Aeronautica militare, compie 100 anni la forza armata nazionale (nonostante la cancel culture)

Roma 25 marzo – Ieri l’Italia si è svegliata con un richiamo – che, però, ha tutto il sapore del rigurgito – “all’italianità”, all’orgoglio di sentirsi (non essere, che è differente) italiani, così è stata ribattezzata tale giornata da tivvù e giornali cui sempre più spesso viene affidata la delega esclusiva dell’in-formazione, epurandola, però, da ogni elementare, quanto dovuta, riflessione.

Aeronautica militare, oggi i 100 anni

Quella che ci viene presentata non è l’Italia del pallone che ha rimediato la sconfitta contro la “perfida Albione”, ma proprio l’Italia nel pallone, quella che riesce a ricordare i 100 anni della fondazione dell’Aeronautica Militare senza alcuna celebrazione ufficiale – il ministro della Difesa Guido Crosetto ha pensato bene di andarsene in gita alla Leonardo, eccellenza italiana della sicurezza, dell’aerospazio e della difesa, ma in ambito industriale e “figlia” controllata dal Ministero dell’Economia e Finanze – e poi si è recato di protocollo alle Fosse Ardeatine; la stessa Italia che si ricorderà nuovamente di inno & bandiera solo al prossimo incontro di calcio; quella che dà ascolto ad un Frantoianni qualunque e cancella il nome di un asso dell’aviazione come Italo (nomen omen!) Balbo dalla cadrega degli aerei di stato; la stessa Italia che abolisce la festa del papà per rispetto di chi un papà non ce l’ha – ma come è possibile? – per restare nella stretta attualità o, addirittura, pretende di festeggiare il Natale senza il “nato”, se vogliamo dare una visione più ampia dello stesso tema.

Celebrazioni della “fascistissima”, senza cancel culture

Ebbene, questa Italia del cancella culture, ieri è riuscita persino a celebrare il centesimo anno di vita dell’Aeronautica senza citare mai, minimamente il Fascismo. La Regia Aeronautica, infatti, fu una delle prime creature del movimento littorio appena insediatosi al governo, tanto è vero che la sua fondazione avvenne solo cinque mesi dopo la Marcia su Roma, facendo, rapidamente, dei “combattenti dell’aria” una delle eccellenze di casa nostra che meglio incarnavano il prestigio dell’Italia all’estero, da dove i nostri connazionali emigrati sognavano di ritornare, un giorno, in Patria, magari a bordo dell’Ala Littoria, la compagnia di bandiera – sì, ne avevamo una, allora – italiana.

Proprio per la sua fondazione, proprio per i suoi padri come Balbo, già ras di Ferrara e quadrumviro della Marcia, proprio perché quell’arma del cielo era “totalitaria”, nel senso che piaceva proprio a tutti, dai nazionalisti che volevano un’Italia competitiva e moderna, agli intellettuali come d’Annunzio e i futuristi che cantavano l’aeroplano quale protagonista di una nuova società dinamica, fino agli imperialisti che volevano avvalersi di strumenti moderni da utilizzare “in” e “per” i possedimenti coloniali e agli industriali che, fin dai tempi della Grande Guerra, avevano visto nell’aviazione un affare lucroso, senza fare eccezione per lo stesso Mussolini, immediatamente brevettatosi, che amava pilotare, che non disdegnò di offrire la vita di due dei suoi figli, piloti in guerra anche loro – e, non ultimo, grazie ai successi senza eguali, come parte dei primati detenuti e ancora imbattuti, primo su tutti la trasvolata oceanica, questa leggendaria Arma volante si guadagnò l’accezione di “fascistissima”.

Se, poi, vogliamo dirla tutta, ovvero ciò che l’”in-formazione ufficiale” ieri non ha raccontato, bisogna pure ricordare che dopo la resa incondizionata dell’8 settembre – che il mainstream chiama impropriamente “armistizio” – la “fascistissima” non esitò a “scegliere l’Italia” confluendo interamente nella Repubblica Sociale Italiana, da dove continuò a mietere successi e a dispensare esempi che sono giunti fino a noi.
Da queste colonne libere e non uniformate possiamo anche affermare, con piena tranquillità di coscienza, qualora non si sapesse, che ancora oggi le aviazioni degli altri Paesi guardano a quella che fu la Regia Aeronautica per studiare e perfezionarsi, a riprova del fatto che è esistito un italian style sia nelle creazioni di apparati statali sia nel combattimento; che oltreconfine tuttora guardano non all’Italia, ma a quella Italia, quale esempio ancora valido, quale ricchezza imperitura da cui ancora attingere, quale eccellenza cui tendere. Ed è di una tremenda bellezza vedere gli intellettò uniti e compatti, con cancellino e bianchetto, affannati a tentare di cancellare ora la statua, ora il palazzo, poi l’idea, il concetto, il neologismo, l’esempio, la storia, la civiltà. Certi che li troveremo ancora così, a fare le medesime cose, anche tra cent’anni. Senza che abbiano ancora finito il loro sporco lavoro di “pulizia”.

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L’Anpi annuncia “boom di iscritti”. Cin cin, ora i partigiani rinuncino ai soldi pubblici

Roma, 20 mar – La notizia è di quelle che “fanno storia”, tanto da meritarsi titoloni e prima pagina de La Repubblica da incorniciare e appendere al muro per l’eccitazione di Berizzi. L’Anpi fa il pienone ed è record di iscritti: 140mila nuovi partigiani che versano l’obolo e si schierano “in difesa della costituzione e dell’antifascismo”. Almeno così titola La Repubblica che ha anche analizzato questo emergente fenomeno psico(socio)patico fornendo addirittura delle precise risposte: troppi – esiste un range di un minimo/massimo consentito (da chi?) ma nessuno lo sapeva – episodi di apologia di fascismo; molti svarioni della destra sull’antifascismo; troppi disvalori – che poi sarebbero i valori di chi non è come loro – in giro.

Cortocircuiti rossi

Come di consueto, però, il primo cortocircuito non tarda ad arrivare. Tra le cause che hanno portato al massiccio tesseramento pare ci sia anche la proposta, partita dall’assessore comunale, deputato e coordinatore regionale di Fratelli d’Italia, Fabrizio Rossi di Grosseto, di una “via della pacificazione”, ovvero una strada comune in cui confluiscono a loro volta due strade, intitolate una a Giorgio Almirante e l’altra ad Enrico Berlinguer. Giammai! Lotta continua. Since 1945. Ovvero quando la guerra era già finita. E loro l’avevano pure vinta, avendo sconfitto il nazifascismo. È da allora che festeggiano ogni 25 aprile ed è altrettanto da allora che combattono ogni giorno lo stesso fascismo da cui ci hanno liberato. Valli un poco a capire.

D’altronde questa è la loro identità: essere appartenuti a determinate formazioni, salvo poi scegliere la congrega opposta più conveniente al momento opportuno, aver combattuto una guerra a guerra finita, far parte di autonominate “brigate” che furono formazioni di una decina di uomini nel migliore dei casi, non riconosciuti da alcuno, senza una uniforme, per non citare omicidi, stupri, processi sommari, furti di galline, di soldi, di cibo.
Dunque i nuovi portatori di foulard rosso in gola con tanto di stella, i nuovi adepti di Tito, i nuovi fedeli di Pertini l’assassino che ha concesso più grazie che nessun altro santo in Paradiso, l’inginocchiato davanti al catafalco del boia iugoslavo e che non ebbe scrupoli nemmeno davanti a donne incinte come Luisa Ferida, si moltiplicano per andare a fare guerra a un manager già autodimissionario, dopo aver citato Mussolini – che si assunse la responsabilità politica di un omicidio – dicendolo di averlo scambiato per Nelson Mandela.

A proposito di abbagli antifascisti

Chissà se nelle loro riunioni politicamente corrette e uni-formate si leverà una voce di qualche semicolto che parlerà ai compagni partigiani di Dante Castelluccio, meglio conosciuto (da loro) come comandate Facio, già medaglia d’argento al valore militare, ammazzato dagli stessi compagni partigiani, dopo un processo sommario, come d’abitudine, o addirittura in una imboscata tesa da altri partigiani suoi simili. La “verità storica” l’Anpi su questa (loro) storia ancora non l’ha scritta. Forse i comitati sono troppo impegnati a fare altro. Chissà cosa, visto che nemmeno hanno tentato di riscrivere la storia – ancora! – dell’incendio a Parma avvenuto poco tempo fa di una corona di fiori all’antifascista Guido Picelli. Immediatamente i partigiani avevano nientemeno che gridato all’aggressione fascista – ad un “fascio” di fiori? – al ritorno del pericolo fascista con le squadracce armate di olio di ricino e manganello. Ma le indagini, però, raccontano un’altra verità. La Digos ha individuato in una sola persona l’autore del gesto. E c’è di più: il vandalo è addirittura un africano di 31 anni. Partono, allora, gli sfottò social degli utenti che chiedono se “essendo stato appurato che l’artefice del gesto è un africano di 31 anni, si può considerare aggressione fascista?” ai quali l’Anpi addirittura replica, dando prova di non conoscere la misura del ridicolo: “Sarebbe interessante conoscere le motivazioni del gesto“.

Insomma, anziché ammettere di aver diffuso una fake, di essere stati vittima della loro stessa follia visionaria cronico-degenerativa, di correre a rettificare i post che immediatamente avevano sciorinato nel metaverso, i nipoti dei rossi protagonisti della nostra guerra civile preferiscono ipotizzare l’esistenza di una sorta di fascio africano. Altri fantasmi. A questo punto e stante questo livello, la cosa che davvero dovrebbe preoccupare (sempre loro) è proprio il numero crescente delle iscrizioni – che siano come le tessere farlocche del Pd? – che, è evidente, non ha una corrispondenza nella qualità di ciò che dicono, fanno, inventano.

Boom di iscritti all’Anpi? Utile a rinunciare ai soldi pubblici

Insomma, requisiti essenziali per entrare in quelle scuole “rette” da dirigenti scolastici come quella del Michelangiolo di Firenze e spacciare ancora verità comode a danno della storia vera, del libero pensiero, della conoscenza. Che è verità. Chissà, però, se almeno questa volta che sono così numerosi, avranno la dignità di costituirsi finalmente quale associazione autonoma e di rinunciare a un incomprensibile quanto ingiustificato contributo statale, vieppiù elargito stavolta da un governo “di destra” – che non è la giusta collocazione del fascismo, ma i loro monologhi senza contraddittori nemmeno permettono di capirlo – da avversare in ogni modo, nonostante l’atteggiamento dell’esecutivo sia sovente quello di (com)piacere a più non posso una certa sinistra. Niente di più, niente di meno della fine dei loro duri e puri compagni antifà anticapitalisti di Potere al Popolo di Napoli che fanno richiesta e ottengono ben 16 milioni di fondi del Pnrr per aggiustare la casetta (okkupata) ma con i soldi sottratti al popolo. Sarà vera gloria per questi partigiani nuovi di zecca? Ai kompagni l’amara sentenza.

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Guerriglia a Napoli: e se accadesse anche altrove e non solo per il calcio?

Roma, 17 mar – Le immagini di Napoli messa a ferro e fuoco sono di una rabbia indicibile e rischiano di esserlo non solo per il capoluogo campano. La guerriglia dei supporters tedeschi dell’Eintracht l’abbiamo vista tutti: attività commerciali distrutte, panico tra gli abitanti, terrore tra i turisti. Il giorno dopo è il giorno della conta dei danni e quello delle chiacchiere da bar. Più di qualcuno, che dopo due anni di chiusure folli per la pandemia e l’alluvione che solo qualche mese fa interessò il lungomare della città stava tentando di rialzarsi, dovrà ricominciare da capo ancora una volta, ma da nessuno in questa prima giornata si è sentito parlare di responsabilità. O, se vogliamo, di colpe. C’era della ruggine tra le due tifoserie? Alimentata dai gemellaggi del tifo delle due squadre? Il calcio giocato, in questo caso da giocare, c’entra ben poco. Gli scontri dei tifosi tedeschi sono avvenuti principalmente con le forze dell’ordine – se così ancora si possono chiamare – impiegate in numero esiguo e facenti funzione di meri accompagnatori. Ma anche loro, in realtà, hanno subìto il malumore generato dall’indegno “balletto del biglietto” ideato dai vertici delle istituzioni: trasferta vietata, anzi no, ammessa. Allora, escludiamo solo i tifosi tedeschi. Ma perché? Divieto solo per chi risiede a Francoforte, no?

Guerriglia a Napoli, un caos istituzionale

Il caos istituzionale ha generato la reazione dei tifosi esclusi, a cui è stato vietato l’accesso allo stadio, ma non alla città, quali figli di Schengen che non siamo altro. Quando, a volerla dire tutta, il posto più sicuro dove concentrare tutta quella gente era proprio lo stadio, il solo luogo dove li avresti potuti tenere fino a notte inoltrata, per poi organizzare un corretto deflusso, in piena sicurezza per la città, per i cittadini, per i turisti e per tutti quelli che, invece, hanno subìto tali divieti. Oltre che i danni. Davvero non era prevedibile una simile reazione? Davvero non ci sono state letture delle avvisaglie che tutti avevano pur già anticipato? Davvero nessuno è riuscito ad intercettare quella falange di tifosi giunti a Napoli, previa tappa a Bergamo?

Il coro unanime immediatamente levatosi è stato tutto un chiedere le dimissioni del Prefetto della città partenopea, del Questore e persino del Capo del Viminale che è un “tecnico” con un passato già da Prefetto di Roma e avrebbe dovuto essere il vero valore aggiunto nell’organizzazione dell’ordine pubblico. È possibile che ci sia stata solo colpa della disorganizzazione e dobbiamo abbeverarci alle varie fonti dell’errore, della disattenzione, della mancata ponderazione del pericolo e (fare finta di) credere che l’esperienza maturata stavolta abbia toppato? O, magari, si “ottimizzerà” tali eventi occorsi per approntare una nuova stretta, una nuova restrizione, magari parimenti (folle) a quella già paradossale in vigore al Maradona che prevede l’ingresso senza bandiere, senza tamburi, senza trombe, senza striscioni?

Sono queste le personalità deputate alle decisioni, questi protocolli elaborati dai “periti” di uno Stato ormai ridotto a mero participio, che soccombe sotto la minima minaccia di chiunque, senza la benché elementare dignità, così come dimostrato dal sindaco di Napoli Gaetano Manfredi che, a guerriglia ancora in atto, convocava l’ambasciatore di Germania in città e, in favore di microfoni e obiettivi, si sperticava per rilanciare parole vuote e retoriche di amicizia e collaborazione, anziché presentare il conto dei danni, far sentire la propria voce per il semplice e non scontato motivo che ci si trova in casa nostra.

Oltre il calcio

Oggi, anche la narrazione sta cambiando: colpa dei napoletani. Forse per evitare di pagare i danni ai napoletani. Danni da chiedere proprio tramite il diplomatico subito rassicurato a Palazzo San Giacomo. E stiamo parlando di un caso già annunciato e destinato a risolversi in quarantott’ore al massimo. E se, invece, dovessimo affrontare simili casi improvvisi? Pensiamo che la presenza di tifosi che hanno raggiunto Napoli per la partita è lo stesso numero di sbarchi di clandestini che, ormai, si registra in una sola giornata. Se le “risorse” che sbarcano ogni giorno, se quelle già sbarcate, se quelle che ormai bivaccano in ogni parte del territorio nazionale, o, peggio, se insieme decidessero di comportarsi come i tifosi tedeschi ieri a Napoli, si agirebbe nello stesso modo?

Con uno sparuto numero di agenti che, al massimo, riescono a fare salire tutti gratuitamente su un bus per poi accompagnarli in una delle tante strutture ricettive messe a loro disposizione (da noi, contribuenti passivi)? Con tanto di guanti bianchi verso i “diversamente italiani”, ma non disdegnando di sparare getti d’acqua ad altezza d’uomo e lacrimogeni su italiani contribuenti che chiedevano solo di continuare a svolgere il proprio lavoro, di potersi godere le bellezze di questa nazione, vestigia di quella Civiltà per eccellenza che incarniamo da secoli. Da sempre.

Non è cambiando il nome, ma formando altre menti e altre coscienze, magari nazionali, avendo rispetto di ciò che ci è stato gratuitamente dato in eredità e conquistato (non da noi) a colpi di sangue e di genio, con l’orgoglio – da riscoprire – di essere italiani che ci si incammina per risolvere questi problemi. Ma non oggi. Oggi il mainstream ha rispolverato un’altra puntata della serie con protagonista Matteo Messina Denaro che va in onda da trent’anni ormai, in questo Paese. Tanto per non parlare. E per parlare d’altro.

https://www.ilprimatonazionale.it/cronaca/guerriglia-a-napoli-e-se-accadesse-anche-altrove-e-non-solo-per-il-calcio-258172/

Claudio Anastasio e lo strano caso del manager “mussoliniano” dimissionario

CLAUDIO ANASTASIO Ð PRESIDENTE 3-I S.P.A

Roma, 15 mar – La notizia è ormai di dominio pubblico e non si può non accoglierla di primo acchito con una grassa risata: Claudio Anastasio, il presidente della 3-I, la partecipata che ingloba Inps, Inail e Istat, ha rimesso il suo incarico. Il manager scelto dal governo Meloni ha deciso di fare un passo indietro dopo che La Repubblica aveva pubblicato una mail dello stesso Anastasio indirizzata al CdA in cui riportava gran parte del discorso pronunciato da Benito Mussolini all’indomani dell’uccisione di Giacomo Matteotti. Unica e sola variante l’aver sostituito la parola “fascismo” con il nome della società che era stato chiamato a dirigere.

Claudio Anastasio e il coraggio delle idee

Così, mentre l’opinione pubblica si divide (anche) su questo tema, come se ce ne fosse ulteriormente bisogno, tra chi urla allo scandalo e chi ulteriormente si scinde tra scusanti di goliardia e accuse di megalomania, forse è il caso di porsi qualche domanda. In primis, se volessimo dare ascolto allo “scandalo” montato ad arte, verrebbe da chiedersi su quali basi vengono scelte certe personalità o, meglio, gli incarichi da attribuire loro. Ma soprattutto domandarsi cosa possa spingere a riportare fedelmente uno dei discorsi più conosciuti e studiati – anche dagli “anti” – pronunciati, stavolta a un CdA e non alla Nazione, da una personalità italiana che ancora oggi, quasi un secolo dopo, continua a dividere e che consente a Benito Mussolini “in persona” di continuare a vivere almeno quanto divide.

E ancora: se una persona ha delle idee e non è disposta a correre dei rischi per quella idea… perché avventurarsi per certe strade, salvo poi ritrattare e dimettersi? Pare che nessuno abbia, anche dopo, messo in discussione le competenze “tecniche” che hanno sicuramente portato alla nomina di Anastasio. Se si crede in un’idea, che sacrosanta non lo è certo meno perché è criticata da altri (magari avversari ai quali sempre più spesso si deve piacere), allora perché fare un passo indietro? Non è forse peggiore l’idea delle (auto)dimissioni, ammesso che esistano idee migliori di altre?

Con l’amore o con la forza?

Certo che tra reazioni che si sprecano, dall’evergreen “apologia di fascismo” (Picerno del Pd), all’”aspirante gerarca” (Frantoianni), e sterili quanto gratuiti tentativi di difesa “evidentemente crede di aver sbagliato” (Foti di FdI) – ma cosa avrebbe sbagliato, qualche citazione? – Anastasio stravolta ha fatto pure il lavoro dell’opposizione: si è infatti dimesso, anticipando e accontentando la minoranza che un giorno sì e l’altro pure chiede la testa di qualche componente dell’esecutivo. Silenzio dai big del governo, però, a questo punto, sarebbe utile, ai fini della paradossale vicenda, conoscere se le dimissioni siano state indotte “con l’amore, se possibile o con la forza, se necessario”, per dirla con… Anastasio.

https://www.ilprimatonazionale.it/cronaca/claudio-attanasio-e-lo-strano-caso-del-manager-dimissionario-258055/

……… MA CHE FINE HA FATTO NAPOLI…..!!!???

Mo basta! Ma che razza di (mal)trattamento viene riservato alla città di Napoli su tutti i fronti, in ogni campo, a qualsiasi livello, ormai dipinta irrimediabilmente solo nel suo stato peggiore? Ed esiste pure una corsa, con tanto di competizione in cui coinvolgere la popolazione, per andare a conquistare lo scranno più alto di ogni Palazzo, da dove dare il proprio contributo alla distruzione della città, per cancellare la cultura della napoletanità, per minare inevitabilmente l’identità partenopea. Quella identità che pure è rimasta immutata nel tempo, nella lingua, così come nella struttura della città che, ancora oggi, continua ad affascinare e ad esercitare quell’attrattiva unica subìta da spagnoli, da francesi, da italiani e da ognuno che sia giunto alle falde del Vesuvio per dominare, finendo irrimediabilmente con l’essere dominato. Quel Vesuvio che sbuffa ritratto in quelle cartoline che, per fortuna, nei tabacchini non si vendono più, altrimenti fotograferebbero il (paradossale) divieto di fumo – pardon, di svapo – non del Vesuvio, in una terra dei fuochi dove il rischio cancro, anche infantile, con conseguente mortalità, è altissimo, quasi certo. E non per tabagismo.
Quella città ordinata nel suo disordine che ha conservato, come pochissime altre, la sua struttura originaria: quel reticolo di cardi e decumani che “settorializzava” ogni settore: ‘o burevo, il Borgo di Sant’Antonio per il mercato e quello degli Orefici per i preziosi, la zona del Duomo per gli abiti da cerimonia, le “mura” (sotto e ‘ngoppa) per il pesce fresco, San Gregorio Armeno che non ha bisogno certo di presentazioni, San Sebastiano con i più disparati strumenti musicali, fino ad arrivare a Port’Alba, straripante di ogni genere di libro, scolastico e no.
Centro storico oggi ridotto a tristi serrande abbassate, ad una sorta di “buchi appilati” dall’ennesimo kebabbaro fuoriuscito che sul web fa a gara con la miliardesima vera pizzeria aperta, con la vecchia frittatina nuova di zecca o col pasticcere autoproclamatosi Re della frolla quando nella Napoli vera(ce) – quando c’era vera Napoli – questa manco rientra(va) fra le sfogliatelle.
Per i fortunati che nella metropoli riescono a (soprav)vivere, invece, pare non ci sia altra strada che la povertà, la delinquenza, la faida, la paranza dei bambini, per dirla con un “best seller” ultimamente in voga. Questo è ciò che dice e scrive l’intellighenzia autoctona – una volta alimentata da gente del calibro di Goethe e Leopardi – che ha monopolizzato i salotti esportando il messaggio in tivvù e su ogni altra sorta di diavoleria, decrescenziana “prolunga” di quei libri che nessuno legge più: in principio fu Saviano, oggi la voce unica è stata monopolizzata da tal De Giovanni che propaganda un’asfissiante Napoli del Ventennio, dove realtà e finzione (persino ultraterrena) s’intrecciano (e si compensano), fino al giorno d’oggi quando un’intera città attende “solo” un’assistente sociale, una Wonder Woman di cui tutti a Napoli hanno un incessante bisogno per tentare di risolvere i mille problemi che solo la protagonista sembra non avere. Se non qualche filarino che non porta ad alcuna stabilità. In ottemperanza alle regole vigenti del mondo moderno, tanto per rendere umana pure lei. Passando per l’amica geniale che offre uno spaccato del mondo “femminista”, di mancate libertà e soprusi, anche scolastici, da una società (maschilista? Patriarcale?) che è più finta dell’opera stessa.
Si dirà, ma questa è la “radice” eduardiana che, per quanto capolavoro e figlia del proprio tempo che non è più il nostro, narra solo di miserie, sotterfugi e furberie. Che ci sono ovunque, o, se vogliamo, non ci sono solo a Napoli. E continuano per questa via e questi lidi anche i suoi figli più fortunati, tanto per citare apprezzati showman poliedrici – cantante, attore, cabarettista, ballerino – che nelle ultime comparsate si riducono a patetici cantori dei mille guai e della miseria di “quand’era piccirillo”. E, per fortuna (ma non di Napoli), non è nemmeno il solo volto noto a prestarsi al ruolo di nuova prefica che fa tanto Napoli Milionaria!…
Ma lo “sputtanapoli” è un gioco al rialzo che investe ogni campo. Ultimo, ma solo in ordine cronologico, il mancato apprezzamento o, meglio, il rifiuto “istituzionale” dell’artista Domenico Sepe e della sua opera che ritrae divinamente Maradona, omaggio a tutti i napoletani (e no) in occasione della morte del campione argentino. Lo stesso Sepe – nemo propheta in Patria – apprezzato altrove e chiamato in questi stessi giorni a Vicenza per omaggiare – ironia della sorte – proprio con una statua un altro campione del calcio: Paolo Rossi. Ma se cancellazione e distruzione deve essere, non ci si può mica limitare “solo” – Comune in primis – nel rifiutare la statua di Maradona per la città? Il popolo del calcio, che a Napoli è la città tutta e pure oltre, che vive di una “identità sportiva”, ri-conquistata proprio dal Pibe de oro e mai scalfita nel corso dei tanti anni, deve essere oggetto di attenzione speciale, proprio in quest’anno di fortuna e meriti sportivi tanto attesi: così a tifare la squadra della propria città, nell’impianto sportivo di Fuorigrotta – “paraculamente” subito intitolato al D10S – si è ammessi soltanto senza bandiere, senza trombe, senza striscioni, senza tamburi. La bandiera è l’emblema dell’identità, non solo sportiva, e il tamburo, gli striscioni non sono che caratteristiche del proprio essere! Che, semplicemente, non “è” più. Che stadio è uno stadio anonimo, asettico, insipido, senza colori, né canti? Il Maradona di Napoli! Ma soprattutto qual è la logica di tutto ciò, visto che nessun regolamento lo prevede, come accade in tutti gli altri stadi d’Italia? Ma dove altro in Italia accade che un pugile apra una libreria che diventa una casa editrice che poi è costretto a chiudere senza che le istituzioni muovano anche solo una falangetta di uno delle dieci dita delle due mani? Quella città abbandonata a sé stessa, che si (auto)degrada perché non la si ama, in cui un’altra palestra che diventa un avamposto di legalità, che strappa i giovani dalla (cattiva) strada è costretta a chiudere perché il Comune, tanta croce e ben poco delizia della sua gente, dice di avanzare dei soldi da quella palestra che ha sempre pagato quanto pattuito un quarto di secolo fa. Ben 23 anni in cui il Vicolo Sottomonte ai Ventaglieri di Montesanto è anche un vicolo di sport, oltre che di armi e di droga. Dove la retta per lo sport se la può permettere solo un giovane su dieci, ma c’è posto per tutti in quella palestra che ha inventato campioni della portata di Oliva e Cotena. Insomma non proprio la zona della sinistra Ztl cui appartiene il Sindaco che non riuscirà – eguagliando i suoi infelici e sconfitti predecessori – nel far morire Napoli perché “il napoletano se fa sicco ma non more”. Perché Napoli è l’arte di arrangiarsi e di trovare sempre una strada, è il panaro solidale e il caffè sospeso senza sapere se esiste qualcuno che non se lo può permettere. Perché Napoli è città del sole e del mare, dove “prendi aria buona ‘a parte ‘e Caracciolo, se ti senti poco bene”, per dirla con Eduardo, perché anche ciò che ti dovrebbe curare ormai finisce per ammazzarti, grazie al miracolo di aver trasformato la sanità in santità operato da quell’”uomo e galantuomo” di Vincenzo De Luca, presidente della Regione e commissario alla sanità. Quella stessa via Caracciolo dove è sorto l’Hotel Continental, su una delle cinque fonti d’acqua della città: l’acqua ferrata, di Telese, zuffregna, del Serino e della Madonna. La famosissima “banca ‘ell’ acqua”. Insomma, Napoli come re Mida che avrebbe fatto fortuna pure se avesse fatto acqua da tutte le parti. Che con le sue suggestive piazze e i suoi regali palazzi, numerosissimi edifici di culto (chiese, cattedrali, edicole) e complessi monumentali, è stata definita dalla BBC come “la città italiana con troppa storia da gestire”: forse per questo una certa sinistra dem-progressista “usa” sfoltire, andando a cozzare, però, con il femminismo “tossico” che vanno propagandando? D’altronde Napoli è femmina e, come tutte ‘e belle femmene, è molto invidiata: forse tutto questo scempio è solo frutto di tanta invidia?

https://www.camposud.it/ma-che-fine-ha-fatto-napoli/tony-fabrizio/

La trovata della Ford: ecco l’auto che si pignora da sola

Roma, 6 mar – Novità (non proprio buone) dal settore dell’automobile. La Ford ha tirato fuori l’auto che si pignora da sola. Già, dopo la dimensione delle vongole che, in ottemperanza alle “devianze” dell’essere tutti uguali, dovrebbero avere tutte la medesima dimensione, dopo le teorie sulle flatulenze delle vacche e il divieto di usare gli aromatizzanti nei prodotti da tabacco riscaldato – il sigaro, ad esempio – l’ultima follia green dell’Unione europea, che riguarda lo stop alla produzione di auto con motore a diesel e benzina a partire dal 2035, pare essere solo rimandata. A data da destinarsi, certo, ma il pericolo non è del tutto scongiurato. Come sappiamo, l’Italia a Bruxelles ha ribadito il suo secco “no”, seguita dalla Polonia (stessa contrarietà espressa dall’Italia) e dallo scetticismo della Bulgaria. Ma è l’astensionismo della Germania, da cui ora potrebbe dipendere tutto, a far sperare sia Bruxelles per portare avanti il progetto, sia gli altri Paesi, Italia e Polonia in primis, affinché si riesca a fermare questa ulteriore pazzia.

Intanto Stellantis (ex Fiat) ha fatto sapere che continuerà a licenziare. Entro il 31 dicembre 2023, il gruppo, infatti, lascerà a casa circa 7mila addetti tra i lavoratori dello storico opificio di Mirafiori e del settore commerciale fuori Torino. Tutto a seguito del terzo accordo concluso con i sindacati di categoria volto a ridurre il personale del 4,4% a fronte dei 47mila occupati. Dunque, dopo il Covid e ora con la guerra (per la quale Stellantis pure produce equipaggiamenti militari a marchi Iveco) a pagare la crisi saranno ancora una volta i lavoratori. L’unica soluzione di salvataggio per preservare i posti di lavori e scongiurare i licenziamenti sarebbe la nazionalizzazione, ma questi sono concetti avulsi dalla realtà che viviamo e alieni per questa gente ai vertici delle (dis)organizzazioni.

La trovata Ford: l’auto che si pignora da sola

E se questo – che già di per sé è tragico – è già una prossima realtà, purtroppo non è tutto e non è la cosa meno grave. Sempre da Oltreoceano, infatti, arriva una novità assoluta che si sposa perfettamente con le concezioni che si “defecano” nelle stanze dei bottoni di Bruxelles. La casa automobilistica Ford, come riporta il sito futuroprossimo.it, ha depositato il brevetto “System and Methods to Repossess a Vehicle” (sistema e metodo per ritornare in possesso di un veicolo) – in pratica una sorta di Equitalia 2.0 – ovvero un sistema di auto-pignoramento della vettura che, se installato, potrebbe impedire da remoto il mancato utilizzo del veicolo. Gradualmente, da inibirne parzialmente l’uso, fino a non trovarlo proprio più.

Il marchio d’auto a stelle e strisce, infatti, ha pensato proprio a tutto: dalle disattivazioni di “complementi accessori” come l’aria condizionata o il navigatore, in caso di ritardo o mancato pagamento della rata, fino allo spostamento in autonomia del veicolo verso un punto stabilito per essere caricata da un carroattrezzi e ritornare in concessionario, in caso di recidiva. Non è escluso nemmeno che, mentre dalla banca o dal concessionario vengono eseguiti accertamenti – magari mentre in quel momento ci si trova in mezzo al traffico della città o in viaggio su un’autostrada – il motore della propria macchina possa smettere di funzionare, senza alcuna possibilità da parte del guidatore di fare una qualsiasi cosa. La vettura sarà controllata totalmente da remoto.

Al momento è solo un’idea che non sappiamo se troverà mai campo di applicazione, visto che ogni vettura dovrà essere dotata almeno di connessione internet, ma intanto è un’idea già depositata presso l’Ufficio Brevetti degli Stati Uniti d’America. Il triste motto della “decrescita felice” finora poteva essere sintetizzato dalla frase – senza padri né madri – apparsa sui muri in giro per il mondo e che recita “vado a lavoro per comprare la macchina per andare a lavoro”, ma, sic stantibus rebus, presto potremmo modificare, se non cancellare, anche quest’altra triste verità.

Tony Fabrizio

https://www.ilprimatonazionale.it/economia/ultima-novita-in-casa-ford-arriva-usa-automobile-che-si-pignora-da-sola-257441/

LA SCHLEIN TROMBA DE LUCA (padre e figlio!)

“Mi candiderò in eterno!” annunciava titanicamente durante i suoi gratuiti soliloqui in “regionevisione” solo qualche settimana fa il presidente Vincenzo De Luca. Lui che non accettava tetti massimi di ricandidabilità. Ed aveva già fatto persino l’accordo (e i conti senza l’oste): in campo il Governatore con il lanciafiamme aveva schierato tutti i suoi uomini – attivi e no, da Mario Casillo che “vale” 41mila voti a Loredana Raia con le sue 26789 preferenze, passando per Bruno Fiola (23mila voti circa) e fino al presidente del consiglio regionale Gennaro Oliviero, per non parlare degli “spenti” Lello Topo e Umberto Del Basso De Caro – per portare preferenze all’emiliano Stefano Bonaccini che, in visita a Napoli qualche giorno fa, aveva dato il suo placet al terzo mandato per Vicienzo.
Di parere nettamente antipodico, la Schlein che aveva immediatamente replicato al governatore emiliano, come riporta Il Mattino «Al mio competitor voglio chiedere una cosa molto seria: ho sentito che da parte sua c’è un’apertura al terzo mandato di De Luca. Mi chiedo se sia questa l’idea di rinnovamento di Bonaccini, perché abbiamo idee molto diverse. Nuovo gruppo dirigente e poi De Luca? Bene…».
La Schlein femminista, ecologista, sostenitrice delle politiche lgtbq+*, “progressista figlia di papà incarna, dall’alto della sua tripla cittadinanza”, tutte quelle caratteristiche che l’inquilino di Palazzo Santa Lucia aveva intravisto nei giovani concorrenti del Festival della Canzone italiana più politicizzato di sempre: “sciammanati, sfessati, sfrantumati”. In rigoroso ordine gerarchico. E ancora: “La cosa più incredibile è che pensano di essere moderni. No, sono degli imbecilli!” e, amaro scherzo del destino, sarà proprio lei che è come loro a decretare la vita o la morte (politica) del Governatore d’acciaio, la cacciata del despota dal suo regno, del tiranno dalla sua roccaforte.
Se il sistema Salerno, ben oleato con gli uomini giusti piazzati ai posti che contano, gli operanti miracoli della moltiplicazione delle tessere, i padrini della (loro) politica clientelare e le truppe cammellate al gran completo pronte ad eseguire l’ordine del padrone arroccato nel suo castello che li precettava per controllare le sezioni, (un po’ meno i gazebi), ha retto e funzionato eccetto che a Napoli, il trionfo della Elly potrebbe colpire doppio e tranciare le gambe – politicamente parlando – anche al più onorevole rampollo di casa De Luca, Pierino, alle strette dipendenze del concorrente sconfitto Bonaccini e per lui coordinatore delle iniziative politiche e del programma per il Mezzogiorno.
Il deluchismo stavolta ha toppato e ne è consapevole anche il capostipite fondatore, tanto che alla prima uscita pubblica dell’era Schlein in occasione del convegno “Sanità e autonomia differenziata” indetto dalla Uil, ha dribblato cronisti e telecamere – e non è da lui! – e si è chiuso in un eloquente mutismo. De Luca, però, assurto ormai alla caricatura de sé stesso, senz’altro potrebbe deliziarci con la sua eroica battaglia a suon di “perle” a difesa del feudo (c)ostruito e indirizzate alla pulzella elvetica. Ci sarebbe pure da ridere, se il lascito di De Luca non si concretizzasse nell’invivibilità più completa: dalla decimazione e dall’azzeramento del Servizio Sanitario, all’impossibilità di trovare un’occupazione e al conseguente inevitabile aumento della povertà, dal disastro del servizio di trasporti pubblico locale – da quello su gomma e quello su rotaie – all’emigrazione giovanile che è tornata ai tempi del dopoguerra, dall’impossibilità di mettere su famiglia sino all’urbanistica che, con la legge ad hoc varata a Ferragosto, va a favorire amici e compari della solita (e solida) congrega del mattone. Una Regione ferma, che non cresce e in cui non si può avere un futuro. Tutte sfide di cui il centrodestra regionale dovrà interpretare e farsi carico, inevitabilmente, se non si vorrà regalare di nuovo la Regione agli Elly campani, magari capeggiati da un resuscitato (senza meriti) de Magistris e stipati nei centri sociali che qualcuno in città si è attivato perché beneficino dei soldi (di tutti) del Pnrr per la ristrutturazione dell’ex complesso  carcerario okkupato di Materdei.
https://www.camposud.it/la-schlein-tromba-de-luca-padre-e-figlio/tony-fabrizio/