FRANCESCO CECCHIN: QUALE EREDITA’ DOPO 43 ANNI DI OBLIO???

E con questo 16 giugno sono quarantatré. Quarantré gli anni trascorsi dalla morte di Francesco Cecchin, volato nell’olimpo degli eroi, dopo essere volato dal parapetto di un’abitazione di via Montebuono al numero 5, nel quartiere Salario a Roma, una volta riconosciuti i suoi aggressori che, nel frattempo erano solo i suoi inseguitori. Gli stessi con cui nel pomeriggio Francesco aveva avuto un alterco per una questione di manifesti.
Dopo quasi mezzo secolo sappiamo chi è Francesco Cecchin e sappiamo della sua militanza politica nel Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile dell’MSI. Sappiamo della sua lunga agonia – coma indotto per diciannove giorni – così come sappiamo delle fratture su tutto il corpo, eccetto mani e gambe. Strano modo di cadere per uno che vola da un’altezza considerevole. O meglio, di atterrare. Di testa.
Sappiamo del cranio fracassato, sappiamo della milza spappolata, sappiamo delle chiavi di casa piegate  ancora tra le mani, usate per difendersi e del pacchetto di sigarette (gettato) vicino al ragazzo ferito. Sappiamo che sul suo corpo è stata eseguita un’autopsia il cui esito è indiscutibile e sappiamo che, nonostante quella perizia, non è mai stata fatta giustizia. Sappiamo che gli assassini di Francesco avevano tutta l’intenzione di uccidere – l’accusa fu di omicidio volontario che, molto verosimilmente, era solo il nuovo significato da attribuire alla parola caduta – ma non sappiamo perché l’unico indagato, nonostante abbia mentito spudoratamente al processo riguardo il proprio alibi – essere andato al cinematografo Ariel per assistere alla visione de “Il Vizietto” nonostante quella sala non avesse in proiezione il film indicato – s’è potuto guadagnare con la falsa testimonianza sostenuta, il premio per non aver commesso il fatto. Il fatto sarebbe il concorso in omicidio, ma non si sa con chi. Altro vizietto tipico della giustizia dell’Italietta. Come quello di non trovare il colpevole. Che pure esiste. Come esiste qu­ella verità storica che non può più esse­re nascosta, o peggi­o, ulteriormente negata, in attesa che la giustizia scr­iva la parola fine su questa feroce esec­uzione.
Una parola fine che serve a non ammazzare ancora una volta Francesco, cui il Viminale, il “deputato” all’ordine pubblico della sicurezza di questa repubblica, ha negato anche la possibilità di essere inserito tra le vittime del terrorismo. Come se gli anni di piombo siano stati solo una marachella adolescenziale. Come se il suolo d’Italia in quegli anni non sia stato calpestato dall’odio politico, spesso avallato e coperto nella stanza dei bottoni con lo stesso telo bianco con cui si è da sempre tentato di coprire la verità e sotto il quale è stata sepolta la giustizia.
Sappiamo che il giovane Cecchin non era un fascista, non avrebbe potuto esserlo per una questione anagrafica – nel ’79 alla morte non aveva ancora compiuto la maggiore età – e non poteva esserlo per una questione temporale – era nato nel 1961 – ma era un militante che credeva in una Idea difesa col sangue. Quella Idea di cui oggi altri, magari suoi coetanei, hanno potuto raccogliere il testimone e le conseguenti fortune politiche ed elettorali. Raccoglierne l’eredità di intenti e di ideali. Che sono pesanti quanto un macigno. Ma non l’esempio. Quello è troppo scomodo. Non sappiamo, allora, perché in ogni occasione, inutile quanto gratuita, bisogna ricordare che in taluni partiti che ancora sono/vorrebbero essere illuminati dalla luce di quella stessa fiamma per cui Cecchin – ma non solo: penso a Falvella di cui quest’anno ricorre il cinquantenario della morte, alla strage di Acca Larentia, a Sergio Ramelli, ai fratelli Mattei, troppo piccoli persino per entrare in una sezione – ha dato la vita, non ci sia (più) spazio per i “fascisti”. Se si può ancora parlare di fascisti un ventennio dopo l’ingresso nel terzo millennio, cent’anni dopo la Marcia su Roma. Se ancora può parlare quella generazione che è viva grazie a lui e a quelli come lui, ma che si è prestata vergognosamente all’abiura. Delle strutture, dei concetti, dell’Idea. Ma non di certi simboli e di una certa simbologia, che può sempre tornare utile in termini di consensi. Compresa quella fiamma che, nonostante tutto, continua ad essere viva, che si erge pre-potente da quella base trapezoidale in cui qualcuno, più di qualcuno dotato di fervida immaginazione, ci ha visto il catafalco di chi quella Idea l’ha fondata. Quel catafalco in cui ancora non trovano riposo coloro che quella fiamma – (sep)pur senza catafalco e senza acronimi stavolta – hanno contribuito a tenerla ancora ardente. Quel catafalco simbolo di quei martiri dell’Idea da non uccidere ancora. Non oltre. Quella fiamma ancora viva, come ogni atto rivoluzionario.

https://www.camposud.it/francesco-cecchin-quale-eredita-dopo-43-anni-di-oblio/tony-fabrizio/

I FUTURI MERCENARI

È ancora fresco l’inchiostro con cui Vladimiro Putin ha firmato – rendendolo già operativo – il decreto che dà di fatto avvio alla russificazione.

Fresco come il sangue dei combattenti a Charkiv, a Irpin, a Mariupol. Nell’Ucraina da denazificare che, adesso diventa da russificare, dopo averla razziata – nulla c’entra il termine con “razza” che richiama Norimberga – che è un processo farsa per come si è svolto – né tantomeno il famoso Manifesto che probabilmente nessuno si è preso la briga di leggere, nemmeno di iniziare a leggere, tanto che già l’art. 1 recita “Le razze umane esistono. La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano ad ereditarsi”. Dunque, che che ne dicano l’anpi, i buonisti e tutta la pseudo-intellighenzia da salotto, non dice che una razza è superiore ad un’altra – ora è tempo di passare alla fase 2 dell'”operazione speciale”.
L’editto emanato – tecnicamente uzaka, è la Provda che lo dice – è un capolavoro di dettato giuridico, a partire dal giuramento, con tanto di formula ufficiale: “Mi impegno a essere fedele alla Russia, a compiere scrupolosamente il mio dovere civico e a sostenere i miei obblighi in accordo con la Costituzione e le leggi della Federazione russa”.
Dunque, un “do ut des”, come a dire “io ti do la cittadinanza facile e tu mi dai la fedeltà”. E la vita.
Cosa c’è di tanto terribile in quest’ultimo atto d’amore dell’ex agente segreto divenuto Presidente e zarista in fieri? Che tutto quanto concepito dalla mente del fine giocatore di scacchi riguarda i bambini! Solo i bambini. Quelli che le bombe altrui hanno reso orfani. Quelli che probabilmente hanno avuto il padre in trincea e la mamma stuprata, alla quale hanno portato via i figli. Magari prima che morisse. Quei bambini – oltre 4000 – che non si sa che fine abbiano fatto quando da Azovstall’ partivano i famigerati pullman che non sono mai giunti al punto di destinazione concordato.
Ebbene, “l’ultimo baluardo della cristianità” ha compiuto quest’ulteriore opera buona e ha semplificato – per gli orfani potranno giurare persino i responsabili dei ricoveri che li ospitano – la procedura di adozione a vantaggio delle famiglie russe che potranno (o dovranno?), così, adottare i bambini, orfani e no, ma i bambini, una volta diventati uomini (e donne?) dovranno assolvere a ciò che la Grande Madre Russia chiede loro, compreso imbracciare un fucile e andare al fronte per servire la Patria. Che non è la loro.
Merce umana importata, altro che ius sanguinis! O forse no, visto che per Putin l’Ucraina non esiste, che è Russia a tutti gli effetti e, in base a questa sua cartina geografica, non ha nemmeno invaso.
Merce umana che dovrà rimpiazzare le gravi perdite subite in Ucraina. Merce umana che si va a prelevare altrove per importarla e sostituire quella esistente, secondo un piano ben collaudato che dovrebbe ricordare un odiatissimo nemico ai tanti figli di Putin nostrani.
Ma d’altronde in Russia – così come in Ucraina – non è vietato nemmeno affittare un utero, perché mai si dovrebbe vietare questo tornaconto personale? Quasi una necessità. Un male neccessario.
Dunque, come non si può volere denazificare un Redis, al secolo Denis Prokopenko, che, mentre studiava filologia germanica e si laureava in lingue e letterature straniere, non ha mai smesso di concepire la sua avversione alla Russia come una questione personale: quasi tutta la sua famiglia, originaria della Carelia – oggi repubblica della Federazione russa al confine con la Finlandia – fu sterminata dall’Armata rossa nella guerra del 1939, quando il territorio passò da Helsinki all’Unione Sovietica.
Certo, fa paura che a 30 anni e fresco di studi, quando il mondo è tuo e si dovrebbe solo andare in giro per locali, ti cuci la patch della Carelia sull’avambraccio e tenti di rendere giustizia ai tuoi avi. E agli sconosciuti come loro.
Anche Denis è in Russia, ma Putin si è guardato bene dal mostrare il trofeo di guerra, il simbolo della denazificazione, della sua famigerata e celebrata vittoria con le manette ai polsi. Così come al posto dei laboratori segreti, dove tutti giocavano al piccolo chimico nei cunicoli segreti dell’acciaieria, ha trovato solo quasi 3000 tonnellate di acciaio da razziare. E ha razziato! Ma le prove dell’esistenza dei laboratori le porta all’Onu. Che è americano e corrotto nonché parte integrante di quell’apparato criminale che (i figli di) Putin dicono/dice di avversare.
Che poi è ciò che i gementi e piangenti figli di Putin hanno già vissuto con il loro eroe già dimenticato, tale Puzer Stefano, di professione portuale, incarnazione di infinite identità del metaverso e, manco a dirlo, uomo di Putin – come lo era Salvini. E Draghi – quando fu mandato a comprare il sale da un palazzo all’altro, poverello.
Il copione si ripete, sempre uguale, ma tanti – ormai troppi – ancora una volta si prestano a questa recita a soggetto. Ad essere spettatori. Secondo le voci fuori campo della contro(in)formazione – che va unicamente contro il bene dei tanti seguaci fondamentalisti – riducendo tutto a tifo, a piaggeria, a partigianeria.
Non è per me una vittoria riportare una simile bestialità neo-bolscevica, in tanti interpreteranno la fonte, si appelleranno alla traduzione della lingua, dovranno incipriare tutto per fare apparire, non essere, tutto bello e buono. Persino buonista. Finanche (auto)illudendosi. Per continuare a credere senza capire. A tifare. Quando mai in una guerra si tifa? La guerra che doveva portare alla denazificazione da parte di Putin e che i suoi seguaci dal divano hanno condotto contro Azov. Che si è “arreso”. Che poi si è riorganizzato e combatte per la propria Terra, per la propria Patria versando ancora il proprio sangue.
La guerra tifata in differita che ancora non finisce, ma che Putin avrebbe già dovuto vincere perché la denazificazione è avvenuta. E, invece, va avanti. Verso l’accesso al mare. Verso nord. Verso quell’imperialismo che vede nell’Ucraina solo il primo boccone di un lauto banchetto. In salsa americana. Che ha pregato tanto la Russia di invadere l’Ucraina. Che nel conflitto Nato-Russia non invia più i missili a medio raggio. E che, dopo oltre tre mesi, ancora non vede scambiarsi un solo colpo tra Washington e Mosca. Ma che rivede Kissinger. Che è lo yenkee che riarmò e rialzò la Russia dopo il crollo dell’Urss e che oggi ri-apre a Mosca. Ancora. Oggi, come ieri. Come a Yalta.
È tutto così tremendamente chiaro che lo capirebbe persino un bambino. Proprio come quei bambini ucraini “rapiti” e “adottati” da Putin.

L’EPITAFFIO DI CIRIACO DE MITA : “SONO DEMOCRISTIANO”!

Sulla sua tomba un biglietto che riporta la dicitura “sono democristiano” pare sia stata l’ultima volontà di Luigi Ciriaco De Mita.
Sì è spento la mattina del 26 maggio all’età di 94 anni presso la clinica Villa dei Pini di Avellino, dove era stato ricoverato in seguito a delle complicanze per la rottura del femore, solo l’ultimo degli acciacchi che, ormai, affliggevano il politico di Nusco. Quasi centenario e ancora “democristianamente” presente in politica, da Sindaco del paese natale fino alle sue “mani in pasta” alle regionali con lo storico, scellerato patto di Marano con De Luca – la notte prima del voto – e che ha portato alla morte dei suoi territori, quelli interni, ma anche nazionali con la mancata elezione degli “eredi”.
Il fenomeno De Mita è ancora troppo vicino storicamente per poterne tracciare con esattezza un profilo politico-istituzionale, ma poiché è vissuto sulla cresta dell’onda per quarant’anni e oltre non mancano le testimonianze – almeno di cronaca – per un ritratto, o forse, una caricatura a dir poco irriverente.
Ciriachino, come era affettuosamente chiamato dai compaesani dell’Alta Irpinia, si percepiva quasi come un unto – a.c. che sta per ante Covid – del Signore, una manna dal cielo e, si sa, una manna lava l’altra. Sempre democristianamente inteso.
7 volte segretario della Democrazia cristiana e un anno da Presidente del Consiglio dei ministri. Un uomo così zelante da non lasciare niente per nessuno, tanto che questi suoi doppi incarichi, quasi unici nella storia della prima repubblica, lasciavano il malcontento e l’amaro in bocca – asciutta – a tanti.
Proprio come con Vincenzino De Luca, Ciriachino aveva già vissuto un odi et amo, un rapporto stile amore/odio con politici di ben altra caratura, come ad esempio quello con Bettino Craxi, il cui esilio – se di esilio è giusto parlare – fu la vera fortuna del “capoclan avellinese” che finì per decidere il bello ed il cattivo tempo nell’Italia del dopo Tangentopoli, dove ha coronato 11 primavere alla Camera e un paio anche a Strasburgo.
Ultimamente in calo tanto di notorietà quanto di consensi, al punto che nel Comune dal lui amministrato, dove la politica è ancora – per fortuna – un secondo lavoro, in tanti gli contestavano il fatto di convocare assemblee e consigli solo nei giorni feriali e per di più in orari diurni, ovvero quando tutti quelli che non mangiano di politica erano a lavoro – a dirla tutta, i pochi che hanno avuto la fortuna di vederlo in Comune, visto che si è dovuto muovere persino il Prefetto per intimargli di riunire la giunta ed approvare il bilancio comunale – aveva guadagnato gli onori della cronaca per un furto nella sua villa di Nusco, quando alcuni malviventi si erano introdotti in casa obbligandolo ad aprire la cassaforte e facendo razzia di contanti, oro e preziosi.
Ben meno grave dell’altra vicenda che gli si è abbattuta tra capo e collo che ha coinvolto la moglie Anna Maria Scarinzi, ex collaboratrice di un altro politico campano – il compianto Fiorentino Sullo, Dc anch’egli – e che, unitamente alle figlie di papà Simona e Floriana, due di quattro, sono state indagate dalla Procura di Avellino con l’accusa di peculato e truffa aggravata per aver malversato con la Onlus, di cui l’ex First lady è presidente, dei proventi destinati a bambini diversamente abili. Forse, la vera presa di coscienza del tramonto del politico che può essere riassunto col vecchio adagio “finché è in cima ci si inchina, quando cala lo si impala”.
Non ultimo, il sogno demitiano di perpetrare la dinastia in politica con l’elezione mancata del nipote prediletto, forse il solo cognome è stato insufficiente per Giuseppe.
De Mita, però, per tanti avellinesi, se, nel bene, è (stato) sinonimo di pane e lavoro, di piaceri e “posti fissi”, come l’occupazione – in senso di impiego – presso l’ufficio stampa quirinalizio di Sergio Mattarella per la figlia Antonia, nel male ha inevitabilmente significato la partenza per lavoro di tanti altri figli d’Irpinia.
D’altronde, De Mita in persona ha regalato all’Italia due pezzi…da 90: proprio a lui devono le loro fortune Sergio Mattarella e Romano Prodi. Un “padrino” per dirla con Montanelli che fu trascinato in Tribunale da “Sciriaco” che vide l’incasso di un milione di lire, ma l’assoluzione del giornalista che, a sua volta, si vendicò sguinzagliando un altro giornalista – Paolo Liguori – che curò un reportage a puntate da cui venne fuori un vero “sistema De Mita” in Irpinia: non si muove foglia che Ciriachino non voglia. In realtà, la diatriba di carte bollate era nata a seguito di una battuta dell’Avvocato. Gianni Agnelli, infatti, aveva detto “un tipico intellettuale della Magna Grecia” di Ciriachino da Nusco, ignorando che la Magna Grecia si estendeva solo sulle coste e non nell’entroterra famoso del parto di Marano di cui sopra, e Montanelli replicò chiedendo lumi perché non capiva cosa c’entrasse la Grecia.
In tempi di amarcord, si ricorderà anche l’abbaglio di un altro giornalista – Eugenio Scalfari – che ebbe a dire che “l’Italia con lui sarebbe diventata una opulenta Svizzera mediterranea”. Abbaglio facile e verificato a posteriori.
Di lui si ricorderanno anche altri primati che lo hanno portato ad occupare il settecentottesimo posto di assenze su 733 presenze richieste, oltre un biennio di assenze nel Comune natale: sarà per questo che i tanti concittadini, anche il 77% di chi gli ha accordato la preferenza, chiedono illuminazione pubblica serale, trasporto e mensa scolastica? Sarà il dispetto dell’anziano leader al fatto che i suoi compaesani nella “scuola di Alta formazione politica” che ha portato in paese l’intellighenzia partenopea manco il naso hanno voluto metterci?
Ma il “padrino” ha fatto anche cose buone. E non (solo) per sé: non è stato minimamente sfiorato, ad esempio, dal taglio dei vitalizi voluto dai 5 stelle – la cui funzione è stata salutare fino a che non sono arrivati al governo”, ma “ora il malato ha finito per sostituirsi al medico e impone lui la cura per tutti, leggasi per l’Italia”. In questi casi, aggiunse, “finisce che si muore”- per cui gli eredi continueranno ad incassare i 6000 euro, visti i 40 anni di attività o potranno godersi ciò che rimane dell’attico e del superattico di Via Arcione a Roma: 650 mq di vista mozzafiato sui giardini del Quirinale. Ce lo aveva in locazione quando era premier e lo ha riscattato nel 2010 con 3 milioni e mezzo anziché 8 del valore di mercato. Pare poi rivenduto a 11.
E chissà che a proposito di valore, non ricordiamo ancora un vecchio politico, oggi come non mai, nel bene e nel male, di cui si sente, se non la mancanza (di capacità di ingegnarsi), quantomeno la necessità di avere personalità di questo livello. Già il rimpiangere i protagonisti della prima repubblica è un preoccupante termometro della situazione di questa disastrata Italia. D’altronde, se aveva la concezione di cui sopra delle nuove forze – forse – politiche del Paese, non lo preoccupavano da meno quelle storiche. Il PD, il “suo” PD, in una vecchia, seppur attuale intervista, lo aveva paragonato a Garibaldi in Sicilia: “Quando stava in Sicilia, e gli dissero di ritirarsi, Garibaldi rispose: “Sì, ma dove?”. Così è il Pd. Pure se si ritira, non sa dove andare. E quando non sai dove andare, la massima velocità che riesci a raggiungere è rimanere fermo”.
Magari fossero rimasti fermi quelli che rimossero i manifesti dell’Asse De Mita-Mancino (in foto) in vista delle amministrative del capoluogo irpino del 2018: oggi avremmo apprezzato di più quell’ironia, quel sarcasmo, quell’irriverenza, quei “ragionamendi” che ricordano le logorroiche di Aldo Moro. Ben altra tempra le filippiche almirantiane, ad esempio, che attaccava il politico anche e soprattutto quando era forte, quando De Mita lavorava con tutti, proprio con tutti, per fare sì che l’MSI non fosse compreso nell’arco parlamentare. Padre, padrino e padrone di quel pentapartito, ribattezzato “larghe intese”, ma che, in realtà, vuol dire “inciucio” da sempre. E poi i miliardi arrivati e spartiti per la ricostruzione del terremoto dell’80, la benedetta ricostruzione perennemente in fieri e mai terminata – tanto che i prefabbricati sono ancora esistenti, ma pure funzionanti – lo scempio perpetrato, con la complicità dei politici locali, del vicino Sannio, il ribaltone in Regione per fare cadere la giunta Rastrelli…
Oggi il politically correct, l’ipocrisia da etichetta vuole tutti mesti, lacrime agli occhi e fazzoletti in mano. Perché la morte è una cosa seria e quando si muore magicamente si diventa buoni, bravi, capaci, onesti, assennati, scrupolosi, tutti amici di tutti.
E per verità, per giustizia, per l’interesse di tutti non si può non ricordarlo come lui stesso spesso diceva: “Chi vuol far sembrare semplice una cosa complessa, non l’ha capita”.

https://www.camposud.it/lepitaffio-di-ciriaco-de-mita-sono-democristiano/tony-fabrizio/

ADESSO TOCCA A NOI

Alla fine Zelensky non ha chiesto nulla al Parlamento italiano.

Non ha chiesto l’interdizione dello spazio aereo, sottoposto a controllo militare, a tutti i velivoli non autorizzati – gli anglicismi mal li digerisco – non ha chiesto di incrementare l’invio di armi; ha invitato molto retoricamente di inasprire le sanzioni alla Russia e ha ricordato che anche l’Ucraina fece la sua parte con l’invio di medici e paramedici ai tempi (perpetui) del Covid.

Ma soprattutto non ha fatto alcun cenno alla resistenza, nonostante deputati e senatori erano già pronti e proni per eiaculare e qualcunA era pure già inginocchiata.

Probabilmente anche in Ucraina ormai è nota la pochezza dell’attuale classe politica nostrana, tanto da non chiedere nulla e anche difronte al nulla Montecitorio è riuscito a contare niente.

La cosa che più fa male non è l’uscita di Mario Draghi del quale è pur troppo scontata la sua (?) volontà di volerci trascinare in un conflitto perché evidentemente il grado di distruzione del Paese non gli è ancora sufficiente; non è il fatto che, dormendo a Palazzo Chigi, parli a nome dell’Italia e degli Italiani – mi fanno ridere quelli che “non in mio nome” fanno notare che l’ingresso dell’Ucraina nella UE non spetta a lui, ma agli elettori e al Parlamento che ha dato più volte prova di essere un duplice Mario Draghi, come se il liquidatore finora avesse avuto anche mezzo rispetto di uno sputo di legge.

La cosa che più mi fa male è che anche l’Ucraina, come la Russia e la sua “occultata buona fede”, non perde occasione per ricordarci di averci inviato medici, medicine e tutto l’occorrente necessario come se l’Italia fosse al pari del disastrato Burundi. Evidentemente così ci vedono. E, forse, non hanno tutti i torti.

Giovedì partiranno le sanzioni, altre, nuove, inasprite verso Mosca e vuoi che Draghi per l’Italia non faccia la sua parte? Nonostante Putin abbia fatto sapere che ci saranno azioni irreversibili nei confronti di chi applicherà nuove sanzioni, Gigino Di Maio replica che un ricatto del Cremlino è inaccettabile e non intendono cedere: “pure ‘e pullece tenene ‘a tosse” si dice dalle parti di Gigino.

Lo stesso pugno – è proprio il caso di dirlo – duro mi sarebbe piaciuto vedere quando Mosca ha fatto sapere che in caso di ulteriori ostilità potrebbe rivelare ciò che hanno scoperto grazie ai “medici che hanno inviato in aiuto nella lotta al coronavirus”. Ho sempre sospettato che non tutti i russi fossero medici. Ma Mosca da questo affare ne esce ancora più sporca dal come ci è entrata: se mi sanzioni sputo il rospo, ma se fai la brava tu, la faccio anche io. Comprerà il silenzio l’Italia? La Russia glielo venderà? I bensanti putinisti giustificheranno e assolveranno sicuramente lo zar. Che poi sono gli stessi che faticano a trovarci una matrice ideologica in questo prosieguo della guerra fredda che si riscalda ogni giorno di più. D’altronde questa è una guerra e in guerra ci si schiera. Ma non si dovrebbe tifare. A loro che tutto sanno e lo sanno subito vorrei chiedere che cosa fosse successo se gli ucraini non avessero approntato una difesa contro l’invasione. Che cosa se ne farà Putin di una Ucraina da ricostruire. Se saranno sufficienti cinquant’anni dalla fine dell'”operazione speciale” – Putin, non il parlamento, ha previsto l’arresto per chi nomina la guerra – per fare cessare anche l’odio degli ucraini verso la Russia. Come ne uscirà la Russia che conta già otto Generalissimi licenziati da Putin nel bel mezzo di una guerra e qualcosa come diecimila soldati russi morti in un mese. In Afghanistan ne sono caduti quindicimila, ma in quindici anni. Oltre ad un ingente numero di mezzi distrutti. Ma questa è la guerra. E la guerra va fatta così. Più persone ammazzi, prima finisce. E Russi e Ucraini ancora combattono. E sono loro gli unici ad avere ragione. Tutte le ragioni. Più di tutti. Diverse, ma uguali. Distinte, ma altrettanto valide. Professione. Mestiere. Dignità. Identità. Confini. Patria. Sono loro gli unici a poter parlare, ma preferiscono tacere per fare parlare le armi. Come i Generali in tivvù che sono i soli a poter parlare, ma che spesso tacciono. Gli unici a non essere andati nel teatro di Mariupol, a differenza dei soldati del tifo che dal divano sanno dirti anche quanti peli ritrovati. Che professano una guerra con avvertimenti, con accortezza e senza farsi male. E ci credono pure. D’altronde quando si finisce di credere in Dio si comincia a credere a tutto. Si crede alle invenzioni del missile educato che entra in casa e non distrugge i muri, ma non si crede alle bandiere rosse con falce e martello issate in segno di vittoria perché tale è il significato assunto nel secondo conflitto mondiale. Anche da chi non ricorda nemmeno l’Urss. Forse, perciò lo fa. Ma loro no, i tuttodietrologi di Netflix rifiutano il movente ideologico, anche se poi chiamano tutti indistintamente “nazisti”. Ottant’anni dopo. E non si chiedono se quei nazisti, che sono lo zoccolo duro identitario, non possano essere anche il fronte interno duro e puro qualora Zelensky dovesse arrendersi alla Russia. Loro, A3OV, rappresentano la Nazione, l’Idea. Così come i soldati russi. Capaci di sacrificare ciò che di più prezioso hanno, la vita umana, capaci di sacrificarsi per un ideale. Che è un valore. E per questo meritano silenzio e rispetto. Sono loro la meglio gioventù. E se, invece, dovesse succedere anche in Italia?

ITALO BALBO

Sono d’accordo con Frantoianni.

Dice bene quando dice che, rimuovendo il nome di Italo Balbo dalla cadrega degli aerei di stato, si è evitato una figuraccia internazionale all’Italia e alle Alte cariche istituzioanali:

effettivamente come si fa a presentare con un volo di stato le Alte cariche di uno stato quando un uomo non di stato quello stesso stato lo ha reso Nazione?

Come si fa a giustificare il fatto che un uomo che, in illo tempore, fu accolto dall’altro capo del mondo, quando le navi considerate inaffondabili colavano tragicamente a picco, fece nascere il (suo) mito in America – che gli dedicò una via ancora in vita – e nel mondo dopo le sue temerarie trasvolate dell’Atlantico, da Orbetello a Rio de Janeiro e poi a Chicago, a New York, dove fu accolto trionfalmente come il Cristoforo Colombo del Novecento, mentre oggi il governo dei migliori non apparecchia nemmeno la tavola degli incontri tra le Nazioni?

Con la cancellazione del nome dalla cadrega, Frantoianni, compagno di FiAno compare della BoldrinA, che potrà vantarsi a vita di questA suA unicA gestA, avrà ottenuto il suc-cesso di quando, messi al bando i manganelli, Balbo si inventò lo stoccafisso?

Avrà pure cancellato il nome dall’aeroplanino, ma non lo cancellerà mai nei cieli solcati, ammaestrati e che lo hanno glorificato.

Gheregheghez!

GUERRA È PACE

Oggi s’incontrano di nuovo. Di nuovo per trattare la pace. Oggi potrebbero iniziare a fare sul serio, tant’è vero che le due Nazioni sfoderano i pezzi forti, i Ministri degli esteri, gli omologhi di Gigino, il fagocitatore di cibi esotici durante le cene di gala. Quelli sì che andranno a trattare e a discutere di questioni serie e delicate, al cospetto di Erdogan, quello che, pur non usando le parole di Lavrov, sequestrò 18 pescatori per 108 giorni “solo” perché Gigino non era passato a salutarlo. Eppure noi da Erdogan ci siamo sempre recati con borsoni pieni di soldi per non farci invadere di clandestini, ma almeno per razionarli.
In Turchia, dunque, potrebbero decidersi le sorti dell’Ucraina. E non solo.
Le indiscrezioni confermano che Zelensky – che vuole incontrare de visu Putin – è pronto a trattare sulla rinuncia alla richiesta di entrate nella NATO – dopo che la NATO ha detto chiaramente che non c’è spazio per Kiev (no fly zone! Ovvero nessuno di noi è disposto a morire per voi) – magari rinuncia all’Unione europea, è pronta a dichiararsi neutrale e c’è pure un trattamento di favore da riservare anche alle repubbliche separatiste. Una pace, ma non una resa, dice l’ex (?) comico, che ricorda molto l'”armistizio” no-strano dell’8 settembre ’43.
Certo, una simile accettazione di tali condizioni, già visionate a casa, sono state sicuramente autorizzate da Whasington. Che, dopo aver provocato l’intervento di Mosca, non solo non si è mossa, ma ha addirittura lasciato sola l’Ucraina. La stessa Ucraina che, nella guerra del petrolio, del grano, del gas, delle fonti energetiche, non è che un sanguinoso pretesto.
“Già nelle scorse settimane il Global Times in Cina riportava le previsioni degli analisti di Pechino secondo cui si sarebbe sospinta Mosca ad “approfittare delle tensioni regionali che consentono agli USA, attraverso la relazione con una potenza – la Russia – di condizionarne un’altra, la UE”. Prevedevano che Biden avrebbe fatto capire a Putin che una sua invasione era bene accetta.
In modo più diplomatico, ma non meno chiaro lo stesso concetto veniva espresso da Le Monde che paventava che i russi venissero mossi contro l’Europa dagli interessi americani.
Sull’Indian Express gli analisti indiani avanzavano la stessa previsione, allarmati però dal fatto che così facendo Putin, qualora si fosse imbarcato in una tensione troppo alta, si sarebbe consegnato mani e piedi alla Cina, ma per gli indiani era scontato perché considerano la Russia “un importante attore globale che cerca di allargare la sua sfera d’influenza geopolitica basandosi in gran parte su una logica a somma zero”. Insomma non hanno molta stima dell’intelligenza russa da KGB.
Gli articoli italiani che riportano le informative dei nostri servizi davano per scontata l’invasione dell’Ucraina, ammonendo che non si sarebbe limitata al Donbas e facevano capire che c’era  l’assenso americano.
Dall’Iran Ahmadinejad ha parlato in questi giorni addirittura di complicità diretta tra Putin e Biden.
Infine, Biden non ha perso occasione per ricordare che la Nato non si sarebbe mossa, quindi quasi a tranquillizzare ripetutamente il Cremlino.
Comunque si sia concretizzata quest’intesa strategica Biden-Putin, se sia il frutto di un accordo o di una convergenza oggettiva, quel che ci interessa sono i fatti.
E i fatti dicono che il gas e il carburante sono alle stelle in tutta Europa, e questo non riguarda solo il pieno delle auto ma tutto il comparto produttivo e l’indotto. Dicono che le borse crollano ma solo qui e in Russia mentre volano negli Usa. Dicono che il grano che già scarseggiava e ci costava eccessivamente da quando i cinesi vi hanno messo sopra le mani in Canada, s’impennerà fino a esaurimento scorte se i cinesi s’impadroniranno, come hanno detto, anche di quello ucraino, dopo aver messo le mani sulla Borsa di Kiev.
Se la guerra non si risolve ma tira per le lunghe ci rimetteranno soprattutto gli europei e anche i russi (ma non gli oligarchi che governano la Russia) e ci guadagneranno cinesi ed americani.
In Europa si spezzerà la politica di rigenerazione e il nostro continente verrà, allora sì, commissariato dai soviet della finanza cosmopolita anti-europea.
È sempre la stessa guerra che prosegue e sul terreno gli americani continuano a usare i russi per premerci da est mentre ci spremono ad ovest.
L’Europa stavolta si è comportata bene:
chi sostiene che ce la siamo cercata perché avremmo accettato di sostenere gli americani contro i russi probabilmente non sa proprio di cosa parla. In Germania c’era e c’è un governo pro-russo, la Francia ha riservato a Putin cerimoniali non da Presidente ma da Monarca. Dal 2014 il CFR ha stabilito che il peggior nemico degli Usa non è la Cina ma l’intesa russo-tedesca ed ha operato per spezzarla. Non ha mai trovato sponda a Berlino, spesso a Mosca dove la politica oscilla tra le intese con Washington e con i tedeschi, ma evidentemente la scelta dei russi è subordinata perché si rivolgono a noi solo quando in Usa ci sono i repubblicani, con i democratici c’è sempre Jalta.
Insomma è la Casa Bianca a orientare sempre il Cremlino.
Siccome in politica i toni nascondono la verità, anzi la occultano, è proprio quando s’insultano reciprocamente che russi e americani vanno a braccetto, come ora.
Noi volevamo, e vogliamo, un’intesa stretagica con la Russia in chiave gran continentale, gli americani la temono e offrono altro.
Si noti che è stato proprio Putin a rovesciare il tavolo delle trattative e dell’intesa eurorussa che sembrava risolvere la crisi, affermando che se la sarebbe vista con Biden e procedendo all’invasione.
Mentre l’invasione prosegue e i suo effetti ci strangolano, la Nato – che guarda e ride – si rianima e avanza.
Le provocazioni, specialmente inglesi, sono volte a togliere l’influenza tedesca sull’est, non davvero a minacciare militarmente Mosca.
Non dimentichiamoci peraltro che se i popoli dell’Est vogliono entrare nella Nato non è perché sono corrotti ma perché Mosca non ha mai cessato di considerarli Cosa Sua, come ha appena confermato con i fatti.
In quanto al resto non è assolutamente vero che l’Ucraina sarebbe entrata nella Nato e men che meno che avrebbe installato missili. Ma se anche fosse, i missili sono ovunque, anche sulle frontiere russe, senza contare che quelli più formidabili sono piazzati ben lontano, quindi non ha alcun senso saltare sulla sedia oggi.
I russi non dormono tranquilli per i missili? Da quando, da ieri? E noi che abbiamo testate nucleari russe e israeliane puntate sulle nostre città, e probabilmente inglesi se non hanno smontate quelle del piano atomico “d’emergenza”, oltre a più qualche atomica a stelle strisce sotto le chiappe  che dovremmo dire?
Tutte le giustificazioni dell’invasione russa sono pretestuose e in mala fede.
È una scelta precisa e materialistica che pone di nuovo la Russia in rapporti privilegiati con gli Usa e ambo i compari insieme contro di noi.
Poi ci si può divertire a immaginarsi uno scontro di civiltà tra oligarchi e potenze che continuano a rifornirsi reciprocamente di gas, di petrolio, di informazioni (in Siria c’era il telefono rosso russo-americano) e che lasciano comunque passare armi perché più la guerra continua più fanno soldi, e chissenefrega dei civili e dei fanti!” Che sono i veri vincitori della guerra. Che potrebbero rappresentare il fronte interno con(tro) cui Zelensky combatterà la vera guerra che, adesso, Putin vuole (continuare a) fare. E che sarà stravinta dai nazionalisti, se riusciranno a capitolare a Kiev dopo i 10 giorni di viveri garantiti. Quelli da cui Putin – che sta facendo la guerra – vuole denazificare e che sono gli unici vincitori, gli unici a poter parlare di Patria, di valori – eccetto quello della pace che tale non è – gli unici veri che hanno conservato una Identità.
Quanno fanno sciarre le molenare, attaccateve le sacche (quando i mugnai litigano tieni sotto controllo la farina) diceva mia nonna che non era un’esperta di geopolitica, come non lo sono io per cui ora attendo le analisi politicologiche con annessi intrecci fantasy dei “consumati” periti della novella  geopop che da subito hanno avuto la verità in tasca.

I SOGNI BELLI MUIONO ALL’ALBA

I sogni belli muoiono all’alba.
È fallito il tentativo di mediazione della Cina, partner della Russia e “amica” dell’Ucraina di Zelensky.
Da oggi si fa sul serio.
Non è più la guerra delle parole, ma da oggi muscoli e armi si mostrano davvero. Avrebbe dovuto essere una guerra lampo, ma il fatto che non lo è, il fatto che cominci solo ora dimostra che anche una superpotenza come la Russia e uno stratega come Putin possono fare male i loro conti.
Ogni giorno che passa è una sconfitta cocente per Putin e la sua Russia, ogni giorno che passa è una vittoria in più per l’Ucraina. Che verrà schiacciata, che sarà la destinataria di armi sempre più pesanti, di cui lei con tutta probabilità non dispone ma che, minuto dopo minuto, offre al mondo l’esempio di coraggio in quella lotta alla libertà di cui tutto il mondo, mai come ora, ha bisogno.
La NATO non è intervenuta, l’UE ha stanziato fondi, da unione bancaria che non è altro, gli USA, i veri colpevoli della loro esasperata esportazione della democrazia, l’hanno lasciata sola, allora si capirà bene, prostituta o meno, che l’Ucraina sta combattendo la sua battaglia migliore con i suoi uomini migliori. Quelli che non si arrendono. Quelli che lottano per la libertà della propria terra. Sì capirà bene che ogni posizione, scevra da ogni tifoseria, adesso va rivista: se a Kiev non ci sono soldiers di quella colazione nata già morta, Putin a chi fa la guerra? Perché inasprirà il dialogo con le armi? L’Ucraina sarà pure stata usata, ma Putin non ha dato prova di essere il grande stratega che dicono di essere. È stato provocato ed ha abboccato e adesso non sa più come tirarsi indietro. Rendendosi piccolo. Così come non si stanno tirando indietro i soldati ucraini. Rendendosi grandi. Giganti. Più di Putin. Che stanno sacrificando la loro vita in nome della libertà del proprio popolo e della propria terra. Che stanno andando incontro alla morte ben consci della loro libertà mortale. Come i 13 soldati che all’Isola dei Serpenti sono diventati eoi, morti senza arrendersi. Che all’intimazione della nave russa di arrendersi e deporre le armi altrimenti sarebbero stati bombardati, i 13 ucraini hanno risposto testualmente “Nave russa vai a fare in culo!”.
Se è vero che l’allargamento a est è stata vista come una minaccia ai propri confini, è altrettanto vero che i confini russi finiscono lì dove iniziano quelli ucraini e che, minaccia o meno a stelle e strisce, la sovranità di Kiev è sacrosanta almeno quanto quella dei confini di Mosca. Che distano solo 4 km nello stretto di Bering. O, se vogliamo, confinano. Pacificamente.
L’Ucraina fa gola a tutti perché è ricca. Nel sottosuolo. Nel comprare ciò che Mosca esporta. Ma anche di quegli uomini che Putin vuole “denazificare”. Quelli che sì, hanno la runa sul braccio, ma anche tanto coraggio da arrivare a morire per una Idea. Di Terra. Di Patria. Di Nazione.
Ma prima di oggi, ieri sera è stata dichiarata un’altra guerra. A noi. Italiani. Dal “nostro” Presidente del Consiglio. Ma non l’abbiamo vista. Come la guerra del Covid. Della certificazione verde. Dell’euro e dell’Unione europea. Del ’92. Di Tangentopoli e del Britannia. Guardiamo all’Ucraina sì, ma con altri occhi. Non dello spavento, ma dell’esempio. Senza andare a dormire pure stavolta.

GUERRA?

Ci siamo addormentati con la mascherina e ci siamo svegliati con l’elmetto.
Strano, vero? No, nient’affatto.
Ormai è così che i padroni vogliono vada il modo, è così che chi decide delle nostre vite vuole che viviamo: in un perenne stato di agitazione, di paura, di sconforto, sempre in allerta, sempre in bilico, un’emergenza perenne, un’insicurezza senza fine.
Più che la guerra fa paura l’attesa della guerra, paventata e osannata come l’ultimo atto virile di un maschio alfa che non si rassegna all’andropausa. Una guerra e una vita in attesa di essa, manco fosse il me$$ia per gli ebrei.
Sarà una guerra convenzionale? No, non tutti sono americani. Il tempo della forza impotente e gratuita di Dresda e Hiroshima e Nagasaki è finita. Gli Yankees hanno aperto filiali NATO come Mc Donald’s che ai macellai russi non hanno dato fastidio fin quando le hanno inaugurate difronte a casa loro. In Ucraina, diventata la Natascia del film Così parlò Bellavista: con 10mila lire ti fa servizio completo, sopra e sotto.
D’altronde, ci si sveglia solo adesso, sarà stato l’effetto soporifero del Covid, visto che le intenzioni erano chiare e mai nascoste. Già subito dopo l’elezione (?) di Biden, cioè da prima, perché Bidenich fosse eletto.
Al primo G7 in Cornovaglia – dove l’invito alla Russia è sospeso dal 2014 proprio per la questione Ucraina – si partorì un documento, il Carbis Bay, sottoscritto da tutti i presenti, o meglio da tutti gli invitati, che istituiva di fatto la costituzione (la riflessione sui termini è d’obbligo!) di un fronte mondiale politico, economico, ma principalmente militare, contro Russia e Cina.
Al summit era presente, ops fu invitata, anche l’Australia, quella “quasi Italia” in quanto a restrizioni Covid, che fu dotata di una flotta di sottomarini nucleari sguinzagliati come controllo (leggasi provocazione) in luogo e in largo in tutti i mari contro la Cina.
Tuttavia, esisteva un altro documento risalente ai tempi dell’unificazione della Germania che prevedeva la non espansione ad est da parte della NATO; documento cui si è riservato lo stesso trattamento destinato alla nata partigiana e battezzata democraticacristaina Costituzione.
L’arroganza americana ha ormai valicato i confini del tollerabile e la tolleranza russa è terminata. Mosca inizia a difendere la sua sicurezza e la sua incolumità. Le agenzie di stampa, quella già arruolata nella guerra Covid, lancia veline di attacchi russi in numero probabilmente maggiore dei reali colpi esplosi. Praticamente zero da parte degli invasori-alleati-protettori americani. La risposta di Whasington è partita con le sanzioni e continuerà con le sanzioni che saranno solo una ferita di striscio per Mosca. Ci saranno morti, certo, ci saranno persone in fuga e la guerra negli occhi dei bambini, ma a questo avrebbero dovuto pensarci quei padri che approntavano la loro Ucraina in funzione anti-russa. Quella stessa Ucraina che non è membro (obbligatoria riflessione sui termini!) NATO e non è un cazzo nella UE, per cui gli esportatori di democrazia since 1776 dovrebbero inventarsi altro rispetto all’intervento armato diretto. Le sanzioni appunto.
Non ci sarà alcuna guerra mondiale, l’Ucraina-Natascia verrà sistemata in poco tempo, una botta e via che fa tanto consumismo yankee, ma la tensione – non solo lì – continuerà. È una strategia.
E l’Italia? Al massimo ospiterà sparute migliaia di sfollati. Fa parte del copione. Quello della realtà preveda che i civili non sono oggetto di rappresaglie e sono al sicuro, visto che i combattenti ucraine depongono le armi.
Li rifocilleremo e ce ne faremo carico. Come già facciamo con i soldiers U.S. Come già facciamo con qualunque clandestino si dica profugo, rifilugiato o disertore, che nel Bel Paese non è più una brutta parola.
Quella Italia che forse già sapeva, tanto da prevedere un aumento 5% per le spese militari nel 2022. Ben 26 miliardi di euro. In piena pandemia. E con una inflazione che si prevede più letale del virus e i cui effetti sono già noti e evidenti.
La stessa Italia che oggi, già in prima lettura, ha fatto sapere porrà la fiducia sull’obbligo vaccinale (solo per adesso) per i cinquantenni e l’obbrobrio del relativo green pass. Per sempre. Mentre dal prossimo Consiglio dei Ministri, di cui fanno parte i diplomatici Gigino il fagocitatore di delizie tropicali durante le cene di gala a seguito di viaggi vuoti e il contabile Draghi, fautore delle tavole rotonde stile Aspen, un omologo francese siederà alla loro stessa tavola, perché così ha deciso Mattarella, defecando sull’intero Parlamento, riunito in seduta silente e complice. Ma le invasioni di campo sono quelle di Putin e la sovranità da difendere è solo quella di Natascia.

DICHIARAZIONE DI GUERRA

Che si dichiara così una guerra? Senza che nessuno abbia prima detto che il Covid è fin(i)to? E non perché qualche Nobel(lo) secchione con gli occhiali a culo di bottiglia e la testa quanto una televisione abbia affermato che, dopo due anni di emergenza che non è emergenza ma solo “nuova normalità”, il virus ormai è endemico e ha perso la propria virulenza, ma perché i “padroni del mondo” hanno deciso di concentrarsi sul fronte orientale. Nel senso che si sono concentrati lì e dicono a Putin di ritirarsi non dicendo, però, che Mosca non ha mai sconfinato e non può ritirarsi da nessuna parte, visto che da nessuna parte è andata. È rimasta a casa sua. Che in americano suona come “il nemico non ha accettato le nostre condizioni di peace”. Te piace o non ti piace. La stessa America che aveva diramato al mondo intero la notizia secondo cui Putin avrebbe attaccato il tal giorno, alla tale ora. Cosa rivelatasi vera e verificabile almeno quanto l’esportazione della loro democrazia. USA & getta. Consumismo esasperato.
Mosca avrebbe dovuto attaccare, ma l’Ammerega era già sui confini a “difendere”. L’Ammerega schiera l’arsenale bellico, ma la colpa è di Mosca. Appare evidente che l’unica mosca – e pure bianca – è quel figlio di Mosca, allievo del KGB: mentre vanno in onda le conferenze in diretta mondiale per raccontare la III guerra mondiale, la controffensiva a stelle e strisce sta tutta in sanzioni economiche, già annunciate. L’Unione europea fa addirittura di più – che significa di peggio – e annuncia delle “sanzioni personali” verso Putin. Cioè? La sovrattassa turistica o il divieto di sosta se Putin dovesse mai recarsi a Bruxelles?
L’Ucraina, da parte sua, dopo la Crimea, perde anche il Donbass. Vivi il sogno americano…
E Putin, dopo aver riconosciuto l’indipendenza delle repubbliche separatiste, in accordo coi due Presidenti, invia le proprie forze militari per difenderle… dalla peace americana.
Ma solo la Russia è cattiva? Nooooo. Anche la Siria di Assad annuncia che è pronta a riconoscere le repubbliche del Donbass di Donetsk e Luhansk. Anche Venezuela, Cuba e Nicaragua riconosceranno probabilmente le repubbliche di Donetsk e Lugansk a breve, secondo lanci di agenzia. Si attende di conoscere le risposte di Cina e Brasile, ma a considerare da come sono state ricevuti al tavolo del Cremlino, rispetto ad un Macron…
Non sono forse schieramenti questi? Alleanze? Nazioni Unite?
E la NATO? E l’ONU?
Inutili. Come l’Unione europea. Morte. Finalmente.
E l’Italia? L’Italia attende che il ministro degli Esteri Di Maio riferisca in Aula. Riferire. In aula. Di Maio. Capite? Di Maio che riferisce in aula! Non capisco.
Persino più ridicolo di Letta che parla di difesa dei confini!
Figliuolo. Il generalissimo plurimedagliato, pennuto, ma in camice white! Le Forze Armate di aggeggio elettronico per il controllo della propiska.
Ma in Italia c’è il Covid! Ci vogliono i vaccini e le mascherine. Il green pass e le restrizioni. Ma il virus non era sparito? Sì, ma è meglio tenerle. Per precauzione. Non si sa mai. Questa potrebbe essere solo una boccata di ossigeno. E poi, se scompare il virus, non è detto debbano necessariamente scomparire i suoi postumi. A volte, gli effetti finiscono per rappresentare le vere cause. Magari le premesse per una emergenza infinita. A cui, prima o poi, ci si abitua. E l’abitudine è sorella gemella della normalità. E così appare normale che non puoi più guadagnarti il pane solo perché hai cinquant’anni. Che sei vuoi lavorare, studiare, divertirti e vivere devi essere autorizzato. Che non sei più padrone di stare in casa tua con chi vuoi o decidere di riprodurti come e quanto vuoi. Che il lavoro che hai deciso di fare o che comunque ti consente di vivere, tutt’a un tratto, viene considerato “non essenziale”. Allora le attività chiudono, la disoccupazione aumenta, i poveri si moltiplicano, l’Italia si impoverisce. Sparisce. E si vende. Si svende. Ricchezza. Potenzialità. Eccellenza. Dignità. Che sono le macerie evidenti della guerra vera. Non combattuta, ma già abbattutasi. Subita. Solo che non si è vista, grazie alla mascherina. Alle restrizioni che ti hanno tappato in casa. Al diritto alla puntura di vita, con scadenza rinnovabile. Ma noi non possiamo fare altro che subire. Subire con 59 basi NATO sul nostro territorio e parecchi metri cubi di gas della Gazprom. Subire, nonostante le 59 basi NATO sul nostro territorio e i migliaia di metri cubi di gas della GAZPROM che consumiamo. Quando la smetteremo di praticare il tifo non agonistico anche in politica, a non essere filo-americani, filo-russi, filo-qualsiasi cosa, patrioti europei e saremo essenzialmente Italiani filo-italiani allora saremo pure più orgogliosi e consci della grandezza nazionale. E solo allora potremo anche farci finalmente i cazzi nostri.

Fenomenologia dell’ICTUS ITALICO : da squali e piranha a piscitiell’ ‘e cannuccia!

Alla fine sono arrivati anche loro. Anche loro sono insorti. Quelli che erano stati lungamente assenti nelle proteste per il presente che è il loro futuro. I giovani. Sono scesi in piazza per protestare. O meglio, sono entrati a scuola, per protestare. Pro-testare, secondo le logiche sperimentali del ministero per la transizione ecologica e digitale, che mescia, alza i calici e brinda. Prima di blindare.
Nell’ottica della tradizione che è coniugazione del passato col futuro, è ancora Roma ad esser caput mundi. Galeotto fu il liceo capitolino Augusto Righi dove è successo il fatto: una giovane fanciulla sedicenne – e forse pure sedicente – colta in fallo mentre si faceva un tik tok, ovvero registrava un breve filmato nei locali della scuola per poi pubblicarlo in internet, alzandosi la maglia. Un poco troppo per un’insegnante che ha assistito alla scema/scena e ha chiesto alla fanciulla se credesse di trovarsi sulla Salaria, metonimia per il luogo di assembramento delle lucciole.
Immediata la replica dell’alunna che, consapevole di aver infranto il dress code, quello che prima del forzoso angliscismo di Schengen si chiamava italianamente “decoro”, gioca il jolly e si attacca al sessismo. Che ormai ha fottuto pure il politically correct e le quote rosa e va addirittura meglio del cacio sui maccheroni.
Immediatamente precettata la falange di gioventù che collettivamente ha solidarizzato con l’influencer influenzata e ha deciso di infrangere a  sua volta il dress code e si è un recata a scuola in short, canotta e minigonne. La risposta dal mondo dell’informazione non s’è fatta attendere e repentinamente è iniziata la caccia alla Preside la quale, con fare andreottiano, non era presente e non s’è accorta di nulla, ma, in compenso, ha provveduto a scusarsi per l’insegnante che sicuramente non intendeva offendere la giovane. La quale, però, non si accontenta e pretende le scuse dell’accusatrice che ancora non sono arrivate. Forse pretende l’abiura e poi il rogo, senza aver minimamente proferito e preferito discettare sulla propria condotta. Un atteggiamento tipico del piscitiello di cannuccia, ovvero della persona stupida, ingenua che viene pescata con facilità. D’altronde questa è la generazione dei pronipoti dei partigiani, nipoti dei sessantottini, persino la loro degenerazione. I loro antenati, a differenza loro, anziché scoprirsi, si coprivano con eskimo e Hazaret 36, e andavano in piazza a dare e (soprattutto) a prendere mazzate contro i coetanei in bomber e anfibi in nome di una ideologia. Ma questa è la (de)generazione delle sardine, che non sono altro che i baccalà dei loro nonni squali e bisnonni piranha, pur confrontatisi e scontratisi con la generazione dello stoccafisso.
A giudicare dall’argomento della protesta, dei meri “pesci pigliati co’ ‘a botta”, ovvero senza spina dorsale, verso quella scuola che più non forma, che non prepara al futuro e che non dà più nemmeno un metodo per studiare. Quella scuola europe(ist)a misurata a colpi di crocette da test “Invalsi” e sui cui l’Europa non ha mai avuto da ridire, da pretendere per alzarne gli standard. Quelle scuole dove ormai non insegnano più la ricerca, che è filosofia, che è amore per il sapere e dove manca persino la carta igienica, usata al posto dello spirito critico. Quella scuola sostituita dalla DaD che è solo la variante all’edificio freddo, malfunzionante e fatiscente.
Eppure proprio in questi giorni il mondo della scuola vive una tragedia doppia, la conseguenza di quella riforma spacciata come “Buona Scuola” che pre-vede l’alternanza scuola-lavoro, ma che ha fatto due vittime. Minorenni. Non retribuite. E di qui al caporalato il passo è breve… a istituzionalizzarlo.
Il Righi di Roma non è che solo l’oblò di un acquario nazionale in cui esiste – Vivaddio! Nel senso dell’acronimo greco ictùs, non “colpo”, ma “Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore” – anche quella scuola che è scesa in piazza per solidarietà nei confronti di queste due giovani vittime cadute nemmeno nell’adempimento del proprio lavoro e che hanno trovato la risposta dello stato nei manganelli inviati dal Viminale. Perché evidentemente tra i banchi, seppur non a rotelle, c’è ancora chi osa e usa pensare. Al confronto della massa, nemmeno minimamente infuriata dalla mancanza di fondi, dai turni a scuola per via non del sovraffollamento, ma perché le aule sono troppo piccole per con-tenere il covid; non per l’obbligo di mascherina o per un obbligo di cui non esiste obbligo circa il vaccino che è strumento propedeutico per la frequenza in presenza e per sostenere gli esami. Per questa scuola che non fa accedere ai laboratori per… boh; perché non forma, ma uni-forma, figlia perennemente minorenne e inguaribilmente minorata di quel 6 politico a dispetto della competitività e della meritocrazia. E loro ci cadono come dei perfetti “pesci a broro”, esseri rammolliti e amorfi che nulla pretendono per il proprio presente, condizione essenziale per il proprio futuro. E chissà, se anche questa protesta dai contenuti penumaticamente vuoti e retorici, a giudicare anche dallo spazio riservato dalla complice in-formazione, non sia solo una controprotesta creata ad arte per mascherare problemi fin troppo evidenti anche con tutte le precauzioni e le mascherine del (nuovo) mondo. E voi, ancora una volta, avete abboccato.

https://www.camposud.it/fenomenologia-dellictus-italico-da-squali-e-piranha-a-piscitiell-e-cannuccia/tony-fabrizio/