PROTESTANO I PANETTIERI: a lievitare sono rimasti solo i costi di produzione!!
AZOV È ACCIAIO
Prima le donne e i bambini. E tra i primi ad essere rilasciati c’è lei, Cateryna Poliskcuck, professione medico, nome di battaglia “Uccellino”, così ribattezzata grazie alle sue doti canore con le quali ha allietato le notti all’Azovstall.
Con lei, come lei torna libero Mykhailo Vershyn, capo della polizia di pattuglia di Mariupol. E anche il fotografo “Eyes of Azovstal” Dmytro Kozatsky. Insieme con “Chimico”, “Docente” e “Hassan”. Ci sono anche “Frost” e “Fox” di cui si scriveva fossero stati condannati al plotone d’esecuzione.
E non mancano i loro comandanti Denis “Redis” Prokopenko e Svyatoslav “Kalina” Palamar. Sono liberi. Come il maggiore Bodhan “Tavr” Krotevych. E pure il più giovane, il nemmeno ventenne Alexander Igorovitch.
Azov sta tornando a casa!
Non per stare sul divano o davanti alla tivvù a godersi lo spensierato riposo. Per gente come questa “casa” è l’Ucraina, casa è la loro terra martoriata e le loro abitazioni distrutte. Casa è quella battaglia da continuare per difendersi ancora. Per difendere la loro gente, il loro popolo, la loro Identità.
Il comandante Denis Prokopenko al riguardo ha fatto sapere che stanno bene, sono in uno stato d’animo combattivo e sono persino desiderosi di tornare a combattere. A dimostrazione che Azov è acciaio per davvero e che le loro battaglie in nome della difesa di Identità e Tradizione sono cucite tra pelle e animo, tra tatuaggi e mimetica da combattimento. Sono ragioni di vita, per continuare a vivere per davvero. Che è anche morire, per vivere in eterno.
Dei duecentoquindici difensori dell’Ucraina, duecento sono stati scambiati direttamente con Viktor Medvedchuc, l’oligarca amico di Putin. Nello scambio di duecento a uno sono stati inseriti praticamente tutti gli ufficiali del reggimento Azov. Questo conferma il valore degli oligarchi nel sistema russo. Un sistema di oligarchi, dunque, altro che sistema di popolo! Questo può indurci facilmente ad una seconda conclusione, seppur ovvia e scontata: il Cremlino fin da subito aveva dichiarato che non avrebbe mai accettato uno scambio Medvedchuc-Azov: evidentemente non è andata così. E non è la sola cosa che non è andata come pianificato dal fine giocatore di scacchi per questa – a questo punto – (solo) “sua” operazione speciale. Elevata a “mobilitazione militare parziale”, dove parziale non sta ad indicare certo il numero degli “arruolabili” sotto l’effige della rispolverata bandiera rossa con tanto di stella, falce e martello che nelle ore immediatamente successive al discorso dello zar ha fatto registrare il sold out dei voli in partenza dalla Grande Madre ed ingorghi automobilistici interminabili ai confini con la Georgia. Tutti civili quelli che fuggono? E, se è vero che la Russia può contare su un numero pressoché elevato tra riservisti e signori della guerra opportunamente addestrati – pare 300mila all’incirca – per quale motivo fuggono paradossalmente i “civili”, che non corrono il “pericolo” dell’arruolamento? Perché lasciano la propria terra f fare dove garrisce di nuovo la bandiera a strisce gialla e blu? E il consenso similplebiscitario dell’inquilino del Cremlino? Quel consenso che sembra essere ormai un problema anche tra storici alleati e nuovi padroni del regno dello zar, Pechino in primis. Ché, se il Dragone sta da una parte, è solo dalla propria parte. I musi gialli, infatti, si sono detti contrari non solo al prosieguo delle ostilità, ma finanche ai referendum nel Donbass e in Lugansk che avrebbero dovuto sancire la legittimità dell’operazione speciale, la russificazione, e, invece, si sta trasformando nella cartina tornasole del fallimento della strategia dello scolaretto revanscista del KGB. Che, poi, a dirla tutta, questa cosa delle elezioni pare tanto essere una replica di ciò che è già successo sotto regia yankee nel 2014 e oggi, magari inquinandone il risultato (scontato), non pare discostarsi da ciò che succede oltreoceano.
Le patrie galere sono ora libere di ospitare i (propri) renitenti alla leva, quei russi che sono scesi numerosi in piazza da Mosca a San Pietroburgo per protestare contro la mobilitazione ordinata dal Cremlino: la gente non ha voglia di guerra, ha voglia di vivere e non di morire, di andare via e godersi la vita sull’esempio degli oligarchi, non di perire per una idea non loro di rifondazione dell’unione sovietica. Forse, in questo la Russia è davvero “europea” nel peggior senso del termine, incapace di credere e di incarnare un’Idea ed è (anche) per questo che questa europa è incapace di riconoscere dignità e valore ai combattenti di Azov che non si sono tirati indietro difronte a chi ha minacciato la scomparsa della loro Identità. Di popolo e di Tradizione. Offrendo il più alto esempio di combattimento che si ricordi dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi. E, tocca ammetterlo, da apprezzare è addirittura il presidente-pupazzo Zelensky che ha tutte le colpe di questa guerra – che non è certo tra Russia e Ucraina – ma che è rimasto in Patria. Dove, forse, sarebbe dovuto rimanere Putin che ormai inanella continui passi falsi che si traducono in un bilancio tutt’altro che positivo: crescente rifiuto di combattere una guerra che i russi non vogliono – che significa anche un calo vertiginoso del consenso – rianimazione di un carro bestiame vecchio e senza motivo di esistere come la Nato con conseguente allargamento della stessa organizzazione; dimostrazione al mondo di arretratezza e incapacità dell’apparato bellico neosovietico – chissà cosa abbia appreso Putin dalle esercitazioni congiunte con la Nato e la sua richiesta di aderirvi -; implosione del CSTO e dell’area di influenza russa che certifica la potenza cinese con conseguente placet a fare razzia; conseguente isolamento diplomatico del Cremlino che si traduce in una già sudditanza cinese in primis, turca sicuramente e, forse, anche indiana; l’allontanamento, se non un definitivo addio, dei rapporti commerciali di Mosca con l’Europa – a vantaggio degli Usa che intavolano un nuovo piano Marshall – dopo (anche) la rottura dell’asse Mosca-Parigi-Berlino; crescente recessione economica russa che sarà costretta a svendere le proprie ricchezze, gas in primis a Cina e India su tutti che faranno da riserva per il Cremlino a prezzi stracciati; certificazione (e contributo) all’unipolarità del mondo a guida anglo-americana; ultimo il primo motivo dell’operazione speciale, quello della denazificazione che si è conclusa con la liberazione dei nazisti di Azov.
Per Putin e la Russia avrebbe dovuto essere lo sbocco al mare, ma qua tocca raccogliere il salvagente, seppur cinese, che Pe-chino ha lanciato allo zar, oltre che bisogna anche tenere presente che Kissinger ha cent’anni e non è eterno. A meno che non si scopra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che la Russia è solo l’altra faccia degli Usa. Allora potrà essere compreso anche Azov che è faccia pura, senza maschere né filtri. E che Putin, se non è complice, è proprio fesso. Che non so cosa sia peggio. C’è di vero, però, che gli Ucraini non sono i russi, che la loro Patria l’hanno resa grande contro una Grande Madre e che gli invasori stanno lasciando persino la propria terra d’origine. Per scelta e non per scelta, per convenienza e per continuare a vivere. Mentre gli aggrediti ritornano a casa, in quella casa mai abbandonata, più vivi che mai.
AUTOSTAZIONE “GODOT” DI AVELLINO: L’ENNESIMA INAUGURAZIONE FASULLA DI UN DE LUCA COMICO CHE NON FA RIDERE!!
De Luca fa, De Luca disfa. Vincenzo crea, Vicienzo distrugge. Non è certo l’onni (m)potente lui, ma è come se lo fosse. Perché lui si sente così. Lui non si discute. Lui è! Punto. Deve avere veramente un bel nulla da fare – o meglio d’affare – il Presidente plebiscitario della regione Campania per camuffare il nulla assoluto, il vuoto cosmico, per “ammacchiare” le macchie del suo “operato” divenendo macchietta egli stesso e finendo (in senso metaforico) per arricchire (e qui nessuna metafora è contemplata!) con sempre nuove genialate la sua infinita pièce teatrale.
E ieri, 7 settembre, lo sceriffo “ha fatto un altro piezzo”, inaugurando – dopo 36 anni di lavori – l’autostazione dei bus di Avellino. Che non è ancora completata. E magari pure ringraziarlo qualora i lavori dovessero continuare ancora per il mancato completamento delle commissioni. Cosa assolutamente possibile, al momento.
Non è certo una commedia, purtroppo è tutto vero, tanto che la nuova opera è stata subito ribattezzata “Godot”. Il teatro dell’assurdo. L’eterno divenire. L’infinita perifrastica. La situazione in cui si continua ad aspettare in eterno qualcosa che appare come imminente, (e abbiamo detto che sono trascorsi “solo” 36 anni dall’inizio dei lavori!!) senza fare nulla perché siano effettivamente ultimati i lavori o, almeno, ci si dia una smossa. Ed è proprio il caso dell’autostazione di Avellino (De Luca ha specificato che si tratta proprio di un’autostazione e non di un semplice terminal) che, però, manca di collaudo e di ogni altra diavoleria burocratica perché possa iniziare ad essere fruibile dall’utenza. “Le autorizzazioni necessarie ci sono”, ha subito precisato il manager di AIR, meglio “di area”, l’area e l’aria sua, quella di De Luca che a gestire l’azienda di autotrasporti irpina ci ha piazzato un manager salernitano! Giusto per dire che la visione “salernocentrica” è una concezione deluchiana che “non esiste”. È l’ennesima eccezione che conferma la regola.
Allora, se le autorizzazioni necessarie ci sono, non si capisce perché la messa in servizio avverrà, meglio, dovrebbe avvenire si spera, solo il 7 di ottobre. Speriamo dell’anno corrente. E se le autorizzazioni per il collaudo non ci sono, come si è potuto tenere una pubblica manifestazione per inaugurare qualcosa che non c’é o non funziona ancora?? Poniamo così, assurdo per assurdo: l’opera inizierà(?) la sua attività il 7 di ottobre, ma il 7 di ottobre è una data successiva al 25 di settembre, l’election day dove Pierino De Luca, progenie di Vincenzo il Grande, si giocherà il futuro della permanenza in Parlamento, seppur candidato al primo posto in un collegio blindato. Allora ci pensa papà. E papà inaugura l’autostazione Godot durante le elezioni. Nonostante il “trascurabile” dettaglio che da domani l’opera inaugurata resterà chiusa. Domani, infatti, le corse partiranno da dove sono partite in tutti questi anni. Nulla è cambiato. Nemmeno i parcheggi potranno funzionare. E chissà quando potranno vedere la luce gli oltre 300 posti di lavoro promessi da De Luca. Riuscirà in un mese esatto a reclutare, formare e condurre alla meta burocratica le 300 persone che nell’opera inaugurata dovrebbero trovare un’occupazione?
Ma quello andato in “oscena” ieri ad Avellino non è che l’ennesimo tassello di una strategia collaudata – questa sì! – e che funziona nel tempo: come non dimenticare i numerosissimi ospedali inaugurati da De Luca nel biennio ’20/’21 a.c. (anno covid) e mai entrati in funzione? Che altro non erano che i moduli arrivati scenicamente in città di notte su un tir per poi essere abbandonati all’incuria e diventare sede di graminacee ed erbacce dalla crescita incontrollata. Alcuni di quegli “ospedali” mai entrati in funzione furono inaugurati più e più volte! Su Campo Sud Quotidiano troverete tutto il dossier, corredata dalle denunce presentate agli organi competenti dall’on. Marcello Taglialatela, il solo che ha intrapreso questa battaglia contro il satrapo annidatosi in Regione e che hanno fruttato già numerose comparizioni davanti agli organi giudiziari competenti. Quella stessa sanità che gli ha dato la “Santità”, secondo Vicienzo: non c’è un solo ospedale campano che non sia in emergenza: per carenza di risorse umane, per bilancio insufficiente, per attrezzature e macchinari sanitari inesistenti. Il Moscati di Avellino è stato addirittura costretto a chiudere il pronto soccorso agli interventi che non fossero da codice rosso – ne abbiamo parlato qualche giorno fa sempre qui su campo Sud Quotidiano – interventi chirurgici saltati perché il personale – quello rimasto – è stato spostato per le emergenze e sottoposto a turni di lavoro massacranti. Emergenze che sono tali perché è stata congestionata l’affluenza presso i pochi ospedali risparmiati dai tagli, per nulla chirurgici, di Delucanossor, così come è stato ribattezzato nel besteller Terronia Felix, logica conseguenza e disagio già annunciato – non dai De Luca boys, però – presso i pochi ospedali che non hanno potuto fronteggiare l’emergenza. Ad arte creata. Così come “creati” sono stati di posti di degenza nelle terapie intensive: da posti effettivi siamo passati a quelli disponibili, poi a quelli utilizzati, poi a quelli… inventati! Così come le decine di posti in cardiologia presso l’ospedale di Sant’Angelo dei Lombardi inaugurati – manco a dirlo – da De Luca in persona e chiusi dopo 10 giorni! Perché? Non si sa. Bisognerebbe chiedere a Pierino De Luca che dice, in “campania elettorale” di voler riaprire l’ospedale di Solofra, potenziare le attività di quello di Ariano Irpino, di aprire nuovi reparti a Benevento e a Napoli: chissà se sa che tutti i nosocomi di cui ciancia sono stati chiusi proprio dal suo papà. Pieri’, Vicienzo t’è padre a te! Non ci stupiremmo di certo nel vedere Vicienzo Godot chiudere ospedali interi per poi farli riaprire dal figlio. Magari questa sarà la prossima mossa utile (e idiota) per l’avvicendamento sullo scranno più alto di Palazzo Santa Lucia, se col Parlamento dovesse andare male. Difficile, Pierino è capolista in un collegio blindato. Se proprio dovesse andare male, potrà sempre chiedere a papà Vicienzo un posto dei trecento all’autostazione “Godot” di Avellino. Altrimenti…. potrà sempre attaccarsi… al bus! Insieme al papà.
https://www.camposud.it/autostazione-godot-di-avellino-lennesima-inaugurazione-fasulla-di-un-de-luca-comico-che-non-fa-ridere/tony-fabrizio/
IL RICORDO DEL GENERALE DALLA CHIESA E DI QUELLA PORTA CHE NON SI APRÌ MAI
Tutto come da copione anche quest’anno. Galloni tirati a lucido, fasce tricolore fresche di tintoria, damine incipriate per il gran galà di coronamento della carriera. Le parole sono quelle buone, degne della “migliore” retorica, quelle da fiera delle belle intenzioni. Insomma, non è mancato proprio nulla per il quarantesimo anniversario della morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. A perenne ricordo che anche quarant’anni fa le parole delle istituzioni furono solo delle belle parole e nulla più. Quelle che ieri avevano tutto il carattere delle promesse e che, quarant’anni dopo, hanno tutto il sapore dell’inganno.
Non serve ripercorrere la carriera militare del Generale, né fare ricordo della sua umanità, delle sue qualità di solidarietà umana, di comprensione e di indulgenza verso gli altri ché, quelle no, non sono morte. Anzi, sono vive più che mai. Anche dopo quarant’anni.
Questa volta raccontiamo di quando il Generale bussò e nessuno gli rispose. O, forse, fu una risposta eloquente anche il silenzio. Omertoso. Lo raccontiamo perché, proprio nell’anno del quarantesimo anniversario della morte di Dalla Chiesa, è scomparso un altro (co)protagonista della vicenda: Ciriaco De Mita.
Dalla Chiesa, dopo aver combattuto sul campo, concretamente il Terrorismo rosso degli anni di piombo, dopo aver fronteggiato tutta la veemenza di chi, dopo mesi, anni di terrore, si trincerava dietro alla “prigionia politica” venne mandato in Sicilia per combattere la mafia.
Solo su di lui puntava lo stato. O, meglio, su di lui solo.
Egli chiese pieni poteri: gli furono promessi, non gli furono mai concessi.
Erano gli anni in cui non era stato ancora inaugurato il pentitificio di stato; per capire, per combattere il sistema delle cosche bisognava sporcarsi le mani nel vero senso del termine; erano gli anni in cui la Sicilia faceva paura e basta, non era ancora stata trasformata nel trampolino di lancio per stratosferiche carriere politiche, giuridiche, giornalistiche, imprenditoriali.
Erano gli anni in cui il generale Dalla Chiesa era solito rifugiarsi, soprattutto nel mese di agosto, a Villa Dora – così chiamata in onore della prima moglie – in un paesino delle verde Irpinia, Prata Principato Ultra. Amena collina, aria salubre, quiete e pace ristoratrici, vicini eccellenti. A meno di 30 km di distanza, nella natale Nusco, viveva l’allora presidente della Democrazia Cristiana Ciriaco De Mita. E proprio alla porta della tenuta del segretario della DC, già Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana, il Generale bussò senza, tuttavia, mai ricevere risposta. Ignorato totalmente. Indifferenza completa. E per questa cosa Dalla Chiesa non si dava pace. Non era possibile che nessuno lo ricevesse, che a nessuno importasse cosa lui avesse da dire. Come (non) potesse fare. Come (non) dovesse fare. Era impensabile – per lui – che i signori della politica pensassero che proprio l’incorruttibile Generale non stesse dallo loro stessa parte. Proprio lui che era arrivato al covo dove le Brigate rosse tenevano prigioniero il “compagno” di partito – poi di-partito per davvero – Aldo Moro, che a Bari commissionò proprio ad uno sconosciuto Dalla Chiesa la tesi per la laurea in Giurisprudenza, e proprio a lui fu detto di “lasciar stare” quell’appartamento. Proprio lui che aveva aperto le patrie galere a terroristi del calibro di Renato Curcio e di Alberto Franceschini.
E proprio lui fu inviato in Sicilia a combattere la mafia. Senza alcun potere speciale. Di quelli di cui si era avvalso per la lotta al Terrorismo rosso. Meglio un eroe morto che un combattente vivo, si potrà pensare in mala fede. E “a pensare male si fa peccato, ma spesso si indovina” era una delle convinzioni di Giulio Andreotti, esponente di spicco di quella DC del “silente” De Mita e dell’allora Presidente del Consiglio Spadolini che pensò di conservare bene bene nell’archivio di casa la lettera con cui il Generale chiedeva disperatamente a Roma i poteri speciali per espletare al meglio il proprio compito, per offrire il giusto successo – rendere giustizia – del proprio lavoro allo Stato committente.
Quella giustizia che annoverava tra le sue file il procuratore di Palermo Vincenzo Pajno – come racconta il prof. Nando Dalla Chiesa, figlio del Generale – che ebbe a dire verso suo zio che “non intendeva giocarsi le ferie!”. Un Ingroia ante litteram. Anche il buon magistrato persecutore di un altro servitore dello stato quale è Bruno Contrada e che oggi calca il palcoscenico della politica, nell’ultima tornata con Italia Sovrana e Popolare di Rizzo & co(mpagni), infatti, subito dopo la strage di Capaci e prima dei fatti di via D’Amelio, dove perse la vita Paolo Borsellino, ebbe l’ardire (e l’ardore) di dire al giudice missino che lui “doveva andare in ferie!”.
Ferie ristoratrici, ferie che servono ad incontrare amici e persone fidate, ferie che non ebbero tempo per il Generale presso Villa De Mita a Nusco né per una passeggiata presso Villa Dora di “Ciriachino”, dove al fresco del grande gelso il Generale ha ospitato tutta l’Italia che contava. Evidentemente non contava più Dalla Chiesa e di lui si contavano solo i giorni dell'(annunciata) agonia. Quattro mesi, nemmeno poi tanti, dovettero sforzarsi di contare coloro che lo lasciarono solo. Coloro che sono gli stessi che sono arrivati a contare i 40 anni dall’omicidio.
Coloro che avevano aperto la porta di casa a tutti, dove entravi fedele elettore ed uscivi “sistemato”. Lavorativamente. Almeno quelli che erano, appunto, elettori. Meno che per Dalla Chiesa. Le porte di quella casa dell’entroterra irpino che fu il suo rifugio estivo, però, sono aperte a tutti ancora oggi: Villa Dora è, infatti, un centro d’avanguardia per il recupero delle persone con problemi di tossicodipendenza. Perché quel senso di giustizia che fu il perno della vita, non solo istituzionale, del Generale continua ad essere seme e germoglio, frutto e pianta e radici. Forse legno, di porte non chiuse. Diversamente di quelle porte che adesso sono chiuse. Chiuse per sempre. Di quel legno arido. Secco. Morto per davvero.
Dopo 40 anni, col disincanto del tempo, sarebbe sufficientemente doveroso utilizzare due sole parole che, nelle cerimonie ufficiali, ancora sono estranee: grazie, per tutto quello che il Generale ha dato all’Italia: la sua vita e quella dei suoi cari in primis; e scusa, per tutto quelli che lo hanno ostacolato, per tutti quelli che lo hanno lasciato solo in vita e continuano a sfruttarlo da quarant’anni anche da morto. Se, poi, qualcuno lo ritiene opportuno, si inginocchi pure.
https://www.camposud.it/7002-2/tony-fabrizio/
IL PARADOSSO DELL’OSPEDALE MOSCATI DI AVELLINO: “SI ENTRA SOLO IN CODICE ROSSO”!!
SALVIAMO MARCINELLE!
E dopo Capaci e via D’Amelio, ma prima di Dalla Chiesa, d’imperio toccava a Marcinelle. Rievocare. Che in questa Italia stravolta, ma non (ancora) sufficientemente sconvolta, significa ricordare di dimenticare. Proprio così. E se mafia e Sicilia hanno formato per tanti un connubio equivalente ad un ottimo trampolino di lancio per carriere stratosferiche, inesorabilmente convergenti tutte in gabinetti (istituzionali), vuoi che non si pieghi Marcinelle alle regole indegne della campagna elettorale? E Letta oggi – ma una Boldrini qualunque ieri – orfano di Calenda e “accoglione” urbi et orbi, sordi e tordi, dà l’esempio ricordando “la tragedia che coinvolse i nostri migranti”. Una retorica stantia, incartapecorita e fuorviante – per non dire falsa e falsata – almeno quanto l’antifascismo sbandierato ad ogni occasione utile, 365 giorni all’anno. Ogni anno. Da cento anni quasi.
E se per Capaci si (fa finta di) dimentica(re) il perché sia successo, o se vogliamo, non si sia evitato che l’autostrada saltasse in aria portandosi con sé il giudice più famoso in Italia e all’estero, Usa per prima, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta e Borsellino – che non era certo di sinistra, non dimentichiamolo come loro – lo si commemora ancora con la (sua) strage, dopo 4 processi – e non è l’ultimo – ognuno comprendente tre gradi di giudizio e solo adesso si inizia a nominare la parola “depistaggio”, omertosamente senza colpevoli, come da rito, per Marcinelle non si può che parlare di “immigrati”?
Perché anche gli Italiani sono stati un popolo di migranti è il mantra che va ripetendosi l’asinistra oramai scollata dalla vita reale, dal territorio, persino dal suo elettorato, ingannando se stessa per prima, ma obbedendo alle logiche del capitalismo globale rosso.
La verità è una sola e va chiamata col proprio nome, al netto di ogni giudizio storico, politico e morale.
Marcinelle è la storia di una lunga agonia iniziata alle ore 8.11 dell’8 agosto 1956 e conclusasi solo il 23 agosto. In questa lunga agonia trovarono la morte 262 minatori, 136 italiani, ben oltre la metà, quando nel sottosuolo di Marcinelle, tra pozzi e gallerie nelle viscere della miniera di Bois di Cazier non iniziò a propagarsi un fumo denso e acre che tranciò i fili del telefono e i cavi dell’alta pressione, rendendo così difficile, se non impossibile, lo spostamento dei carrelli sulle rotaie, comunicare con i minatori e soccorrerli.
Vani i sacchi di ossigeno calati nelle viscere della terra: il 23 agosto delle 262 anime resterà solo un dispaccio con due sole parole, scritte rigorosamente in italiano: “Tutti cadaveri”.
Quei cadaveri non erano che la conseguenza dello sciagurato Protocollo “italo-belga”, l”‘incenerizzazione” di 136 connazionali in cambio di carbone alla Patria, la svendita di 136 italiani trasformati in forza lavoro e divenuti merce. 136 morti a firma (e forma) del governo De Gasperi, di concerto col Clnai, rispondente a Democrazia Cristiana, Partito Comunista Italiano, Partito Socialista Italiano, Partito Liberali Italiano e Partito d’Azione.
E c’è di più: i lavoratori italiani che andavano in Belgio – immagine d’altri tempi – spesso venivano presi con l’inganno: il contratto, dicevano loro, prevedeva la durata di un anno, ma “i più fortunati” rimasero lì dentro fino a morte naturale. Il viaggio avveniva ammassati su dei treni che avevo la particolarità di essere blindati le cui porte non erano apribili dall’interno. In ogni angolo del Paese – già veniva chiamata così l’Italia – era possibile scorgere manifesti che descrivevano il Belgio quale l’Eden terrestre, dove ti davano da lavorare e anche vitto e alloggio. Chiaramente la realtà era diversa e lavorare non era il solo requisito richiesto: bisognava essere di sana e robusta costituzione, avere meno di 35 anni, forse così si poteva sopportare meglio il viaggio senza destinazione conosciuta e soprattutto senza poter fare soste, fino a quando non ci si rendeva conto della “truffa statale” di cui si era stati vittime: ammassati in campi di concentramento insieme con i soldati tedeschi prigionieri di guerra (il secondo conflitto mondiale era ufficialmente finito da oltre un decennio), imprigionati in stamberghe di lamiera gelide di inverno e roventi d’estate – visibili ancora in quelle sistemazioni che avrebbero dovuto fungere da casa per i terremotati dell’Irpinia e del Vulture del 1980 – e con una paga che a stento riusciva a coprire qualche volta al mese l’acquisto di pane e pasta per sopperire alla zuppa annacquata che chiamavano “pasto”.
Spesso ci è capitato di vedere fotogrammi di gente accalcata in dormitori spacciate per cuccette in legno e ferro più simili a delle gabbie che ad un letto atto, se non al riposo, quantomeno a recuperare forze ed energie per affrontare di nuovo la fatica della miniera: ebbene, quelle immagini spacciate per campi di concentramento della Seconda Guerra Mondiale, in realtà ritraggono i nostri padri ribattezzati “musi neri” in Belgio e ai quali era vietato entrare negli esercizi pubblici al pari degli animali.
Per cui basta con le fesserie finora propinateci, basta con le strumentalizzazioni più indegne di questa politica, basta con questa tecnica della goccia cinese per inculcarci senza sosta la retorica dell’accoglienza dovuta, basta con questa colpa sociale da inculcare al nostro popolo: le vittime di Marcinelle si trovavano lì per fare i lavori che i belgi non volevano più fare, perché il governo De Gasperi con i suoi degni compari sopra citati aveva eliminato la socializzazione del lavoro e delle imprese messa in atto dalla Repubblica Sociale Italiana e aveva barattato la manodopera (i figli della Patria) in cambio di carbone. Chi aveva “deciso” di abbandonare casa e famiglia e trasformarsi improvvisamente in minatore non fu ospitato in comodi alberghi con vitto, alloggio, lavatura e stiratura a spese di Bruxelles – il wi-fi ancora non c’era – mai protestò per il cibo che non si addiceva ai loro palati fini, non stava tutta la giornata a dividersi tra il poltrire e il bivaccare e, nei ritagli di tempo tra ozio e noia, rubare, spacciare, stuprare, violentare, ammazzare, squartare e abbondare in strada i corpi, magari nelle loro valigie di cartone. Non ricevettero nessun sussidio statale, né lo status di rifugiato e tantomeno nessuno pensò di regalare loro la cittadinanza, inventandosi lo ius soli, lo ius culturae. Nemmeno a quelli che dai meandri di Marcinelle non videro più la luce, né l’area. Per cui, se la politica è diventata propaganda ignobile e meschina, se l’amministrazione della cosa pubblica coincide con il trarre profitto ad ogni costo, primo su tutti di consenso, se davvero non riuscite a rispettare il vostro popolo, la vostra gente, i vostri simili, almeno abbiate la decenza di tacere. Anche quello è rispetto. Commemorate. Dimenticando davvero.
Fenomenologia dellA LaurA BoldrinA
Laura BoldrinA nacque femmina. Con tutti gli attributi. Quelli di serie di cui si è pur avvalsa per lasciare una traccia di sé.
Ma andiamo con ordine.
Laura – nome oggetto della più retrograda medioevale espressione poetica maschilista del padre (aborro!) fondatore (trasecolo!) della Lingua (femminile!) italiana, precursore dell’Umanesimo, tal Cesco Petrarca che passò una intera esistenza a comporre prosa e versi per affermare sostanzialmente un solo concetto: “Dite a Laura che l’amo” – abita questo pianeta sovraffollato dal 28 aprile 1961.
Prima – perché donna – di cinque figli di una famiglia pseudopatriarcale – il papà era avvocato, ma la mamma insegnante d’arte – trascorre l’infanzia e la pubescenza nella bucolica cornice del paesino maceratese di Matelica che abbandonerà alla volta di Jesi, dove conseguirà il diploma di maturità classica. Inutile riportare il voto, consideriamolo pure un 6 politico.
Dopo un ventennio che era venuta alla luce, decide di andare a lavorare (termine d’altri tempi!) in una piantagione di riso in Venezuela. Magari, fosse stata al servizio del caporalato pugliese, i danni dell’aggreSSione solare sarebbero stati più contenuti.
La raccolta del riso, o magari la sua condizione (femminile) di figlia di papà, le donerà un’agiatezza economica tale che le consentirà di intraprendere un viaggio da nababbA alla scoperta del centro America passando per Panamà, Costa Rica, Nicaragua, Honduras, Guatemala, Messico e Stati Uniti, fino a New York.
Un Di Battista che c’è arrivata prima, in quanto donna.
Ma quanto cazzo si viene remunerati nella raccolta del riso seppur per pochi mesi?
“Folgorata” nella megalopoli della Grande Mela, decide di scindere in due l’anno solare e dedicare sei mesi allo studio e gli altri sei a viaggiare. Pur non dedicandosi nemmeno più alla raccolta del riso.
Dopo quattro anni, in realtà due, ovvero quattro semestri, se consideriamo le altre quattro metà dell’anno impiegate a viaggiare per il pianeta, si laur(e)a in Giurisprudenza presso La Sapienza di Roma. Chissà, se frequentando l’ateneo, si è mai interrogata sul suo stile architettonico e, se sì, chissà perché non ne ha mai chiesto l’abbattimento, esigendone le rovine come prova.
Intanto già si “interessava” di filantropia unendo la passione del giornalismo trasformandola in risorsa all’AISE, l’Agenzia Italiana Stampa e Emigrazione, poi impiegata alla Rai, ma non nelle risaie, e trova anche il tempo per convolare a nozze (vero!) col giornalista Luca Nicosia dalla cui unione (verissimo! Di maschio e femmina!) è di fatto nata l’erede unica Anastasia.
Luca l’inseminator, però, non è il compagno con cui lA LaurA si è accompagnata, almeno fino al 2015, ma si tratta del giornalista di Repubblica, The Guardian e The New York Times Vittorio Longhi di origine eritrea e parte in causa nell’operazione di regime change contro il Presidente Isaias Afewerki, giustificata dal solito pretesto occidentale dell’esportazione di democrazia e dei diritti con annessa demonizzazione del dittatore ostile ai piani dei poteri forti mondialisti per il tramite di padre Mussie Zerai, ricevuto alla Camera dei Deputati della Repubblica italiana quando la concupita del Longhi occupava lo scranno di terza carica dello stato, senza mai chiarire se si fosse trattato di conflitto di interesse, visto che l’organizzazione Progressi di Longhi ha come mission il fatto di “fare pressione sulle istituzioni” ed è inserita in un circuito chiaramente facente capo a George Soros, di cui conosciamo le ingerenze sui governi nazionali.
Ma LaurettA non ha certo tempo da perdere con queste quisquilie e pinzellacchere: sarà per questo che ha “dimenticato” di pagare la liquidazione alla sua colf che è sparita, pur se doveva ricevere i suoi soldi? O perché “i conteggi erano difficili a farsi che hanno richiesto tempo”, conti che non fa certo lei, visto che, essendo una donna sola, non si prenota nemmeno il parrucchiere, ma chiede di farlo alla sua assistente parlamentare che, però, dovrebbe fare altro e per cui alla lavoratrice non versa nessuna remunerazione aggiuntiva? Ma solo perché lei non sa di conti.
La LaurA, però, nonostante sia una donna tutta d’un pezzo, non disdegna di e-mulare e inginocchiarsi per un’uccisione di un afroamericano della solita Police-sceriffo, ma il suo naso è così lungo che non vede le nostre Desirèe Mariottini, drogata, stuprata ancora vergine in un tugurio occupato da spacciatori clandestini africani e poi ammazzata nel quartiere San Lorenzo a Roma e Pàmela Mastropietro anche lei drogata, stuprata, accoltellata, squartata mentre era ancora viva e messa in due valigie abbandonate sul ciglio della strada da Innocent Oshegale. Erano donne, ma forse troppo bianche. Nessun piegamento di ginocchia o chiusura di sinistro pugno per Ermanno Masino, Daniele Carella e Alessandro Carolè, uccisi a picconate dal Adam Kabobo perché “sentiva le voci”. E neppure per Stefano Leo, giovane lavoratore autoctono, ammazzato da un Said qualunque perché italiano e “per togliergli tutte le sue idee, il suo futuro, le promesse e l’amore dei genitori”. Nessun silenzio di otto minuti e passa rotto dal grido “Non riesco a respirare” per David Raggi ammazzato da Aziz che con un coccio di bottiglia gli ha tagliato la gola. Né per le vittime del terremoto de L’Aquila, né per i morti del Ponte Morandi che rovinarono il Ferragosto a CasalinA. Però, ha indossato i panni della Vesta del p.c., del politically correct e con la solita sinistra supponenza continua a voler dettare l’agenda del più becero globalismo capitalista. Secondo cui è una vergogna tutta bianca quel nostro mos maiorum che risponde al nome di Tradizione. Culturale e civilizzatrice. Secondo cui persino la Legge – che è già usata ad abusata a proprio USO & consumo, dovrebbe creare categorie “pro-tette” in base alle quali creare autentiche discriminazioni. Dell’Ideologia sottoposta al Diritto, della Giustizia al politically correct. Reati più gravi, se a subirli sono gay e trans cui va dato più spazio nella società, in tivvù, con giornate apposite e apposite leggi. Nonostante quelle già ci sono e in loro tutela. Ne servono altre. Di più. Diverse. Mentre nessuna tutela è riservata alla procreazione, ai figli, alla famiglia. Di eterosessuali. Agli eterosessuali. Che non sono tutti di sinistra. O meglio, non ci sono gay di destra. Maschi troppo maschi. Sarà per questo che alla giornata dedicata alla Repubblica non ha applaudito i Leoni della Folgore? Fasci troppo fasci? O perché per lei semplicemente l’Italia non esiste. E con lei gli italiani. Lei, da figlia del mondo, cosmopolita, zingara, considera l’Italia un corridoio globale, la Casa di accoglienza dell’Africa e del circondario. L’Islamismo con i suoi riti inaccettabili in casa nostra la preoccupa poco o niente rispetto all’islamofobia. La violenza dei centri sociali sarà equiparata a quella delle risorse importate. E azzerata. Vuoi mettere la violenza di un saluto romano ad una commemorazione per i caduti? Vuoi mettere la violenza delle conquiste sociali, di quello stato sociale vanificato e chiamato adesso welfare. O la violenza con cui è stata debellata la mafia. E l’elenco sarebbe ancora lungo, ma la BoldrinA è una donna che bada alle parole, mica ai fatti! Ecco che si spiega la sua personale (e solitaria) vandea contro i suffissi (ops… suffesse) di parole e aggettivi maschili. Insomma, che la lingua italiana non contempli il genere neutro, ma solo maschile e femminile, alla nipote matta di Matteotti non va proprio giù. E se ancora non ha dichiarato la messa al bando dell’Accademia della Crusca è forse perché sia sostantivo che aggettivo sono femminili.
Ieri l’ultima – solo in senso temporale – delusione: il Senato, l’altro braccio boldrinesko di questa inesistente repubblica ha sentenziato che nel linguaggio istituzionale – ufficiale per la compagna gauche caviar Cirinnàchevitadimerda – non è inclusa la partita di genere.
Che genere di parità!?! Magari quella che ha portato altri suoi omologhi, diversamente (da lei) illustri predecessori ad inabissarsi, dopo aver tolto il culo dalla cadrega della Camera? E non solo i predecessori, visto che il suo figlioccio di governo risponde al nome di tal Robertino Fico. Altro sinistrato, altro defecatore sul 2 giugno e sulla (di loro) Repubblica antifascista. Altro pugnochiusista ed ennesimo rigurgito postumo del sessantottismo. Magari la finiamo anche di non pagare colf e badanti. E di fare i bagni a mare a Castelporziano, circondati da Corazzieri costretti a guardar le chiappe bianche alla PresidentA. Nemmeno Capalbio. Nemmeno lì sare(s)te tutti liberi e uguali.
IL RICORDO DI CARLO FALVELLA A 50 ANNI DAL SUO MARTIRIO. E il Comune di Salerno pensa di intitolare la strada ove fu assassinato, ai martiri del 25 Aprile!!
“Ho scelto Filosofia, perché potrei comunque continuare a insegnarla anche senza dover scrivere. Ma devo far presto a laurearmi. Devo assolutamente riuscirci prima di diventare cieco”. Questo era Carlo Falvella, diciannovenne studente di Filosofia con una grave menomazione della vista che avrebbe perso – secondo i medici – all’età di trent’anni. Trent’anni che Carlo non vedrà mai perché la luce sulla sua vita si spegnerà prima. Molto prima.
Di Carlo, così come per la maggior parte dei martiri caduti per la rivoluzione negli anni di piombo – che non è solo un periodo di stragi, anzi – ormai conosciamo con dovizia di particolari ogni dettaglio, eccezion fatta per alcuni colpevoli.
Fu una spallata sul lungomare Trieste, chissà quanto volontaria, visto che il giovanissimo Carlo vedeva ad ombre, per fare armare la mano dell’anarchico Giovanni Marini che successivamente e non prima che gli animi erano stati stemperati, in serata, a freddo in via Velia e in compagnia di altri due degni compari, affonderà il coltello nel cuore di Carlo. Rigirandocelo più volte.
E BASTA! È SOLO UN SUCCEDANEO.
E basta! È solo un succedaneo.
Sbaglierò, ma io tra la pandemia e la guerra in Ucraina c’ho sempre visto lo stesso copione. Così come nelle orgasmiche reazioni post-discorso di Putin di venerdì 17 ci vedo lo stesso piatto già servito quando i Mc Donald’s hanno abbassato le serrande a casa di Putin. E tutti lì a leccarsi le dita per l’ennesima mossa del fine giocatore di scacchi dell’ex KGB, dell’ottimo stratega e dell’impareggiabile (geo)politico. Serrande rialzate, nessuna perdita dei posti di lavoro, negozi chiusi e specialità yankees sostituite da prelibatezze locali. Questa la gattopardesca alternativa. Nient’altro che un succedaneo. Persino sul nome non vi è originalità: la direzione della catena di ristorazione pubblica Yeda i tochka (Cibo e basta) del territorio di Primorye (estremo oriente russo) ha detto di esigere che i fast-food Vkusno i tochka (Gustoso e basta), ex ristoranti McDonald’ s in Russia, vengano ribattezzati ed è pronta ad andare in tribunale perché «a causa del nome della nuova catena, l’attività sarà considerata un derivato, un’imitazione». Lo ha dichiarato all’agenzia Interfax il proprietario della catena Yeda i tochka, Sergei Pankratov.
Identica situazione accaduta subito dopo che l’inquilino del Cremlino ha tuonato contro il vecchio ordine mondiale e a favore del nuovo ordine mondiale. Succedaneo per succedaneo. Poco cambia, allora, se la plenaria sia quella di Davos piuttosto che quella di Leningrado, ops, San Pietroburgo: sempre di un forum economico si tratta. E i succedanei non finiscono certo qui: al mondo non esistono solo gli Usa – giustamente – ma anche la Russia, dice l'(auto)erede di Pietro il grande, con perfetti toni da g.f. che sta per guerra fredda e, come allora, ognuno vede e vuole il mondo in due blocchi contrapposti. Ma poi neanche tanto.
“L’Europa va verso un’ondata di radicalismo e cambio d’èlite”, quella Europa Occidentale dove “ i reali interessi delle persone sono stati messi da parte”. E non saranno certo centrali con l’avvicendamento di un altro imperialismo. Centrale deve essere “l’economia basata sul business privato”. Non è Draghi che parla, è sempre Putin. Giuro!
Vabbè, un leader vale l’altro. D’altronde Putin oggi non è forse il succedaneo del Trump di ieri? Il liberatore dallo stato profondo di Washington? Di Davos? Di Bruxelles? Ancora un succedaneo. Continuo. Ancora un padrone. Che si finisce per adulare. Ora come allora. A Roma, come ammalati cronici da sindrome di Stoccolma. Senza esserne mai inspiegabilmente colmi. Siamo veramente il colmo.
Il problema – è lapalissiano – non è Putin o gli Usa, ma continua ad essere (que)gli Italiani ormai disabituati a fare i cazzi loro. Che s’industriano a dissertare e discettare di Davos senza nemmeno sapere se il mercato sotto casa si tiene ancora. Se gli italiani, loro – noi – pian piano abituati al reddito di cittadinanza quale stipendio universale, possono ancora permettersi un chilo di mele, divenuto ormai bene di lusso. Se le mele crescono ancora, vista la siccità che diventa funzionale al razionamento che da emergenza diverrà norma. E lo decidono proprio vinti di Putin.
Quelli che continuano a fare il bello e il cattivo tempo in Italia. Ma che ci frega? Tanto Azov è stato sconfitto, però nessuno l’ha visto. Che ci frega se l’acciaieria è stata presa, ma la sola cosa che si è trovata è la bellezza di 30mila tonnellate di acciaio che lo zar ha puntualmente depredato? Se l’Ucraina è da denazificare, ma chi se ne frega se Putin dice che l’Ucraina con i confini come la conoscevamo finora non esisterà più – denazificare, però, vuol dire deucrainizzare e russificare -. Che poi è la stessa cosa che sosteneva chi accusava l’orso siberiano di imperialismo, inesistente agli occhi dei suoi figli autoproclamatisi adottivi e che vedono nella (non) invasione del Donbass tutto, eccetto che mettere le mani sulle ricchezze della non-Russia.
Conoscono le strade di Bucha su cui hanno condotto sofisticatissimi studi con l’ausilio di Hearts, di fotografie satellitari – un uovo sodo lo sapete ancora fare? – e non si accorgono sotto al naso della Via della seta attraverso cui quegli scappati di casa dei 5 stelle ci hanno portato la guerra in casa. Va dato atto che sono stati bravi, sono riusciti nel loro intento, grazie a tanti di voi. Gli stessi che, come biascicate, hanno perso, ma continuano a stare in sella. Che sono pure incapaci, ma servono quali utili idioti. E il potere glielo avete dato voi. Li credevate l’alternativa, il dissenso, si sono rivelati un succedaneo. Così come lo è l’opposizione interna del governo e quella esterna allo stesso governo. Che sono alleati e si scornano, ma invece di scornarsi davvero sono coalizzati. Dobbiamo poi gioire perché si è resistito – le parole non si scelgono – al siero e alla certificazione – cosa sacrosanta – pure se a settembre si ritornerà con i ricatti del siero e della certificazione pure per lavorare.
E la prossima volta che si scenderà in piazza – solo per i più temerari, sia chiaro – sarà per replicare piazza Tienanmen. Perché anche la Russia sarà cinese e stavolta non avremo nemmeno le buste della spesa in mano.