PROTESTANO I PANETTIERI: a lievitare sono rimasti solo i costi di produzione!!

Tante promesse, innumerevoli interessamenti, qualche palliativo, ma nulla di concreto. È questa la ricetta sposata e condivisa, specie in campagna elettorale, da destra a sinistra per le industrie del Bel Paese che già conta a migliaia quelle sul lastrico e non sono da meno quelle a rischio chiusura. Un esempio cardine, se vogliamo, può essere offerto dal bene primario per eccellenza: il pane. Non siamo (ancora?) per fortuna all’iperinflazione della Repubblica di Weimar, dove per comprare un chilo di pane occorrevano un chilo di banconote, ma la tendenza è (ormai) quella.
Stando all’ultimo allarme lanciato dalle associazioni di categoria, di questo passo il costo del pane arriverà molto presto a toccare i sei euro al chilo e sarà difficile trovarlo ad un costo inferiore. Certo, la guerra ha inasprito i costi, ma è risaputo che l’Italia non compra, o non compra del tutto, il grano dell’Ucraina. L’Italia importa la stragrande maggioranza del fabbisogno cerealicolo dall’americanissimo Canada – riconoscibili i segni dell’antico e sempre attuale Piano Marshall – e non si capisce il perché, con due immense pianure quali il Tavoliere delle Puglie e la Pianura Padana, nemmeno da questo punto di vista possiamo essere autonomi. Autarchia: un valore d’altri tempi!
Ad incidere sul prezzo finale del pane non sono, però, solo le materie prime, ma soprattutto i costi di gas ed elettricità che i produttori non possono non scaricare sul consumatore finale.
La conclusione è facile, logica e presto letta: la gente acquisterà meno pane e dove sarà più conveniente, se ancora lo comprerà. Se ancora potrà permetterselo. Il che non farà certo diminuire i costi di produzione. Le aziende artigianali, i forni storici, quelli che producono manicaretti d’eccellenza e di una genuinità rara, ma anche le pasticcerie, le pizzerie e simili rischieranno la chiusura, ovvero il fallimento. Altre partite IVA che non saranno affatto tutelate. Non mangeranno più, mentre la grande distribuzione che sforna obbrobri industriali se ne avvantaggerà. Fagociterà ancora.
Un comparto, quello dei panettieri, che tra aziende e indotto  conta all’incirca 1500 posti in cui trovano occupazione oltre 5000 famiglie e che potrebbero ad andare ad ingrossare le fila dei “nuovi poveri”.
Trecentomila, invece, i pastai, i pasticceri e gli impiegati nell’indotto che oggi 29 settembre protesteranno a Napoli per poi replicare lunedì 3 ottobre p.v. ad Avellino: chiedono interventi urgenti, misure straordinarie non più differibili a partire da energia elettrica e gas, altrimenti rischiano di tirare giù la serranda per sempre.
Sacrifici di una vita bruciati in un attimo perché a lievitare sono rimasti solo i costi di materie prime, di elettricità e del gas. Richieste di aiuto per poter lavorare. Per poter continuare dignitosamente a vivere.
Insomma, la nuova legislatura – la XIX – si apre così come si è chiusa quella precedente: le Camere, volendo essere ottimisti, non saranno convocate prima della metà di ottobre (il 13 pare sia la data più accreditata), poi bisognerà eleggere i Presidenti delle Camere. Infine potranno essere avviate le consultazioni del Presidente della Repubblica per formare il nuovo Governo. Solo dopo si potrà partire per tentare di salvare il salvabile. Che non è rappresentato solo da panettieri, pastai e pasticceri, ma almeno 25 milioni di famiglie che, sempre più spesso, per far fronte al caro vita, se non proprio alla disoccupazione, sono allargate a più nuclei ricongiunti a quelli originari che uniscono le forze per far fronte a questo dramma abbattutosi sull’Italia. Paese che stenta a trovare un fondamento logico e una conseguenza che non sia a diretta azione di forze politiche sciagurate.
Il governo Draghi si è concluso con le promesse al presidente Zelensky che l’Italia non lo avrebbe lasciato solo nella guerra, mentre la premier in pectore Giorgia Meloni ha da subito ricambiato complimenti e sostegno  via cibernetica con il Presidente Ucraino. Chissà se gli Italiani riusciranno a mangiare e a riscaldarsi con i complimenti e il sostegno all’Ucraina.  (ma questo é un altro discorso!)
Resta solo da sperare che facciano in fretta ad ottemperare a tutti gli adempimenti istituzionali previsti in questo arco di tempo tra la conclusione delle elezioni e la formazione del nuovo governo. Evitando così di arrivare fuori tempo massimo per intervenire a sostegno dei lavoratori del comparto dei panificatori e tanti altri ancora nelle medesime difficoltà. Risposte più concrete ai problemi reali di questa Nazione ormai martoriata devono pure essere fornite.
Chi provvederà a queste necessità impellenti e non più differibili? Ci penserà il Governo Draghi nelle more dell’avvio della nuova Legislatura, magari di concerto e sentiti i leader della coalizione risultata vincente alle elezioni di domenica scorsa? Sarà necessario approvare uno scostamento di bilancio (come richiedeva a gran voce Salvini e la Lega) o potranno essere sufficienti, nell’immediato, le proposte avanzate dalla Meloni di azzeramento di tutte le accise, l’IVA e ogni altro balzello a favore delle casse dello Stato e ancora caricate sulle bollette di famiglie e imprese?
Staremo a vedere. Certo é che la “nobilitas” del futuro Governo Meloni si potrà misurare sin da subito, a partire da questi auspicabili provvedimenti di urgenza per coloro che, loro malgrado, rimangono coinvolti nelle forche caudine del caro energia. Provvedimenti pur se assunti dal governo dimissionario, (Draghi) su sollecitazione forte e con la condivisione necessaria delle forze politiche uscite vincenti dalla competizione elettorale.
Questo si, sarebbe un gran segno di concretezza, vitalità e determinazione del nascente Esecutivo di Centro Destra.
https://www.camposud.it/protestano-i-panettieri-a-lievitare-sono-rimasti-solo-i-costi-di-produzione/tony-fabrizio/

AZOV È ACCIAIO

Prima le donne e i bambini. E tra i primi ad essere rilasciati c’è lei, Cateryna Poliskcuck, professione medico, nome di battaglia “Uccellino”, così ribattezzata grazie alle sue doti canore con le quali ha allietato le notti all’Azovstall.
Con lei, come lei torna libero Mykhailo Vershyn, capo della polizia di pattuglia di Mariupol. E anche il fotografo “Eyes of Azovstal” Dmytro Kozatsky. Insieme con “Chimico”, “Docente” e “Hassan”. Ci sono anche “Frost” e “Fox” di cui si scriveva fossero stati condannati al plotone d’esecuzione.
E non mancano i loro comandanti Denis “Redis” Prokopenko e Svyatoslav “Kalina” Palamar. Sono liberi. Come il maggiore Bodhan “Tavr” Krotevych. E pure il più giovane, il nemmeno ventenne Alexander Igorovitch.
Azov sta tornando a casa!
Non per stare sul divano o davanti alla tivvù a godersi lo spensierato riposo. Per gente come questa “casa” è l’Ucraina, casa è la loro terra martoriata e le loro abitazioni distrutte. Casa è quella battaglia da continuare per difendersi ancora. Per difendere la loro gente, il loro popolo, la loro Identità.
Il comandante Denis Prokopenko al riguardo ha fatto sapere che stanno bene, sono in uno stato d’animo combattivo e sono persino desiderosi di tornare a combattere. A dimostrazione che Azov è acciaio per davvero e che le loro battaglie in nome della difesa di Identità e Tradizione sono cucite tra pelle e animo, tra tatuaggi e mimetica da combattimento. Sono ragioni di vita, per continuare a vivere per davvero. Che è anche morire, per vivere in eterno.
Dei duecentoquindici difensori dell’Ucraina, duecento sono stati scambiati direttamente con Viktor Medvedchuc, l’oligarca amico di Putin. Nello scambio di duecento a uno sono stati inseriti praticamente tutti gli ufficiali del reggimento Azov. Questo conferma il valore degli oligarchi nel sistema russo. Un sistema di oligarchi, dunque, altro che sistema di popolo! Questo può indurci facilmente ad una seconda conclusione, seppur ovvia e scontata: il Cremlino fin da subito aveva dichiarato che non avrebbe mai accettato uno scambio Medvedchuc-Azov: evidentemente non è andata così. E non è la sola cosa che non è andata come pianificato dal fine giocatore di scacchi per questa – a questo punto – (solo) “sua” operazione speciale. Elevata a “mobilitazione militare parziale”, dove parziale non sta ad indicare certo il numero degli “arruolabili” sotto l’effige della rispolverata bandiera rossa con tanto di stella, falce e martello che nelle ore immediatamente successive al discorso dello zar ha fatto registrare il sold out dei voli in partenza dalla Grande Madre ed ingorghi automobilistici interminabili ai confini con la Georgia. Tutti civili quelli che fuggono? E, se è vero che la Russia può contare su un numero pressoché elevato tra riservisti e signori della guerra opportunamente addestrati – pare 300mila all’incirca – per quale motivo fuggono paradossalmente i “civili”, che non corrono il “pericolo” dell’arruolamento? Perché lasciano la propria terra f fare dove garrisce di nuovo la bandiera a strisce gialla e blu? E il consenso similplebiscitario dell’inquilino del Cremlino? Quel consenso che sembra essere ormai un problema anche tra storici alleati e nuovi padroni del regno dello zar, Pechino in primis. Ché, se il Dragone sta da una parte, è solo dalla propria parte. I musi gialli, infatti, si sono detti contrari non solo al prosieguo delle ostilità, ma finanche ai referendum nel Donbass e in Lugansk che avrebbero dovuto sancire la legittimità dell’operazione speciale, la russificazione, e, invece, si sta trasformando nella cartina tornasole del fallimento della strategia dello scolaretto revanscista del KGB. Che, poi, a dirla tutta, questa cosa delle elezioni pare tanto essere una replica di ciò che è già successo sotto regia yankee nel 2014 e oggi, magari inquinandone il risultato (scontato), non pare discostarsi da ciò che succede oltreoceano.
Le patrie galere sono ora libere di ospitare i (propri) renitenti alla leva, quei russi che sono scesi numerosi in piazza da Mosca a San Pietroburgo per protestare contro la mobilitazione ordinata dal Cremlino: la gente non ha voglia di guerra, ha voglia di vivere e non di morire, di andare via e godersi la vita sull’esempio degli oligarchi, non di perire per una idea non loro di rifondazione dell’unione sovietica. Forse, in questo la Russia è davvero “europea” nel peggior senso del termine, incapace di credere e di incarnare un’Idea ed è (anche) per questo che questa europa è incapace di riconoscere dignità e valore ai combattenti di Azov che non si sono tirati indietro difronte a chi ha minacciato la scomparsa della loro Identità. Di popolo e di Tradizione. Offrendo il più alto esempio di combattimento che si ricordi dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi. E, tocca ammetterlo, da apprezzare è addirittura il presidente-pupazzo Zelensky che ha tutte le colpe di questa guerra – che non è certo tra Russia e Ucraina – ma che è rimasto in Patria. Dove, forse, sarebbe dovuto rimanere Putin che ormai inanella continui passi falsi che si traducono in un bilancio tutt’altro che positivo: crescente rifiuto di combattere una guerra che i russi non vogliono – che significa anche un calo vertiginoso del consenso – rianimazione di un carro bestiame vecchio e senza motivo di esistere come la Nato con conseguente allargamento della stessa organizzazione; dimostrazione al mondo di arretratezza e incapacità dell’apparato bellico neosovietico – chissà cosa abbia appreso Putin dalle esercitazioni congiunte con la Nato e la sua richiesta di aderirvi -; implosione del CSTO e dell’area di influenza russa che certifica la potenza cinese con conseguente placet a fare razzia; conseguente isolamento diplomatico del Cremlino che si traduce in una già sudditanza cinese in primis, turca sicuramente e, forse, anche indiana; l’allontanamento, se non un definitivo addio, dei rapporti commerciali di Mosca con l’Europa – a vantaggio degli Usa che intavolano un nuovo piano Marshall – dopo (anche) la rottura dell’asse Mosca-Parigi-Berlino; crescente recessione economica russa che sarà costretta a svendere le proprie ricchezze, gas in primis a Cina e India su tutti che faranno da riserva per il Cremlino a prezzi stracciati; certificazione (e contributo) all’unipolarità del mondo a guida anglo-americana; ultimo il primo motivo dell’operazione speciale, quello della denazificazione che si è conclusa con la liberazione dei nazisti di Azov.
Per Putin e la Russia avrebbe dovuto essere lo sbocco al mare, ma qua tocca raccogliere il salvagente, seppur cinese, che Pe-chino ha lanciato allo zar, oltre che bisogna anche tenere presente che Kissinger ha cent’anni e non è eterno. A meno che non si scopra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che la Russia è solo l’altra faccia degli Usa. Allora potrà essere compreso anche Azov che è faccia pura, senza maschere né filtri. E che Putin, se non è complice, è proprio fesso. Che non so cosa sia peggio. C’è di vero, però, che gli Ucraini non sono i russi, che la loro Patria l’hanno resa grande contro una Grande Madre e che gli invasori stanno lasciando persino la propria terra d’origine. Per scelta e non per scelta, per convenienza e per continuare a vivere. Mentre gli aggrediti ritornano a casa, in quella casa mai abbandonata, più vivi che mai.

AUTOSTAZIONE “GODOT” DI AVELLINO: L’ENNESIMA INAUGURAZIONE FASULLA DI UN DE LUCA COMICO CHE NON FA RIDERE!!

De Luca fa, De Luca disfa. Vincenzo crea, Vicienzo distrugge. Non è certo l’onni (m)potente lui, ma è come se lo fosse. Perché lui si sente così. Lui non si discute. Lui è! Punto. Deve avere veramente un bel nulla da fare – o meglio d’affare – il Presidente plebiscitario della regione Campania per camuffare il nulla assoluto, il vuoto cosmico, per “ammacchiare” le macchie del suo “operato” divenendo macchietta egli stesso e finendo (in senso metaforico) per arricchire (e qui nessuna metafora è contemplata!) con sempre nuove genialate la sua infinita pièce teatrale.
E ieri, 7 settembre, lo sceriffo “ha fatto un altro piezzo”, inaugurando – dopo 36 anni di lavori – l’autostazione dei bus di Avellino. Che non è ancora completata.  E magari pure ringraziarlo qualora i lavori dovessero continuare ancora per il mancato completamento delle commissioni. Cosa assolutamente possibile, al momento.
Non è certo una commedia, purtroppo è tutto vero, tanto che la nuova opera è stata subito ribattezzata “Godot”. Il teatro dell’assurdo. L’eterno divenire. L’infinita perifrastica. La situazione in cui si continua ad aspettare in eterno qualcosa che appare come imminente, (e abbiamo detto che sono trascorsi “solo” 36 anni dall’inizio dei lavori!!) senza fare nulla perché siano effettivamente ultimati i lavori o, almeno, ci si dia una smossa.  Ed è proprio il caso dell’autostazione di Avellino  (De Luca ha specificato che si tratta proprio di un’autostazione e non di un semplice terminal) che, però, manca di collaudo e di ogni altra diavoleria burocratica perché possa iniziare ad essere fruibile dall’utenza. “Le autorizzazioni necessarie ci sono”, ha subito precisato il manager di AIR, meglio “di area”, l’area e l’aria sua, quella di De Luca che a gestire l’azienda di autotrasporti irpina ci ha piazzato un manager salernitano! Giusto per dire che la visione “salernocentrica” è una concezione deluchiana che “non esiste”. È l’ennesima eccezione che conferma la regola.
Allora, se le autorizzazioni necessarie ci sono, non si capisce perché la messa in servizio avverrà, meglio, dovrebbe avvenire si spera, solo il 7 di ottobre. Speriamo dell’anno corrente. E se le autorizzazioni per il collaudo non ci sono, come si è potuto tenere una pubblica manifestazione per inaugurare qualcosa che non c’é o non funziona ancora?? Poniamo così, assurdo per assurdo: l’opera inizierà(?) la sua attività il 7 di ottobre, ma il 7 di ottobre è una data successiva al 25 di settembre, l’election day dove Pierino De Luca, progenie di Vincenzo il Grande, si giocherà il futuro della permanenza in Parlamento, seppur candidato al primo posto in un collegio blindato. Allora ci pensa papà. E papà inaugura l’autostazione Godot durante le elezioni. Nonostante il “trascurabile” dettaglio che da domani l’opera inaugurata resterà chiusa. Domani, infatti, le corse partiranno da dove sono partite in tutti questi anni. Nulla è cambiato. Nemmeno i parcheggi potranno funzionare. E chissà quando potranno vedere la luce gli oltre 300 posti di lavoro promessi da De Luca. Riuscirà in un mese esatto a reclutare, formare e condurre alla meta burocratica le 300 persone che nell’opera inaugurata dovrebbero trovare un’occupazione?
Ma quello andato in “oscena” ieri ad Avellino non è che l’ennesimo tassello di una strategia collaudata – questa sì! – e che funziona nel tempo: come non dimenticare i numerosissimi ospedali inaugurati da De Luca nel biennio ’20/’21 a.c. (anno covid) e mai entrati in funzione? Che altro non erano che i moduli arrivati scenicamente in città di notte su un tir per poi essere abbandonati all’incuria e diventare sede di graminacee ed erbacce dalla crescita incontrollata. Alcuni di quegli “ospedali” mai entrati in funzione furono inaugurati più e più volte! Su Campo Sud Quotidiano troverete tutto il dossier, corredata dalle denunce presentate agli organi competenti dall’on. Marcello Taglialatela, il solo che ha intrapreso questa battaglia contro il satrapo annidatosi in Regione e che hanno fruttato già numerose comparizioni davanti agli organi giudiziari competenti. Quella stessa sanità che gli ha dato la “Santità”, secondo Vicienzo: non c’è un solo ospedale campano che non sia in emergenza: per carenza di risorse umane, per bilancio insufficiente, per attrezzature e macchinari sanitari inesistenti. Il Moscati di Avellino è stato addirittura costretto a chiudere il pronto soccorso agli interventi  che non fossero da codice rosso – ne abbiamo parlato qualche giorno fa sempre qui su campo Sud Quotidiano – interventi chirurgici saltati perché il personale – quello rimasto – è stato spostato per le emergenze e sottoposto a turni di lavoro massacranti. Emergenze che sono tali perché è stata congestionata l’affluenza presso i pochi ospedali risparmiati dai tagli, per nulla chirurgici, di Delucanossor, così come è stato ribattezzato nel besteller Terronia Felix, logica conseguenza e disagio già annunciato – non dai De Luca boys, però – presso i pochi ospedali che non hanno potuto fronteggiare l’emergenza. Ad arte creata. Così come “creati” sono stati di posti di degenza nelle terapie intensive: da posti effettivi siamo passati a quelli disponibili, poi a quelli utilizzati, poi a quelli… inventati! Così come le decine di posti in cardiologia presso l’ospedale di Sant’Angelo dei Lombardi inaugurati – manco a dirlo – da De Luca in persona e chiusi dopo 10 giorni! Perché? Non si sa. Bisognerebbe chiedere a Pierino De Luca che dice, in “campania elettorale” di voler riaprire l’ospedale di Solofra, potenziare le attività di quello di Ariano Irpino, di aprire nuovi reparti a Benevento e a Napoli: chissà se sa che tutti i nosocomi di cui ciancia sono stati chiusi proprio dal suo papà. Pieri’, Vicienzo t’è padre a te! Non ci stupiremmo di certo nel vedere Vicienzo Godot chiudere ospedali interi per poi farli riaprire dal figlio. Magari questa sarà la prossima mossa utile (e idiota) per l’avvicendamento sullo scranno più alto di Palazzo Santa Lucia, se col Parlamento dovesse andare male. Difficile, Pierino è capolista in un collegio blindato. Se proprio dovesse andare male, potrà sempre chiedere a papà Vicienzo un posto dei trecento all’autostazione “Godot” di Avellino. Altrimenti…. potrà sempre attaccarsi… al bus! Insieme al papà.

https://www.camposud.it/autostazione-godot-di-avellino-lennesima-inaugurazione-fasulla-di-un-de-luca-comico-che-non-fa-ridere/tony-fabrizio/

IL RICORDO DEL GENERALE DALLA CHIESA E DI QUELLA PORTA CHE NON SI APRÌ MAI

Tutto come da copione anche quest’anno. Galloni tirati a lucido, fasce tricolore fresche di tintoria, damine incipriate per il gran galà di coronamento della carriera. Le parole sono quelle buone, degne della “migliore” retorica, quelle da fiera delle belle intenzioni. Insomma, non è mancato proprio nulla per il quarantesimo anniversario della morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. A perenne ricordo che anche quarant’anni fa le parole delle istituzioni furono solo delle belle parole e nulla più. Quelle che ieri avevano tutto il carattere delle promesse e che, quarant’anni dopo, hanno tutto il sapore dell’inganno.
Non serve ripercorrere la carriera militare del Generale, né fare ricordo della sua umanità, delle sue qualità di solidarietà umana, di comprensione e di indulgenza verso gli altri ché, quelle no, non sono morte. Anzi, sono vive più che mai. Anche dopo quarant’anni.
Questa volta raccontiamo di quando il Generale bussò e nessuno gli rispose. O, forse, fu una risposta eloquente anche il silenzio. Omertoso. Lo raccontiamo perché, proprio nell’anno del quarantesimo anniversario della morte di Dalla Chiesa, è scomparso un altro (co)protagonista della vicenda: Ciriaco De Mita.
Dalla Chiesa, dopo aver combattuto sul campo, concretamente il Terrorismo rosso degli anni di piombo, dopo aver fronteggiato tutta la veemenza di chi, dopo mesi, anni di terrore, si trincerava dietro alla “prigionia politica” venne mandato in Sicilia per combattere la mafia.

Solo su di lui puntava lo stato. O, meglio, su di lui solo.

Egli chiese pieni poteri: gli furono promessi, non gli furono mai concessi.
Erano gli anni in cui non era stato ancora inaugurato il pentitificio di stato; per capire, per combattere il sistema delle cosche bisognava sporcarsi le mani nel vero senso del termine; erano gli anni in cui la Sicilia faceva paura e basta, non era ancora stata trasformata nel trampolino di lancio per stratosferiche carriere politiche, giuridiche, giornalistiche, imprenditoriali.
Erano gli anni in cui il generale Dalla Chiesa era solito rifugiarsi, soprattutto nel mese di agosto, a Villa Dora – così chiamata in onore della prima moglie – in un paesino delle verde Irpinia, Prata Principato Ultra. Amena collina, aria salubre, quiete e pace ristoratrici, vicini eccellenti. A meno di 30 km di distanza, nella natale Nusco, viveva l’allora presidente della Democrazia Cristiana Ciriaco De Mita. E proprio alla porta della tenuta del segretario della DC, già Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana, il Generale bussò senza, tuttavia, mai ricevere risposta. Ignorato totalmente. Indifferenza completa. E per questa cosa Dalla Chiesa non si dava pace. Non era possibile che nessuno lo ricevesse, che a nessuno importasse cosa lui avesse da dire. Come (non) potesse fare. Come (non) dovesse fare. Era impensabile – per lui – che i signori della politica pensassero che proprio l’incorruttibile Generale non stesse dallo loro stessa parte. Proprio lui che era arrivato al covo dove le Brigate rosse tenevano prigioniero il “compagno” di partito – poi di-partito per davvero – Aldo Moro, che a Bari commissionò proprio ad uno sconosciuto Dalla Chiesa la tesi per la laurea in Giurisprudenza, e proprio a lui fu detto di “lasciar stare” quell’appartamento. Proprio lui che aveva aperto le patrie galere a terroristi del calibro di Renato Curcio e di Alberto Franceschini.
E proprio lui fu inviato in Sicilia a combattere la mafia. Senza alcun potere speciale. Di quelli di cui si era avvalso per la lotta al Terrorismo rosso. Meglio un eroe morto che un combattente vivo, si potrà pensare in mala fede. E “a pensare male si fa peccato, ma spesso si indovina” era una delle convinzioni di Giulio Andreotti, esponente di spicco di quella DC del “silente” De Mita e dell’allora Presidente del Consiglio Spadolini che pensò di conservare bene bene nell’archivio di casa la lettera con cui il Generale chiedeva disperatamente a Roma i poteri speciali per espletare al meglio il proprio compito, per offrire il giusto successo – rendere giustizia – del proprio lavoro allo Stato committente.

Quella giustizia che annoverava tra le sue file il procuratore di Palermo Vincenzo Pajno – come racconta il prof. Nando Dalla Chiesa, figlio del Generale – che ebbe a dire verso suo zio che “non intendeva giocarsi le ferie!”. Un Ingroia ante litteram. Anche il buon magistrato persecutore di un altro servitore dello stato quale è Bruno Contrada e che oggi calca il palcoscenico della politica, nell’ultima tornata con Italia Sovrana e Popolare di Rizzo & co(mpagni), infatti, subito dopo la strage di Capaci e prima dei fatti di via D’Amelio, dove perse la vita Paolo Borsellino, ebbe l’ardire (e l’ardore) di dire al giudice missino che lui “doveva andare in ferie!”.

Ferie ristoratrici, ferie che servono ad incontrare amici e persone fidate, ferie che non ebbero tempo per il Generale presso Villa De Mita a Nusco né per una passeggiata presso Villa Dora di “Ciriachino”, dove al fresco del grande gelso il Generale ha ospitato tutta l’Italia che contava. Evidentemente non contava più Dalla Chiesa e di lui si contavano solo i giorni dell'(annunciata) agonia. Quattro mesi, nemmeno poi tanti, dovettero sforzarsi di contare coloro che lo lasciarono solo. Coloro che sono gli stessi che sono arrivati a contare i 40 anni dall’omicidio.
Coloro che avevano aperto la porta di casa a tutti, dove entravi fedele elettore ed uscivi “sistemato”. Lavorativamente. Almeno quelli che erano, appunto, elettori. Meno che per Dalla Chiesa. Le porte di quella casa dell’entroterra irpino che fu il suo rifugio estivo, però, sono aperte a tutti ancora oggi: Villa Dora è, infatti, un centro d’avanguardia per il recupero delle persone con problemi di tossicodipendenza. Perché quel senso di giustizia che fu il perno della vita, non solo istituzionale, del Generale continua ad essere seme e germoglio, frutto e pianta e radici. Forse legno, di porte non chiuse. Diversamente di quelle porte che adesso sono chiuse. Chiuse per sempre. Di quel legno arido. Secco. Morto per davvero.
Dopo 40 anni, col disincanto del tempo, sarebbe sufficientemente doveroso utilizzare due sole parole che, nelle cerimonie ufficiali, ancora sono estranee: grazie, per tutto quello che il Generale ha dato all’Italia: la sua vita e quella dei suoi cari in primis; e scusa, per tutto quelli che lo hanno ostacolato, per tutti quelli che lo hanno lasciato solo in vita e continuano a sfruttarlo da quarant’anni anche da morto. Se, poi, qualcuno lo ritiene opportuno, si inginocchi pure.

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