IL RICORDO DEL GENERALE DALLA CHIESA E DI QUELLA PORTA CHE NON SI APRÌ MAI

Tutto come da copione anche quest’anno. Galloni tirati a lucido, fasce tricolore fresche di tintoria, damine incipriate per il gran galà di coronamento della carriera. Le parole sono quelle buone, degne della “migliore” retorica, quelle da fiera delle belle intenzioni. Insomma, non è mancato proprio nulla per il quarantesimo anniversario della morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. A perenne ricordo che anche quarant’anni fa le parole delle istituzioni furono solo delle belle parole e nulla più. Quelle che ieri avevano tutto il carattere delle promesse e che, quarant’anni dopo, hanno tutto il sapore dell’inganno.
Non serve ripercorrere la carriera militare del Generale, né fare ricordo della sua umanità, delle sue qualità di solidarietà umana, di comprensione e di indulgenza verso gli altri ché, quelle no, non sono morte. Anzi, sono vive più che mai. Anche dopo quarant’anni.
Questa volta raccontiamo di quando il Generale bussò e nessuno gli rispose. O, forse, fu una risposta eloquente anche il silenzio. Omertoso. Lo raccontiamo perché, proprio nell’anno del quarantesimo anniversario della morte di Dalla Chiesa, è scomparso un altro (co)protagonista della vicenda: Ciriaco De Mita.
Dalla Chiesa, dopo aver combattuto sul campo, concretamente il Terrorismo rosso degli anni di piombo, dopo aver fronteggiato tutta la veemenza di chi, dopo mesi, anni di terrore, si trincerava dietro alla “prigionia politica” venne mandato in Sicilia per combattere la mafia.

Solo su di lui puntava lo stato. O, meglio, su di lui solo.

Egli chiese pieni poteri: gli furono promessi, non gli furono mai concessi.
Erano gli anni in cui non era stato ancora inaugurato il pentitificio di stato; per capire, per combattere il sistema delle cosche bisognava sporcarsi le mani nel vero senso del termine; erano gli anni in cui la Sicilia faceva paura e basta, non era ancora stata trasformata nel trampolino di lancio per stratosferiche carriere politiche, giuridiche, giornalistiche, imprenditoriali.
Erano gli anni in cui il generale Dalla Chiesa era solito rifugiarsi, soprattutto nel mese di agosto, a Villa Dora – così chiamata in onore della prima moglie – in un paesino delle verde Irpinia, Prata Principato Ultra. Amena collina, aria salubre, quiete e pace ristoratrici, vicini eccellenti. A meno di 30 km di distanza, nella natale Nusco, viveva l’allora presidente della Democrazia Cristiana Ciriaco De Mita. E proprio alla porta della tenuta del segretario della DC, già Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana, il Generale bussò senza, tuttavia, mai ricevere risposta. Ignorato totalmente. Indifferenza completa. E per questa cosa Dalla Chiesa non si dava pace. Non era possibile che nessuno lo ricevesse, che a nessuno importasse cosa lui avesse da dire. Come (non) potesse fare. Come (non) dovesse fare. Era impensabile – per lui – che i signori della politica pensassero che proprio l’incorruttibile Generale non stesse dallo loro stessa parte. Proprio lui che era arrivato al covo dove le Brigate rosse tenevano prigioniero il “compagno” di partito – poi di-partito per davvero – Aldo Moro, che a Bari commissionò proprio ad uno sconosciuto Dalla Chiesa la tesi per la laurea in Giurisprudenza, e proprio a lui fu detto di “lasciar stare” quell’appartamento. Proprio lui che aveva aperto le patrie galere a terroristi del calibro di Renato Curcio e di Alberto Franceschini.
E proprio lui fu inviato in Sicilia a combattere la mafia. Senza alcun potere speciale. Di quelli di cui si era avvalso per la lotta al Terrorismo rosso. Meglio un eroe morto che un combattente vivo, si potrà pensare in mala fede. E “a pensare male si fa peccato, ma spesso si indovina” era una delle convinzioni di Giulio Andreotti, esponente di spicco di quella DC del “silente” De Mita e dell’allora Presidente del Consiglio Spadolini che pensò di conservare bene bene nell’archivio di casa la lettera con cui il Generale chiedeva disperatamente a Roma i poteri speciali per espletare al meglio il proprio compito, per offrire il giusto successo – rendere giustizia – del proprio lavoro allo Stato committente.

Quella giustizia che annoverava tra le sue file il procuratore di Palermo Vincenzo Pajno – come racconta il prof. Nando Dalla Chiesa, figlio del Generale – che ebbe a dire verso suo zio che “non intendeva giocarsi le ferie!”. Un Ingroia ante litteram. Anche il buon magistrato persecutore di un altro servitore dello stato quale è Bruno Contrada e che oggi calca il palcoscenico della politica, nell’ultima tornata con Italia Sovrana e Popolare di Rizzo & co(mpagni), infatti, subito dopo la strage di Capaci e prima dei fatti di via D’Amelio, dove perse la vita Paolo Borsellino, ebbe l’ardire (e l’ardore) di dire al giudice missino che lui “doveva andare in ferie!”.

Ferie ristoratrici, ferie che servono ad incontrare amici e persone fidate, ferie che non ebbero tempo per il Generale presso Villa De Mita a Nusco né per una passeggiata presso Villa Dora di “Ciriachino”, dove al fresco del grande gelso il Generale ha ospitato tutta l’Italia che contava. Evidentemente non contava più Dalla Chiesa e di lui si contavano solo i giorni dell'(annunciata) agonia. Quattro mesi, nemmeno poi tanti, dovettero sforzarsi di contare coloro che lo lasciarono solo. Coloro che sono gli stessi che sono arrivati a contare i 40 anni dall’omicidio.
Coloro che avevano aperto la porta di casa a tutti, dove entravi fedele elettore ed uscivi “sistemato”. Lavorativamente. Almeno quelli che erano, appunto, elettori. Meno che per Dalla Chiesa. Le porte di quella casa dell’entroterra irpino che fu il suo rifugio estivo, però, sono aperte a tutti ancora oggi: Villa Dora è, infatti, un centro d’avanguardia per il recupero delle persone con problemi di tossicodipendenza. Perché quel senso di giustizia che fu il perno della vita, non solo istituzionale, del Generale continua ad essere seme e germoglio, frutto e pianta e radici. Forse legno, di porte non chiuse. Diversamente di quelle porte che adesso sono chiuse. Chiuse per sempre. Di quel legno arido. Secco. Morto per davvero.
Dopo 40 anni, col disincanto del tempo, sarebbe sufficientemente doveroso utilizzare due sole parole che, nelle cerimonie ufficiali, ancora sono estranee: grazie, per tutto quello che il Generale ha dato all’Italia: la sua vita e quella dei suoi cari in primis; e scusa, per tutto quelli che lo hanno ostacolato, per tutti quelli che lo hanno lasciato solo in vita e continuano a sfruttarlo da quarant’anni anche da morto. Se, poi, qualcuno lo ritiene opportuno, si inginocchi pure.

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IL RICORDO DEL GENERALE DALLA CHIESA E DI QUELLA PORTA CHE NON SI APRÌ MAIultima modifica: 2022-09-03T23:50:42+02:00da tony.fabrizio

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