L’EPITAFFIO DI CIRIACO DE MITA : “SONO DEMOCRISTIANO”!

Sulla sua tomba un biglietto che riporta la dicitura “sono democristiano” pare sia stata l’ultima volontà di Luigi Ciriaco De Mita.
Sì è spento la mattina del 26 maggio all’età di 94 anni presso la clinica Villa dei Pini di Avellino, dove era stato ricoverato in seguito a delle complicanze per la rottura del femore, solo l’ultimo degli acciacchi che, ormai, affliggevano il politico di Nusco. Quasi centenario e ancora “democristianamente” presente in politica, da Sindaco del paese natale fino alle sue “mani in pasta” alle regionali con lo storico, scellerato patto di Marano con De Luca – la notte prima del voto – e che ha portato alla morte dei suoi territori, quelli interni, ma anche nazionali con la mancata elezione degli “eredi”.
Il fenomeno De Mita è ancora troppo vicino storicamente per poterne tracciare con esattezza un profilo politico-istituzionale, ma poiché è vissuto sulla cresta dell’onda per quarant’anni e oltre non mancano le testimonianze – almeno di cronaca – per un ritratto, o forse, una caricatura a dir poco irriverente.
Ciriachino, come era affettuosamente chiamato dai compaesani dell’Alta Irpinia, si percepiva quasi come un unto – a.c. che sta per ante Covid – del Signore, una manna dal cielo e, si sa, una manna lava l’altra. Sempre democristianamente inteso.
7 volte segretario della Democrazia cristiana e un anno da Presidente del Consiglio dei ministri. Un uomo così zelante da non lasciare niente per nessuno, tanto che questi suoi doppi incarichi, quasi unici nella storia della prima repubblica, lasciavano il malcontento e l’amaro in bocca – asciutta – a tanti.
Proprio come con Vincenzino De Luca, Ciriachino aveva già vissuto un odi et amo, un rapporto stile amore/odio con politici di ben altra caratura, come ad esempio quello con Bettino Craxi, il cui esilio – se di esilio è giusto parlare – fu la vera fortuna del “capoclan avellinese” che finì per decidere il bello ed il cattivo tempo nell’Italia del dopo Tangentopoli, dove ha coronato 11 primavere alla Camera e un paio anche a Strasburgo.
Ultimamente in calo tanto di notorietà quanto di consensi, al punto che nel Comune dal lui amministrato, dove la politica è ancora – per fortuna – un secondo lavoro, in tanti gli contestavano il fatto di convocare assemblee e consigli solo nei giorni feriali e per di più in orari diurni, ovvero quando tutti quelli che non mangiano di politica erano a lavoro – a dirla tutta, i pochi che hanno avuto la fortuna di vederlo in Comune, visto che si è dovuto muovere persino il Prefetto per intimargli di riunire la giunta ed approvare il bilancio comunale – aveva guadagnato gli onori della cronaca per un furto nella sua villa di Nusco, quando alcuni malviventi si erano introdotti in casa obbligandolo ad aprire la cassaforte e facendo razzia di contanti, oro e preziosi.
Ben meno grave dell’altra vicenda che gli si è abbattuta tra capo e collo che ha coinvolto la moglie Anna Maria Scarinzi, ex collaboratrice di un altro politico campano – il compianto Fiorentino Sullo, Dc anch’egli – e che, unitamente alle figlie di papà Simona e Floriana, due di quattro, sono state indagate dalla Procura di Avellino con l’accusa di peculato e truffa aggravata per aver malversato con la Onlus, di cui l’ex First lady è presidente, dei proventi destinati a bambini diversamente abili. Forse, la vera presa di coscienza del tramonto del politico che può essere riassunto col vecchio adagio “finché è in cima ci si inchina, quando cala lo si impala”.
Non ultimo, il sogno demitiano di perpetrare la dinastia in politica con l’elezione mancata del nipote prediletto, forse il solo cognome è stato insufficiente per Giuseppe.
De Mita, però, per tanti avellinesi, se, nel bene, è (stato) sinonimo di pane e lavoro, di piaceri e “posti fissi”, come l’occupazione – in senso di impiego – presso l’ufficio stampa quirinalizio di Sergio Mattarella per la figlia Antonia, nel male ha inevitabilmente significato la partenza per lavoro di tanti altri figli d’Irpinia.
D’altronde, De Mita in persona ha regalato all’Italia due pezzi…da 90: proprio a lui devono le loro fortune Sergio Mattarella e Romano Prodi. Un “padrino” per dirla con Montanelli che fu trascinato in Tribunale da “Sciriaco” che vide l’incasso di un milione di lire, ma l’assoluzione del giornalista che, a sua volta, si vendicò sguinzagliando un altro giornalista – Paolo Liguori – che curò un reportage a puntate da cui venne fuori un vero “sistema De Mita” in Irpinia: non si muove foglia che Ciriachino non voglia. In realtà, la diatriba di carte bollate era nata a seguito di una battuta dell’Avvocato. Gianni Agnelli, infatti, aveva detto “un tipico intellettuale della Magna Grecia” di Ciriachino da Nusco, ignorando che la Magna Grecia si estendeva solo sulle coste e non nell’entroterra famoso del parto di Marano di cui sopra, e Montanelli replicò chiedendo lumi perché non capiva cosa c’entrasse la Grecia.
In tempi di amarcord, si ricorderà anche l’abbaglio di un altro giornalista – Eugenio Scalfari – che ebbe a dire che “l’Italia con lui sarebbe diventata una opulenta Svizzera mediterranea”. Abbaglio facile e verificato a posteriori.
Di lui si ricorderanno anche altri primati che lo hanno portato ad occupare il settecentottesimo posto di assenze su 733 presenze richieste, oltre un biennio di assenze nel Comune natale: sarà per questo che i tanti concittadini, anche il 77% di chi gli ha accordato la preferenza, chiedono illuminazione pubblica serale, trasporto e mensa scolastica? Sarà il dispetto dell’anziano leader al fatto che i suoi compaesani nella “scuola di Alta formazione politica” che ha portato in paese l’intellighenzia partenopea manco il naso hanno voluto metterci?
Ma il “padrino” ha fatto anche cose buone. E non (solo) per sé: non è stato minimamente sfiorato, ad esempio, dal taglio dei vitalizi voluto dai 5 stelle – la cui funzione è stata salutare fino a che non sono arrivati al governo”, ma “ora il malato ha finito per sostituirsi al medico e impone lui la cura per tutti, leggasi per l’Italia”. In questi casi, aggiunse, “finisce che si muore”- per cui gli eredi continueranno ad incassare i 6000 euro, visti i 40 anni di attività o potranno godersi ciò che rimane dell’attico e del superattico di Via Arcione a Roma: 650 mq di vista mozzafiato sui giardini del Quirinale. Ce lo aveva in locazione quando era premier e lo ha riscattato nel 2010 con 3 milioni e mezzo anziché 8 del valore di mercato. Pare poi rivenduto a 11.
E chissà che a proposito di valore, non ricordiamo ancora un vecchio politico, oggi come non mai, nel bene e nel male, di cui si sente, se non la mancanza (di capacità di ingegnarsi), quantomeno la necessità di avere personalità di questo livello. Già il rimpiangere i protagonisti della prima repubblica è un preoccupante termometro della situazione di questa disastrata Italia. D’altronde, se aveva la concezione di cui sopra delle nuove forze – forse – politiche del Paese, non lo preoccupavano da meno quelle storiche. Il PD, il “suo” PD, in una vecchia, seppur attuale intervista, lo aveva paragonato a Garibaldi in Sicilia: “Quando stava in Sicilia, e gli dissero di ritirarsi, Garibaldi rispose: “Sì, ma dove?”. Così è il Pd. Pure se si ritira, non sa dove andare. E quando non sai dove andare, la massima velocità che riesci a raggiungere è rimanere fermo”.
Magari fossero rimasti fermi quelli che rimossero i manifesti dell’Asse De Mita-Mancino (in foto) in vista delle amministrative del capoluogo irpino del 2018: oggi avremmo apprezzato di più quell’ironia, quel sarcasmo, quell’irriverenza, quei “ragionamendi” che ricordano le logorroiche di Aldo Moro. Ben altra tempra le filippiche almirantiane, ad esempio, che attaccava il politico anche e soprattutto quando era forte, quando De Mita lavorava con tutti, proprio con tutti, per fare sì che l’MSI non fosse compreso nell’arco parlamentare. Padre, padrino e padrone di quel pentapartito, ribattezzato “larghe intese”, ma che, in realtà, vuol dire “inciucio” da sempre. E poi i miliardi arrivati e spartiti per la ricostruzione del terremoto dell’80, la benedetta ricostruzione perennemente in fieri e mai terminata – tanto che i prefabbricati sono ancora esistenti, ma pure funzionanti – lo scempio perpetrato, con la complicità dei politici locali, del vicino Sannio, il ribaltone in Regione per fare cadere la giunta Rastrelli…
Oggi il politically correct, l’ipocrisia da etichetta vuole tutti mesti, lacrime agli occhi e fazzoletti in mano. Perché la morte è una cosa seria e quando si muore magicamente si diventa buoni, bravi, capaci, onesti, assennati, scrupolosi, tutti amici di tutti.
E per verità, per giustizia, per l’interesse di tutti non si può non ricordarlo come lui stesso spesso diceva: “Chi vuol far sembrare semplice una cosa complessa, non l’ha capita”.

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(NON) ABBIAMO SCOPERTO L’AMERICA

Solita corona di fiori, retorica fiera delle belle parole, nave della legalità. Mica della giustizia! Anche quest’anno è stato approntato l’indegno spettacolo per la commemorazione della strage di Capaci, dove tutti sanno che persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie, giudice anche lei, Francesca Morvillo e tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montonato e furono feriti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza. Oltre ad un’altra ventina di anonimi che passavano disgraziatamente per lo svincolo di Capaci.

Come ogni anno, anche quest’anno tutto è stato approntato per l’indegno ricordo, per un’altra puntata farsa di quella commedia che si ripete ormai da trent’anni. Un canovaccio hollywoodiano su cui imbastire una narrazione per tanti anni ancora, tanto… non si recita certo a soggetto, volendo farsi beffa di un altro illustre siciliano. Che parlava, giustappunto, di maschere e di volti. Una sceneggiatura che pullula di elementi vuoti al pari delle cicche di sigarette che fumi quando sei nervoso. Un intreccio buono da dare in pasto all’opinione pubblica e ad una magistratura inquirente, ma che non indaga. O almeno, non come dovrebbe. Il brutto e cattivo contro cui la gente può divertirsi e accanirsi. ‘o verru – il porco – o lo scannacristiani, come è stato definito, per la sua ferocia con cui era solito ammazzare le persone. Uno capace di uccidere anche a mani nude. Uno che è stato definito sostanzialmente un “picuraro”, anzi, una pecora – per come eseguiva gli ordini – in mezzo a tanti pecorari, senza offesa per nessuno. Che si è intestato centinaia di omicidi, da quello del piccolo Di Matteo sciolto nell’acido sino a quello del giudice Chinnici, quando aveva già adoperato l’autobomba. “Più di cento, ma meno di duecento”, così tanti da non ricordare tutti i nomi. Ma tutti con dovizia di particolari. Come le cicche che l’FBI ha analizzato – fatte trovare? – e su cui ci sono le tracce di Brusca. Un pecuraru capace di fare saltare in aria un uomo dello stato, uno dei più potenti, uno che conoscevano anche – e forse soprattutto – all’estero, visto che giornali del calibro del New York Times aprivano parlando di lui, ma che lascia le cicche a terra. Uno che è uno scannacristiani che ha sciolto, sezionato e dato in pasta a maiali e familiari un bambino di 12 anni e che è nervoso per premere un telecomando. Sempre che un pecuraru sappia come usarlo un telecomando. O che i telecomandi non siano due. E un secondo telecomando sarebbe stato azionato da altrettanti pecurari? Pecurari in grado di progettare, architettare un simile attentato al cuore dello stato? In grado anche di calcolare la curva della carica cava come un perito di esplosivostica? Dieci centimetri più giù e la Croma bianca si sarebbe alzata in aria senza che succedesse nulla. Se Falcone fosse stato sul sediolino posteriore – li dove avrebbe dovuto essere – si sarebbe addirittura salvato, come si è salvato il suo autista. Al suo posto.
Cosa Nostra aveva al suo interno una simile intelligence “militare”, visto che anche la maggior parte delle deposizioni sono state lasciate nemmeno in lingua italiana?
Abbandonando un poco il copione ufficiale – che altri hanno provveduto a scrivere per noi – potremmo chiederci se l’elemento su cui riflettere sia davvero la badilata di tritolo, la dinamica esplosiva, di chi fosse il ditino che ha pigiato il bottoncino o è utile – per le indagini, per la verità, per la giustizia – di cui, però, manca la nave – su chi abbia avvisato chi che Giovanni Falcone aveva appena lasciato il Ministero di grazia e giustizia ed era diretto all’aeroporto di Ciampino, da dove si sarebbe imbarcato su un volo privato con destinazione Punta Raisi – aeroporto intitolato a lui e al suo amico Borsellino, altra beffa di stato-.
Quel volo, oltre ad essere privato, era riservato, dei servizi, volava in segreto e nessuno, oltre chiaramente ad apparati dello stato, sapeva, avrebbe dovuto sapere di quel volo: orario di partenza, di decollo, di atterraggio e chi trasportasse e dove.
Chi ha analizzato le intercettazioni telefoniche ha potuto notare delle telefonate in orari particolari, localizzazioni e destinazioni che destano più di un sospetto. Un numero 0337, clonato, effettua delle chiamate in America, nel Minnesota da dove non si è mai saputo chi abbia risposto. Il perché, forse, sì. L’autore – Antonino Gioè – è misteriosamente morto in carcere. E il mistero che aleggia sulla sia morte è solo frutto delle stesse indagini. Della lettera che il giudice Signorino, invece, scrisse prima della sua morte nemmeno se ne sente parlare. Si sente parlare, però, di Ingroia – che mentre Falcone gli diceva del tritolo arrivato in Sicilia per lui – parlava delle ferie imminenti. Si parla di un altro magistrato-giustiziere, made in Usa, Andonio Di Pietro e la Tangentopoli che spazzò via una intera classe dirigente. Con la fine della cosiddetta prima repubblica, ci propinarono Giuliano Amato a palazzo Chigi, un uomo metà politico e metà tecnico, solo una presidenza transitoria per aprire la strada al primo banchiere di nome Carlo Azeglio Ciampi. Solo pochi giorni dopo, il 2 giugno, fecero la festa alla repubblica a Civitavecchia sul panfilo inglese Britannia dove iniziò la svendita del patrimonio italiano. Sempre nello stesso anno il magnate “filantropo” Giorgio Soros partecipò alla svendita della lira speculando contro la Banca d’Italia. La lira perse oltre il 30% del suo valore e ne conseguì l’uscita dal Sistema Monetario Europeo. Ma l’emrgenza era un’altra ed era costituita dai “naziskin” con casi montati ad arte e talk che iniziavano a nascere per preparare la gente ad ingoiare il primo reato d’opinione, la legge Mancino. Così facendo la stessa gente non ha mai chiesto alla tivvù, perché è stata messa in condizione di non chiederselo più, se la mafia potesse architettare il congegno, l’organizzazione, la predisposizione, lo studio, la scelta, il momento, il perché di una strage come quella di Capaci, come quella di via D’Amelio.
Il (de)corso creato in quel lontano 1992 oggi è visibile a tutti più che mai, dall’euro all’impedimento della manifestazione di un movimento innominabile sui social, ma l’unico a scendere in piazza e che vuole solo esprimere il dissenso contro questo governo che – guarda caso – ritrova dopo 24 anni quegli stessi uomini che, mentre Falcone saltava in aria, loro salpavano sul Britannia. Quel movimento – non elettorale – che è l’erede di tale Cesare Mori che debellò il fenomeno mafioso in Sicilia e che fu richiamato per entrare nei ranghi dello stato che, gramscianamente, è potere anche se non è governo. Quella mafia riapparsa, guarda caso, nuovamente sul finire della guerra, nel 1943, insieme ai “liberatori alleati”. Con loro sbarcò la democrazia che abbiamo visto tutti cosa è in ogni parte del mondo, ma tutti ancora si appellano alla democrazia quale salvagente contro le dittature. Ancora troppo presto per rimpiangere Mori, ormai troppo tardi per non piangere Falcone.

IL D.D.L. ZAN ESCE DALLA PORTA DEL PARLAMENTO ED ENTRA DALLA FINESTRA DI TUTTE LE SCUOLE.

Proprio così. Non è bastata la decisione del Parlamento di scrivere la parola “fine” su quel Decreto obbrobrioso proposto dal membro – non è una discriminazione! – della Camera dei Deputati il pdino Alessandro Zan, che questi ci riprovano attraverso altre vie.
Un ulteriore smacco per quel Parlamento rappresentante del popolo (fu) sovrano agli ultimi rantoli, dopo essere stato esautorato, tra l’indifferenza  e  la convenienza – generale in cui ancora è aperta la caccia ai 23 franchi tiratori proprio tra PD, 5 stelle e Leu che hanno affossato la proposta di Zan.
Con la Circolare (ancora una circolare!) come quelle con cui il Viminale ha tentato di mettere le pezze a provvedimenti e leggi pieni di buchi che il governo dei migliori aveva partorito, per l’esattezza la – n. 1211 del 4 maggio 2022 il Ministero dell’Istruzione, lo stesso Ministero dove sono stati partoriti i banchi con le rotelle, l’uso indiscriminato della mascherina sopra i 6 anni – ovvero dalla scuola dell’obbligo – e il vaccino obbligatorio per poter insegnare, vigilare e pulire le aule, compreso di certificazione verde per l’accesso anche per la firma di un modulo al plesso scolastico, istituisce la “giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia”. Prendendo a pretesto una risoluzione del Parlamento europeo – che, come e ormai più di quello italiano, non serve perfettamente a nulla, visto che a Bruxelles decide tutto la Commissione Europea alla cui scelte i cittadini non partecipano – i docenti e le scuole di ogni ordine e grado sono invitati(?) a creare occasioni di approfondimento con i propri studenti sui temi legati alle discriminazioni, al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Occasioni di approfondimento, che equivale a indottrinamento da parte delle scuole che in-formano, ovvero buttano dentro la testa, nozioni del tipo “tu puoi decidere di che sesso essere”, “sappi che se ora in bagno fai la pipì in piedi, alle scuole superiori potrai essere donna” e amenità simili.
Nell’ottica del rispetto non si potrà chiaramente dire che le donne dovranno concepire con un uomo o che i maschietti non potranno partorire: al bando la complementarità!
Occasioni di approfondimento, mica una discussione o un confronto. Vizietto tipicamente propagandistico di un’ala di questo sciagurato paese. D’altronde questa è la scuola che abolisce la festa del papà e della mamma per rispetto di chi “una mamma ed un papà non ce l’ha” – che poi i docenti sanno benissimo che, seppur in provetta e in un frigorifero, un papà e una mamma ci deve essere per forza, ma che forse è solo assente in nome della distruzione della famiglia tradizionale -, che abolisce il Natale e lo modifica, stravolgendo, in nome del proprio mos maiorum per rispetto di chi nel Natale di Cristo non crede, ma si ferma ugualmente il 25 e il 26 di dicembre, come da calendario di quel posto in cui ha scelto di vivere.
L’agenda è nota e il programma non deve essere fermato: si dovrà iniziare a scoprire il proprio corpo già all’asilo e, se fatto bene, il ciclo – mica il termine non rispetta lo standard del politically correct? – si dovrà concludere alle medie con l’insegnamento, non solo teorica, della masturbazione. In quelle stesse scuole in cui finanche la carta igienica dobbiamo portarci da casa!
Quelle scuola misurata, o meglio, monitorata con i test invalsi da Bruxelles che ci bacchetta su tutto, tranne che sulla qualità della scuola. Che, tuttavia, ancora riesce a sfornare eccellenze che poi gli altri Paesi vengono puntualmente a rubarci. Capaci di tutto, istruiti capillarmente, ma privi di ogni senso critico, di ogni elementare ragionamento: esiste più una educazione civica? Lo studio del Diritto – sempre e più solo commerciale e per di più in inglese – scuote in me quella coscienza utile a capire se la Costituzione italiana è davvero la più bella del mondo? È in atto un vilipendio del diritto (romano) in ogni azione dell’attuale vivere civile? Esiste in questo famoso diritto – visto che da ogni sperduto angolo di questa Terra studiano il nostro, quello romano – una legge che tuteli e condanni le discriminazioni in base all’orientamento sessuale? Sì, esiste già. Dunque, perché allora questa solfa trita e ritrita, impresentabile e puntualmente ripresentata dell’omofobia, bifobia, transfobia che pare il “lascia o raddoppia” dei termini? È davvero una legge – che poi non è nemmeno tale – che tutela le diversità – che poi sarebbero le vere ricchezze – o è un provvedimento liberticida, volto a zittire ogni voce contraria alla vulgata del politicamente corretto? Provvedimenti che vedono in prima linea sia il deputato Zan – che, a dirla tutta non rappresenta nemmeno le comunità lgtpq e che sopravvive persino alla blasfemia alfabetica della lettera Z, inesistente nell’alfabeto cirillico – sia Mario Mieli, teorico omosessuale che è arrivato a sdoganare persino la pedofilia attraverso percorsi di transizione – abbiamo anche un ministero con tale aggettivazione! Ma non stupiamoci: nell’Italia unita dal 1861 abbiamo pure un Ministero per il Sud senza che qualcuno gridi alla discriminazione!
Il tutto accadrà oggi, in ogni scuola d’Italia, tra il silenzio interessato e il disinteresse ben mascher(in)ato di tutti, in un’anonima mattina di maggio di fine anno scolastico. Dire che queste derive sono pericolose non è discriminazione: è la realtà. Quella nostra attuale realtà in cui persino la libertà è diventata una opinione.

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IL ROSSO E IL NERO. E NON E’ STENDHAL!

Honestà! Che che ne dicano e ne sappiano i novelli figli di Putin nostrani, inguaribili esterofili e amanti dell’erba del vicino che è sempre più verde, incredibile a credersi, anche questa Italia liberata, rifiutata, ripudiata e sostituita, vittima per “viltade del gran rifiuto” ha il suo 9 maggio. E se non lo celebra in pompa magna – per una festa al mese basta il 1° maggio di rosso – lo ha elevato a giornata internazionale per le vittime del terrorismo, che come tutte le “giornate internazionali o mondiali di” non serve esattamente a nulla.
Il 9 maggio il (fu) Belpaese ricorda (più?) la giornata in cui fu ritrovato cadavere il corpo di Aldo Moro in via Fani a Roma. Rosso (non?) come certe feste e certe piazze, come il lenzuolo che lo ricopriva e su cui impattarono gli 11 colpi della mitraglietta Samopar Vizor 6.1, dopo che la Walther PPK 9X17 si inceppò. Rossa come la Renault 4 rubata mesi prima a bordo della quale il presidente della DC fu fatto salire, dopo essere entrato in una cesta di vimini e dopo avergli detto di essere stato graziato. “Per non farlo soffrire inutilmente”. Rosse come le brigate che rivendicarono il sequestro, ma che sbagliarono a tracciare persino il loro segno, aggiungendo una sesta punta alla loro stella e che occupavano l’unico appartamento del condominio di via Gradoli 96, a sua volta occupato interamente da personalità del Sisde e che non fu perquisito perché non c’erano quegli abitanti che di notte sembravano “battere un alfabeto Morse” – a detta dei vicini lamentosi – ma dove gli operanti non ravvisarono dagli altri condomini motivo di sospettare una presenza brigatista e che in assenza dei quali non si pensò di buttare giù la porta, come da prassi in quegli anni.
Buchi neri sulla storia del cadavere più eccellente di questa Italia in rovina. Nero come il missino Pinuccio Rauti che qualcuno ha tirato in ballo quale testimone del sequestro, visto che abitava in una strada che faceva angolo con via Fani e che dal balcone avrebbe visto una parte della scena. Ma nessuno ha mai visto sulla scena del sequestro l’emergente boss della ‘ndrangheta Nirta, né dopo si è domandato il perché di quella presenza. O della presenza di due “civette” del sequestro che poi si è scoperto essere agenti dei Servizi e che uno di loro passasse, come dichiarato, in via Fani per andare a pranzo. Benché fossero solo le 9 del mattino. Un buco nero come quello della DIGOS che rispose che non esisteva alcuna via Gradoli a Roma. Nella Roma ultra-blindata per 55 giorni, tanto che si pensò di perquisire il paesino lacustre di Gradoli, nel viterbese. Quella Roma ultra-blindata, ma in cui i brigatisti quella tragica mattina riuscirono ad attraversare tutta la città per arrivare al centro storico, con l’ingombrante carico nel portabagagli, in via Caetani, dietro Botteghe Oscure, sede del Pci e poco distante da piazza del Gesù, sede della Dc.
Tanti buchi neri – e, forse, pure rossi – voragini ancora oggi e che portarono la famiglia Moro a rifiutare i funerali di stato, per un uomo dello stato. O, forse, solo delle Istituzioni. E anziché puntare ancora la luce sulla nostra storia, su quella che ci riguarda e, che ancora dopo quasi mezzo secolo, brancola nel buio più pesto (ma presto) ci occupiamo e, in alcuni (irrecuperabili) casi, festeggiamo la vittoria. Degli altri. Per gli altri. Ma se non ci si è interrogati finora sui “fatti nostri”, ci si può mai interrogare ora che hanno ridotto ogni facoltà intellettiva ad automa e automatica passiva accettazione di ogni cosa – seppur obbrobriosamente offensiva – spacciataci, ogni reminiscenza storica, politica, culturale, neuronale sostituita, in nome del cancella-culture imperante ed ossequiante, da una sterile approvazione da QR code.
Dunque, meglio imbucarsi alle feste altrui, imbacuccarsi con i loro vessilli seppur finora detestati – chissà se per davvero – e, da meri vassalli, non chiedersi perché si festeggia una vittoria, se il numero dei caduti supera, se non duplica, quello dei loro avversari. Se quello dei morti prodotti è quello più alto – stime loro – di ogni altra dittatura o regime in oltre duemila anni di storia. Che vittoria sarebbe chiedersi perché, persino a Norimberga tanto in voga in questo tempo in cui tutti sono assetati di giustizia, perché la stessa Russia stava dall’altra parte del banco degli imputati, se non si capisce che – anche per questi motivi – Norimberga fu un processo farsa? Se non ci si domanda che senso ha chiedere giustizia, se la giustizia nostrana è palamarizzata e vive il periodo di sputtanamento maximo della storia di questa disastrata repubblica. Disastro iniziato con la piaggeria verso la prima toga-star e finita(?) con i deleteri effetti dello stato che oggi tutti noi subiamo sulla nostra pelle. Con l’avallo proprio della giustiziah. E ancora oggi a rappresentarci a destra e a manca, ad ogni livello ci propinano dei magistrati. Inguaribili amanti del ’92. Ci si dovrebbe chiedere se quella vittoria non sia stata contro di noi, italiani, contro chi ci è simile e soprattutto perché. Ma si tende solo a cambiar padrone. Passivamente. Ora che anche gli atei santificano il dubbio che non è tale, ma è solo una tecnica (ben collaudata: cfr. strage di Primavalle) lottacontinuista, intrisa del più becero cerchiobottismo. Che stordisce solamente. Niente spirito. Solo alcol. Meglio se vodka. E allora, intrufoliamoci pure in casa d’altri, a festeggiare le loro vittorie – che è poi solo un successo – non tanto diverse da quella Italia che festeggia la sconfitta e non la vittoria, il 25 aprile e non il 4 novembre. Ora, persino il 1° maggio. Senza lavoro, ma con tanti ricatti. Raccattando la sopravvivenza e non la vita. Chiamando vita l’attesa della morte. Il 9 maggio la nuova liberazione. Come la nostra. Pura utopia. Come la piazza di Mariupol, sede dell’annunciata parata, tristemente uguale alla Piazza Rossa di Mosca. Tristemente uguale alla terza Roma. Tristemente uguale a quella vittoria di chi ha combattuto contro di noi e che oggi trova proprio noi al loro fianco solo per combattere la NATO americana, padrone della nostra Terra che, da “mera espressione geografica”, è ridotta, o meglio, adibita a più grande portaerei nel Mediterraneo con la bandiera blu – sia essa stars&stripes o con le stelline dorate, che poi è la stessa cosa – che combatte tramite nazi(onali)sti di cui però non si apprezza la lotta. Di male in peggio. Con tutti gli scheletri e i cadaveri nell’armadio. Nostri. Nostrani. Mostri. Da consegnare alla storia. Che è verità.

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PADRONI E PADRINI

Alla fine Lavrov ha tenuto banco per lo stesso tempo che sono durati i post demenziali e tutti uguali sul condizionatore secondo Conte, il termostato a 28°, il vanto sull’essere i soli – solo il primo di maggio – a non indossare la mascherina, il doppio cognome.
Sull’intervista, che tale è e quindi non necessita affatto di un contraddittorio, si è detto tanto e, forse, si può dire ancora qualche altra cosuccia.
Atteso che Brindisi fa il giornalista, ha fatto lo scoop e fa solo il suo mestiere, da una intervista – come potrebbe succedere anche per Putin che spera di poter intervistare – non si può certo capire o chiedere quali siano le prossime mosse, se la guerra finirà e quando.
La guerra finisce quando reputi che il numero di morti da una o dall’altra parte sia sufficiente per dire basta. Se il sacrificio di quegli uomini sia valso un accesso al mare piuttosto che aver tenuto quel passo in montagna.
Il numero due del Cremlino era simpatico a tanti in questo martoriato Paese già solo per aver detto a Gigino che la diplomazia non è un pranzo di gala (cfr. Mao Tze Tung “La rivoluzione non è un pranzo di gala” e striscione del movimento innominabile sui social affisso alla sede del giudice di pace a Napoli, quando Napoli divenne capitale della protesta due anni orsono).
Nell’occasione non ho proferito parola, ma a me diede fastidio. E parecchio pure. Lungi da me difendere l’indifendibile Di Maio, ma in quel momento Gigino rappresentava l’Italia e non se stesso, compreso me che lo detesto e non l’ho votato. Una persona minimamente italiana si sarebbe quantomeno indignata e, invece, ne è scaturita solo approvazione. Per Lavrov. Per la stessa logica illogica secondo cui se sei contro Putin devi essere per forza a favore di Biden e della Nato.
Per tutto il corso della durata delle minacce – perché tali sono state ed io dico pure che ce le siamo meritate tutte, noi compresi che abbiamo eletto quel parlamento di nullafacenti e similgigino che tengono in vita il governo e hanno dato nuova vita al vecchio inquilino quirinalizio – c’è stato chi ha visto addirittura una “alleanza” della Russia con il popolo italiano perché Putin dal Cremlino, mentre dirige una guerra e licenzia i militari rimasti in vita più che restatigli fedeli, sa che il popolo italiano non approva. Magari visto che abbiamo i suoi missili puntati in testa e le atomiche altrui sotto al culo, senza uno straccio di mezzo che possa difenderci, Putin per grazia di Dio avvertirà come in Ucraina che domani alle 10 bombarderà via Togliatti, per cui evitate di andarci.
In questo folle scenario minacciatorio-propagandistico, qualsiasi Italiano si sarebbe dovuto risentire e fare leva sulla dignità per essere stati minacciati in casa, seppur “noi non c’entriamo e, anzi, sono dalla tua parte”. E, invece, niente.
Finché ci saranno questi personaggi – e ce ne sono tanti – si potrà continuare a parlare beceramente di Fascismo perché sono ancora vivi i venticinqueluglisti e gli ottosettembrini.
E visto che siamo in tema, vogliamo parlare della genìa (quindi le razze esistono per tutti! Mal “comune” è messo gaudio…) di A.H.? Al netto dei periti di genetica – manco fossero tutti la mamma di Bill Gates! – i tifosi figli di Putin si sono divisi tra gli ultrà della purezza della razza che, non si danno pace perché include il III Reich – e gli offes(s)i dalle affermazioni neobolsceviche. Nessuno e dico nessuno che identifichi H. come il male abbia preso in considerazione, magari anche solo per provoc-azione – il fatto che lo stesso può essere il male proprio perché proprio di quella genìa. Visto che dagli ebrei discendono i sionisti che si sentono i padroni – e padrini – del mondo. Il termine di paragone, il riferimento sono gli ebrei, ma intesi come incarnazione, come identificazione, come sinonimo di bontà, di bene, di valore.
E mentre in Italia siamo alla masturbazione catodica, alle sanzioni e alla richiesta di spiegazioni per la mancata censura – razza di incapaci anche su questo tentato fronte – Macron parlerà con Putin. E non è escluso che dall’Eliseo riesca a ritagliarsi un ruolo di primo piano in questa crisi che pare non voglia/possa avere fine: che l’unione europea sia un rozzo motivo di convivenza meticcia e bastarda che tutto segue tranne che una via comune è ormai acclarato a tutti, come che l’asse Parigi-Berlino è filorusso da sempre. Inoltre, Putin potrebbe avere bisogno di una pace, visto che il suo esercito in due mesi di guerra ha avuto perdite superiori a quelle patite in quindici anni di Afghanistan; il che vuol dire anche una forza armata decimata. Con la quale potrà andare all’assalto di Odessa che, però, non è sui confini, diventati (ex?) minaccia per casa sua? Quella casa sua che è l’Ucraina da ricostruire, ma prima da finire di demolire. Come l’acciaieria Azovstall’. Che si assalta – dicono i Ceceni – ma poi non più – fa sapere Putin – perché bisogna salvaguardare vite umane e poi nuovamente sì perché i ceceni pare vogliano lasciare a piedi il Cremlino. E Odessa, che non sta sui confini, come la prendono? Non certo come non hanno preso Kiev!
Se Macron riuscirà nel cessate il fuoco, sarà un duro colpo innanzitutto per gli inglesi. Che sono, almeno fino ad ora, i veri vincitori di questo conflitto. Insieme con i compari a stelle e strisce. Che hanno tutto l’interesse a far cadere Putin nella trappola ordita per indebolire l’asse filorusso di Aquisgrana, quindi i lacchè tutti di Bruxelles, veri obiettivi della guerra per interposto territorio (ucraino).
Ma noi pendiamo dalle labbra di Lavrov che non si accorge di noi e, se se ne accorge, ci tratta come uno sputo. Visto che noi insistiamo a voler dare le carte quando il gioco è il rubamazzetto. Visto che siamo “da secoli calpesti, derisi perché non siam popolo, perché siam divisi”. E Lavrov lo sa. Ecco perché ci ha scelti.