SALVIAMO MARCINELLE!
E dopo Capaci e via D’Amelio, ma prima di Dalla Chiesa, d’imperio toccava a Marcinelle. Rievocare. Che in questa Italia stravolta, ma non (ancora) sufficientemente sconvolta, significa ricordare di dimenticare. Proprio così. E se mafia e Sicilia hanno formato per tanti un connubio equivalente ad un ottimo trampolino di lancio per carriere stratosferiche, inesorabilmente convergenti tutte in gabinetti (istituzionali), vuoi che non si pieghi Marcinelle alle regole indegne della campagna elettorale? E Letta oggi – ma una Boldrini qualunque ieri – orfano di Calenda e “accoglione” urbi et orbi, sordi e tordi, dà l’esempio ricordando “la tragedia che coinvolse i nostri migranti”. Una retorica stantia, incartapecorita e fuorviante – per non dire falsa e falsata – almeno quanto l’antifascismo sbandierato ad ogni occasione utile, 365 giorni all’anno. Ogni anno. Da cento anni quasi.
E se per Capaci si (fa finta di) dimentica(re) il perché sia successo, o se vogliamo, non si sia evitato che l’autostrada saltasse in aria portandosi con sé il giudice più famoso in Italia e all’estero, Usa per prima, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta e Borsellino – che non era certo di sinistra, non dimentichiamolo come loro – lo si commemora ancora con la (sua) strage, dopo 4 processi – e non è l’ultimo – ognuno comprendente tre gradi di giudizio e solo adesso si inizia a nominare la parola “depistaggio”, omertosamente senza colpevoli, come da rito, per Marcinelle non si può che parlare di “immigrati”?
Perché anche gli Italiani sono stati un popolo di migranti è il mantra che va ripetendosi l’asinistra oramai scollata dalla vita reale, dal territorio, persino dal suo elettorato, ingannando se stessa per prima, ma obbedendo alle logiche del capitalismo globale rosso.
La verità è una sola e va chiamata col proprio nome, al netto di ogni giudizio storico, politico e morale.
Marcinelle è la storia di una lunga agonia iniziata alle ore 8.11 dell’8 agosto 1956 e conclusasi solo il 23 agosto. In questa lunga agonia trovarono la morte 262 minatori, 136 italiani, ben oltre la metà, quando nel sottosuolo di Marcinelle, tra pozzi e gallerie nelle viscere della miniera di Bois di Cazier non iniziò a propagarsi un fumo denso e acre che tranciò i fili del telefono e i cavi dell’alta pressione, rendendo così difficile, se non impossibile, lo spostamento dei carrelli sulle rotaie, comunicare con i minatori e soccorrerli.
Vani i sacchi di ossigeno calati nelle viscere della terra: il 23 agosto delle 262 anime resterà solo un dispaccio con due sole parole, scritte rigorosamente in italiano: “Tutti cadaveri”.
Quei cadaveri non erano che la conseguenza dello sciagurato Protocollo “italo-belga”, l”‘incenerizzazione” di 136 connazionali in cambio di carbone alla Patria, la svendita di 136 italiani trasformati in forza lavoro e divenuti merce. 136 morti a firma (e forma) del governo De Gasperi, di concerto col Clnai, rispondente a Democrazia Cristiana, Partito Comunista Italiano, Partito Socialista Italiano, Partito Liberali Italiano e Partito d’Azione.
E c’è di più: i lavoratori italiani che andavano in Belgio – immagine d’altri tempi – spesso venivano presi con l’inganno: il contratto, dicevano loro, prevedeva la durata di un anno, ma “i più fortunati” rimasero lì dentro fino a morte naturale. Il viaggio avveniva ammassati su dei treni che avevo la particolarità di essere blindati le cui porte non erano apribili dall’interno. In ogni angolo del Paese – già veniva chiamata così l’Italia – era possibile scorgere manifesti che descrivevano il Belgio quale l’Eden terrestre, dove ti davano da lavorare e anche vitto e alloggio. Chiaramente la realtà era diversa e lavorare non era il solo requisito richiesto: bisognava essere di sana e robusta costituzione, avere meno di 35 anni, forse così si poteva sopportare meglio il viaggio senza destinazione conosciuta e soprattutto senza poter fare soste, fino a quando non ci si rendeva conto della “truffa statale” di cui si era stati vittime: ammassati in campi di concentramento insieme con i soldati tedeschi prigionieri di guerra (il secondo conflitto mondiale era ufficialmente finito da oltre un decennio), imprigionati in stamberghe di lamiera gelide di inverno e roventi d’estate – visibili ancora in quelle sistemazioni che avrebbero dovuto fungere da casa per i terremotati dell’Irpinia e del Vulture del 1980 – e con una paga che a stento riusciva a coprire qualche volta al mese l’acquisto di pane e pasta per sopperire alla zuppa annacquata che chiamavano “pasto”.
Spesso ci è capitato di vedere fotogrammi di gente accalcata in dormitori spacciate per cuccette in legno e ferro più simili a delle gabbie che ad un letto atto, se non al riposo, quantomeno a recuperare forze ed energie per affrontare di nuovo la fatica della miniera: ebbene, quelle immagini spacciate per campi di concentramento della Seconda Guerra Mondiale, in realtà ritraggono i nostri padri ribattezzati “musi neri” in Belgio e ai quali era vietato entrare negli esercizi pubblici al pari degli animali.
Per cui basta con le fesserie finora propinateci, basta con le strumentalizzazioni più indegne di questa politica, basta con questa tecnica della goccia cinese per inculcarci senza sosta la retorica dell’accoglienza dovuta, basta con questa colpa sociale da inculcare al nostro popolo: le vittime di Marcinelle si trovavano lì per fare i lavori che i belgi non volevano più fare, perché il governo De Gasperi con i suoi degni compari sopra citati aveva eliminato la socializzazione del lavoro e delle imprese messa in atto dalla Repubblica Sociale Italiana e aveva barattato la manodopera (i figli della Patria) in cambio di carbone. Chi aveva “deciso” di abbandonare casa e famiglia e trasformarsi improvvisamente in minatore non fu ospitato in comodi alberghi con vitto, alloggio, lavatura e stiratura a spese di Bruxelles – il wi-fi ancora non c’era – mai protestò per il cibo che non si addiceva ai loro palati fini, non stava tutta la giornata a dividersi tra il poltrire e il bivaccare e, nei ritagli di tempo tra ozio e noia, rubare, spacciare, stuprare, violentare, ammazzare, squartare e abbondare in strada i corpi, magari nelle loro valigie di cartone. Non ricevettero nessun sussidio statale, né lo status di rifugiato e tantomeno nessuno pensò di regalare loro la cittadinanza, inventandosi lo ius soli, lo ius culturae. Nemmeno a quelli che dai meandri di Marcinelle non videro più la luce, né l’area. Per cui, se la politica è diventata propaganda ignobile e meschina, se l’amministrazione della cosa pubblica coincide con il trarre profitto ad ogni costo, primo su tutti di consenso, se davvero non riuscite a rispettare il vostro popolo, la vostra gente, i vostri simili, almeno abbiate la decenza di tacere. Anche quello è rispetto. Commemorate. Dimenticando davvero.
2 AGOSTO 1980 : LA STRAGE PRE-CONFEZIONATA; I RIPETUTI DEPISTAGGI; LA PISTA PALESTINESE DI CUI NESSUNO VUOL PARLARE!
Potremmo parafrasare così una celeberrima battuta tratta da La Smorfia del trio Troisi-Arena-De Caro bollato blasfemo in illo tempore. Se solo non stessimo trattando di una tragedia, di un inganno, se solo non avessimo rispetto di chi ha pagato, di chi è stato coinvolto – pagando o no – di chi è stato infamato.
Di un depistaggio. Un altro. Di stato. L’ennesimo.
È trascorso quasi mezzo secolo dalla “strage di Bologna”, subito bollata quale “strage fascista”. Prima ancora che iniziasse il processo, eppure dopo quasi mezzo secolo ancora non si conoscono gli autori, i colpevoli, le cause. Però, sappiamo che è stata una strage fascista. Poi, a tempo debito, le scuse di rito, quelle che potevano arrivare. Quelle di Cossiga, in veste di Presidente della Repubblica, quella a sovranità limitata, quella allattata dal piano Marshall, che disse a Pinuccio Tatarella “Fui fuorviato, intossicato. Ho sbagliato, chiedo scusa a Lei che in questo momento rappresenta la sua parte politica”. Cossiga il “picconatore” che parlò – sua opinione personale, giammai – di “incidente”. Un tragico incidente in cui esplose una bomba, con molta probabilità, trasportata da terroristi palestinesi. Una bomba che non doveva essere innescata in quell’occasione. Probabilmente indirizzata al carcere di Trani, in Puglia, dove era detenuto un altro terrorista palestinese.
Forse la strage “fascista” di Bologna è solo il modo in cui il terrorismo palestinese aveva alzato il tiro dopo il duplice attentato all’aeroporto di Fiumicino del 1973 e del 1985 costata la vita a 34 e 13 persone. Prima e dopo il lodo.
C’è anche un’altra ipotesi/verità che aleggia sulla strage “fascista” di Bologna e ha a che fare ancora una volta con i mandanti/ideatori(?) del sequestro Moro. Si tratta delle “correlazioni” con un’altra strage, l’edulcorato -e mai risolto – disastro di Ustica, dove persero la vita 81 persone. Dopo oltre quarant’anni possiamo certamente dire che il DC-9 fu abbattuto. Le analisi condotte sulla carena del velivolo (sulla fusoliera intatta) non lasciano spazi a dubbi: non si trattò di incidente, di anomalie, né di un ordigno a bordo. Nell’abbattimento del velivolo furono coinvolti i militari franco-americani contro la Libia. Il DC-9 fu colpito e abbattuto durante un combattimento NATO contro un Mig libico sul quale avrebbe dovuto trovarsi Gheddafi. Se si fosse accertata la verità, non si sarebbe non potuto chiamare in causa la CIA, i Servizi di vari Stati, non escluso il Mossad. E i nostri Servizi? Se avessero saputo, avrebbero dovuto mettere in discussione la nostra permanenza nell’Allenza atlantica: eravamo in piena guerra fredda e… la storia dovrebbe essere riscritta.
Fenomenologia dellA LaurA BoldrinA
Laura BoldrinA nacque femmina. Con tutti gli attributi. Quelli di serie di cui si è pur avvalsa per lasciare una traccia di sé.
Ma andiamo con ordine.
Laura – nome oggetto della più retrograda medioevale espressione poetica maschilista del padre (aborro!) fondatore (trasecolo!) della Lingua (femminile!) italiana, precursore dell’Umanesimo, tal Cesco Petrarca che passò una intera esistenza a comporre prosa e versi per affermare sostanzialmente un solo concetto: “Dite a Laura che l’amo” – abita questo pianeta sovraffollato dal 28 aprile 1961.
Prima – perché donna – di cinque figli di una famiglia pseudopatriarcale – il papà era avvocato, ma la mamma insegnante d’arte – trascorre l’infanzia e la pubescenza nella bucolica cornice del paesino maceratese di Matelica che abbandonerà alla volta di Jesi, dove conseguirà il diploma di maturità classica. Inutile riportare il voto, consideriamolo pure un 6 politico.
Dopo un ventennio che era venuta alla luce, decide di andare a lavorare (termine d’altri tempi!) in una piantagione di riso in Venezuela. Magari, fosse stata al servizio del caporalato pugliese, i danni dell’aggreSSione solare sarebbero stati più contenuti.
La raccolta del riso, o magari la sua condizione (femminile) di figlia di papà, le donerà un’agiatezza economica tale che le consentirà di intraprendere un viaggio da nababbA alla scoperta del centro America passando per Panamà, Costa Rica, Nicaragua, Honduras, Guatemala, Messico e Stati Uniti, fino a New York.
Un Di Battista che c’è arrivata prima, in quanto donna.
Ma quanto cazzo si viene remunerati nella raccolta del riso seppur per pochi mesi?
“Folgorata” nella megalopoli della Grande Mela, decide di scindere in due l’anno solare e dedicare sei mesi allo studio e gli altri sei a viaggiare. Pur non dedicandosi nemmeno più alla raccolta del riso.
Dopo quattro anni, in realtà due, ovvero quattro semestri, se consideriamo le altre quattro metà dell’anno impiegate a viaggiare per il pianeta, si laur(e)a in Giurisprudenza presso La Sapienza di Roma. Chissà, se frequentando l’ateneo, si è mai interrogata sul suo stile architettonico e, se sì, chissà perché non ne ha mai chiesto l’abbattimento, esigendone le rovine come prova.
Intanto già si “interessava” di filantropia unendo la passione del giornalismo trasformandola in risorsa all’AISE, l’Agenzia Italiana Stampa e Emigrazione, poi impiegata alla Rai, ma non nelle risaie, e trova anche il tempo per convolare a nozze (vero!) col giornalista Luca Nicosia dalla cui unione (verissimo! Di maschio e femmina!) è di fatto nata l’erede unica Anastasia.
Luca l’inseminator, però, non è il compagno con cui lA LaurA si è accompagnata, almeno fino al 2015, ma si tratta del giornalista di Repubblica, The Guardian e The New York Times Vittorio Longhi di origine eritrea e parte in causa nell’operazione di regime change contro il Presidente Isaias Afewerki, giustificata dal solito pretesto occidentale dell’esportazione di democrazia e dei diritti con annessa demonizzazione del dittatore ostile ai piani dei poteri forti mondialisti per il tramite di padre Mussie Zerai, ricevuto alla Camera dei Deputati della Repubblica italiana quando la concupita del Longhi occupava lo scranno di terza carica dello stato, senza mai chiarire se si fosse trattato di conflitto di interesse, visto che l’organizzazione Progressi di Longhi ha come mission il fatto di “fare pressione sulle istituzioni” ed è inserita in un circuito chiaramente facente capo a George Soros, di cui conosciamo le ingerenze sui governi nazionali.
Ma LaurettA non ha certo tempo da perdere con queste quisquilie e pinzellacchere: sarà per questo che ha “dimenticato” di pagare la liquidazione alla sua colf che è sparita, pur se doveva ricevere i suoi soldi? O perché “i conteggi erano difficili a farsi che hanno richiesto tempo”, conti che non fa certo lei, visto che, essendo una donna sola, non si prenota nemmeno il parrucchiere, ma chiede di farlo alla sua assistente parlamentare che, però, dovrebbe fare altro e per cui alla lavoratrice non versa nessuna remunerazione aggiuntiva? Ma solo perché lei non sa di conti.
La LaurA, però, nonostante sia una donna tutta d’un pezzo, non disdegna di e-mulare e inginocchiarsi per un’uccisione di un afroamericano della solita Police-sceriffo, ma il suo naso è così lungo che non vede le nostre Desirèe Mariottini, drogata, stuprata ancora vergine in un tugurio occupato da spacciatori clandestini africani e poi ammazzata nel quartiere San Lorenzo a Roma e Pàmela Mastropietro anche lei drogata, stuprata, accoltellata, squartata mentre era ancora viva e messa in due valigie abbandonate sul ciglio della strada da Innocent Oshegale. Erano donne, ma forse troppo bianche. Nessun piegamento di ginocchia o chiusura di sinistro pugno per Ermanno Masino, Daniele Carella e Alessandro Carolè, uccisi a picconate dal Adam Kabobo perché “sentiva le voci”. E neppure per Stefano Leo, giovane lavoratore autoctono, ammazzato da un Said qualunque perché italiano e “per togliergli tutte le sue idee, il suo futuro, le promesse e l’amore dei genitori”. Nessun silenzio di otto minuti e passa rotto dal grido “Non riesco a respirare” per David Raggi ammazzato da Aziz che con un coccio di bottiglia gli ha tagliato la gola. Né per le vittime del terremoto de L’Aquila, né per i morti del Ponte Morandi che rovinarono il Ferragosto a CasalinA. Però, ha indossato i panni della Vesta del p.c., del politically correct e con la solita sinistra supponenza continua a voler dettare l’agenda del più becero globalismo capitalista. Secondo cui è una vergogna tutta bianca quel nostro mos maiorum che risponde al nome di Tradizione. Culturale e civilizzatrice. Secondo cui persino la Legge – che è già usata ad abusata a proprio USO & consumo, dovrebbe creare categorie “pro-tette” in base alle quali creare autentiche discriminazioni. Dell’Ideologia sottoposta al Diritto, della Giustizia al politically correct. Reati più gravi, se a subirli sono gay e trans cui va dato più spazio nella società, in tivvù, con giornate apposite e apposite leggi. Nonostante quelle già ci sono e in loro tutela. Ne servono altre. Di più. Diverse. Mentre nessuna tutela è riservata alla procreazione, ai figli, alla famiglia. Di eterosessuali. Agli eterosessuali. Che non sono tutti di sinistra. O meglio, non ci sono gay di destra. Maschi troppo maschi. Sarà per questo che alla giornata dedicata alla Repubblica non ha applaudito i Leoni della Folgore? Fasci troppo fasci? O perché per lei semplicemente l’Italia non esiste. E con lei gli italiani. Lei, da figlia del mondo, cosmopolita, zingara, considera l’Italia un corridoio globale, la Casa di accoglienza dell’Africa e del circondario. L’Islamismo con i suoi riti inaccettabili in casa nostra la preoccupa poco o niente rispetto all’islamofobia. La violenza dei centri sociali sarà equiparata a quella delle risorse importate. E azzerata. Vuoi mettere la violenza di un saluto romano ad una commemorazione per i caduti? Vuoi mettere la violenza delle conquiste sociali, di quello stato sociale vanificato e chiamato adesso welfare. O la violenza con cui è stata debellata la mafia. E l’elenco sarebbe ancora lungo, ma la BoldrinA è una donna che bada alle parole, mica ai fatti! Ecco che si spiega la sua personale (e solitaria) vandea contro i suffissi (ops… suffesse) di parole e aggettivi maschili. Insomma, che la lingua italiana non contempli il genere neutro, ma solo maschile e femminile, alla nipote matta di Matteotti non va proprio giù. E se ancora non ha dichiarato la messa al bando dell’Accademia della Crusca è forse perché sia sostantivo che aggettivo sono femminili.
Ieri l’ultima – solo in senso temporale – delusione: il Senato, l’altro braccio boldrinesko di questa inesistente repubblica ha sentenziato che nel linguaggio istituzionale – ufficiale per la compagna gauche caviar Cirinnàchevitadimerda – non è inclusa la partita di genere.
Che genere di parità!?! Magari quella che ha portato altri suoi omologhi, diversamente (da lei) illustri predecessori ad inabissarsi, dopo aver tolto il culo dalla cadrega della Camera? E non solo i predecessori, visto che il suo figlioccio di governo risponde al nome di tal Robertino Fico. Altro sinistrato, altro defecatore sul 2 giugno e sulla (di loro) Repubblica antifascista. Altro pugnochiusista ed ennesimo rigurgito postumo del sessantottismo. Magari la finiamo anche di non pagare colf e badanti. E di fare i bagni a mare a Castelporziano, circondati da Corazzieri costretti a guardar le chiappe bianche alla PresidentA. Nemmeno Capalbio. Nemmeno lì sare(s)te tutti liberi e uguali.
19 LUGLIO 1992 : TRENT’ANNI DALL’OMICIDIO DI PAOLO BORSELLINO E DEI POLIZIOTTI DELLA SCORTA. Trent’anni di depistaggi e di silenzi colpevoli!!
Questa è una storia all’incontrario, che si inizia a raccontare dalla fine, che è tale solo per la sua cronologia, degna di un Paese (purtroppo) rovesciato.
È una storia di contraddizioni tipiche e topiche di questa Italia ormai identificazione dell’ossimoro per antonomasia. È una storia di ricordi, che per ricordare ti impone di dimenticare.
È la storia dei 30 anni della strage di Via d’Amelio, che 30 anni dopo ancora non si chiama con il proprio nome: depistaggio! Perché depistaggio è “stato” o, se vogliamo, di depistaggio si è “trattato”.
Accade così che si ricorda la morte di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli con un florilegio d’occasione, opportun(istic)amente preparato. Miscellato. E miscelato. Accade così che nemmeno quest’anno – e quest’anno più che mai – ci si ricorderà di dimenticare le origini del personaggio Paolo Borsellino, quel giovane studente liceale a dirigere un giornale destrorso – L’Agorà – e poi nel 1959 da studente di Giurisprudenza iscriversi al FUAN, l’organizzazione giovanile dell’MSI, rappresentante della lista “Fanalino”, fino ad entrare a farne parte e diventare in solo tre anni il vice di Guido Lo Porto.
Suo amico di allora era Pippo Tricoli, storico esponente, o meglio, esponente storico della Destra siciliana che gli presentò un altro uomo “di valore”, un giovane assistente universitario, Adriano Romualdi, altro intellettuale della “parte sbagliata” morto prematuramente a 33 anni in uno strano incidente stradale.
Personalità della parte sbagliata, ma di talento, che avevano il senso dell’onore e la conoscenza della Tradizione, che non consideravano la coerenza e la fede in un’Idea, la virtù degli imbecilli. E che rischiavano per le proprie Idee anche la vita perché, come scriveva Ezra Pound, “Se qualcuno non è disposto a lottare per le proprie Idee, o queste non valgono niente o non vale niente lui”. E Paolo Borsellino è uno che per le sue Idee aveva sentito forte il desiderio di mettersi al servizio della Nazione e di lottare contro la mafia, fino all’estremo sacrificio della sua vita, accolto con eroico fatalismo.
Paolo Borsellino, però, non è il solo eroe e martire di questa ingloriosa repubblica, fastidiosa da quando ha avuto l’ultimo – speriamo vivamente di no – sussulto di orgoglio patrio con la faccenda dell’Achille Lauro. Che, è bene sappiano le nuove generazioni, non è solo il sindaco più glorioso che Napoli abbia mai avuto, né l’indegno (del nome) urlatore defecato a Sanremo.
Se si parla di eroi caduti nella lotta alla mafia non si può non ricordare il giornalista Mauro De Mauro, aderente alla RSI con la gloriosa X MAS, corrispondente dalla Sicilia per più giornali, probabilmente eliminato per le sue indagini scomode – allora il giornalismo si faceva così – sulla morte di Enrico Mattei. Scomodo come Beppe Alfano, una vita tra Fronte della Gioventù, Ordine Nuovo e Movimento Sociale-Destra nazionale, per le sue inchieste – era un giornalista! – sugli appalti pubblici sui cui Cosa Nostra aveva messo le mani e che lo “premiò” con tre colpi di pistola. E, andando a ritroso, come non citare il Prefetto di ferro, Cesare Mori i cui risultati non hanno bisogno certo di presentazioni, ma di tanta mistificazione, misto a revisione, vista la sua appartenenza di governo. Risultati inquinati dagli stessi autori dello strappo di Sigonella, mezzo secolo prima. E sfidiamo a trovare qualcuno che sui libri si storia – stando al lasso di tempo di questo si tratta – abbia trovato anche solo citato il nome di Mariano De Caro, ragioniere formatosi alla Real Scuola Gagini di Palermo, universitario e tiratore scelto nella fanteria Trapani e poi inviato al fronte con il grado di sottotenente nella Grande Guerra. Avvicinatosi ben presto ai Fasci di Combattimenti spese la sua vita – insieme ad altri ex combattenti – nel tentativo di alimentare sentimenti di riscossa tra i braccianti e i salariati di Misleri dove ancora i padroni delle terre e i latifondisti pensavano solo allo sfruttamento dei lavoratori e al proprio tornaconto personale, facendo leva su minacce e oppressione.
Anche per questo occorre ricordare di dimenticare. Allo scopo, è utile qualsiasi favoletta preconfezionata come quelle pronte da spacciare per ogni occasione. Chi se ne frega, allora, di fare sapere quale sia il depistaggio se il processo Borsellino quater (che sta per quattro processi ognuno composto di tre fasi di giudizio ha stabilito che c’è “stato” inequivocabilmente il depistaggio) se le accuse a carico degli imputati sono andate in prescrizione! Che non significa che non hanno colpe. Dunque, un depistaggio c’è stato, ma non si sa chi sia stato. Neppure quei soggetti-oggetti pezzi di istituzioni accusati di aver vestito il “pupo” Scarantino sulla cui parola sono state emesse sentenze – definitive, anche di ergastolo – quando è appurato, dimostrato e cosa nota che Scarantino è ritenuto inattendibile. Uno che – lo dice lui, eh! – in una riunione deliberativa di commissione (mafiosa), quella in cui Totò Riina comunicò di uccidere anche Borsellino e si raccomandava pure di fare attenzione perché Falcone, se fosse stato al suo posto in auto, sarebbe stato ancora vivo, entra a prendere un bicchiere d’acqua. In una riunione di commissione. Deliberativa. E su queste dichiarazioni di questo personaggio, in nome del popolo italiano di questa disastrata repubblica si è emesso una sentenza di condanna all’ergastolo di un povero cristo – chissà cosa ne pensa del quesito ad hoc del referendum sulla giustizia di cui tanti se ne sono fottuti – che il lunedì mattina (20 luglio) apre la sua officina e si accorge di un furto di targhe di una 126 e, recatosi al commissariato Brancaccio, viene trattato come il peggiore dei criminali. Che ad esplodere in via D’Amelio sarà una 126 lo si appurerà solo nel tardo pomeriggio del 20 luglio, quando un tecnico FIAT venuto da Termini Imerese riconoscerà un blocco motore compatibile(!) con quelli montati sulle 126 ma che dalle immagini girate dai Vigili del fuoco non compare mai. 126 che viene già menzionata nel lancio di un’agenzia di stampa (Ansa) tre quarti d’ora dopo l’esplosione. Dopo l’arrivo dei Servizi Segreti (americani) che arrivano in sito nel giro di un quarto d’ora e “vestiti tutti uguali e senza una goccia di sudore – è domenica 19 luglio a Palermo! – freschi che sembravano stessero dietro l’angolo” dirà un poliziotto in qualità di teste. È pur vero che in Via D’Amelio c’erano tutti quel 19 luglio. Anche chi fece repertare tutto e, raccogliendo la roba in sacchi della spazzatura neri, di quelli condominiali e catalogando alla carlona con un generico “si sequestra quanto ivi contenuto” – cioè nulla – inviò tutto a Roma a disposizione dell’FBI. E perché? E perché l’FBI non ha mai nemmeno fatto (pervenire?) un verbale? Una catalogazione? C’è una pista americana anche per via D’Amelio? Gli stessi americani che non digerirono Sigonella? Che, pare, siano stati la regia della strage di Capaci, dove gli esperti di esplosivistica hanno “sentenziato” che non si può fare saltare in aria un’autostrada tramite un cunicolo, se non vi è un muro laterale che faccia sì che l’esplosione non avvenga appunto di lato?
E che in via D’Amelio il depistaggio inizi proprio dalla 126 di cui gli inquirenti sono così sicuri tanto da fare rimangiare ai “pentiti” le dichiarazioni che l’esplosivo è stato messo in un bidone della calce. Gli stessi inquirenti, coadiuvati da “pezzi di istituzione” che hanno distrattamente (o)messo verbali – inesistenti per loro stessa ammissione in fase processuale di interrogatori di taluni pentiti – in faldoni di “ignoti” ovvero tra le denunce dormienti dello scippo e del furto di bicicletta.
Ma se la legge è uguale per tutti, ma c’è qualcuno più uguale degli altri, perché mai questo non dovrebbe valere per i pentiti i cui reati più gravi sono stati, più persone hanno ammazzato direttamente proporzionale è il loro valore? Pentiti che non esistevano quando ancora nelle istituzioni non avevano dato il compito di creare il “pentitificio” di stato a chi è assente da ogni processo, da ogni intervista e non risponde alle accuse né ad elogi. Niente. Spariti. A mo’… di latitante.
Che ha, però, utilizzato – come altri – la mafia e la Sicilia quale trampolino di lancio per sfavillanti carriere. In Polizia come in Magistratura. Qualcuno pure in politica, dalla magistratura, per poi tornare indietro e riciclarsi. Come se nulla fosse. Magari mettendo in croce omologhi, altri valorosi personaggi quali funzionari, dirigenti, numeri uno dell’apparato dell’italica intelligence – penso al dr. Bruno Contrada e alla sua odissea giudiziaria – che hanno dovuto subire l’onta dell’infamia solo perché si sono dovuti sporcare le mani nella lotta alla mafia, visto che la figura del collaboratore di giustizia non era ancora stata creata come stipendiata dallo stato. Magari incurante della memoria a tempo e delle dichiarazioni prive di riscontro come l’incontro con persone morte, incontri avvenute in stanze mai esistite e in tempi incompatibili per delinquenti rinchiusi in carcere. Al 41 bis. Oppure no. Il che apre alla connivenza istituzionale. Pezzi di… istituzioni che anche quest’anno saranno in prima fila a Capaci prima e in via D’Amelio poi, magari appenderanno anche il peluche petaloso in via Notarbartolo raccomandando(si), ancora una volta, di ricordare di dimenticare.
https://www.camposud.it/19-luglio-1992-trentanni-dallomicidio-di-paolo-borsellino-e-dei-poliziotti-della-scorta-trentanni-di-depistaggi-e-di-silenzi-colpevoli/tony-fabrizio/
IL RICORDO DI CARLO FALVELLA A 50 ANNI DAL SUO MARTIRIO. E il Comune di Salerno pensa di intitolare la strada ove fu assassinato, ai martiri del 25 Aprile!!
“Ho scelto Filosofia, perché potrei comunque continuare a insegnarla anche senza dover scrivere. Ma devo far presto a laurearmi. Devo assolutamente riuscirci prima di diventare cieco”. Questo era Carlo Falvella, diciannovenne studente di Filosofia con una grave menomazione della vista che avrebbe perso – secondo i medici – all’età di trent’anni. Trent’anni che Carlo non vedrà mai perché la luce sulla sua vita si spegnerà prima. Molto prima.
Di Carlo, così come per la maggior parte dei martiri caduti per la rivoluzione negli anni di piombo – che non è solo un periodo di stragi, anzi – ormai conosciamo con dovizia di particolari ogni dettaglio, eccezion fatta per alcuni colpevoli.
Fu una spallata sul lungomare Trieste, chissà quanto volontaria, visto che il giovanissimo Carlo vedeva ad ombre, per fare armare la mano dell’anarchico Giovanni Marini che successivamente e non prima che gli animi erano stati stemperati, in serata, a freddo in via Velia e in compagnia di altri due degni compari, affonderà il coltello nel cuore di Carlo. Rigirandocelo più volte.
DE LUCA CONTRO LE BUFALE (CASERTANE). E’ NON E’ UNA BUFALA !!!!
E BASTA! È SOLO UN SUCCEDANEO.
E basta! È solo un succedaneo.
Sbaglierò, ma io tra la pandemia e la guerra in Ucraina c’ho sempre visto lo stesso copione. Così come nelle orgasmiche reazioni post-discorso di Putin di venerdì 17 ci vedo lo stesso piatto già servito quando i Mc Donald’s hanno abbassato le serrande a casa di Putin. E tutti lì a leccarsi le dita per l’ennesima mossa del fine giocatore di scacchi dell’ex KGB, dell’ottimo stratega e dell’impareggiabile (geo)politico. Serrande rialzate, nessuna perdita dei posti di lavoro, negozi chiusi e specialità yankees sostituite da prelibatezze locali. Questa la gattopardesca alternativa. Nient’altro che un succedaneo. Persino sul nome non vi è originalità: la direzione della catena di ristorazione pubblica Yeda i tochka (Cibo e basta) del territorio di Primorye (estremo oriente russo) ha detto di esigere che i fast-food Vkusno i tochka (Gustoso e basta), ex ristoranti McDonald’ s in Russia, vengano ribattezzati ed è pronta ad andare in tribunale perché «a causa del nome della nuova catena, l’attività sarà considerata un derivato, un’imitazione». Lo ha dichiarato all’agenzia Interfax il proprietario della catena Yeda i tochka, Sergei Pankratov.
Identica situazione accaduta subito dopo che l’inquilino del Cremlino ha tuonato contro il vecchio ordine mondiale e a favore del nuovo ordine mondiale. Succedaneo per succedaneo. Poco cambia, allora, se la plenaria sia quella di Davos piuttosto che quella di Leningrado, ops, San Pietroburgo: sempre di un forum economico si tratta. E i succedanei non finiscono certo qui: al mondo non esistono solo gli Usa – giustamente – ma anche la Russia, dice l'(auto)erede di Pietro il grande, con perfetti toni da g.f. che sta per guerra fredda e, come allora, ognuno vede e vuole il mondo in due blocchi contrapposti. Ma poi neanche tanto.
“L’Europa va verso un’ondata di radicalismo e cambio d’èlite”, quella Europa Occidentale dove “ i reali interessi delle persone sono stati messi da parte”. E non saranno certo centrali con l’avvicendamento di un altro imperialismo. Centrale deve essere “l’economia basata sul business privato”. Non è Draghi che parla, è sempre Putin. Giuro!
Vabbè, un leader vale l’altro. D’altronde Putin oggi non è forse il succedaneo del Trump di ieri? Il liberatore dallo stato profondo di Washington? Di Davos? Di Bruxelles? Ancora un succedaneo. Continuo. Ancora un padrone. Che si finisce per adulare. Ora come allora. A Roma, come ammalati cronici da sindrome di Stoccolma. Senza esserne mai inspiegabilmente colmi. Siamo veramente il colmo.
Il problema – è lapalissiano – non è Putin o gli Usa, ma continua ad essere (que)gli Italiani ormai disabituati a fare i cazzi loro. Che s’industriano a dissertare e discettare di Davos senza nemmeno sapere se il mercato sotto casa si tiene ancora. Se gli italiani, loro – noi – pian piano abituati al reddito di cittadinanza quale stipendio universale, possono ancora permettersi un chilo di mele, divenuto ormai bene di lusso. Se le mele crescono ancora, vista la siccità che diventa funzionale al razionamento che da emergenza diverrà norma. E lo decidono proprio vinti di Putin.
Quelli che continuano a fare il bello e il cattivo tempo in Italia. Ma che ci frega? Tanto Azov è stato sconfitto, però nessuno l’ha visto. Che ci frega se l’acciaieria è stata presa, ma la sola cosa che si è trovata è la bellezza di 30mila tonnellate di acciaio che lo zar ha puntualmente depredato? Se l’Ucraina è da denazificare, ma chi se ne frega se Putin dice che l’Ucraina con i confini come la conoscevamo finora non esisterà più – denazificare, però, vuol dire deucrainizzare e russificare -. Che poi è la stessa cosa che sosteneva chi accusava l’orso siberiano di imperialismo, inesistente agli occhi dei suoi figli autoproclamatisi adottivi e che vedono nella (non) invasione del Donbass tutto, eccetto che mettere le mani sulle ricchezze della non-Russia.
Conoscono le strade di Bucha su cui hanno condotto sofisticatissimi studi con l’ausilio di Hearts, di fotografie satellitari – un uovo sodo lo sapete ancora fare? – e non si accorgono sotto al naso della Via della seta attraverso cui quegli scappati di casa dei 5 stelle ci hanno portato la guerra in casa. Va dato atto che sono stati bravi, sono riusciti nel loro intento, grazie a tanti di voi. Gli stessi che, come biascicate, hanno perso, ma continuano a stare in sella. Che sono pure incapaci, ma servono quali utili idioti. E il potere glielo avete dato voi. Li credevate l’alternativa, il dissenso, si sono rivelati un succedaneo. Così come lo è l’opposizione interna del governo e quella esterna allo stesso governo. Che sono alleati e si scornano, ma invece di scornarsi davvero sono coalizzati. Dobbiamo poi gioire perché si è resistito – le parole non si scelgono – al siero e alla certificazione – cosa sacrosanta – pure se a settembre si ritornerà con i ricatti del siero e della certificazione pure per lavorare.
E la prossima volta che si scenderà in piazza – solo per i più temerari, sia chiaro – sarà per replicare piazza Tienanmen. Perché anche la Russia sarà cinese e stavolta non avremo nemmeno le buste della spesa in mano.
FRANCESCO CECCHIN: QUALE EREDITA’ DOPO 43 ANNI DI OBLIO???
E con questo 16 giugno sono quarantatré. Quarantré gli anni trascorsi dalla morte di Francesco Cecchin, volato nell’olimpo degli eroi, dopo essere volato dal parapetto di un’abitazione di via Montebuono al numero 5, nel quartiere Salario a Roma, una volta riconosciuti i suoi aggressori che, nel frattempo erano solo i suoi inseguitori. Gli stessi con cui nel pomeriggio Francesco aveva avuto un alterco per una questione di manifesti.
Dopo quasi mezzo secolo sappiamo chi è Francesco Cecchin e sappiamo della sua militanza politica nel Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile dell’MSI. Sappiamo della sua lunga agonia – coma indotto per diciannove giorni – così come sappiamo delle fratture su tutto il corpo, eccetto mani e gambe. Strano modo di cadere per uno che vola da un’altezza considerevole. O meglio, di atterrare. Di testa.
Sappiamo del cranio fracassato, sappiamo della milza spappolata, sappiamo delle chiavi di casa piegate ancora tra le mani, usate per difendersi e del pacchetto di sigarette (gettato) vicino al ragazzo ferito. Sappiamo che sul suo corpo è stata eseguita un’autopsia il cui esito è indiscutibile e sappiamo che, nonostante quella perizia, non è mai stata fatta giustizia. Sappiamo che gli assassini di Francesco avevano tutta l’intenzione di uccidere – l’accusa fu di omicidio volontario che, molto verosimilmente, era solo il nuovo significato da attribuire alla parola caduta – ma non sappiamo perché l’unico indagato, nonostante abbia mentito spudoratamente al processo riguardo il proprio alibi – essere andato al cinematografo Ariel per assistere alla visione de “Il Vizietto” nonostante quella sala non avesse in proiezione il film indicato – s’è potuto guadagnare con la falsa testimonianza sostenuta, il premio per non aver commesso il fatto. Il fatto sarebbe il concorso in omicidio, ma non si sa con chi. Altro vizietto tipico della giustizia dell’Italietta. Come quello di non trovare il colpevole. Che pure esiste. Come esiste quella verità storica che non può più essere nascosta, o peggio, ulteriormente negata, in attesa che la giustizia scriva la parola fine su questa feroce esecuzione.
Una parola fine che serve a non ammazzare ancora una volta Francesco, cui il Viminale, il “deputato” all’ordine pubblico della sicurezza di questa repubblica, ha negato anche la possibilità di essere inserito tra le vittime del terrorismo. Come se gli anni di piombo siano stati solo una marachella adolescenziale. Come se il suolo d’Italia in quegli anni non sia stato calpestato dall’odio politico, spesso avallato e coperto nella stanza dei bottoni con lo stesso telo bianco con cui si è da sempre tentato di coprire la verità e sotto il quale è stata sepolta la giustizia.
Sappiamo che il giovane Cecchin non era un fascista, non avrebbe potuto esserlo per una questione anagrafica – nel ’79 alla morte non aveva ancora compiuto la maggiore età – e non poteva esserlo per una questione temporale – era nato nel 1961 – ma era un militante che credeva in una Idea difesa col sangue. Quella Idea di cui oggi altri, magari suoi coetanei, hanno potuto raccogliere il testimone e le conseguenti fortune politiche ed elettorali. Raccoglierne l’eredità di intenti e di ideali. Che sono pesanti quanto un macigno. Ma non l’esempio. Quello è troppo scomodo. Non sappiamo, allora, perché in ogni occasione, inutile quanto gratuita, bisogna ricordare che in taluni partiti che ancora sono/vorrebbero essere illuminati dalla luce di quella stessa fiamma per cui Cecchin – ma non solo: penso a Falvella di cui quest’anno ricorre il cinquantenario della morte, alla strage di Acca Larentia, a Sergio Ramelli, ai fratelli Mattei, troppo piccoli persino per entrare in una sezione – ha dato la vita, non ci sia (più) spazio per i “fascisti”. Se si può ancora parlare di fascisti un ventennio dopo l’ingresso nel terzo millennio, cent’anni dopo la Marcia su Roma. Se ancora può parlare quella generazione che è viva grazie a lui e a quelli come lui, ma che si è prestata vergognosamente all’abiura. Delle strutture, dei concetti, dell’Idea. Ma non di certi simboli e di una certa simbologia, che può sempre tornare utile in termini di consensi. Compresa quella fiamma che, nonostante tutto, continua ad essere viva, che si erge pre-potente da quella base trapezoidale in cui qualcuno, più di qualcuno dotato di fervida immaginazione, ci ha visto il catafalco di chi quella Idea l’ha fondata. Quel catafalco in cui ancora non trovano riposo coloro che quella fiamma – (sep)pur senza catafalco e senza acronimi stavolta – hanno contribuito a tenerla ancora ardente. Quel catafalco simbolo di quei martiri dell’Idea da non uccidere ancora. Non oltre. Quella fiamma ancora viva, come ogni atto rivoluzionario.
https://www.camposud.it/francesco-cecchin-quale-eredita-dopo-43-anni-di-oblio/tony-fabrizio/
I FUTURI MERCENARI
È ancora fresco l’inchiostro con cui Vladimiro Putin ha firmato – rendendolo già operativo – il decreto che dà di fatto avvio alla russificazione.
Fresco come il sangue dei combattenti a Charkiv, a Irpin, a Mariupol. Nell’Ucraina da denazificare che, adesso diventa da russificare, dopo averla razziata – nulla c’entra il termine con “razza” che richiama Norimberga – che è un processo farsa per come si è svolto – né tantomeno il famoso Manifesto che probabilmente nessuno si è preso la briga di leggere, nemmeno di iniziare a leggere, tanto che già l’art. 1 recita “Le razze umane esistono. La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano ad ereditarsi”. Dunque, che che ne dicano l’anpi, i buonisti e tutta la pseudo-intellighenzia da salotto, non dice che una razza è superiore ad un’altra – ora è tempo di passare alla fase 2 dell'”operazione speciale”.
L’editto emanato – tecnicamente uzaka, è la Provda che lo dice – è un capolavoro di dettato giuridico, a partire dal giuramento, con tanto di formula ufficiale: “Mi impegno a essere fedele alla Russia, a compiere scrupolosamente il mio dovere civico e a sostenere i miei obblighi in accordo con la Costituzione e le leggi della Federazione russa”.
Dunque, un “do ut des”, come a dire “io ti do la cittadinanza facile e tu mi dai la fedeltà”. E la vita.
Cosa c’è di tanto terribile in quest’ultimo atto d’amore dell’ex agente segreto divenuto Presidente e zarista in fieri? Che tutto quanto concepito dalla mente del fine giocatore di scacchi riguarda i bambini! Solo i bambini. Quelli che le bombe altrui hanno reso orfani. Quelli che probabilmente hanno avuto il padre in trincea e la mamma stuprata, alla quale hanno portato via i figli. Magari prima che morisse. Quei bambini – oltre 4000 – che non si sa che fine abbiano fatto quando da Azovstall’ partivano i famigerati pullman che non sono mai giunti al punto di destinazione concordato.
Ebbene, “l’ultimo baluardo della cristianità” ha compiuto quest’ulteriore opera buona e ha semplificato – per gli orfani potranno giurare persino i responsabili dei ricoveri che li ospitano – la procedura di adozione a vantaggio delle famiglie russe che potranno (o dovranno?), così, adottare i bambini, orfani e no, ma i bambini, una volta diventati uomini (e donne?) dovranno assolvere a ciò che la Grande Madre Russia chiede loro, compreso imbracciare un fucile e andare al fronte per servire la Patria. Che non è la loro.
Merce umana importata, altro che ius sanguinis! O forse no, visto che per Putin l’Ucraina non esiste, che è Russia a tutti gli effetti e, in base a questa sua cartina geografica, non ha nemmeno invaso.
Merce umana che dovrà rimpiazzare le gravi perdite subite in Ucraina. Merce umana che si va a prelevare altrove per importarla e sostituire quella esistente, secondo un piano ben collaudato che dovrebbe ricordare un odiatissimo nemico ai tanti figli di Putin nostrani.
Ma d’altronde in Russia – così come in Ucraina – non è vietato nemmeno affittare un utero, perché mai si dovrebbe vietare questo tornaconto personale? Quasi una necessità. Un male neccessario.
Dunque, come non si può volere denazificare un Redis, al secolo Denis Prokopenko, che, mentre studiava filologia germanica e si laureava in lingue e letterature straniere, non ha mai smesso di concepire la sua avversione alla Russia come una questione personale: quasi tutta la sua famiglia, originaria della Carelia – oggi repubblica della Federazione russa al confine con la Finlandia – fu sterminata dall’Armata rossa nella guerra del 1939, quando il territorio passò da Helsinki all’Unione Sovietica.
Certo, fa paura che a 30 anni e fresco di studi, quando il mondo è tuo e si dovrebbe solo andare in giro per locali, ti cuci la patch della Carelia sull’avambraccio e tenti di rendere giustizia ai tuoi avi. E agli sconosciuti come loro.
Anche Denis è in Russia, ma Putin si è guardato bene dal mostrare il trofeo di guerra, il simbolo della denazificazione, della sua famigerata e celebrata vittoria con le manette ai polsi. Così come al posto dei laboratori segreti, dove tutti giocavano al piccolo chimico nei cunicoli segreti dell’acciaieria, ha trovato solo quasi 3000 tonnellate di acciaio da razziare. E ha razziato! Ma le prove dell’esistenza dei laboratori le porta all’Onu. Che è americano e corrotto nonché parte integrante di quell’apparato criminale che (i figli di) Putin dicono/dice di avversare.
Che poi è ciò che i gementi e piangenti figli di Putin hanno già vissuto con il loro eroe già dimenticato, tale Puzer Stefano, di professione portuale, incarnazione di infinite identità del metaverso e, manco a dirlo, uomo di Putin – come lo era Salvini. E Draghi – quando fu mandato a comprare il sale da un palazzo all’altro, poverello.
Il copione si ripete, sempre uguale, ma tanti – ormai troppi – ancora una volta si prestano a questa recita a soggetto. Ad essere spettatori. Secondo le voci fuori campo della contro(in)formazione – che va unicamente contro il bene dei tanti seguaci fondamentalisti – riducendo tutto a tifo, a piaggeria, a partigianeria.
Non è per me una vittoria riportare una simile bestialità neo-bolscevica, in tanti interpreteranno la fonte, si appelleranno alla traduzione della lingua, dovranno incipriare tutto per fare apparire, non essere, tutto bello e buono. Persino buonista. Finanche (auto)illudendosi. Per continuare a credere senza capire. A tifare. Quando mai in una guerra si tifa? La guerra che doveva portare alla denazificazione da parte di Putin e che i suoi seguaci dal divano hanno condotto contro Azov. Che si è “arreso”. Che poi si è riorganizzato e combatte per la propria Terra, per la propria Patria versando ancora il proprio sangue.
La guerra tifata in differita che ancora non finisce, ma che Putin avrebbe già dovuto vincere perché la denazificazione è avvenuta. E, invece, va avanti. Verso l’accesso al mare. Verso nord. Verso quell’imperialismo che vede nell’Ucraina solo il primo boccone di un lauto banchetto. In salsa americana. Che ha pregato tanto la Russia di invadere l’Ucraina. Che nel conflitto Nato-Russia non invia più i missili a medio raggio. E che, dopo oltre tre mesi, ancora non vede scambiarsi un solo colpo tra Washington e Mosca. Ma che rivede Kissinger. Che è lo yenkee che riarmò e rialzò la Russia dopo il crollo dell’Urss e che oggi ri-apre a Mosca. Ancora. Oggi, come ieri. Come a Yalta.
È tutto così tremendamente chiaro che lo capirebbe persino un bambino. Proprio come quei bambini ucraini “rapiti” e “adottati” da Putin.