IL PARADOSSO DELL’OSPEDALE MOSCATI DI AVELLINO: “SI ENTRA SOLO IN CODICE ROSSO”!!

Un sospiro che non dà alcun sollievo, una risata amara che ha tutto il sapore della beffa e pure l’odore che è meglio non dire di cosa.
È stata revocata l’ordinanza del manager dell’Azienda ospedaliera Moscati di Avellino inviata alla Centrale Operativa del 118 attraverso la quale sensibilizzava il Servizio ambulanze ad evitare il trasporto presso il nosocomio del capoluogo irpino dei pazienti che non fossero in codice rosso. Questo perché, o almeno questo è ciò che si apprende dalle dichiarazioni, il Pronto Soccorso della città irpina ha registrato il record di accessi, con ingressi di ben 3850 unità in un solo mese. Quanto basta per mandare in tilt l’organizzazione ospedaliera che ha rischiato di riversare una condizione di forte stress lavorativo sul personale sanitario deputato alle emergenze. E ancora: del numero complessivo degli ingressi, il 53% (circa 2mila accessi) avrebbe potuto sicuramente trovare adeguata risposta sul territorio, in quanto classificato al triage con codice verde o bianco, il 41% è risultato di media gravità (codice arancione e azzurro) e il 6% è stato classificato come codice rosso; 76 i pazienti arrivati per traumi ortopedici (25 alla settimana gli interventi ortopedici chirurgici, tra indifferibili ed emergenze); 199 quelli risultati anche positivi al Covid-19 e assistiti negli spazi dedicati. E ancora: il 71% (2700) dei 3850 pazienti, rientrava nel bacino di utenza del capoluogo irpino, il 16% proveniva da una provincia diversa (soprattutto dall’area sud della Campania), il 9% dai Comuni dell’Alta Irpinia e dell’Ufita-Baronia, il 4% da altra Regione.
Hai voglia a sciorinare numeri e a snocciolare percentuali, queste non sono altro che le conseguenze della grande abbuffata sulla Sanità ai danni dei contribuenti: ridimensionamento delle prestazioni dell’Ospedale Frangipane di Ariano Irpino; depotenziamento dei nosocomi dell’Alta Irpinia (Bisaccia) e la lenta agonia che da anni affligge il Criscuoli di Sant’Angelo dei Lombardi; addirittura la chiusura del pronto soccorso del Landolfi di Solofra; oltre ai tagli indiscriminati che lasciano tutta la gestione dell’ordinarietà e della straordinarietà alle “capacità” (di inventare) del manager. Oltre alla insufficienza del personale ospedaliero (cronico quello dei Pronto soccorso dai quali “sono andari via” ben 600 medici, come riporta la Simeu, la Società italiana di Medicina d’emergenza-urgenza) e non ultima la sospensione delle attività delle case di cura private e convenzionate che non hanno erogato prestazioni nel periodo di ferie.
Questa gestione disastrosa, da codice rosso, ha un solo colpevole: quello del Commissario Straordinario e Presidente della Regione Campania. Ovvero: la macchietta della pandemia e l’“ammacchiatore” dell’emergenza Vincenzo De Luca. Il personaggio per cui il Covid è stata una fortuna. Lo sceriffo che sguainava forbici con cui tagliava nastri di inaugurazione a reparti inventati di sana pianta; la maschera che inaugurava gli stessi ospedali anche più volte (di cui questa testata ne ha fatto memoria e dato voce, scaturite in molteplici denunce da parte dell’on. Marcello Taglialatela), il regista-scenografo della parata di ingresso notturno in città dei tir carichi di moduli prefabbricati per nuove strutture anti Covid.  Il mago che quei moduli Covid non li ha mai  nemmeno messi in funzione.
Una “emergenza pianificata” – che già in sé è una contraddizione, vizietto tipico anche del (fu) Governo centrale – che sarebbe dovuto rimanere in vigore sino al 31 di agosto, ma che ha potuto essere revocata grazie alla sinergia del manager dell’Asl e all’omologo della Direzione del Moscati che vede la panacea nell’avvio di quanto previsto dal Pnrr.
Oltre che ad essere negato il diritto ad essere curati, appare paradossale che a stabilire la gravità dell’urgenza (codice rosso, giallo, verde, bianco) è proprio il personale sanitario in servizio sulle ambulanze e, per fortuna, non tutti i pazienti fanno ricorso al 118.
Ciò che resta assurdo, invece, è la risposta che la politica, oramai ridotta a chiacchiere da becera campagna elettorale, che non riesce nemmeno a rendersi conto delle conseguenze delle proprie decisioni: perpetrando tagli su tagli, depotenziando le strutture periferiche, chiudendo quelle prospicienti. In tal modo facendo, la minima cosa che possa accadere è l’ingolfamento dell’unico nosocomio aperto e funzionante. Se mai può essere una soluzione la chiusura degli ospedali in piena pandemia, con una popolazione tra le più vecchie d’Europa, a tutto vantaggio degli ospedali Covid il cui virus, a quanto dimostrato, poteva tranquillamente essere curato con meno clamore, minori “strutturazioni” e impalcature degne di un pessimo show.
E paradossalmente è una “fortuna” pure non poter sentire il grido dei pazienti terminali a cui sono state sospese le cure salvavita o quelle allunga-vita. Altro che codice rosso! Medesima trovata, identica firma.
https://www.camposud.it/il-paradosso-dellospedale-moscati-di-avellino-si-entra-solo-in-codice-rosso/tony-fabrizio/

SALVIAMO MARCINELLE!

E dopo Capaci e via D’Amelio, ma prima di Dalla Chiesa, d’imperio toccava a Marcinelle. Rievocare. Che in questa Italia stravolta, ma non (ancora) sufficientemente sconvolta, significa ricordare di dimenticare. Proprio così. E se mafia e Sicilia hanno formato per tanti un connubio equivalente ad un ottimo trampolino di lancio per carriere stratosferiche, inesorabilmente convergenti tutte in gabinetti (istituzionali), vuoi che non si pieghi Marcinelle alle regole indegne della campagna elettorale? E Letta oggi – ma una Boldrini qualunque ieri – orfano di Calenda e “accoglione” urbi et orbi, sordi e tordi, dà l’esempio ricordando “la tragedia che coinvolse i nostri migranti”. Una retorica stantia, incartapecorita e fuorviante – per non dire falsa e falsata – almeno quanto l’antifascismo sbandierato ad ogni occasione utile, 365 giorni all’anno. Ogni anno. Da cento anni quasi.
E se per Capaci si (fa finta di) dimentica(re) il perché sia successo, o se vogliamo, non si sia evitato che l’autostrada saltasse in aria portandosi con sé il giudice più famoso in Italia e all’estero, Usa per prima, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta e Borsellino – che non era certo di sinistra, non dimentichiamolo come loro – lo si commemora ancora con la (sua) strage, dopo 4 processi – e non è l’ultimo – ognuno comprendente tre gradi di giudizio e solo adesso si inizia a nominare la parola “depistaggio”, omertosamente senza colpevoli, come da rito, per Marcinelle non si può che parlare di “immigrati”?
Perché anche gli Italiani sono stati un popolo di migranti è il mantra che va ripetendosi l’asinistra oramai scollata dalla vita reale, dal territorio, persino dal suo elettorato, ingannando se stessa per prima, ma obbedendo alle logiche del capitalismo globale rosso.
La verità è una sola e va chiamata col proprio nome, al netto di ogni giudizio storico, politico e morale.
Marcinelle è la storia di una lunga agonia iniziata alle ore 8.11 dell’8 agosto 1956 e conclusasi solo il 23 agosto. In questa lunga agonia trovarono la morte 262 minatori, 136 italiani, ben oltre la metà, quando nel sottosuolo di Marcinelle, tra pozzi e gallerie nelle viscere della miniera di Bois di Cazier non iniziò a propagarsi un fumo denso e acre che tranciò i fili del telefono e i cavi dell’alta pressione, rendendo così difficile, se non impossibile, lo spostamento dei carrelli sulle rotaie, comunicare con i minatori e soccorrerli.
Vani i sacchi di ossigeno calati nelle viscere della terra: il 23 agosto delle 262 anime resterà solo un dispaccio con due sole parole, scritte rigorosamente in italiano: “Tutti cadaveri”.
Quei cadaveri non erano che la conseguenza dello sciagurato Protocollo “italo-belga”, l”‘incenerizzazione” di 136 connazionali in cambio di carbone alla Patria, la svendita di 136 italiani trasformati in forza lavoro e divenuti merce. 136 morti a firma (e forma) del governo De Gasperi, di concerto col Clnai, rispondente a Democrazia Cristiana, Partito Comunista Italiano, Partito Socialista Italiano, Partito Liberali Italiano e Partito d’Azione.
E c’è di più: i lavoratori italiani che andavano in Belgio – immagine d’altri tempi – spesso venivano presi con l’inganno: il contratto, dicevano loro, prevedeva la durata di un anno, ma “i più fortunati” rimasero lì dentro fino a morte naturale. Il viaggio avveniva ammassati su dei treni che avevo la particolarità di essere blindati le cui porte non erano apribili dall’interno. In ogni angolo del Paese – già veniva chiamata così l’Italia – era possibile scorgere manifesti che descrivevano il Belgio quale l’Eden terrestre, dove ti davano da lavorare e anche vitto e alloggio. Chiaramente la realtà era diversa e lavorare non era il solo requisito richiesto: bisognava essere di sana e robusta costituzione, avere meno di 35 anni, forse così si poteva sopportare meglio il viaggio senza destinazione conosciuta e soprattutto senza poter fare soste, fino a quando non ci si rendeva conto della “truffa statale” di cui si era stati vittime: ammassati in campi di concentramento insieme con i soldati tedeschi prigionieri di guerra (il secondo conflitto mondiale era ufficialmente finito da oltre un decennio), imprigionati in stamberghe di lamiera gelide di inverno e roventi d’estate – visibili ancora in quelle sistemazioni che avrebbero dovuto fungere da casa per i terremotati dell’Irpinia e del Vulture del 1980 – e con una paga che a stento riusciva a coprire qualche volta al mese l’acquisto di pane e pasta per sopperire alla zuppa annacquata che chiamavano “pasto”.
Spesso ci è capitato di vedere fotogrammi di gente accalcata in dormitori spacciate per cuccette in legno e ferro più simili a delle gabbie che ad un letto atto, se non al riposo, quantomeno a recuperare forze ed energie per affrontare di nuovo la fatica della miniera: ebbene, quelle immagini spacciate per campi di concentramento della Seconda Guerra Mondiale, in realtà ritraggono i nostri padri ribattezzati “musi neri” in Belgio e ai quali era vietato entrare negli esercizi pubblici al pari degli animali.
Per cui basta con le fesserie finora propinateci, basta con le strumentalizzazioni più indegne di questa politica, basta con questa tecnica della goccia cinese per inculcarci senza sosta la retorica dell’accoglienza dovuta, basta con questa colpa sociale da inculcare al nostro popolo: le vittime di Marcinelle si trovavano lì per fare i lavori che i belgi non volevano più fare, perché il governo De Gasperi con i suoi degni compari sopra citati aveva eliminato la socializzazione del lavoro e delle imprese messa in atto dalla Repubblica Sociale Italiana e aveva barattato la manodopera (i figli della Patria) in cambio di carbone. Chi aveva “deciso” di abbandonare casa e famiglia e trasformarsi improvvisamente in minatore non fu ospitato in comodi alberghi con vitto, alloggio, lavatura e stiratura a spese di Bruxelles – il wi-fi ancora non c’era – mai protestò per il cibo che non si addiceva ai loro palati fini, non stava tutta la giornata a dividersi tra il poltrire e il bivaccare e, nei ritagli di tempo tra ozio e noia, rubare, spacciare, stuprare, violentare, ammazzare, squartare e abbondare in strada i corpi, magari nelle loro valigie di cartone. Non ricevettero nessun sussidio statale, né lo status di rifugiato e tantomeno nessuno pensò di regalare loro la cittadinanza, inventandosi lo ius soli, lo ius culturae. Nemmeno a quelli che dai meandri di Marcinelle non videro più la luce, né l’area. Per cui, se la politica è diventata propaganda ignobile e meschina, se l’amministrazione della cosa pubblica coincide con il trarre profitto ad ogni costo, primo su tutti di consenso, se davvero non riuscite a rispettare il vostro popolo, la vostra gente, i vostri simili, almeno abbiate la decenza di tacere. Anche quello è rispetto. Commemorate. Dimenticando davvero.

2 AGOSTO 1980 : LA STRAGE PRE-CONFEZIONATA; I RIPETUTI DEPISTAGGI; LA PISTA PALESTINESE DI CUI NESSUNO VUOL PARLARE!

Verità giudiziale, verità processuale, verità storica, verità dei fatti: ma è mai possibile che in questo Paese solo la verità non si può avere? E ci deve stare sempre un’altra parola vicino!
Potremmo parafrasare così una celeberrima battuta tratta da La Smorfia del trio Troisi-Arena-De Caro bollato blasfemo in illo tempore. Se solo non stessimo trattando di una tragedia, di un inganno, se solo non avessimo rispetto di chi ha pagato, di chi è stato coinvolto – pagando o no – di chi è stato infamato.
Di un depistaggio. Un altro. Di stato. L’ennesimo.
È trascorso quasi mezzo secolo dalla “strage di Bologna”, subito bollata quale “strage fascista”. Prima ancora che iniziasse il processo, eppure dopo quasi mezzo secolo ancora non si conoscono gli autori, i colpevoli, le cause. Però, sappiamo che è stata una strage fascista. Poi, a tempo debito, le scuse di rito, quelle che potevano arrivare. Quelle di Cossiga, in veste di Presidente della Repubblica, quella a sovranità limitata, quella allattata dal piano Marshall, che disse a Pinuccio Tatarella “Fui fuorviato, intossicato. Ho sbagliato, chiedo scusa a Lei che in questo momento rappresenta la sua parte politica”. Cossiga il “picconatore” che parlò – sua opinione personale, giammai – di “incidente”. Un tragico incidente in cui esplose una bomba, con molta probabilità, trasportata da terroristi palestinesi. Una bomba che non doveva essere innescata in quell’occasione. Probabilmente  indirizzata al carcere di Trani, in Puglia, dove era detenuto un altro terrorista palestinese.
Alla “pista palestinese” di Bologna sono legati (e negati) i nomi di due giornalisti scomparsi dalla faccia della Terra e persino dagli annali delle commemorazioni: si tratta di Italo Toni e Graziella De Palo, due reporter scomparsi la mattina del 2 settembre 1980, quando sarebbero dovuti partire per il Sud del Libano su una jeep del Fronte Democratico di Liberazione della Palestina, unitamente a Piera Radaelli, militante filopalestinese italiana. I due reporter avevano dato opportuna comunicazione circa il loro spostamento – sapevano quel che facevano e a cosa andavano incontro e chiesero di attivarsi qualora non si fossero più avute notizie (di loro due) dopo tre giorni. Ma l’Ambasciata italiana non si mosse che alla fine di settembre e solo su richiesta della famiglia della De Palo. Curiosamente (?) la Farnesina  decise di affidare l’inchiesta sulla scomparsa dei giornalisti italiani al colonnello Giovannone, capo del SISMI a Beirut e non all’Ambasciatore italiano in Libano Stefano D’Andrea, nonostante questi avesse inviato al segretario generale del Ministero degli Affari Esteri Malfatti un telex segreto in cui diceva che il rapimento era opera dell’organizzazione politica e paramilitare Al Fatah e di conoscere persino le identità dei rapitori.
Lo stesso Ministro Malfatti che si scoprirà, poi, essere affiliato alla Loggia P2 e che la scomparsa dei due giornalisti poteva essere collegata alle loro indagini circa il sequestro dei missili ad Ortona (CH) che portò all’arresto del responsabile della struttura militare clandestina denominata FPLP e, dopo pochi giorni, anche del suo leader Habbash.
In quella occasione lo stesso FPLP accuso l’Italia “di non aver rispettato i patti”. Quali patti? Quali accordi faceva la Repubblica per conto dell’Italia con il terrorismo arabo? E quali le punizioni per chi non avesse rispettato i patti? “Conosceranno il vero terrore” ebbero modo di dire i palestinesi, forse proprio Gheddafi in un comizio. Sarà questo il famigerato “lodo Moro” su cui l’allora leader socialista Bertino Craxi pensò di far calare l’oblio apponendo il sigillo di segreto di stato e non desegretato nemmeno dall’ex primo ministro Giuseppe Conte su richiesta del senatore Claudio Barbaro, come fa notare il suo assistente l’avv. De Conciliis.
Quel lodo cui fa riferimento lo stesso padre della Dc nei suoi 55 giorni di sequestro e che riguarda in accordo segreto della dirigenza palestinese e il SISMI nella persona del colonnello Giovannone, cui lo stato italiano non seppe dare risposte se non le sedute spiritiche di Prodi e la teoria secondo cui “non bisognava trattare col terrorismo”, voce del verbo “non ci sarebbero stati coinvolgimenti diretti dell’Italia negli attentati palestinesi, ma l’Italia dal canto suo metteva a disposizione il libero accesso alle organizzazioni anti-israeliane dell’OLP, oltre che la nostra penisola si sarebbe trasformata nel corridoio sicuro, oserei dire protetto, di armi ed esplosivo. In cambio gli Arabi ci avrebbero garantito regolare flusso del petrolio per l’ENI e accordi commerciali con Fiat. È forse questo l’incidente cui fa appello Francesco Cossiga? O si è trattato di ritorsione – leggi punizione – per il sequestro dei missili ad Ortona su cui indagavano Italo Toni e Graziella De Palo?
Forse la strage “fascista” di Bologna è solo il modo in cui il terrorismo palestinese aveva alzato il tiro dopo il duplice attentato all’aeroporto di Fiumicino del 1973 e del 1985 costata la vita a 34 e 13 persone. Prima e dopo il lodo.
Così fascista la strage, che si scoprirà, poi, sempre poi, che le BR erano il braccio armato ed esecutore dei collaboratori Olp e Fplp. Le stesse BR “lavatrici” del caso Moro e salvate dall’Inquisizione del giudice istruttore Imposimato che – si dice – che se non gli fossero stati nascosti dei documenti le avrebbe incriminate per associazione in concorso nel sequestro Moro: i Servizi avevano scoperto dove le BR tenevano prigioniero Moro, ma i Carabinieri di Dalla Chiesa e la Polizia due giorni prima dell’uccisione ebbero ordine di abbandonare il luogo attiguo a quello della prigionia.
C’è anche un’altra ipotesi/verità che aleggia sulla strage “fascista” di Bologna e ha a che fare ancora una volta con i mandanti/ideatori(?) del sequestro Moro. Si tratta delle “correlazioni” con un’altra strage, l’edulcorato -e mai risolto – disastro di Ustica, dove persero la vita 81 persone. Dopo oltre quarant’anni possiamo certamente dire che il DC-9 fu abbattuto. Le analisi condotte sulla carena del velivolo (sulla fusoliera intatta) non lasciano spazi a dubbi: non si trattò di incidente, di anomalie, né di un ordigno a bordo. Nell’abbattimento del velivolo furono coinvolti i militari franco-americani contro la Libia. Il DC-9 fu colpito e abbattuto durante un combattimento NATO contro un Mig libico sul quale avrebbe dovuto trovarsi Gheddafi. Se si fosse accertata la verità, non si sarebbe non potuto chiamare in causa la CIA, i Servizi di vari Stati, non escluso il Mossad. E i nostri Servizi? Se avessero saputo, avrebbero dovuto mettere in discussione la nostra permanenza nell’Allenza atlantica: eravamo in piena guerra fredda e… la storia dovrebbe essere riscritta.
L’ipotesi non è proprio campata in aria, ma del suo fondamento parlano anche un militare ed ex 007 del Gladio (G-71) Antonino Arconte e l’on. Cipriani del DP il quale ebbe a dire alla Camera dei Deputati che  “quella di Bologna rispetto alla precedenti fu una strage anomala, perché avvenne in una situazione politica ampiamente stabilizzata, tale da tranquillizzare gli alleati del nostro Paese; perciò la strage assume la caratteristica di un tentativo di cancellare dalla città l’attenzione della stampa, dal dibattito politico, dall’opera dei magistrati la strage di Ustica. Perché proprio Bologna? E’ presto detto.  Innanzitutto perché a Bologna risiedevano gran parte dei familiari delle vittime di Ustica, che dovevano essere zittiti con una strage di enormi proporzioni in città. In secondo luogo, perché il SISMI poteva contare sull’appoggio di importanti magistrati alla Procura della Repubblica. Infine, la interpretazione in chiave politica, di attacco alla roccaforte del PCI, sarebbe essa stessa stata un depistaggio sui reali obiettivi, scaricando, sulla manovalanza fascista, ampiamente infiltrata dal SISMI, le responsabilità”.
Mettiamoci pure che il 02 agosto 1980, lo stesso giorno della strage di Bologna, l’Italia a La Valletta firmò un accordo per proteggere Malta da possibili attacchi libici, nell’ambito della crisi tra i due Paesi. Accordo che, come dirà il diplomatico inviato dal Governo guidato da Giuseppe Zamberletti, fruttò le minacce libiche all’Italia. Anche quelle delle indagini di Priore che parrebbe individuare una origine cecoslovacca e militare, venduto in grandi quantità, nel materiale esplosivo, utilizzato per altri attentati e venduto dalla Libia anche a Cosa Nostra. Si tratta del Semtex, utilizzato nella strage (leggi depistaggio) di Via d’Amelio a Palermo.
Si potrebbero ancora citare le indagini di Priori, che porteranno a scoprire – ma non a capire – come mai di tre amiche si salva quella più vicina al luogo dell’esplosione, degli affetti personali femminili ritrovati nella stazione ferroviaria di alcune terroriste arabe vicino alla sinistra di casa nostra e, così, continuare ancora e ancora e ancora…
Come tutti gli anni, il 2 agosto è diventata l’ennesima commemorazione dove si sprecano retorica e parole vuote e sempre uguali, scritte da ghostwriter e spin doctor del politico di turno per far piacere ai soliti noti, agli utili idioti: le scuse – una tantum – ci sono state, l’onta nera sulla strage si è affievolita nel grigio, ma rimane la macchia. Anche per chi non c’era, per gli inquisiti e poi assolti, per quelli che hanno subito e non dovevano, per i condannati a non si sa a cosa e non si sa perché, per i “collaboratori” ritenuti attendibili anche se i fatti dimostrano il contrario.
Per la “ottanteseiesima vittima” che nessuno ha mai cercato, che nessuno ha identificato e che a tutti, tra l’utile disinteresse, conviene non identificarla. Una vittima che potrebbe tranquillamente rispondere al nome di Verità.
https://www.camposud.it/2-agosto-1980-la-strage-pre-confezionata-i-ripetuti-depistaggi-la-pista-palestinese-di-cui-nessuno-vuol-parlare/tony-fabrizio/