non servivano a nulla, che dai test effettuati (gli esperimenti!) hanno ammesso che nessun beneficio era stato rilevato. Ma, forse, qualche danno sì. L’ipercapnia, ad esempio. La truffa, poi. Però io l’ho sempre indossata, correttamente indossata come raccomandato, all’aperto, al chiuso, mentre passeggiavo, quando ho abbracciato per l’ultima volta mio nonno da dietro ad un cellophane. Il sesso no, perché era vietato. Però le ho tenuto la mano. Senza baci.
Mio nonno… che sfigato a conquistarsi tutto. Io, invece, me ne stavo comodamente sul divano aspettando che altri mi risolvevano la situazione. Postando i video su TikTok mentre venivo spiato con la finalità della raccolta di dati biometrici che non è altro che la classificazione di massa. O mentre ingurgitavo mondezza da delivery e spazzatura da mainstream e sotto gli occhi avevo un mio amico-idolo pro vaccino che, dopo averlo fatto, ha avuto una (in)spiegabile emorragia cerebrale, però aspettavo da altri il permesso di uscire, di respirare, di vivere. Permesso che era già mio, avuto gratis e che nessuno mi aveva mai tolto, se solo avessi tentato di capire qualcosa di quella Costituzione calpestata, vilipesa e pisciata con la quale all’hub mi hanno umiliato regalandomela. Barattandola. Ma io avevo preferito la birra a 50 centesimi e il panino del fast food. Al nonno del mio amico che non stava nelle RSA gli avevano promesso una erezione di quattro ore che “manco ‘e tiempe bell’ ‘e ‘na vota” ma lui non ci ha creduto.
Nel frattempo… io stavo in vigile attesa. In attesa che un virus che si cura veniva spacciato per mortale quando a morire ci ha portati la follia umana, la stupidità collettiva, il panico contagioso.

Tratto dal “Diario di un giovane ratto da laboratorio”.

NON SOLO GIOVANNI BRUSCA HA PAGATO!

NON SOLO GIOVANNI BRUSCA HA PAGATO!

La scarcerazione di Giovanni Brusca, il killer più feroce di tuti i tempi, colui che ha ideato e messo in atto la strage di Capaci al più importante giudice antimafia ed alla sua scorta, colui che ha sequestrato, strangolato e sciolto nell’acido un bambino di dodici anni ha riempito e riempirà ancora le pagine di giornali e telegiornali provocando unanime sensazioni di rabbia, dolore, sconcerto. Tutte capibili, ma va capito anche altro.
Al netto dei nomi altisonanti, importanti od “eccellenti”, per rifarci al gergo utilizzato per le scarcerazioni di cui il MoVimento 5 stelle tramite il Ministro della Giustizia Fofò Bonafede non ne sa(peva) nulla, avvenute con una circolare firmata da una “sprovveduta” segretaria di un ufficio periferico di sabato pomeriggio, ci sono personaggi scomodi ed ingombranti, veri e propri giganti trasformati in capri espiatori, servitori di uno stato ingrato che continua a condannarli persino dopo le indagini, dopo i processi, dopo le pene espiate per intero e senza sconti.
Penso alle vittime del golpe – perché tale fu! – giudiziario e finanziario del 1992, penso a due personaggi per tutti, l’uno di caratura nazionale e l’altro di rilevanza non minore, ma per una sorta di “orgoglio patrio”: penso al segretario del PSI Bettino Craxi, forse l’ultimo statista Italiano. Dobbiamo ritornare alla notte di Sigonella per ricordare un’Italia che ha fatto l’Italia, che poteva permettersi di fronteggiare gli USA a muso duro e schiena dritta, non solo con la forza militare, ma anche con quella diplomatica. E mai come in questo strampalato e pericoloso periodo storico che stiamo vivendo – non certo da protagonisti – non si può che ripensare a lui ed alle sue parole dall’amaro sapore profetico che trent’anni fa non abbiamo colto circa ciò che sarebbe stata l’Italia in questa Europa, a cosa avrebbero portato le privatizzazioni delle tante società statali, a come sarebbe stata svenduta la nostra Nazione. Al costo di qualche monetina, per di più di nostra proprietà. Posso citare Enel, Telecom, INa, IMI, COMIT, ENI o semplicemente l’IRI che oggi sarebbe la più grande azienda al mondo e che fino ad allora la classe dirigente italiana aveva tenuto saldamente. Siamo negli anni in cui si affacciarono sulla scena politica personaggi come Romano Prodi, quello che disse che avremmo guadagnato di più lavorando un giorno di meno e oggi già con un piede sul colle più alto di Roma. Erano i tempi della crociera del Britannia che aveva imbarcato a bordo anche tale Mario Draghi, oggi nominato Presidente del Consiglio.
Craxi è morto in esilio, ad Hammamet, ha scelto di morire tale perché non è più potuto tornare nella nostra terra da “uomo libero”.
E penso al napoletanissimo dottor Bruno Contrada, uomo di Stato, vertice delle Istituzioni, persona di fiducia dello Stato tanto da chiedergli di infiltrarsi per capire, autentico mastino di razza dell’Intelligence nostrana, ripagato con l’umiliazione dell’arresto, della condanna, dell’assoluzione impugnata, della cancellazione della condanna dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU) e da una nuova impugnazione da parte di quella magistratura che preferisce comparire sui giornali per il personale momento di gloria piuttosto che fare la storia per tutti.
Questi uomini hanno avuto vite distrutte e famiglie dilaniate, hanno pagato in termini giudiziari – quella ingiusta giustizia degli uomini iniziata quasi un secolo fa condannando e mettendo a morte altri uomini senza processo – ma anche in termini personali: carriere spezzate, malattie che hanno invaso i loro corpi, e la loro mente, ombre che inevitabilmente si ripercuoteranno anche sui loro figli e nipoti, parenti e amici. Autentici protagonisti della storia d’Italia consigliati e quasi costretti a chiedere la Grazia al Presidentissimo di turno (carica ricoperta anche da sinistri assassini riabilitati) quando, invece, avrebbe dovuto essere lo Stato a dire e a dare semplicemente un “grazie”. Grazia che, per un sussulto di dignità che solo chi ha la certezza della coscienza monda e le mani pulite per davvero può permettersi, non è mai chiesta.
Giovanni Brusca, dopo venticinque anni di detenzione per essere stato un collaboratore di giustizia e non un pentito, per avere fatto bene i suoi conti, come aver “lavorato in carcere” dicendo cose che poteva dire o magari solo quello che poteva “servire”, è libero di tornare a casa a godersi le sue ricchezze patrimoniali mai confiscate (MAI CONFISCATE!) sbeffeggiando anche pensione sociale e reddito di cittadinanza già riservato ad altri suoi “compari”, mentre persone come Bettino Craxi o Bruno Contrada, Publio Cornelio Contrada, il cui ultimo capitolo del suo orrore giudiziario vede il ricorso al risarcimento per condanna sbagliata da parte dello Stato che ha servito e di quella Patria per la quale ancora prova dolore nel vederla condannata, non godranno mai del diritto forse a questo punto più anelato, quello all’oblio.
Sarà un caso che gli stessi personaggi che si sperticano in corsi e ricorsi contro tutti e tutti sono gli stessi che pronunciano le parole più “misurate”? “La liberazione di Brusca, che per me avrebbe dovuto finire i suoi giorni in cella, è una cosa che umanamente ripugna – commenta all’agenzia Adnkronos Salvatore Borsellino, fratello di Paolo ucciso nella strage di via D’Amelio, poche settimane dopo Giovanni Falcone -. Però, quella dello Stato contro la mafia è, o almeno dovrebbe essere, una guerra e in guerra è necessario anche accettare delle cose che ripugnano. Bisogna accettare la legge anche quando è duro farlo, come in questo caso. Brusca è uscito dal carcere di Rebibbia dopo 25 anni. Questa legislazione premiale per i collaboratori di giustizia fa parte di un pacchetto voluto da un grande stratega, Giovanni Falcone, per combattere la mafia, dentro ci sono​ l’ergastolo ostativo, il 41 bis. Va considerata nella sua interezza ed è indispensabile se si vuole veramente vincere questa guerra contro la criminalità organizzata”.
Il Generale Dalla Chiesa, altro servitore di quello stesso Stato che lo chiamò alla lotta alla mafia e che, per premio e incentivo, lo lasciò solo disse che i primi fiori che sarebbero arrivati al suo funerale sarebbero stati da parte dei suoi mandanti: la prima corona che arrivò fu quella della Regione Sicilia. Per cui in questa Italia qua possiamo pure continuare ad andare avanti a cercare l’ormai famosa, o forse famigerata, agenda rossa. Certa che continuerà a proteggere ‘o verru perché testimoni ad altri processi o faccia attenzione a ciò che dice, mentre da vivo condanna a morte capitano Ultimo, già solo e senza scorta, costretto ad indossare un mephisto che lo renda irriconoscibile e a rinunciare alla propria identità. Come il peggiore dei criminali comuni.