IL PARADOSSO DELL’OSPEDALE MOSCATI DI AVELLINO: “SI ENTRA SOLO IN CODICE ROSSO”!!

Un sospiro che non dà alcun sollievo, una risata amara che ha tutto il sapore della beffa e pure l’odore che è meglio non dire di cosa.
È stata revocata l’ordinanza del manager dell’Azienda ospedaliera Moscati di Avellino inviata alla Centrale Operativa del 118 attraverso la quale sensibilizzava il Servizio ambulanze ad evitare il trasporto presso il nosocomio del capoluogo irpino dei pazienti che non fossero in codice rosso. Questo perché, o almeno questo è ciò che si apprende dalle dichiarazioni, il Pronto Soccorso della città irpina ha registrato il record di accessi, con ingressi di ben 3850 unità in un solo mese. Quanto basta per mandare in tilt l’organizzazione ospedaliera che ha rischiato di riversare una condizione di forte stress lavorativo sul personale sanitario deputato alle emergenze. E ancora: del numero complessivo degli ingressi, il 53% (circa 2mila accessi) avrebbe potuto sicuramente trovare adeguata risposta sul territorio, in quanto classificato al triage con codice verde o bianco, il 41% è risultato di media gravità (codice arancione e azzurro) e il 6% è stato classificato come codice rosso; 76 i pazienti arrivati per traumi ortopedici (25 alla settimana gli interventi ortopedici chirurgici, tra indifferibili ed emergenze); 199 quelli risultati anche positivi al Covid-19 e assistiti negli spazi dedicati. E ancora: il 71% (2700) dei 3850 pazienti, rientrava nel bacino di utenza del capoluogo irpino, il 16% proveniva da una provincia diversa (soprattutto dall’area sud della Campania), il 9% dai Comuni dell’Alta Irpinia e dell’Ufita-Baronia, il 4% da altra Regione.
Hai voglia a sciorinare numeri e a snocciolare percentuali, queste non sono altro che le conseguenze della grande abbuffata sulla Sanità ai danni dei contribuenti: ridimensionamento delle prestazioni dell’Ospedale Frangipane di Ariano Irpino; depotenziamento dei nosocomi dell’Alta Irpinia (Bisaccia) e la lenta agonia che da anni affligge il Criscuoli di Sant’Angelo dei Lombardi; addirittura la chiusura del pronto soccorso del Landolfi di Solofra; oltre ai tagli indiscriminati che lasciano tutta la gestione dell’ordinarietà e della straordinarietà alle “capacità” (di inventare) del manager. Oltre alla insufficienza del personale ospedaliero (cronico quello dei Pronto soccorso dai quali “sono andari via” ben 600 medici, come riporta la Simeu, la Società italiana di Medicina d’emergenza-urgenza) e non ultima la sospensione delle attività delle case di cura private e convenzionate che non hanno erogato prestazioni nel periodo di ferie.
Questa gestione disastrosa, da codice rosso, ha un solo colpevole: quello del Commissario Straordinario e Presidente della Regione Campania. Ovvero: la macchietta della pandemia e l’“ammacchiatore” dell’emergenza Vincenzo De Luca. Il personaggio per cui il Covid è stata una fortuna. Lo sceriffo che sguainava forbici con cui tagliava nastri di inaugurazione a reparti inventati di sana pianta; la maschera che inaugurava gli stessi ospedali anche più volte (di cui questa testata ne ha fatto memoria e dato voce, scaturite in molteplici denunce da parte dell’on. Marcello Taglialatela), il regista-scenografo della parata di ingresso notturno in città dei tir carichi di moduli prefabbricati per nuove strutture anti Covid.  Il mago che quei moduli Covid non li ha mai  nemmeno messi in funzione.
Una “emergenza pianificata” – che già in sé è una contraddizione, vizietto tipico anche del (fu) Governo centrale – che sarebbe dovuto rimanere in vigore sino al 31 di agosto, ma che ha potuto essere revocata grazie alla sinergia del manager dell’Asl e all’omologo della Direzione del Moscati che vede la panacea nell’avvio di quanto previsto dal Pnrr.
Oltre che ad essere negato il diritto ad essere curati, appare paradossale che a stabilire la gravità dell’urgenza (codice rosso, giallo, verde, bianco) è proprio il personale sanitario in servizio sulle ambulanze e, per fortuna, non tutti i pazienti fanno ricorso al 118.
Ciò che resta assurdo, invece, è la risposta che la politica, oramai ridotta a chiacchiere da becera campagna elettorale, che non riesce nemmeno a rendersi conto delle conseguenze delle proprie decisioni: perpetrando tagli su tagli, depotenziando le strutture periferiche, chiudendo quelle prospicienti. In tal modo facendo, la minima cosa che possa accadere è l’ingolfamento dell’unico nosocomio aperto e funzionante. Se mai può essere una soluzione la chiusura degli ospedali in piena pandemia, con una popolazione tra le più vecchie d’Europa, a tutto vantaggio degli ospedali Covid il cui virus, a quanto dimostrato, poteva tranquillamente essere curato con meno clamore, minori “strutturazioni” e impalcature degne di un pessimo show.
E paradossalmente è una “fortuna” pure non poter sentire il grido dei pazienti terminali a cui sono state sospese le cure salvavita o quelle allunga-vita. Altro che codice rosso! Medesima trovata, identica firma.
https://www.camposud.it/il-paradosso-dellospedale-moscati-di-avellino-si-entra-solo-in-codice-rosso/tony-fabrizio/

SALVIAMO MARCINELLE!

E dopo Capaci e via D’Amelio, ma prima di Dalla Chiesa, d’imperio toccava a Marcinelle. Rievocare. Che in questa Italia stravolta, ma non (ancora) sufficientemente sconvolta, significa ricordare di dimenticare. Proprio così. E se mafia e Sicilia hanno formato per tanti un connubio equivalente ad un ottimo trampolino di lancio per carriere stratosferiche, inesorabilmente convergenti tutte in gabinetti (istituzionali), vuoi che non si pieghi Marcinelle alle regole indegne della campagna elettorale? E Letta oggi – ma una Boldrini qualunque ieri – orfano di Calenda e “accoglione” urbi et orbi, sordi e tordi, dà l’esempio ricordando “la tragedia che coinvolse i nostri migranti”. Una retorica stantia, incartapecorita e fuorviante – per non dire falsa e falsata – almeno quanto l’antifascismo sbandierato ad ogni occasione utile, 365 giorni all’anno. Ogni anno. Da cento anni quasi.
E se per Capaci si (fa finta di) dimentica(re) il perché sia successo, o se vogliamo, non si sia evitato che l’autostrada saltasse in aria portandosi con sé il giudice più famoso in Italia e all’estero, Usa per prima, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta e Borsellino – che non era certo di sinistra, non dimentichiamolo come loro – lo si commemora ancora con la (sua) strage, dopo 4 processi – e non è l’ultimo – ognuno comprendente tre gradi di giudizio e solo adesso si inizia a nominare la parola “depistaggio”, omertosamente senza colpevoli, come da rito, per Marcinelle non si può che parlare di “immigrati”?
Perché anche gli Italiani sono stati un popolo di migranti è il mantra che va ripetendosi l’asinistra oramai scollata dalla vita reale, dal territorio, persino dal suo elettorato, ingannando se stessa per prima, ma obbedendo alle logiche del capitalismo globale rosso.
La verità è una sola e va chiamata col proprio nome, al netto di ogni giudizio storico, politico e morale.
Marcinelle è la storia di una lunga agonia iniziata alle ore 8.11 dell’8 agosto 1956 e conclusasi solo il 23 agosto. In questa lunga agonia trovarono la morte 262 minatori, 136 italiani, ben oltre la metà, quando nel sottosuolo di Marcinelle, tra pozzi e gallerie nelle viscere della miniera di Bois di Cazier non iniziò a propagarsi un fumo denso e acre che tranciò i fili del telefono e i cavi dell’alta pressione, rendendo così difficile, se non impossibile, lo spostamento dei carrelli sulle rotaie, comunicare con i minatori e soccorrerli.
Vani i sacchi di ossigeno calati nelle viscere della terra: il 23 agosto delle 262 anime resterà solo un dispaccio con due sole parole, scritte rigorosamente in italiano: “Tutti cadaveri”.
Quei cadaveri non erano che la conseguenza dello sciagurato Protocollo “italo-belga”, l”‘incenerizzazione” di 136 connazionali in cambio di carbone alla Patria, la svendita di 136 italiani trasformati in forza lavoro e divenuti merce. 136 morti a firma (e forma) del governo De Gasperi, di concerto col Clnai, rispondente a Democrazia Cristiana, Partito Comunista Italiano, Partito Socialista Italiano, Partito Liberali Italiano e Partito d’Azione.
E c’è di più: i lavoratori italiani che andavano in Belgio – immagine d’altri tempi – spesso venivano presi con l’inganno: il contratto, dicevano loro, prevedeva la durata di un anno, ma “i più fortunati” rimasero lì dentro fino a morte naturale. Il viaggio avveniva ammassati su dei treni che avevo la particolarità di essere blindati le cui porte non erano apribili dall’interno. In ogni angolo del Paese – già veniva chiamata così l’Italia – era possibile scorgere manifesti che descrivevano il Belgio quale l’Eden terrestre, dove ti davano da lavorare e anche vitto e alloggio. Chiaramente la realtà era diversa e lavorare non era il solo requisito richiesto: bisognava essere di sana e robusta costituzione, avere meno di 35 anni, forse così si poteva sopportare meglio il viaggio senza destinazione conosciuta e soprattutto senza poter fare soste, fino a quando non ci si rendeva conto della “truffa statale” di cui si era stati vittime: ammassati in campi di concentramento insieme con i soldati tedeschi prigionieri di guerra (il secondo conflitto mondiale era ufficialmente finito da oltre un decennio), imprigionati in stamberghe di lamiera gelide di inverno e roventi d’estate – visibili ancora in quelle sistemazioni che avrebbero dovuto fungere da casa per i terremotati dell’Irpinia e del Vulture del 1980 – e con una paga che a stento riusciva a coprire qualche volta al mese l’acquisto di pane e pasta per sopperire alla zuppa annacquata che chiamavano “pasto”.
Spesso ci è capitato di vedere fotogrammi di gente accalcata in dormitori spacciate per cuccette in legno e ferro più simili a delle gabbie che ad un letto atto, se non al riposo, quantomeno a recuperare forze ed energie per affrontare di nuovo la fatica della miniera: ebbene, quelle immagini spacciate per campi di concentramento della Seconda Guerra Mondiale, in realtà ritraggono i nostri padri ribattezzati “musi neri” in Belgio e ai quali era vietato entrare negli esercizi pubblici al pari degli animali.
Per cui basta con le fesserie finora propinateci, basta con le strumentalizzazioni più indegne di questa politica, basta con questa tecnica della goccia cinese per inculcarci senza sosta la retorica dell’accoglienza dovuta, basta con questa colpa sociale da inculcare al nostro popolo: le vittime di Marcinelle si trovavano lì per fare i lavori che i belgi non volevano più fare, perché il governo De Gasperi con i suoi degni compari sopra citati aveva eliminato la socializzazione del lavoro e delle imprese messa in atto dalla Repubblica Sociale Italiana e aveva barattato la manodopera (i figli della Patria) in cambio di carbone. Chi aveva “deciso” di abbandonare casa e famiglia e trasformarsi improvvisamente in minatore non fu ospitato in comodi alberghi con vitto, alloggio, lavatura e stiratura a spese di Bruxelles – il wi-fi ancora non c’era – mai protestò per il cibo che non si addiceva ai loro palati fini, non stava tutta la giornata a dividersi tra il poltrire e il bivaccare e, nei ritagli di tempo tra ozio e noia, rubare, spacciare, stuprare, violentare, ammazzare, squartare e abbondare in strada i corpi, magari nelle loro valigie di cartone. Non ricevettero nessun sussidio statale, né lo status di rifugiato e tantomeno nessuno pensò di regalare loro la cittadinanza, inventandosi lo ius soli, lo ius culturae. Nemmeno a quelli che dai meandri di Marcinelle non videro più la luce, né l’area. Per cui, se la politica è diventata propaganda ignobile e meschina, se l’amministrazione della cosa pubblica coincide con il trarre profitto ad ogni costo, primo su tutti di consenso, se davvero non riuscite a rispettare il vostro popolo, la vostra gente, i vostri simili, almeno abbiate la decenza di tacere. Anche quello è rispetto. Commemorate. Dimenticando davvero.

2 AGOSTO 1980 : LA STRAGE PRE-CONFEZIONATA; I RIPETUTI DEPISTAGGI; LA PISTA PALESTINESE DI CUI NESSUNO VUOL PARLARE!

Verità giudiziale, verità processuale, verità storica, verità dei fatti: ma è mai possibile che in questo Paese solo la verità non si può avere? E ci deve stare sempre un’altra parola vicino!
Potremmo parafrasare così una celeberrima battuta tratta da La Smorfia del trio Troisi-Arena-De Caro bollato blasfemo in illo tempore. Se solo non stessimo trattando di una tragedia, di un inganno, se solo non avessimo rispetto di chi ha pagato, di chi è stato coinvolto – pagando o no – di chi è stato infamato.
Di un depistaggio. Un altro. Di stato. L’ennesimo.
È trascorso quasi mezzo secolo dalla “strage di Bologna”, subito bollata quale “strage fascista”. Prima ancora che iniziasse il processo, eppure dopo quasi mezzo secolo ancora non si conoscono gli autori, i colpevoli, le cause. Però, sappiamo che è stata una strage fascista. Poi, a tempo debito, le scuse di rito, quelle che potevano arrivare. Quelle di Cossiga, in veste di Presidente della Repubblica, quella a sovranità limitata, quella allattata dal piano Marshall, che disse a Pinuccio Tatarella “Fui fuorviato, intossicato. Ho sbagliato, chiedo scusa a Lei che in questo momento rappresenta la sua parte politica”. Cossiga il “picconatore” che parlò – sua opinione personale, giammai – di “incidente”. Un tragico incidente in cui esplose una bomba, con molta probabilità, trasportata da terroristi palestinesi. Una bomba che non doveva essere innescata in quell’occasione. Probabilmente  indirizzata al carcere di Trani, in Puglia, dove era detenuto un altro terrorista palestinese.
Alla “pista palestinese” di Bologna sono legati (e negati) i nomi di due giornalisti scomparsi dalla faccia della Terra e persino dagli annali delle commemorazioni: si tratta di Italo Toni e Graziella De Palo, due reporter scomparsi la mattina del 2 settembre 1980, quando sarebbero dovuti partire per il Sud del Libano su una jeep del Fronte Democratico di Liberazione della Palestina, unitamente a Piera Radaelli, militante filopalestinese italiana. I due reporter avevano dato opportuna comunicazione circa il loro spostamento – sapevano quel che facevano e a cosa andavano incontro e chiesero di attivarsi qualora non si fossero più avute notizie (di loro due) dopo tre giorni. Ma l’Ambasciata italiana non si mosse che alla fine di settembre e solo su richiesta della famiglia della De Palo. Curiosamente (?) la Farnesina  decise di affidare l’inchiesta sulla scomparsa dei giornalisti italiani al colonnello Giovannone, capo del SISMI a Beirut e non all’Ambasciatore italiano in Libano Stefano D’Andrea, nonostante questi avesse inviato al segretario generale del Ministero degli Affari Esteri Malfatti un telex segreto in cui diceva che il rapimento era opera dell’organizzazione politica e paramilitare Al Fatah e di conoscere persino le identità dei rapitori.
Lo stesso Ministro Malfatti che si scoprirà, poi, essere affiliato alla Loggia P2 e che la scomparsa dei due giornalisti poteva essere collegata alle loro indagini circa il sequestro dei missili ad Ortona (CH) che portò all’arresto del responsabile della struttura militare clandestina denominata FPLP e, dopo pochi giorni, anche del suo leader Habbash.
In quella occasione lo stesso FPLP accuso l’Italia “di non aver rispettato i patti”. Quali patti? Quali accordi faceva la Repubblica per conto dell’Italia con il terrorismo arabo? E quali le punizioni per chi non avesse rispettato i patti? “Conosceranno il vero terrore” ebbero modo di dire i palestinesi, forse proprio Gheddafi in un comizio. Sarà questo il famigerato “lodo Moro” su cui l’allora leader socialista Bertino Craxi pensò di far calare l’oblio apponendo il sigillo di segreto di stato e non desegretato nemmeno dall’ex primo ministro Giuseppe Conte su richiesta del senatore Claudio Barbaro, come fa notare il suo assistente l’avv. De Conciliis.
Quel lodo cui fa riferimento lo stesso padre della Dc nei suoi 55 giorni di sequestro e che riguarda in accordo segreto della dirigenza palestinese e il SISMI nella persona del colonnello Giovannone, cui lo stato italiano non seppe dare risposte se non le sedute spiritiche di Prodi e la teoria secondo cui “non bisognava trattare col terrorismo”, voce del verbo “non ci sarebbero stati coinvolgimenti diretti dell’Italia negli attentati palestinesi, ma l’Italia dal canto suo metteva a disposizione il libero accesso alle organizzazioni anti-israeliane dell’OLP, oltre che la nostra penisola si sarebbe trasformata nel corridoio sicuro, oserei dire protetto, di armi ed esplosivo. In cambio gli Arabi ci avrebbero garantito regolare flusso del petrolio per l’ENI e accordi commerciali con Fiat. È forse questo l’incidente cui fa appello Francesco Cossiga? O si è trattato di ritorsione – leggi punizione – per il sequestro dei missili ad Ortona su cui indagavano Italo Toni e Graziella De Palo?
Forse la strage “fascista” di Bologna è solo il modo in cui il terrorismo palestinese aveva alzato il tiro dopo il duplice attentato all’aeroporto di Fiumicino del 1973 e del 1985 costata la vita a 34 e 13 persone. Prima e dopo il lodo.
Così fascista la strage, che si scoprirà, poi, sempre poi, che le BR erano il braccio armato ed esecutore dei collaboratori Olp e Fplp. Le stesse BR “lavatrici” del caso Moro e salvate dall’Inquisizione del giudice istruttore Imposimato che – si dice – che se non gli fossero stati nascosti dei documenti le avrebbe incriminate per associazione in concorso nel sequestro Moro: i Servizi avevano scoperto dove le BR tenevano prigioniero Moro, ma i Carabinieri di Dalla Chiesa e la Polizia due giorni prima dell’uccisione ebbero ordine di abbandonare il luogo attiguo a quello della prigionia.
C’è anche un’altra ipotesi/verità che aleggia sulla strage “fascista” di Bologna e ha a che fare ancora una volta con i mandanti/ideatori(?) del sequestro Moro. Si tratta delle “correlazioni” con un’altra strage, l’edulcorato -e mai risolto – disastro di Ustica, dove persero la vita 81 persone. Dopo oltre quarant’anni possiamo certamente dire che il DC-9 fu abbattuto. Le analisi condotte sulla carena del velivolo (sulla fusoliera intatta) non lasciano spazi a dubbi: non si trattò di incidente, di anomalie, né di un ordigno a bordo. Nell’abbattimento del velivolo furono coinvolti i militari franco-americani contro la Libia. Il DC-9 fu colpito e abbattuto durante un combattimento NATO contro un Mig libico sul quale avrebbe dovuto trovarsi Gheddafi. Se si fosse accertata la verità, non si sarebbe non potuto chiamare in causa la CIA, i Servizi di vari Stati, non escluso il Mossad. E i nostri Servizi? Se avessero saputo, avrebbero dovuto mettere in discussione la nostra permanenza nell’Allenza atlantica: eravamo in piena guerra fredda e… la storia dovrebbe essere riscritta.
L’ipotesi non è proprio campata in aria, ma del suo fondamento parlano anche un militare ed ex 007 del Gladio (G-71) Antonino Arconte e l’on. Cipriani del DP il quale ebbe a dire alla Camera dei Deputati che  “quella di Bologna rispetto alla precedenti fu una strage anomala, perché avvenne in una situazione politica ampiamente stabilizzata, tale da tranquillizzare gli alleati del nostro Paese; perciò la strage assume la caratteristica di un tentativo di cancellare dalla città l’attenzione della stampa, dal dibattito politico, dall’opera dei magistrati la strage di Ustica. Perché proprio Bologna? E’ presto detto.  Innanzitutto perché a Bologna risiedevano gran parte dei familiari delle vittime di Ustica, che dovevano essere zittiti con una strage di enormi proporzioni in città. In secondo luogo, perché il SISMI poteva contare sull’appoggio di importanti magistrati alla Procura della Repubblica. Infine, la interpretazione in chiave politica, di attacco alla roccaforte del PCI, sarebbe essa stessa stata un depistaggio sui reali obiettivi, scaricando, sulla manovalanza fascista, ampiamente infiltrata dal SISMI, le responsabilità”.
Mettiamoci pure che il 02 agosto 1980, lo stesso giorno della strage di Bologna, l’Italia a La Valletta firmò un accordo per proteggere Malta da possibili attacchi libici, nell’ambito della crisi tra i due Paesi. Accordo che, come dirà il diplomatico inviato dal Governo guidato da Giuseppe Zamberletti, fruttò le minacce libiche all’Italia. Anche quelle delle indagini di Priore che parrebbe individuare una origine cecoslovacca e militare, venduto in grandi quantità, nel materiale esplosivo, utilizzato per altri attentati e venduto dalla Libia anche a Cosa Nostra. Si tratta del Semtex, utilizzato nella strage (leggi depistaggio) di Via d’Amelio a Palermo.
Si potrebbero ancora citare le indagini di Priori, che porteranno a scoprire – ma non a capire – come mai di tre amiche si salva quella più vicina al luogo dell’esplosione, degli affetti personali femminili ritrovati nella stazione ferroviaria di alcune terroriste arabe vicino alla sinistra di casa nostra e, così, continuare ancora e ancora e ancora…
Come tutti gli anni, il 2 agosto è diventata l’ennesima commemorazione dove si sprecano retorica e parole vuote e sempre uguali, scritte da ghostwriter e spin doctor del politico di turno per far piacere ai soliti noti, agli utili idioti: le scuse – una tantum – ci sono state, l’onta nera sulla strage si è affievolita nel grigio, ma rimane la macchia. Anche per chi non c’era, per gli inquisiti e poi assolti, per quelli che hanno subito e non dovevano, per i condannati a non si sa a cosa e non si sa perché, per i “collaboratori” ritenuti attendibili anche se i fatti dimostrano il contrario.
Per la “ottanteseiesima vittima” che nessuno ha mai cercato, che nessuno ha identificato e che a tutti, tra l’utile disinteresse, conviene non identificarla. Una vittima che potrebbe tranquillamente rispondere al nome di Verità.
https://www.camposud.it/2-agosto-1980-la-strage-pre-confezionata-i-ripetuti-depistaggi-la-pista-palestinese-di-cui-nessuno-vuol-parlare/tony-fabrizio/

Fenomenologia dellA LaurA BoldrinA

Laura BoldrinA nacque femmina. Con tutti gli attributi. Quelli di serie di cui si è pur avvalsa per lasciare una traccia di sé.

Ma andiamo con ordine.

Laura – nome oggetto della più retrograda medioevale espressione poetica maschilista del padre (aborro!) fondatore (trasecolo!) della Lingua (femminile!) italiana, precursore dell’Umanesimo, tal Cesco Petrarca che passò una intera esistenza a comporre prosa e versi per affermare sostanzialmente un solo concetto: “Dite a Laura che l’amo” – abita questo pianeta sovraffollato dal 28 aprile 1961.

Prima – perché donna – di cinque figli di una famiglia pseudopatriarcale – il papà era avvocato, ma la mamma insegnante d’arte – trascorre l’infanzia e la pubescenza nella bucolica cornice del paesino maceratese di Matelica che abbandonerà alla volta di Jesi, dove conseguirà il diploma di maturità classica. Inutile riportare il voto, consideriamolo pure un 6 politico.
Dopo un ventennio che era venuta alla luce, decide di andare a lavorare (termine d’altri tempi!) in una piantagione di riso in Venezuela. Magari, fosse stata al servizio del caporalato pugliese, i danni dell’aggreSSione solare sarebbero stati più contenuti.
La raccolta del riso, o magari la sua condizione (femminile) di figlia di papà, le donerà un’agiatezza economica tale che le consentirà di intraprendere un viaggio da nababbA alla scoperta del centro America passando per Panamà, Costa Rica, Nicaragua, Honduras, Guatemala, Messico e Stati Uniti, fino a New York.
Un Di Battista che c’è arrivata prima, in quanto donna.
Ma quanto cazzo si viene remunerati nella raccolta del riso seppur per pochi mesi?
“Folgorata” nella megalopoli della Grande Mela, decide di scindere in due l’anno solare e dedicare sei mesi allo studio e gli altri sei a viaggiare. Pur non dedicandosi nemmeno più alla raccolta del riso.
Dopo quattro anni, in realtà due, ovvero quattro semestri, se consideriamo le altre quattro metà dell’anno impiegate a viaggiare per il pianeta, si laur(e)a in Giurisprudenza presso La Sapienza di Roma. Chissà, se frequentando l’ateneo, si è mai interrogata sul suo stile architettonico e, se sì, chissà perché non ne ha mai chiesto l’abbattimento, esigendone le rovine come prova.
Intanto già si “interessava” di filantropia unendo la passione del giornalismo trasformandola in risorsa all’AISE, l’Agenzia Italiana Stampa e Emigrazione, poi impiegata alla Rai, ma non nelle risaie, e trova anche il tempo per convolare a nozze (vero!) col giornalista Luca Nicosia dalla cui unione (verissimo! Di maschio e femmina!) è di fatto nata l’erede unica Anastasia.
Luca l’inseminator, però, non è il compagno con cui lA LaurA si è accompagnata, almeno fino al 2015, ma si tratta del giornalista di Repubblica, The Guardian e The New York Times Vittorio Longhi di origine eritrea e parte in causa nell’operazione di regime change contro il Presidente Isaias Afewerki, giustificata dal solito pretesto occidentale dell’esportazione di democrazia e dei diritti con annessa demonizzazione del dittatore ostile ai piani dei poteri forti mondialisti per il tramite di padre Mussie Zerai, ricevuto alla Camera dei Deputati della Repubblica italiana quando la concupita del Longhi occupava lo scranno di terza carica dello stato, senza mai chiarire se si fosse trattato di conflitto di interesse, visto che l’organizzazione Progressi di Longhi ha come mission il fatto di “fare pressione sulle istituzioni” ed è inserita in un circuito chiaramente facente capo a George Soros, di cui conosciamo le ingerenze sui governi nazionali.
Ma LaurettA non ha certo tempo da perdere con queste quisquilie e pinzellacchere: sarà per questo che ha “dimenticato” di pagare la liquidazione alla sua colf che è sparita, pur se doveva ricevere i suoi soldi? O perché “i conteggi erano difficili a farsi che hanno richiesto tempo”, conti che non fa certo lei, visto che, essendo una donna sola, non si prenota nemmeno il parrucchiere, ma chiede di farlo alla sua assistente parlamentare che, però, dovrebbe fare altro e per cui alla lavoratrice non versa nessuna remunerazione aggiuntiva? Ma solo perché lei non sa di conti.
La LaurA, però, nonostante sia una donna tutta d’un pezzo, non disdegna di e-mulare e inginocchiarsi per un’uccisione di un afroamericano della solita Police-sceriffo, ma il suo naso è così lungo che non vede le nostre Desirèe Mariottini, drogata, stuprata ancora vergine in un tugurio occupato da spacciatori clandestini africani e poi ammazzata nel quartiere San Lorenzo a Roma e Pàmela Mastropietro anche lei drogata, stuprata, accoltellata, squartata mentre era ancora viva e messa in due valigie abbandonate sul ciglio della strada da Innocent Oshegale. Erano donne, ma forse troppo bianche. Nessun piegamento di ginocchia o chiusura di sinistro pugno per Ermanno Masino, Daniele Carella e Alessandro Carolè, uccisi a picconate dal Adam Kabobo perché “sentiva le voci”. E neppure per Stefano Leo, giovane lavoratore autoctono, ammazzato da un Said qualunque perché italiano e “per togliergli tutte le sue idee, il suo futuro, le promesse e l’amore dei genitori”. Nessun silenzio di otto minuti e passa rotto dal grido “Non riesco a respirare” per David Raggi ammazzato da Aziz che con un coccio di bottiglia gli ha tagliato la gola. Né per le vittime del terremoto de L’Aquila, né per i morti del Ponte Morandi che rovinarono il Ferragosto a CasalinA. Però, ha indossato i panni della Vesta del p.c., del politically correct e con la solita sinistra supponenza continua a voler dettare l’agenda del più becero globalismo capitalista. Secondo cui è una vergogna tutta bianca quel nostro mos maiorum che risponde al nome di Tradizione. Culturale e civilizzatrice. Secondo cui persino la Legge – che è già usata ad abusata a proprio USO & consumo, dovrebbe creare categorie “pro-tette” in base alle quali creare autentiche discriminazioni. Dell’Ideologia sottoposta al Diritto, della Giustizia al politically correct. Reati più gravi, se a subirli sono gay e trans cui va dato più spazio nella società, in tivvù, con giornate apposite e apposite leggi. Nonostante quelle già ci sono e in loro tutela. Ne servono altre. Di più. Diverse. Mentre nessuna tutela è riservata alla procreazione, ai figli, alla famiglia. Di eterosessuali. Agli eterosessuali. Che non sono tutti di sinistra. O meglio, non ci sono gay di destra. Maschi troppo maschi. Sarà per questo che alla giornata dedicata alla Repubblica non ha applaudito i Leoni della Folgore? Fasci troppo fasci? O perché per lei semplicemente l’Italia non esiste. E con lei gli italiani. Lei, da figlia del mondo, cosmopolita, zingara, considera l’Italia un corridoio globale, la Casa di accoglienza dell’Africa e del circondario. L’Islamismo con i suoi riti inaccettabili in casa nostra la preoccupa poco o niente rispetto all’islamofobia. La violenza dei centri sociali sarà equiparata a quella delle risorse importate. E azzerata. Vuoi mettere la violenza di un saluto romano ad una commemorazione per i caduti? Vuoi mettere la violenza delle conquiste sociali, di quello stato sociale vanificato e chiamato adesso welfare. O la violenza con cui è stata debellata la mafia. E l’elenco sarebbe ancora lungo, ma la BoldrinA è una donna che bada alle parole, mica ai fatti! Ecco che si spiega la sua personale (e solitaria) vandea contro i suffissi (ops… suffesse) di parole e aggettivi maschili. Insomma, che la lingua italiana non contempli il genere neutro, ma solo maschile e femminile, alla nipote matta di Matteotti non va proprio giù. E se ancora non ha dichiarato la messa al bando dell’Accademia della Crusca è forse perché sia sostantivo che aggettivo sono femminili.
Ieri l’ultima – solo in senso temporale – delusione: il Senato, l’altro braccio boldrinesko di questa inesistente repubblica ha sentenziato che nel linguaggio istituzionale – ufficiale per la compagna gauche caviar Cirinnàchevitadimerda – non è inclusa la partita di genere.
Che genere di parità!?! Magari quella che ha portato altri suoi omologhi, diversamente (da lei) illustri predecessori ad inabissarsi, dopo aver tolto il culo dalla cadrega della Camera? E non solo i predecessori, visto che il suo figlioccio di governo risponde al nome di tal Robertino Fico. Altro sinistrato, altro defecatore sul 2 giugno e sulla (di loro) Repubblica antifascista. Altro pugnochiusista ed ennesimo rigurgito postumo del sessantottismo. Magari la finiamo anche di non pagare colf e badanti. E di fare i bagni a mare a Castelporziano, circondati da Corazzieri costretti a guardar le chiappe bianche alla PresidentA. Nemmeno Capalbio. Nemmeno lì sare(s)te tutti liberi e uguali.

19 LUGLIO 1992 : TRENT’ANNI DALL’OMICIDIO DI PAOLO BORSELLINO E DEI POLIZIOTTI DELLA SCORTA. Trent’anni di depistaggi e di silenzi colpevoli!!

Questa è una storia all’incontrario, che si inizia a raccontare dalla fine, che è tale solo per la sua cronologia, degna di un Paese (purtroppo) rovesciato.
È una storia di contraddizioni tipiche e topiche di questa Italia ormai identificazione dell’ossimoro per antonomasia. È una storia di ricordi, che per ricordare ti impone di dimenticare.
È la storia dei 30 anni della strage di Via d’Amelio, che 30 anni dopo ancora non si chiama con il proprio nome: depistaggio! Perché depistaggio è “stato” o, se vogliamo, di depistaggio si è “trattato”.
Accade così che si ricorda la morte di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli con un florilegio d’occasione, opportun(istic)amente preparato. Miscellato. E miscelato. Accade così che nemmeno quest’anno – e quest’anno più che mai – ci si ricorderà di dimenticare le origini del personaggio Paolo Borsellino, quel giovane studente liceale a dirigere un giornale destrorso – L’Agorà – e poi nel 1959 da studente di Giurisprudenza iscriversi al FUAN, l’organizzazione giovanile dell’MSI, rappresentante della lista “Fanalino”, fino ad entrare a farne parte e diventare in solo tre anni il vice di Guido Lo Porto.

Suo amico di allora era Pippo Tricoli, storico esponente, o meglio, esponente storico della Destra siciliana che gli presentò un altro uomo “di valore”, un giovane assistente universitario, Adriano Romualdi, altro intellettuale della “parte sbagliata” morto prematuramente a 33 anni in uno strano incidente stradale.
Personalità della parte sbagliata, ma di talento, che avevano il senso dell’onore e la conoscenza della Tradizione, che non consideravano la coerenza e la fede in un’Idea, la virtù degli imbecilli. E che rischiavano per le proprie Idee anche la vita perché, come scriveva Ezra Pound, “Se qualcuno non è disposto a lottare per le proprie Idee, o queste non valgono niente o non vale niente lui”. E Paolo Borsellino è uno che per le sue Idee aveva sentito forte il desiderio di mettersi al servizio della Nazione e di lottare contro la mafia, fino all’estremo sacrificio della sua vita, accolto con eroico fatalismo.
Paolo Borsellino, però, non è il solo eroe e martire di questa ingloriosa repubblica, fastidiosa da quando ha avuto l’ultimo – speriamo vivamente di no – sussulto di orgoglio patrio con la faccenda dell’Achille Lauro. Che, è bene sappiano le nuove generazioni, non è solo il sindaco più glorioso che Napoli abbia mai avuto, né l’indegno (del nome) urlatore defecato a Sanremo.
Se si parla di eroi caduti nella lotta alla mafia non si può non ricordare il giornalista Mauro De Mauro, aderente alla RSI con la gloriosa X MAS, corrispondente dalla Sicilia per più giornali, probabilmente eliminato per le sue indagini scomode – allora il giornalismo si faceva così – sulla morte di Enrico Mattei. Scomodo come Beppe Alfano, una vita tra Fronte della Gioventù, Ordine Nuovo e Movimento Sociale-Destra nazionale, per le sue inchieste – era un giornalista! – sugli appalti pubblici sui cui Cosa Nostra aveva messo le mani e che lo “premiò” con tre colpi di pistola. E, andando a ritroso, come non citare il Prefetto di ferro, Cesare Mori i cui risultati non hanno bisogno certo di presentazioni, ma di tanta mistificazione, misto a revisione, vista la sua appartenenza di governo. Risultati inquinati dagli stessi autori dello strappo di Sigonella, mezzo secolo prima. E sfidiamo a trovare qualcuno che sui libri si storia – stando al lasso di tempo di questo si tratta – abbia trovato anche solo citato il nome di Mariano De Caro, ragioniere formatosi alla Real Scuola Gagini di Palermo, universitario e tiratore scelto nella fanteria Trapani e poi inviato al fronte con il grado di sottotenente nella Grande Guerra. Avvicinatosi ben presto ai Fasci di Combattimenti spese la sua vita – insieme ad altri ex combattenti – nel tentativo di alimentare sentimenti di riscossa tra i braccianti e i salariati di Misleri dove ancora i padroni delle terre e i latifondisti pensavano solo allo sfruttamento dei lavoratori e al proprio tornaconto personale, facendo leva su minacce e oppressione.
Anche per questo occorre ricordare di dimenticare. Allo scopo, è utile qualsiasi favoletta preconfezionata come quelle pronte da spacciare per ogni occasione. Chi se ne frega, allora, di fare sapere quale sia il depistaggio se il processo Borsellino quater (che sta per quattro processi ognuno composto di tre fasi di giudizio ha stabilito che c’è “stato” inequivocabilmente il depistaggio) se le accuse a carico degli imputati sono andate in prescrizione! Che non significa che non hanno colpe. Dunque, un depistaggio c’è stato, ma non si sa chi sia stato. Neppure quei soggetti-oggetti pezzi di istituzioni accusati di aver vestito il “pupo” Scarantino sulla cui parola sono state emesse sentenze – definitive, anche di ergastolo – quando è appurato, dimostrato e cosa nota che Scarantino è ritenuto inattendibile. Uno che – lo dice lui, eh! – in una riunione deliberativa di commissione (mafiosa), quella in cui Totò Riina comunicò di uccidere anche Borsellino e si raccomandava pure di fare attenzione perché Falcone, se fosse stato al suo posto in auto, sarebbe stato ancora vivo, entra a prendere un bicchiere d’acqua. In una riunione di commissione. Deliberativa. E su queste dichiarazioni di questo personaggio, in nome del popolo italiano di questa disastrata repubblica si è emesso una sentenza di condanna all’ergastolo di un povero cristo – chissà cosa ne pensa del quesito ad hoc del referendum sulla giustizia di cui tanti se ne sono fottuti – che il lunedì mattina (20 luglio) apre la sua officina e si accorge di un furto di targhe di una 126 e, recatosi al commissariato Brancaccio, viene trattato come il peggiore dei criminali. Che ad esplodere in via D’Amelio sarà una 126 lo si appurerà solo nel tardo pomeriggio del 20 luglio, quando un tecnico FIAT venuto da Termini Imerese riconoscerà un blocco motore compatibile(!) con quelli montati sulle 126 ma che dalle immagini girate dai Vigili del fuoco non compare mai. 126 che viene già menzionata nel lancio di un’agenzia di stampa (Ansa) tre quarti d’ora dopo l’esplosione. Dopo l’arrivo dei Servizi Segreti (americani) che arrivano in sito nel giro di un quarto d’ora e “vestiti tutti uguali e senza una goccia di sudore – è domenica 19 luglio a Palermo! – freschi che sembravano stessero dietro l’angolo” dirà un poliziotto in qualità di teste. È pur vero che in Via D’Amelio c’erano tutti quel 19 luglio. Anche chi fece repertare tutto e, raccogliendo la roba in sacchi della spazzatura neri, di quelli condominiali e catalogando alla carlona con un generico “si sequestra quanto ivi contenuto” – cioè nulla – inviò tutto a Roma a disposizione dell’FBI. E perché? E perché l’FBI non ha mai nemmeno fatto (pervenire?) un verbale? Una catalogazione? C’è una pista americana anche per via D’Amelio? Gli stessi americani che non digerirono Sigonella? Che, pare, siano stati la regia della strage di Capaci, dove gli esperti di esplosivistica hanno “sentenziato” che non si può fare saltare in aria un’autostrada tramite un cunicolo, se non vi è un muro laterale che faccia sì che l’esplosione non avvenga appunto di lato?

E che in via D’Amelio il depistaggio inizi proprio dalla 126 di cui gli inquirenti sono così sicuri tanto da fare rimangiare ai “pentiti” le dichiarazioni che l’esplosivo è stato messo in un bidone della calce. Gli stessi inquirenti, coadiuvati da “pezzi di istituzione” che hanno distrattamente (o)messo verbali – inesistenti per loro stessa ammissione in fase processuale di interrogatori di taluni pentiti – in faldoni di “ignoti” ovvero tra le denunce dormienti dello scippo e del furto di bicicletta.

Ma se la legge è uguale per tutti, ma c’è qualcuno più uguale degli altri, perché mai questo non dovrebbe valere per i pentiti i cui reati più gravi sono stati, più persone hanno ammazzato direttamente proporzionale è il loro valore? Pentiti che non esistevano quando ancora nelle istituzioni non avevano dato il compito di creare il “pentitificio” di stato a chi è assente da ogni processo, da ogni intervista e non risponde alle accuse né ad elogi. Niente. Spariti. A mo’… di latitante.

Che ha, però, utilizzato – come altri – la mafia e la Sicilia quale trampolino di lancio per sfavillanti carriere. In Polizia come in Magistratura. Qualcuno pure in politica, dalla magistratura, per poi tornare indietro e riciclarsi. Come se nulla fosse. Magari mettendo in croce omologhi, altri valorosi personaggi quali funzionari, dirigenti, numeri uno dell’apparato dell’italica intelligence – penso al dr. Bruno Contrada e alla sua odissea giudiziaria – che hanno dovuto subire l’onta dell’infamia solo perché si sono dovuti sporcare le mani nella lotta alla mafia, visto che la figura del collaboratore di giustizia non era ancora stata creata come stipendiata dallo stato. Magari incurante della memoria a tempo e delle dichiarazioni prive di riscontro come l’incontro con persone morte, incontri avvenute in stanze mai esistite e in tempi incompatibili per delinquenti rinchiusi in carcere. Al 41 bis. Oppure no. Il che apre alla connivenza istituzionale. Pezzi di… istituzioni che anche quest’anno saranno in prima fila a Capaci prima e in via D’Amelio poi, magari appenderanno anche il peluche petaloso in via Notarbartolo raccomandando(si), ancora una volta, di ricordare di dimenticare.

https://www.camposud.it/19-luglio-1992-trentanni-dallomicidio-di-paolo-borsellino-e-dei-poliziotti-della-scorta-trentanni-di-depistaggi-e-di-silenzi-colpevoli/tony-fabrizio/

IL RICORDO DI CARLO FALVELLA A 50 ANNI DAL SUO MARTIRIO. E il Comune di Salerno pensa di intitolare la strada ove fu assassinato, ai martiri del 25 Aprile!!

“Ho scelto Filosofia, perché potrei comunque continuare a insegnarla anche senza dover scrivere. Ma devo far presto a laurearmi. Devo assolutamente riuscirci prima di diventare cieco”. Questo era Carlo Falvella, diciannovenne studente di Filosofia con una grave menomazione della vista che avrebbe perso – secondo i medici – all’età di trent’anni. Trent’anni che Carlo non vedrà mai perché la luce sulla sua vita si spegnerà prima. Molto prima.
Di Carlo, così come per la maggior parte dei martiri caduti per la rivoluzione negli anni di piombo – che non è solo un periodo di stragi, anzi – ormai conosciamo con dovizia di particolari ogni dettaglio, eccezion fatta per alcuni colpevoli.

Terzo di cinque figli e una passione quella per la politica ereditata da mamma Flora – il papà era un liberale moderato, cattolico tradizionalista e mutilato di guerra, ma non era fascista. Ai figli Carlo e Pippo che si avviavano sulla strada della militanza dirà quasi profeticamente “Io non ho nulla in contrario, ma sappiate che la politica è una statua di fango e voi vi ci dovrete sporcare le mani” – che lo porta a soli 19 anni a presiedere il FUAN cittadino, l’organizzazione giovanile missina.
Fu una spallata sul lungomare Trieste, chissà quanto volontaria, visto che il giovanissimo Carlo vedeva ad ombre, per fare armare la mano dell’anarchico Giovanni Marini che successivamente e non prima che gli animi erano stati stemperati, in serata, a freddo in via Velia e in compagnia di altri due degni compari, affonderà il coltello nel cuore di Carlo. Rigirandocelo più volte.
Nonostante la corsa in ospedale e l’operazione d’urgenza, Carlo morirà per una lesione all’aorta.
Un omicidio che divise per anni la città di Salerno e non solo e dove cinquant’anni dopo è ancora vivo il ricordo, grazie anche ai suoi fratelli Pippo, diventato il punto di riferimento della Destra cittadina, decisamente meno mite del fratello e che avrà modo dire che “era morto il fratello sbagliato. Non si poteva uccidere Carlo che era una pasta di pane” e Marco presidente del Comitato Vittime del Terrorismo che, ancora dopo cinquant’anni, attraverso proposte di legge, sit-in e colloqui con politici più disparati non riesce a far inserire il nome di Carlo tra le vittime del terrorismo e dell’odio politico.
Quella politica- anche extraparlamentare – che non è mai mancata nel profondere sostegno al Marini, anzi facendosi promotrice – da Lotta Continua al Partito Comunista – di una vera e propria campagna innocentista, anche stampando – senza vergogna – il pamphlet “Il caso Marini”, in cui l’anarchico non viene certo descritto come un vile assassino, bensì come un compagno (proprio così!) che si è difeso da un’azione portata avanti da una decina di Fascisti (con Carlo c’era solo il fratello Pippo e Giovanni Alfinito, camerata e amico ferito anch’egli dalle coltellate).
Ovviamente non mancò anche l’associazione creata ad hoc per il sostegno (solo?) economico: è il caso di Soccorso Rosso che vedrà schierata addirittura l’intellighenzia “no-bel” quali Dario Fo e la di lui consorte la signora Franca Rame.
Campagne così innocentiste e strenui sostenitori di quella verità secondo cui “uccidere un fascista non è reato” oppure “Tutti i Fascisti come Falvella, con un coltello nelle budella”.
Erano anche questi gli anni di piombo, gli anni dell’omicidio Cecchin, ucciso per un manifesto probabilmente mai strappato, dell’assassinio di Sergio Ramelli, finito a colpi di chiave inglese, dell’omicidio di Primavalle, dove si bruciarono vivi i fratelli Mattei – uno non aveva che otto anni – della strage di Acca Larentia e poi, dall’altra parte, delle carriere folgoranti, dentro e fuori dal Parlamento, delle protezioni e delle sponsorizzazioni, della legge applicata e di quella interpretata.
Al funerale di Carlo partecipò commossa una vera moltitudine immensa di persone – circa diecimila persone – tutto lo stato Maggiore dell’MSI con a capo Almirante e il suo ricordo oggi è più vivo che mai, al netto delle strumentalizzazioni “parlamentarizzate” che non poco fastidio hanno creato alla famiglia, addirittura non invitata alle celebrazioni del ricordo.
Ricordo che è più attuale e valido che mai, che fedelmente incarna quella torcia che non si spegne, quel testimone passato e per cui bisogna impegnarsi anche solo per esserne degni. Degni del coraggio per quella Idea resa immortale con la morte, quella Idea che vive e che fa luce e strada, quella fiamma che ancora passa di mano in mano, dai veterani ai più giovani, quella Idea che,  proprio come Carlo, vive ancora. Che, come ebbe a dire ai funerali mamma Flora “hanno ucciso Carlo ma non la sua Idea”. A distanza di cinquant’anni ha ancora ragione lei.
https://www.camposud.it/il-ricordo-di-carlo-falvella-a-50-anni-dal-suo-martirio-e-il-comune-di-salerno-pensa-di-intitolare-la-strada-ove-fu-assassinato-ai-martiri-del-25-aprile/tony-fabrizio/

DE LUCA CONTRO LE BUFALE (CASERTANE). E’ NON E’ UNA BUFALA !!!!

Sembra una vera e propria crociata, una vandea istituzionale contro il mos maiorum partenopeo, usi e costumi della Neapolis di Partenope e di Pulecenella. Non bastavano i casi – montati ad arte? – sulle stese, fortunatamente non quelle di camorra, dei panni “dind’ ‘e viche”, prima vietati e poi riviste dall’inquilino di Palazzo San Giacomo.  Piuttosto che sul divieto di tirare quattro calci ad un pallone in strada o peggio ancora sotto la Galleria Umberto, in una città dove il calcio è monopolio ma le strutture sportive pubbliche non esistono…….
Eppure, vi è una “guerra” ben più silenziosa e  ad  ampio raggio che dal palazzo della Regione Campania il presidente De Luca ha ingaggiato contro un’altra eccellenza campana. D.O.C., D.O.P. e I.G.P.
Insomma, Vincenzo De Luca già da tempo, tra il silenzio (complice?) del quarto potere, si è scagliato contro le bufale campane ordinandone l’eradicazione. Abbattere. Sopprimere. Cancellare, il diktat di Delucadonossor, per dirla con Terronia Felix della Salvadore. E con un’incidenza pari o superiore al 18% si abbatte un’intera stalla!
Questa è la ricetta di Vicienzo e, a suo dire, concordata in base a delle indicazioni ministeriali atta a combattere il fenomeno della brucellosi che è ritornato – a meno del 20% – nell’agro aversano e che, nel primo trimestre del 2022, ha visto l’ambito traguardo (istituzionale) raggiunto di oltre 1400 bufale sane abbattute e il fallimento di oltre 300 aziende, soprattutto in Terra di Lavoro.
Di parere contrario e certamente critica la posizione degli allevatori che, tra il disinteresse della stampa locale e nazionale, stanno inscenando proteste e blocchi stradali per sollevare il problema della mattanza delle bufale e del disastro dell’intero comparto produttivo il cui unico colpevole sembra essere individuabile nella sola persona di Vincenzo De Luca. Uno dei segnali che indicano che la situazione tra gli allevatori e nelle campagne casertane stia diventando sempre più critica, anzi degenerando.
De Luca, dal canto suo, forte dell’esperienza dei proclami, incurante di ciò che gli addetti ai lavori toccano con mano e che rischiano di non toccare più,  annuncia tronfio un doppio obiettivo: la salvaguardia del comparto e quello della salute. Resta incomprensibile immaginare come ottenere questo risultato. Ma ciò non vieta al governatore col lanciafiamme di affermare la sua posizione e i suoi malcelati intendimenti:  e cioé che la salvezza del comparto passa per la completa eradicazione dei capi di bestiame! Ammazziamo tutte le bufale e saremo salvi, dice Vicienzo. E non moriremo nemmeno di fame, chiude “orgoglioso”, mentre mostra il pugno di ferro e la ferrea volontà di non farsi intimorire da nessuno. Nemmeno da chi in quel settore ci è cresciuto, ci vive e… ci mangia. È il caso del portavoce del patrimonio bufalino Gianni Fabbris che da mesi fa notare che si sta andando in una direzione diametralmente opposta rispetto a quella della tanto sbandierata salvaguardia: fino al 2014 in Campania (dove pure già esisteva il problema che, chissà perché, come tutti i problemi da due anni a questa parte assumono i caratteri dell’emergenza) esisteva un piano che “funzionicchiava” (semicit.) e da circa un decennio. Il tutto era incentrato, manco a dirlo, sul vaccino. Che se non era la manna dal cielo, tuttavia, per dieci anni ha rappresentato uno dei capisaldi della strategia interventistica. De Luca, invece, questa volta è contrario al vaccino – e non è una (sua) macchietta! – anzi, pare sia del parere di fare “terra bruciata”. Come Attila, radere al suolo. Peggio di Attila. E non c’è fenice, né bufala che tenga!
Una vittoria, seppur di Pirro, però, è stata portata a casa dai comitati del settore che hanno ottenuto che la Regione Campania riconoscesse di non poter dare continuità al fallimento delle aziende trasformate in veri e propri bersagli dall’Amministrazione De Luca, ma piuttosto, mettendo in campo gli accorgimenti proposti dagli allevatori, ovvero insistendo sulla strategia delle vaccinazioni e del monitoraggio costante degli animali. Un successo importante che, però, non ha trovato seguito nelle aule sorde e grigie del Ministero della Salute, dove il piano proposto (e parzialmente accolto) è rimasto senza speranze. Infatti, agli occhi di chi ha letto il piano, pare proprio che il progetto sia stato scritto in maniera confusa e pasticciata con le norme emanate con il solo fine di vederle fallire.
Inspiegabile come la totale eradicazione di brucella e tbc significhi una insensata punizione per le aziende che vedrebbero così abbattuti migliaia di capi di bestiame perfettamente sani.
Tra proteste di piazza, assemblee cittadine e manifestazioni al suono di cortei funebri, c’è chi ci trova addirittura una costante: il sistema salernocentrico, diventato un’autentica epidemia che invade ogni campo dello scibile umano e animale. A dispetto del 4% dei fondi pubblici concessi agli operatori zootecnici dell’agro aversano, infatti, ben il 41% degli aiuti viene dirottato nel salernitano, che non vive la stessa drammaticità dell’altra zona di produzione di mozzarella di bufala campana, fa notare ancora Fabbris. Insomma, “ccà nisciuno è fesso”  e, poiché la protesta degli allevatori il 16 luglio si sposterà a Roma, non resta che augurare: “Mamma d’ O’ Carmene”, aiutali tu!
https://www.camposud.it/de-luca-contro-le-bufale-casertane-e-non-e-una-bufala/tony-fabrizio/

E BASTA! È SOLO UN SUCCEDANEO.

E basta! È solo un succedaneo.

Sbaglierò, ma io tra la pandemia e la guerra in Ucraina c’ho sempre visto lo stesso copione. Così come nelle orgasmiche reazioni post-discorso di Putin di venerdì 17 ci vedo lo stesso piatto già servito quando i Mc Donald’s hanno abbassato le serrande a casa di Putin. E tutti lì a leccarsi le dita per l’ennesima mossa del fine giocatore di scacchi dell’ex KGB, dell’ottimo stratega e dell’impareggiabile (geo)politico. Serrande rialzate, nessuna perdita dei posti di lavoro, negozi chiusi e specialità yankees sostituite da prelibatezze locali. Questa la gattopardesca alternativa. Nient’altro che un succedaneo. Persino sul nome non vi è originalità: la direzione della catena di ristorazione pubblica Yeda i tochka (Cibo e basta) del territorio di Primorye (estremo oriente russo) ha detto di esigere che i fast-food Vkusno i tochka (Gustoso e basta), ex ristoranti McDonald’ s in Russia, vengano ribattezzati ed è pronta ad andare in tribunale perché «a causa del nome della nuova catena, l’attività sarà considerata un derivato, un’imitazione». Lo ha dichiarato all’agenzia Interfax il proprietario della catena Yeda i tochka, Sergei Pankratov.
Identica situazione accaduta subito dopo che l’inquilino del Cremlino ha tuonato contro il vecchio ordine mondiale e a favore del nuovo ordine mondiale. Succedaneo per succedaneo. Poco cambia, allora, se la plenaria sia quella di Davos piuttosto che quella di Leningrado, ops, San Pietroburgo: sempre di un forum economico si tratta. E i succedanei non finiscono certo qui: al mondo non esistono solo gli Usa – giustamente – ma anche la Russia, dice l'(auto)erede di Pietro il grande, con perfetti toni da g.f. che sta per guerra fredda e, come allora, ognuno vede e vuole il mondo in due blocchi contrapposti. Ma poi neanche tanto.
“L’Europa va verso un’ondata di radicalismo e cambio d’èlite”, quella Europa Occidentale dove “ i reali interessi delle persone sono stati messi da parte”. E non saranno certo centrali con l’avvicendamento di un altro imperialismo. Centrale deve essere “l’economia basata sul business privato”. Non è Draghi che parla, è sempre Putin. Giuro!
Vabbè, un leader vale l’altro. D’altronde Putin oggi non è forse il succedaneo del Trump di ieri? Il liberatore dallo stato profondo di Washington? Di Davos? Di Bruxelles? Ancora un succedaneo. Continuo. Ancora un padrone. Che si finisce per adulare. Ora come allora. A Roma, come ammalati cronici da sindrome di Stoccolma. Senza esserne mai inspiegabilmente colmi. Siamo veramente il colmo.
Il problema – è lapalissiano – non è Putin o gli Usa, ma continua ad essere (que)gli Italiani ormai disabituati a fare i cazzi loro. Che s’industriano a dissertare e discettare di Davos senza nemmeno sapere se il mercato sotto casa si tiene ancora. Se gli italiani, loro – noi – pian piano abituati al reddito di cittadinanza quale stipendio universale, possono ancora permettersi un chilo di mele, divenuto ormai bene di lusso. Se le mele crescono ancora, vista la siccità che diventa funzionale al razionamento che da emergenza diverrà norma. E lo decidono proprio vinti di Putin.
Quelli che continuano a fare il bello e il cattivo tempo in Italia. Ma che ci frega? Tanto Azov è stato sconfitto, però nessuno l’ha visto. Che ci frega se l’acciaieria è stata presa, ma la sola cosa che si è trovata è la bellezza di 30mila tonnellate di acciaio che lo zar ha puntualmente depredato? Se l’Ucraina è da denazificare, ma chi se ne frega se Putin dice che l’Ucraina con i confini come la conoscevamo finora non esisterà più – denazificare, però, vuol dire deucrainizzare e russificare -. Che poi è la stessa cosa che sosteneva chi accusava l’orso siberiano di imperialismo, inesistente agli occhi dei suoi figli autoproclamatisi adottivi e che vedono nella (non) invasione del Donbass tutto, eccetto che mettere le mani sulle ricchezze della non-Russia.
Conoscono le strade di Bucha su cui hanno condotto sofisticatissimi studi con l’ausilio di Hearts, di fotografie satellitari – un uovo sodo lo sapete ancora fare? – e non si accorgono sotto al naso della Via della seta attraverso cui quegli scappati di casa dei 5 stelle ci hanno portato la guerra in casa. Va dato atto che sono stati bravi, sono riusciti nel loro intento, grazie a tanti di voi. Gli stessi che, come biascicate, hanno perso, ma continuano a stare in sella. Che sono pure incapaci, ma servono quali utili idioti. E il potere glielo avete dato voi. Li credevate l’alternativa, il dissenso, si sono rivelati un succedaneo. Così come lo è l’opposizione interna del governo e quella esterna allo stesso governo. Che sono alleati e si scornano, ma invece di scornarsi davvero sono coalizzati. Dobbiamo poi gioire perché si è resistito – le parole non si scelgono – al siero e alla certificazione – cosa sacrosanta – pure se a settembre si ritornerà con i ricatti del siero e della certificazione pure per lavorare.
E la prossima volta che si scenderà in piazza – solo per i più temerari, sia chiaro – sarà per replicare piazza Tienanmen. Perché anche la Russia sarà cinese e stavolta non avremo nemmeno le buste della spesa in mano.

FRANCESCO CECCHIN: QUALE EREDITA’ DOPO 43 ANNI DI OBLIO???

E con questo 16 giugno sono quarantatré. Quarantré gli anni trascorsi dalla morte di Francesco Cecchin, volato nell’olimpo degli eroi, dopo essere volato dal parapetto di un’abitazione di via Montebuono al numero 5, nel quartiere Salario a Roma, una volta riconosciuti i suoi aggressori che, nel frattempo erano solo i suoi inseguitori. Gli stessi con cui nel pomeriggio Francesco aveva avuto un alterco per una questione di manifesti.
Dopo quasi mezzo secolo sappiamo chi è Francesco Cecchin e sappiamo della sua militanza politica nel Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile dell’MSI. Sappiamo della sua lunga agonia – coma indotto per diciannove giorni – così come sappiamo delle fratture su tutto il corpo, eccetto mani e gambe. Strano modo di cadere per uno che vola da un’altezza considerevole. O meglio, di atterrare. Di testa.
Sappiamo del cranio fracassato, sappiamo della milza spappolata, sappiamo delle chiavi di casa piegate  ancora tra le mani, usate per difendersi e del pacchetto di sigarette (gettato) vicino al ragazzo ferito. Sappiamo che sul suo corpo è stata eseguita un’autopsia il cui esito è indiscutibile e sappiamo che, nonostante quella perizia, non è mai stata fatta giustizia. Sappiamo che gli assassini di Francesco avevano tutta l’intenzione di uccidere – l’accusa fu di omicidio volontario che, molto verosimilmente, era solo il nuovo significato da attribuire alla parola caduta – ma non sappiamo perché l’unico indagato, nonostante abbia mentito spudoratamente al processo riguardo il proprio alibi – essere andato al cinematografo Ariel per assistere alla visione de “Il Vizietto” nonostante quella sala non avesse in proiezione il film indicato – s’è potuto guadagnare con la falsa testimonianza sostenuta, il premio per non aver commesso il fatto. Il fatto sarebbe il concorso in omicidio, ma non si sa con chi. Altro vizietto tipico della giustizia dell’Italietta. Come quello di non trovare il colpevole. Che pure esiste. Come esiste qu­ella verità storica che non può più esse­re nascosta, o peggi­o, ulteriormente negata, in attesa che la giustizia scr­iva la parola fine su questa feroce esec­uzione.
Una parola fine che serve a non ammazzare ancora una volta Francesco, cui il Viminale, il “deputato” all’ordine pubblico della sicurezza di questa repubblica, ha negato anche la possibilità di essere inserito tra le vittime del terrorismo. Come se gli anni di piombo siano stati solo una marachella adolescenziale. Come se il suolo d’Italia in quegli anni non sia stato calpestato dall’odio politico, spesso avallato e coperto nella stanza dei bottoni con lo stesso telo bianco con cui si è da sempre tentato di coprire la verità e sotto il quale è stata sepolta la giustizia.
Sappiamo che il giovane Cecchin non era un fascista, non avrebbe potuto esserlo per una questione anagrafica – nel ’79 alla morte non aveva ancora compiuto la maggiore età – e non poteva esserlo per una questione temporale – era nato nel 1961 – ma era un militante che credeva in una Idea difesa col sangue. Quella Idea di cui oggi altri, magari suoi coetanei, hanno potuto raccogliere il testimone e le conseguenti fortune politiche ed elettorali. Raccoglierne l’eredità di intenti e di ideali. Che sono pesanti quanto un macigno. Ma non l’esempio. Quello è troppo scomodo. Non sappiamo, allora, perché in ogni occasione, inutile quanto gratuita, bisogna ricordare che in taluni partiti che ancora sono/vorrebbero essere illuminati dalla luce di quella stessa fiamma per cui Cecchin – ma non solo: penso a Falvella di cui quest’anno ricorre il cinquantenario della morte, alla strage di Acca Larentia, a Sergio Ramelli, ai fratelli Mattei, troppo piccoli persino per entrare in una sezione – ha dato la vita, non ci sia (più) spazio per i “fascisti”. Se si può ancora parlare di fascisti un ventennio dopo l’ingresso nel terzo millennio, cent’anni dopo la Marcia su Roma. Se ancora può parlare quella generazione che è viva grazie a lui e a quelli come lui, ma che si è prestata vergognosamente all’abiura. Delle strutture, dei concetti, dell’Idea. Ma non di certi simboli e di una certa simbologia, che può sempre tornare utile in termini di consensi. Compresa quella fiamma che, nonostante tutto, continua ad essere viva, che si erge pre-potente da quella base trapezoidale in cui qualcuno, più di qualcuno dotato di fervida immaginazione, ci ha visto il catafalco di chi quella Idea l’ha fondata. Quel catafalco in cui ancora non trovano riposo coloro che quella fiamma – (sep)pur senza catafalco e senza acronimi stavolta – hanno contribuito a tenerla ancora ardente. Quel catafalco simbolo di quei martiri dell’Idea da non uccidere ancora. Non oltre. Quella fiamma ancora viva, come ogni atto rivoluzionario.

https://www.camposud.it/francesco-cecchin-quale-eredita-dopo-43-anni-di-oblio/tony-fabrizio/

I FUTURI MERCENARI

È ancora fresco l’inchiostro con cui Vladimiro Putin ha firmato – rendendolo già operativo – il decreto che dà di fatto avvio alla russificazione.

Fresco come il sangue dei combattenti a Charkiv, a Irpin, a Mariupol. Nell’Ucraina da denazificare che, adesso diventa da russificare, dopo averla razziata – nulla c’entra il termine con “razza” che richiama Norimberga – che è un processo farsa per come si è svolto – né tantomeno il famoso Manifesto che probabilmente nessuno si è preso la briga di leggere, nemmeno di iniziare a leggere, tanto che già l’art. 1 recita “Le razze umane esistono. La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano ad ereditarsi”. Dunque, che che ne dicano l’anpi, i buonisti e tutta la pseudo-intellighenzia da salotto, non dice che una razza è superiore ad un’altra – ora è tempo di passare alla fase 2 dell'”operazione speciale”.
L’editto emanato – tecnicamente uzaka, è la Provda che lo dice – è un capolavoro di dettato giuridico, a partire dal giuramento, con tanto di formula ufficiale: “Mi impegno a essere fedele alla Russia, a compiere scrupolosamente il mio dovere civico e a sostenere i miei obblighi in accordo con la Costituzione e le leggi della Federazione russa”.
Dunque, un “do ut des”, come a dire “io ti do la cittadinanza facile e tu mi dai la fedeltà”. E la vita.
Cosa c’è di tanto terribile in quest’ultimo atto d’amore dell’ex agente segreto divenuto Presidente e zarista in fieri? Che tutto quanto concepito dalla mente del fine giocatore di scacchi riguarda i bambini! Solo i bambini. Quelli che le bombe altrui hanno reso orfani. Quelli che probabilmente hanno avuto il padre in trincea e la mamma stuprata, alla quale hanno portato via i figli. Magari prima che morisse. Quei bambini – oltre 4000 – che non si sa che fine abbiano fatto quando da Azovstall’ partivano i famigerati pullman che non sono mai giunti al punto di destinazione concordato.
Ebbene, “l’ultimo baluardo della cristianità” ha compiuto quest’ulteriore opera buona e ha semplificato – per gli orfani potranno giurare persino i responsabili dei ricoveri che li ospitano – la procedura di adozione a vantaggio delle famiglie russe che potranno (o dovranno?), così, adottare i bambini, orfani e no, ma i bambini, una volta diventati uomini (e donne?) dovranno assolvere a ciò che la Grande Madre Russia chiede loro, compreso imbracciare un fucile e andare al fronte per servire la Patria. Che non è la loro.
Merce umana importata, altro che ius sanguinis! O forse no, visto che per Putin l’Ucraina non esiste, che è Russia a tutti gli effetti e, in base a questa sua cartina geografica, non ha nemmeno invaso.
Merce umana che dovrà rimpiazzare le gravi perdite subite in Ucraina. Merce umana che si va a prelevare altrove per importarla e sostituire quella esistente, secondo un piano ben collaudato che dovrebbe ricordare un odiatissimo nemico ai tanti figli di Putin nostrani.
Ma d’altronde in Russia – così come in Ucraina – non è vietato nemmeno affittare un utero, perché mai si dovrebbe vietare questo tornaconto personale? Quasi una necessità. Un male neccessario.
Dunque, come non si può volere denazificare un Redis, al secolo Denis Prokopenko, che, mentre studiava filologia germanica e si laureava in lingue e letterature straniere, non ha mai smesso di concepire la sua avversione alla Russia come una questione personale: quasi tutta la sua famiglia, originaria della Carelia – oggi repubblica della Federazione russa al confine con la Finlandia – fu sterminata dall’Armata rossa nella guerra del 1939, quando il territorio passò da Helsinki all’Unione Sovietica.
Certo, fa paura che a 30 anni e fresco di studi, quando il mondo è tuo e si dovrebbe solo andare in giro per locali, ti cuci la patch della Carelia sull’avambraccio e tenti di rendere giustizia ai tuoi avi. E agli sconosciuti come loro.
Anche Denis è in Russia, ma Putin si è guardato bene dal mostrare il trofeo di guerra, il simbolo della denazificazione, della sua famigerata e celebrata vittoria con le manette ai polsi. Così come al posto dei laboratori segreti, dove tutti giocavano al piccolo chimico nei cunicoli segreti dell’acciaieria, ha trovato solo quasi 3000 tonnellate di acciaio da razziare. E ha razziato! Ma le prove dell’esistenza dei laboratori le porta all’Onu. Che è americano e corrotto nonché parte integrante di quell’apparato criminale che (i figli di) Putin dicono/dice di avversare.
Che poi è ciò che i gementi e piangenti figli di Putin hanno già vissuto con il loro eroe già dimenticato, tale Puzer Stefano, di professione portuale, incarnazione di infinite identità del metaverso e, manco a dirlo, uomo di Putin – come lo era Salvini. E Draghi – quando fu mandato a comprare il sale da un palazzo all’altro, poverello.
Il copione si ripete, sempre uguale, ma tanti – ormai troppi – ancora una volta si prestano a questa recita a soggetto. Ad essere spettatori. Secondo le voci fuori campo della contro(in)formazione – che va unicamente contro il bene dei tanti seguaci fondamentalisti – riducendo tutto a tifo, a piaggeria, a partigianeria.
Non è per me una vittoria riportare una simile bestialità neo-bolscevica, in tanti interpreteranno la fonte, si appelleranno alla traduzione della lingua, dovranno incipriare tutto per fare apparire, non essere, tutto bello e buono. Persino buonista. Finanche (auto)illudendosi. Per continuare a credere senza capire. A tifare. Quando mai in una guerra si tifa? La guerra che doveva portare alla denazificazione da parte di Putin e che i suoi seguaci dal divano hanno condotto contro Azov. Che si è “arreso”. Che poi si è riorganizzato e combatte per la propria Terra, per la propria Patria versando ancora il proprio sangue.
La guerra tifata in differita che ancora non finisce, ma che Putin avrebbe già dovuto vincere perché la denazificazione è avvenuta. E, invece, va avanti. Verso l’accesso al mare. Verso nord. Verso quell’imperialismo che vede nell’Ucraina solo il primo boccone di un lauto banchetto. In salsa americana. Che ha pregato tanto la Russia di invadere l’Ucraina. Che nel conflitto Nato-Russia non invia più i missili a medio raggio. E che, dopo oltre tre mesi, ancora non vede scambiarsi un solo colpo tra Washington e Mosca. Ma che rivede Kissinger. Che è lo yenkee che riarmò e rialzò la Russia dopo il crollo dell’Urss e che oggi ri-apre a Mosca. Ancora. Oggi, come ieri. Come a Yalta.
È tutto così tremendamente chiaro che lo capirebbe persino un bambino. Proprio come quei bambini ucraini “rapiti” e “adottati” da Putin.