Fenomenologia dellA LaurA BoldrinA

Laura BoldrinA nacque femmina. Con tutti gli attributi. Quelli di serie di cui si è pur avvalsa per lasciare una traccia di sé.

Ma andiamo con ordine.

Laura – nome oggetto della più retrograda medioevale espressione poetica maschilista del padre (aborro!) fondatore (trasecolo!) della Lingua (femminile!) italiana, precursore dell’Umanesimo, tal Cesco Petrarca che passò una intera esistenza a comporre prosa e versi per affermare sostanzialmente un solo concetto: “Dite a Laura che l’amo” – abita questo pianeta sovraffollato dal 28 aprile 1961.

Prima – perché donna – di cinque figli di una famiglia pseudopatriarcale – il papà era avvocato, ma la mamma insegnante d’arte – trascorre l’infanzia e la pubescenza nella bucolica cornice del paesino maceratese di Matelica che abbandonerà alla volta di Jesi, dove conseguirà il diploma di maturità classica. Inutile riportare il voto, consideriamolo pure un 6 politico.
Dopo un ventennio che era venuta alla luce, decide di andare a lavorare (termine d’altri tempi!) in una piantagione di riso in Venezuela. Magari, fosse stata al servizio del caporalato pugliese, i danni dell’aggreSSione solare sarebbero stati più contenuti.
La raccolta del riso, o magari la sua condizione (femminile) di figlia di papà, le donerà un’agiatezza economica tale che le consentirà di intraprendere un viaggio da nababbA alla scoperta del centro America passando per Panamà, Costa Rica, Nicaragua, Honduras, Guatemala, Messico e Stati Uniti, fino a New York.
Un Di Battista che c’è arrivata prima, in quanto donna.
Ma quanto cazzo si viene remunerati nella raccolta del riso seppur per pochi mesi?
“Folgorata” nella megalopoli della Grande Mela, decide di scindere in due l’anno solare e dedicare sei mesi allo studio e gli altri sei a viaggiare. Pur non dedicandosi nemmeno più alla raccolta del riso.
Dopo quattro anni, in realtà due, ovvero quattro semestri, se consideriamo le altre quattro metà dell’anno impiegate a viaggiare per il pianeta, si laur(e)a in Giurisprudenza presso La Sapienza di Roma. Chissà, se frequentando l’ateneo, si è mai interrogata sul suo stile architettonico e, se sì, chissà perché non ne ha mai chiesto l’abbattimento, esigendone le rovine come prova.
Intanto già si “interessava” di filantropia unendo la passione del giornalismo trasformandola in risorsa all’AISE, l’Agenzia Italiana Stampa e Emigrazione, poi impiegata alla Rai, ma non nelle risaie, e trova anche il tempo per convolare a nozze (vero!) col giornalista Luca Nicosia dalla cui unione (verissimo! Di maschio e femmina!) è di fatto nata l’erede unica Anastasia.
Luca l’inseminator, però, non è il compagno con cui lA LaurA si è accompagnata, almeno fino al 2015, ma si tratta del giornalista di Repubblica, The Guardian e The New York Times Vittorio Longhi di origine eritrea e parte in causa nell’operazione di regime change contro il Presidente Isaias Afewerki, giustificata dal solito pretesto occidentale dell’esportazione di democrazia e dei diritti con annessa demonizzazione del dittatore ostile ai piani dei poteri forti mondialisti per il tramite di padre Mussie Zerai, ricevuto alla Camera dei Deputati della Repubblica italiana quando la concupita del Longhi occupava lo scranno di terza carica dello stato, senza mai chiarire se si fosse trattato di conflitto di interesse, visto che l’organizzazione Progressi di Longhi ha come mission il fatto di “fare pressione sulle istituzioni” ed è inserita in un circuito chiaramente facente capo a George Soros, di cui conosciamo le ingerenze sui governi nazionali.
Ma LaurettA non ha certo tempo da perdere con queste quisquilie e pinzellacchere: sarà per questo che ha “dimenticato” di pagare la liquidazione alla sua colf che è sparita, pur se doveva ricevere i suoi soldi? O perché “i conteggi erano difficili a farsi che hanno richiesto tempo”, conti che non fa certo lei, visto che, essendo una donna sola, non si prenota nemmeno il parrucchiere, ma chiede di farlo alla sua assistente parlamentare che, però, dovrebbe fare altro e per cui alla lavoratrice non versa nessuna remunerazione aggiuntiva? Ma solo perché lei non sa di conti.
La LaurA, però, nonostante sia una donna tutta d’un pezzo, non disdegna di e-mulare e inginocchiarsi per un’uccisione di un afroamericano della solita Police-sceriffo, ma il suo naso è così lungo che non vede le nostre Desirèe Mariottini, drogata, stuprata ancora vergine in un tugurio occupato da spacciatori clandestini africani e poi ammazzata nel quartiere San Lorenzo a Roma e Pàmela Mastropietro anche lei drogata, stuprata, accoltellata, squartata mentre era ancora viva e messa in due valigie abbandonate sul ciglio della strada da Innocent Oshegale. Erano donne, ma forse troppo bianche. Nessun piegamento di ginocchia o chiusura di sinistro pugno per Ermanno Masino, Daniele Carella e Alessandro Carolè, uccisi a picconate dal Adam Kabobo perché “sentiva le voci”. E neppure per Stefano Leo, giovane lavoratore autoctono, ammazzato da un Said qualunque perché italiano e “per togliergli tutte le sue idee, il suo futuro, le promesse e l’amore dei genitori”. Nessun silenzio di otto minuti e passa rotto dal grido “Non riesco a respirare” per David Raggi ammazzato da Aziz che con un coccio di bottiglia gli ha tagliato la gola. Né per le vittime del terremoto de L’Aquila, né per i morti del Ponte Morandi che rovinarono il Ferragosto a CasalinA. Però, ha indossato i panni della Vesta del p.c., del politically correct e con la solita sinistra supponenza continua a voler dettare l’agenda del più becero globalismo capitalista. Secondo cui è una vergogna tutta bianca quel nostro mos maiorum che risponde al nome di Tradizione. Culturale e civilizzatrice. Secondo cui persino la Legge – che è già usata ad abusata a proprio USO & consumo, dovrebbe creare categorie “pro-tette” in base alle quali creare autentiche discriminazioni. Dell’Ideologia sottoposta al Diritto, della Giustizia al politically correct. Reati più gravi, se a subirli sono gay e trans cui va dato più spazio nella società, in tivvù, con giornate apposite e apposite leggi. Nonostante quelle già ci sono e in loro tutela. Ne servono altre. Di più. Diverse. Mentre nessuna tutela è riservata alla procreazione, ai figli, alla famiglia. Di eterosessuali. Agli eterosessuali. Che non sono tutti di sinistra. O meglio, non ci sono gay di destra. Maschi troppo maschi. Sarà per questo che alla giornata dedicata alla Repubblica non ha applaudito i Leoni della Folgore? Fasci troppo fasci? O perché per lei semplicemente l’Italia non esiste. E con lei gli italiani. Lei, da figlia del mondo, cosmopolita, zingara, considera l’Italia un corridoio globale, la Casa di accoglienza dell’Africa e del circondario. L’Islamismo con i suoi riti inaccettabili in casa nostra la preoccupa poco o niente rispetto all’islamofobia. La violenza dei centri sociali sarà equiparata a quella delle risorse importate. E azzerata. Vuoi mettere la violenza di un saluto romano ad una commemorazione per i caduti? Vuoi mettere la violenza delle conquiste sociali, di quello stato sociale vanificato e chiamato adesso welfare. O la violenza con cui è stata debellata la mafia. E l’elenco sarebbe ancora lungo, ma la BoldrinA è una donna che bada alle parole, mica ai fatti! Ecco che si spiega la sua personale (e solitaria) vandea contro i suffissi (ops… suffesse) di parole e aggettivi maschili. Insomma, che la lingua italiana non contempli il genere neutro, ma solo maschile e femminile, alla nipote matta di Matteotti non va proprio giù. E se ancora non ha dichiarato la messa al bando dell’Accademia della Crusca è forse perché sia sostantivo che aggettivo sono femminili.
Ieri l’ultima – solo in senso temporale – delusione: il Senato, l’altro braccio boldrinesko di questa inesistente repubblica ha sentenziato che nel linguaggio istituzionale – ufficiale per la compagna gauche caviar Cirinnàchevitadimerda – non è inclusa la partita di genere.
Che genere di parità!?! Magari quella che ha portato altri suoi omologhi, diversamente (da lei) illustri predecessori ad inabissarsi, dopo aver tolto il culo dalla cadrega della Camera? E non solo i predecessori, visto che il suo figlioccio di governo risponde al nome di tal Robertino Fico. Altro sinistrato, altro defecatore sul 2 giugno e sulla (di loro) Repubblica antifascista. Altro pugnochiusista ed ennesimo rigurgito postumo del sessantottismo. Magari la finiamo anche di non pagare colf e badanti. E di fare i bagni a mare a Castelporziano, circondati da Corazzieri costretti a guardar le chiappe bianche alla PresidentA. Nemmeno Capalbio. Nemmeno lì sare(s)te tutti liberi e uguali.

19 LUGLIO 1992 : TRENT’ANNI DALL’OMICIDIO DI PAOLO BORSELLINO E DEI POLIZIOTTI DELLA SCORTA. Trent’anni di depistaggi e di silenzi colpevoli!!

Questa è una storia all’incontrario, che si inizia a raccontare dalla fine, che è tale solo per la sua cronologia, degna di un Paese (purtroppo) rovesciato.
È una storia di contraddizioni tipiche e topiche di questa Italia ormai identificazione dell’ossimoro per antonomasia. È una storia di ricordi, che per ricordare ti impone di dimenticare.
È la storia dei 30 anni della strage di Via d’Amelio, che 30 anni dopo ancora non si chiama con il proprio nome: depistaggio! Perché depistaggio è “stato” o, se vogliamo, di depistaggio si è “trattato”.
Accade così che si ricorda la morte di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli con un florilegio d’occasione, opportun(istic)amente preparato. Miscellato. E miscelato. Accade così che nemmeno quest’anno – e quest’anno più che mai – ci si ricorderà di dimenticare le origini del personaggio Paolo Borsellino, quel giovane studente liceale a dirigere un giornale destrorso – L’Agorà – e poi nel 1959 da studente di Giurisprudenza iscriversi al FUAN, l’organizzazione giovanile dell’MSI, rappresentante della lista “Fanalino”, fino ad entrare a farne parte e diventare in solo tre anni il vice di Guido Lo Porto.

Suo amico di allora era Pippo Tricoli, storico esponente, o meglio, esponente storico della Destra siciliana che gli presentò un altro uomo “di valore”, un giovane assistente universitario, Adriano Romualdi, altro intellettuale della “parte sbagliata” morto prematuramente a 33 anni in uno strano incidente stradale.
Personalità della parte sbagliata, ma di talento, che avevano il senso dell’onore e la conoscenza della Tradizione, che non consideravano la coerenza e la fede in un’Idea, la virtù degli imbecilli. E che rischiavano per le proprie Idee anche la vita perché, come scriveva Ezra Pound, “Se qualcuno non è disposto a lottare per le proprie Idee, o queste non valgono niente o non vale niente lui”. E Paolo Borsellino è uno che per le sue Idee aveva sentito forte il desiderio di mettersi al servizio della Nazione e di lottare contro la mafia, fino all’estremo sacrificio della sua vita, accolto con eroico fatalismo.
Paolo Borsellino, però, non è il solo eroe e martire di questa ingloriosa repubblica, fastidiosa da quando ha avuto l’ultimo – speriamo vivamente di no – sussulto di orgoglio patrio con la faccenda dell’Achille Lauro. Che, è bene sappiano le nuove generazioni, non è solo il sindaco più glorioso che Napoli abbia mai avuto, né l’indegno (del nome) urlatore defecato a Sanremo.
Se si parla di eroi caduti nella lotta alla mafia non si può non ricordare il giornalista Mauro De Mauro, aderente alla RSI con la gloriosa X MAS, corrispondente dalla Sicilia per più giornali, probabilmente eliminato per le sue indagini scomode – allora il giornalismo si faceva così – sulla morte di Enrico Mattei. Scomodo come Beppe Alfano, una vita tra Fronte della Gioventù, Ordine Nuovo e Movimento Sociale-Destra nazionale, per le sue inchieste – era un giornalista! – sugli appalti pubblici sui cui Cosa Nostra aveva messo le mani e che lo “premiò” con tre colpi di pistola. E, andando a ritroso, come non citare il Prefetto di ferro, Cesare Mori i cui risultati non hanno bisogno certo di presentazioni, ma di tanta mistificazione, misto a revisione, vista la sua appartenenza di governo. Risultati inquinati dagli stessi autori dello strappo di Sigonella, mezzo secolo prima. E sfidiamo a trovare qualcuno che sui libri si storia – stando al lasso di tempo di questo si tratta – abbia trovato anche solo citato il nome di Mariano De Caro, ragioniere formatosi alla Real Scuola Gagini di Palermo, universitario e tiratore scelto nella fanteria Trapani e poi inviato al fronte con il grado di sottotenente nella Grande Guerra. Avvicinatosi ben presto ai Fasci di Combattimenti spese la sua vita – insieme ad altri ex combattenti – nel tentativo di alimentare sentimenti di riscossa tra i braccianti e i salariati di Misleri dove ancora i padroni delle terre e i latifondisti pensavano solo allo sfruttamento dei lavoratori e al proprio tornaconto personale, facendo leva su minacce e oppressione.
Anche per questo occorre ricordare di dimenticare. Allo scopo, è utile qualsiasi favoletta preconfezionata come quelle pronte da spacciare per ogni occasione. Chi se ne frega, allora, di fare sapere quale sia il depistaggio se il processo Borsellino quater (che sta per quattro processi ognuno composto di tre fasi di giudizio ha stabilito che c’è “stato” inequivocabilmente il depistaggio) se le accuse a carico degli imputati sono andate in prescrizione! Che non significa che non hanno colpe. Dunque, un depistaggio c’è stato, ma non si sa chi sia stato. Neppure quei soggetti-oggetti pezzi di istituzioni accusati di aver vestito il “pupo” Scarantino sulla cui parola sono state emesse sentenze – definitive, anche di ergastolo – quando è appurato, dimostrato e cosa nota che Scarantino è ritenuto inattendibile. Uno che – lo dice lui, eh! – in una riunione deliberativa di commissione (mafiosa), quella in cui Totò Riina comunicò di uccidere anche Borsellino e si raccomandava pure di fare attenzione perché Falcone, se fosse stato al suo posto in auto, sarebbe stato ancora vivo, entra a prendere un bicchiere d’acqua. In una riunione di commissione. Deliberativa. E su queste dichiarazioni di questo personaggio, in nome del popolo italiano di questa disastrata repubblica si è emesso una sentenza di condanna all’ergastolo di un povero cristo – chissà cosa ne pensa del quesito ad hoc del referendum sulla giustizia di cui tanti se ne sono fottuti – che il lunedì mattina (20 luglio) apre la sua officina e si accorge di un furto di targhe di una 126 e, recatosi al commissariato Brancaccio, viene trattato come il peggiore dei criminali. Che ad esplodere in via D’Amelio sarà una 126 lo si appurerà solo nel tardo pomeriggio del 20 luglio, quando un tecnico FIAT venuto da Termini Imerese riconoscerà un blocco motore compatibile(!) con quelli montati sulle 126 ma che dalle immagini girate dai Vigili del fuoco non compare mai. 126 che viene già menzionata nel lancio di un’agenzia di stampa (Ansa) tre quarti d’ora dopo l’esplosione. Dopo l’arrivo dei Servizi Segreti (americani) che arrivano in sito nel giro di un quarto d’ora e “vestiti tutti uguali e senza una goccia di sudore – è domenica 19 luglio a Palermo! – freschi che sembravano stessero dietro l’angolo” dirà un poliziotto in qualità di teste. È pur vero che in Via D’Amelio c’erano tutti quel 19 luglio. Anche chi fece repertare tutto e, raccogliendo la roba in sacchi della spazzatura neri, di quelli condominiali e catalogando alla carlona con un generico “si sequestra quanto ivi contenuto” – cioè nulla – inviò tutto a Roma a disposizione dell’FBI. E perché? E perché l’FBI non ha mai nemmeno fatto (pervenire?) un verbale? Una catalogazione? C’è una pista americana anche per via D’Amelio? Gli stessi americani che non digerirono Sigonella? Che, pare, siano stati la regia della strage di Capaci, dove gli esperti di esplosivistica hanno “sentenziato” che non si può fare saltare in aria un’autostrada tramite un cunicolo, se non vi è un muro laterale che faccia sì che l’esplosione non avvenga appunto di lato?

E che in via D’Amelio il depistaggio inizi proprio dalla 126 di cui gli inquirenti sono così sicuri tanto da fare rimangiare ai “pentiti” le dichiarazioni che l’esplosivo è stato messo in un bidone della calce. Gli stessi inquirenti, coadiuvati da “pezzi di istituzione” che hanno distrattamente (o)messo verbali – inesistenti per loro stessa ammissione in fase processuale di interrogatori di taluni pentiti – in faldoni di “ignoti” ovvero tra le denunce dormienti dello scippo e del furto di bicicletta.

Ma se la legge è uguale per tutti, ma c’è qualcuno più uguale degli altri, perché mai questo non dovrebbe valere per i pentiti i cui reati più gravi sono stati, più persone hanno ammazzato direttamente proporzionale è il loro valore? Pentiti che non esistevano quando ancora nelle istituzioni non avevano dato il compito di creare il “pentitificio” di stato a chi è assente da ogni processo, da ogni intervista e non risponde alle accuse né ad elogi. Niente. Spariti. A mo’… di latitante.

Che ha, però, utilizzato – come altri – la mafia e la Sicilia quale trampolino di lancio per sfavillanti carriere. In Polizia come in Magistratura. Qualcuno pure in politica, dalla magistratura, per poi tornare indietro e riciclarsi. Come se nulla fosse. Magari mettendo in croce omologhi, altri valorosi personaggi quali funzionari, dirigenti, numeri uno dell’apparato dell’italica intelligence – penso al dr. Bruno Contrada e alla sua odissea giudiziaria – che hanno dovuto subire l’onta dell’infamia solo perché si sono dovuti sporcare le mani nella lotta alla mafia, visto che la figura del collaboratore di giustizia non era ancora stata creata come stipendiata dallo stato. Magari incurante della memoria a tempo e delle dichiarazioni prive di riscontro come l’incontro con persone morte, incontri avvenute in stanze mai esistite e in tempi incompatibili per delinquenti rinchiusi in carcere. Al 41 bis. Oppure no. Il che apre alla connivenza istituzionale. Pezzi di… istituzioni che anche quest’anno saranno in prima fila a Capaci prima e in via D’Amelio poi, magari appenderanno anche il peluche petaloso in via Notarbartolo raccomandando(si), ancora una volta, di ricordare di dimenticare.

https://www.camposud.it/19-luglio-1992-trentanni-dallomicidio-di-paolo-borsellino-e-dei-poliziotti-della-scorta-trentanni-di-depistaggi-e-di-silenzi-colpevoli/tony-fabrizio/

IL RICORDO DI CARLO FALVELLA A 50 ANNI DAL SUO MARTIRIO. E il Comune di Salerno pensa di intitolare la strada ove fu assassinato, ai martiri del 25 Aprile!!

“Ho scelto Filosofia, perché potrei comunque continuare a insegnarla anche senza dover scrivere. Ma devo far presto a laurearmi. Devo assolutamente riuscirci prima di diventare cieco”. Questo era Carlo Falvella, diciannovenne studente di Filosofia con una grave menomazione della vista che avrebbe perso – secondo i medici – all’età di trent’anni. Trent’anni che Carlo non vedrà mai perché la luce sulla sua vita si spegnerà prima. Molto prima.
Di Carlo, così come per la maggior parte dei martiri caduti per la rivoluzione negli anni di piombo – che non è solo un periodo di stragi, anzi – ormai conosciamo con dovizia di particolari ogni dettaglio, eccezion fatta per alcuni colpevoli.

Terzo di cinque figli e una passione quella per la politica ereditata da mamma Flora – il papà era un liberale moderato, cattolico tradizionalista e mutilato di guerra, ma non era fascista. Ai figli Carlo e Pippo che si avviavano sulla strada della militanza dirà quasi profeticamente “Io non ho nulla in contrario, ma sappiate che la politica è una statua di fango e voi vi ci dovrete sporcare le mani” – che lo porta a soli 19 anni a presiedere il FUAN cittadino, l’organizzazione giovanile missina.
Fu una spallata sul lungomare Trieste, chissà quanto volontaria, visto che il giovanissimo Carlo vedeva ad ombre, per fare armare la mano dell’anarchico Giovanni Marini che successivamente e non prima che gli animi erano stati stemperati, in serata, a freddo in via Velia e in compagnia di altri due degni compari, affonderà il coltello nel cuore di Carlo. Rigirandocelo più volte.
Nonostante la corsa in ospedale e l’operazione d’urgenza, Carlo morirà per una lesione all’aorta.
Un omicidio che divise per anni la città di Salerno e non solo e dove cinquant’anni dopo è ancora vivo il ricordo, grazie anche ai suoi fratelli Pippo, diventato il punto di riferimento della Destra cittadina, decisamente meno mite del fratello e che avrà modo dire che “era morto il fratello sbagliato. Non si poteva uccidere Carlo che era una pasta di pane” e Marco presidente del Comitato Vittime del Terrorismo che, ancora dopo cinquant’anni, attraverso proposte di legge, sit-in e colloqui con politici più disparati non riesce a far inserire il nome di Carlo tra le vittime del terrorismo e dell’odio politico.
Quella politica- anche extraparlamentare – che non è mai mancata nel profondere sostegno al Marini, anzi facendosi promotrice – da Lotta Continua al Partito Comunista – di una vera e propria campagna innocentista, anche stampando – senza vergogna – il pamphlet “Il caso Marini”, in cui l’anarchico non viene certo descritto come un vile assassino, bensì come un compagno (proprio così!) che si è difeso da un’azione portata avanti da una decina di Fascisti (con Carlo c’era solo il fratello Pippo e Giovanni Alfinito, camerata e amico ferito anch’egli dalle coltellate).
Ovviamente non mancò anche l’associazione creata ad hoc per il sostegno (solo?) economico: è il caso di Soccorso Rosso che vedrà schierata addirittura l’intellighenzia “no-bel” quali Dario Fo e la di lui consorte la signora Franca Rame.
Campagne così innocentiste e strenui sostenitori di quella verità secondo cui “uccidere un fascista non è reato” oppure “Tutti i Fascisti come Falvella, con un coltello nelle budella”.
Erano anche questi gli anni di piombo, gli anni dell’omicidio Cecchin, ucciso per un manifesto probabilmente mai strappato, dell’assassinio di Sergio Ramelli, finito a colpi di chiave inglese, dell’omicidio di Primavalle, dove si bruciarono vivi i fratelli Mattei – uno non aveva che otto anni – della strage di Acca Larentia e poi, dall’altra parte, delle carriere folgoranti, dentro e fuori dal Parlamento, delle protezioni e delle sponsorizzazioni, della legge applicata e di quella interpretata.
Al funerale di Carlo partecipò commossa una vera moltitudine immensa di persone – circa diecimila persone – tutto lo stato Maggiore dell’MSI con a capo Almirante e il suo ricordo oggi è più vivo che mai, al netto delle strumentalizzazioni “parlamentarizzate” che non poco fastidio hanno creato alla famiglia, addirittura non invitata alle celebrazioni del ricordo.
Ricordo che è più attuale e valido che mai, che fedelmente incarna quella torcia che non si spegne, quel testimone passato e per cui bisogna impegnarsi anche solo per esserne degni. Degni del coraggio per quella Idea resa immortale con la morte, quella Idea che vive e che fa luce e strada, quella fiamma che ancora passa di mano in mano, dai veterani ai più giovani, quella Idea che,  proprio come Carlo, vive ancora. Che, come ebbe a dire ai funerali mamma Flora “hanno ucciso Carlo ma non la sua Idea”. A distanza di cinquant’anni ha ancora ragione lei.
https://www.camposud.it/il-ricordo-di-carlo-falvella-a-50-anni-dal-suo-martirio-e-il-comune-di-salerno-pensa-di-intitolare-la-strada-ove-fu-assassinato-ai-martiri-del-25-aprile/tony-fabrizio/

DE LUCA CONTRO LE BUFALE (CASERTANE). E’ NON E’ UNA BUFALA !!!!

Sembra una vera e propria crociata, una vandea istituzionale contro il mos maiorum partenopeo, usi e costumi della Neapolis di Partenope e di Pulecenella. Non bastavano i casi – montati ad arte? – sulle stese, fortunatamente non quelle di camorra, dei panni “dind’ ‘e viche”, prima vietati e poi riviste dall’inquilino di Palazzo San Giacomo.  Piuttosto che sul divieto di tirare quattro calci ad un pallone in strada o peggio ancora sotto la Galleria Umberto, in una città dove il calcio è monopolio ma le strutture sportive pubbliche non esistono…….
Eppure, vi è una “guerra” ben più silenziosa e  ad  ampio raggio che dal palazzo della Regione Campania il presidente De Luca ha ingaggiato contro un’altra eccellenza campana. D.O.C., D.O.P. e I.G.P.
Insomma, Vincenzo De Luca già da tempo, tra il silenzio (complice?) del quarto potere, si è scagliato contro le bufale campane ordinandone l’eradicazione. Abbattere. Sopprimere. Cancellare, il diktat di Delucadonossor, per dirla con Terronia Felix della Salvadore. E con un’incidenza pari o superiore al 18% si abbatte un’intera stalla!
Questa è la ricetta di Vicienzo e, a suo dire, concordata in base a delle indicazioni ministeriali atta a combattere il fenomeno della brucellosi che è ritornato – a meno del 20% – nell’agro aversano e che, nel primo trimestre del 2022, ha visto l’ambito traguardo (istituzionale) raggiunto di oltre 1400 bufale sane abbattute e il fallimento di oltre 300 aziende, soprattutto in Terra di Lavoro.
Di parere contrario e certamente critica la posizione degli allevatori che, tra il disinteresse della stampa locale e nazionale, stanno inscenando proteste e blocchi stradali per sollevare il problema della mattanza delle bufale e del disastro dell’intero comparto produttivo il cui unico colpevole sembra essere individuabile nella sola persona di Vincenzo De Luca. Uno dei segnali che indicano che la situazione tra gli allevatori e nelle campagne casertane stia diventando sempre più critica, anzi degenerando.
De Luca, dal canto suo, forte dell’esperienza dei proclami, incurante di ciò che gli addetti ai lavori toccano con mano e che rischiano di non toccare più,  annuncia tronfio un doppio obiettivo: la salvaguardia del comparto e quello della salute. Resta incomprensibile immaginare come ottenere questo risultato. Ma ciò non vieta al governatore col lanciafiamme di affermare la sua posizione e i suoi malcelati intendimenti:  e cioé che la salvezza del comparto passa per la completa eradicazione dei capi di bestiame! Ammazziamo tutte le bufale e saremo salvi, dice Vicienzo. E non moriremo nemmeno di fame, chiude “orgoglioso”, mentre mostra il pugno di ferro e la ferrea volontà di non farsi intimorire da nessuno. Nemmeno da chi in quel settore ci è cresciuto, ci vive e… ci mangia. È il caso del portavoce del patrimonio bufalino Gianni Fabbris che da mesi fa notare che si sta andando in una direzione diametralmente opposta rispetto a quella della tanto sbandierata salvaguardia: fino al 2014 in Campania (dove pure già esisteva il problema che, chissà perché, come tutti i problemi da due anni a questa parte assumono i caratteri dell’emergenza) esisteva un piano che “funzionicchiava” (semicit.) e da circa un decennio. Il tutto era incentrato, manco a dirlo, sul vaccino. Che se non era la manna dal cielo, tuttavia, per dieci anni ha rappresentato uno dei capisaldi della strategia interventistica. De Luca, invece, questa volta è contrario al vaccino – e non è una (sua) macchietta! – anzi, pare sia del parere di fare “terra bruciata”. Come Attila, radere al suolo. Peggio di Attila. E non c’è fenice, né bufala che tenga!
Una vittoria, seppur di Pirro, però, è stata portata a casa dai comitati del settore che hanno ottenuto che la Regione Campania riconoscesse di non poter dare continuità al fallimento delle aziende trasformate in veri e propri bersagli dall’Amministrazione De Luca, ma piuttosto, mettendo in campo gli accorgimenti proposti dagli allevatori, ovvero insistendo sulla strategia delle vaccinazioni e del monitoraggio costante degli animali. Un successo importante che, però, non ha trovato seguito nelle aule sorde e grigie del Ministero della Salute, dove il piano proposto (e parzialmente accolto) è rimasto senza speranze. Infatti, agli occhi di chi ha letto il piano, pare proprio che il progetto sia stato scritto in maniera confusa e pasticciata con le norme emanate con il solo fine di vederle fallire.
Inspiegabile come la totale eradicazione di brucella e tbc significhi una insensata punizione per le aziende che vedrebbero così abbattuti migliaia di capi di bestiame perfettamente sani.
Tra proteste di piazza, assemblee cittadine e manifestazioni al suono di cortei funebri, c’è chi ci trova addirittura una costante: il sistema salernocentrico, diventato un’autentica epidemia che invade ogni campo dello scibile umano e animale. A dispetto del 4% dei fondi pubblici concessi agli operatori zootecnici dell’agro aversano, infatti, ben il 41% degli aiuti viene dirottato nel salernitano, che non vive la stessa drammaticità dell’altra zona di produzione di mozzarella di bufala campana, fa notare ancora Fabbris. Insomma, “ccà nisciuno è fesso”  e, poiché la protesta degli allevatori il 16 luglio si sposterà a Roma, non resta che augurare: “Mamma d’ O’ Carmene”, aiutali tu!
https://www.camposud.it/de-luca-contro-le-bufale-casertane-e-non-e-una-bufala/tony-fabrizio/

E BASTA! È SOLO UN SUCCEDANEO.

E basta! È solo un succedaneo.

Sbaglierò, ma io tra la pandemia e la guerra in Ucraina c’ho sempre visto lo stesso copione. Così come nelle orgasmiche reazioni post-discorso di Putin di venerdì 17 ci vedo lo stesso piatto già servito quando i Mc Donald’s hanno abbassato le serrande a casa di Putin. E tutti lì a leccarsi le dita per l’ennesima mossa del fine giocatore di scacchi dell’ex KGB, dell’ottimo stratega e dell’impareggiabile (geo)politico. Serrande rialzate, nessuna perdita dei posti di lavoro, negozi chiusi e specialità yankees sostituite da prelibatezze locali. Questa la gattopardesca alternativa. Nient’altro che un succedaneo. Persino sul nome non vi è originalità: la direzione della catena di ristorazione pubblica Yeda i tochka (Cibo e basta) del territorio di Primorye (estremo oriente russo) ha detto di esigere che i fast-food Vkusno i tochka (Gustoso e basta), ex ristoranti McDonald’ s in Russia, vengano ribattezzati ed è pronta ad andare in tribunale perché «a causa del nome della nuova catena, l’attività sarà considerata un derivato, un’imitazione». Lo ha dichiarato all’agenzia Interfax il proprietario della catena Yeda i tochka, Sergei Pankratov.
Identica situazione accaduta subito dopo che l’inquilino del Cremlino ha tuonato contro il vecchio ordine mondiale e a favore del nuovo ordine mondiale. Succedaneo per succedaneo. Poco cambia, allora, se la plenaria sia quella di Davos piuttosto che quella di Leningrado, ops, San Pietroburgo: sempre di un forum economico si tratta. E i succedanei non finiscono certo qui: al mondo non esistono solo gli Usa – giustamente – ma anche la Russia, dice l'(auto)erede di Pietro il grande, con perfetti toni da g.f. che sta per guerra fredda e, come allora, ognuno vede e vuole il mondo in due blocchi contrapposti. Ma poi neanche tanto.
“L’Europa va verso un’ondata di radicalismo e cambio d’èlite”, quella Europa Occidentale dove “ i reali interessi delle persone sono stati messi da parte”. E non saranno certo centrali con l’avvicendamento di un altro imperialismo. Centrale deve essere “l’economia basata sul business privato”. Non è Draghi che parla, è sempre Putin. Giuro!
Vabbè, un leader vale l’altro. D’altronde Putin oggi non è forse il succedaneo del Trump di ieri? Il liberatore dallo stato profondo di Washington? Di Davos? Di Bruxelles? Ancora un succedaneo. Continuo. Ancora un padrone. Che si finisce per adulare. Ora come allora. A Roma, come ammalati cronici da sindrome di Stoccolma. Senza esserne mai inspiegabilmente colmi. Siamo veramente il colmo.
Il problema – è lapalissiano – non è Putin o gli Usa, ma continua ad essere (que)gli Italiani ormai disabituati a fare i cazzi loro. Che s’industriano a dissertare e discettare di Davos senza nemmeno sapere se il mercato sotto casa si tiene ancora. Se gli italiani, loro – noi – pian piano abituati al reddito di cittadinanza quale stipendio universale, possono ancora permettersi un chilo di mele, divenuto ormai bene di lusso. Se le mele crescono ancora, vista la siccità che diventa funzionale al razionamento che da emergenza diverrà norma. E lo decidono proprio vinti di Putin.
Quelli che continuano a fare il bello e il cattivo tempo in Italia. Ma che ci frega? Tanto Azov è stato sconfitto, però nessuno l’ha visto. Che ci frega se l’acciaieria è stata presa, ma la sola cosa che si è trovata è la bellezza di 30mila tonnellate di acciaio che lo zar ha puntualmente depredato? Se l’Ucraina è da denazificare, ma chi se ne frega se Putin dice che l’Ucraina con i confini come la conoscevamo finora non esisterà più – denazificare, però, vuol dire deucrainizzare e russificare -. Che poi è la stessa cosa che sosteneva chi accusava l’orso siberiano di imperialismo, inesistente agli occhi dei suoi figli autoproclamatisi adottivi e che vedono nella (non) invasione del Donbass tutto, eccetto che mettere le mani sulle ricchezze della non-Russia.
Conoscono le strade di Bucha su cui hanno condotto sofisticatissimi studi con l’ausilio di Hearts, di fotografie satellitari – un uovo sodo lo sapete ancora fare? – e non si accorgono sotto al naso della Via della seta attraverso cui quegli scappati di casa dei 5 stelle ci hanno portato la guerra in casa. Va dato atto che sono stati bravi, sono riusciti nel loro intento, grazie a tanti di voi. Gli stessi che, come biascicate, hanno perso, ma continuano a stare in sella. Che sono pure incapaci, ma servono quali utili idioti. E il potere glielo avete dato voi. Li credevate l’alternativa, il dissenso, si sono rivelati un succedaneo. Così come lo è l’opposizione interna del governo e quella esterna allo stesso governo. Che sono alleati e si scornano, ma invece di scornarsi davvero sono coalizzati. Dobbiamo poi gioire perché si è resistito – le parole non si scelgono – al siero e alla certificazione – cosa sacrosanta – pure se a settembre si ritornerà con i ricatti del siero e della certificazione pure per lavorare.
E la prossima volta che si scenderà in piazza – solo per i più temerari, sia chiaro – sarà per replicare piazza Tienanmen. Perché anche la Russia sarà cinese e stavolta non avremo nemmeno le buste della spesa in mano.

FRANCESCO CECCHIN: QUALE EREDITA’ DOPO 43 ANNI DI OBLIO???

E con questo 16 giugno sono quarantatré. Quarantré gli anni trascorsi dalla morte di Francesco Cecchin, volato nell’olimpo degli eroi, dopo essere volato dal parapetto di un’abitazione di via Montebuono al numero 5, nel quartiere Salario a Roma, una volta riconosciuti i suoi aggressori che, nel frattempo erano solo i suoi inseguitori. Gli stessi con cui nel pomeriggio Francesco aveva avuto un alterco per una questione di manifesti.
Dopo quasi mezzo secolo sappiamo chi è Francesco Cecchin e sappiamo della sua militanza politica nel Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile dell’MSI. Sappiamo della sua lunga agonia – coma indotto per diciannove giorni – così come sappiamo delle fratture su tutto il corpo, eccetto mani e gambe. Strano modo di cadere per uno che vola da un’altezza considerevole. O meglio, di atterrare. Di testa.
Sappiamo del cranio fracassato, sappiamo della milza spappolata, sappiamo delle chiavi di casa piegate  ancora tra le mani, usate per difendersi e del pacchetto di sigarette (gettato) vicino al ragazzo ferito. Sappiamo che sul suo corpo è stata eseguita un’autopsia il cui esito è indiscutibile e sappiamo che, nonostante quella perizia, non è mai stata fatta giustizia. Sappiamo che gli assassini di Francesco avevano tutta l’intenzione di uccidere – l’accusa fu di omicidio volontario che, molto verosimilmente, era solo il nuovo significato da attribuire alla parola caduta – ma non sappiamo perché l’unico indagato, nonostante abbia mentito spudoratamente al processo riguardo il proprio alibi – essere andato al cinematografo Ariel per assistere alla visione de “Il Vizietto” nonostante quella sala non avesse in proiezione il film indicato – s’è potuto guadagnare con la falsa testimonianza sostenuta, il premio per non aver commesso il fatto. Il fatto sarebbe il concorso in omicidio, ma non si sa con chi. Altro vizietto tipico della giustizia dell’Italietta. Come quello di non trovare il colpevole. Che pure esiste. Come esiste qu­ella verità storica che non può più esse­re nascosta, o peggi­o, ulteriormente negata, in attesa che la giustizia scr­iva la parola fine su questa feroce esec­uzione.
Una parola fine che serve a non ammazzare ancora una volta Francesco, cui il Viminale, il “deputato” all’ordine pubblico della sicurezza di questa repubblica, ha negato anche la possibilità di essere inserito tra le vittime del terrorismo. Come se gli anni di piombo siano stati solo una marachella adolescenziale. Come se il suolo d’Italia in quegli anni non sia stato calpestato dall’odio politico, spesso avallato e coperto nella stanza dei bottoni con lo stesso telo bianco con cui si è da sempre tentato di coprire la verità e sotto il quale è stata sepolta la giustizia.
Sappiamo che il giovane Cecchin non era un fascista, non avrebbe potuto esserlo per una questione anagrafica – nel ’79 alla morte non aveva ancora compiuto la maggiore età – e non poteva esserlo per una questione temporale – era nato nel 1961 – ma era un militante che credeva in una Idea difesa col sangue. Quella Idea di cui oggi altri, magari suoi coetanei, hanno potuto raccogliere il testimone e le conseguenti fortune politiche ed elettorali. Raccoglierne l’eredità di intenti e di ideali. Che sono pesanti quanto un macigno. Ma non l’esempio. Quello è troppo scomodo. Non sappiamo, allora, perché in ogni occasione, inutile quanto gratuita, bisogna ricordare che in taluni partiti che ancora sono/vorrebbero essere illuminati dalla luce di quella stessa fiamma per cui Cecchin – ma non solo: penso a Falvella di cui quest’anno ricorre il cinquantenario della morte, alla strage di Acca Larentia, a Sergio Ramelli, ai fratelli Mattei, troppo piccoli persino per entrare in una sezione – ha dato la vita, non ci sia (più) spazio per i “fascisti”. Se si può ancora parlare di fascisti un ventennio dopo l’ingresso nel terzo millennio, cent’anni dopo la Marcia su Roma. Se ancora può parlare quella generazione che è viva grazie a lui e a quelli come lui, ma che si è prestata vergognosamente all’abiura. Delle strutture, dei concetti, dell’Idea. Ma non di certi simboli e di una certa simbologia, che può sempre tornare utile in termini di consensi. Compresa quella fiamma che, nonostante tutto, continua ad essere viva, che si erge pre-potente da quella base trapezoidale in cui qualcuno, più di qualcuno dotato di fervida immaginazione, ci ha visto il catafalco di chi quella Idea l’ha fondata. Quel catafalco in cui ancora non trovano riposo coloro che quella fiamma – (sep)pur senza catafalco e senza acronimi stavolta – hanno contribuito a tenerla ancora ardente. Quel catafalco simbolo di quei martiri dell’Idea da non uccidere ancora. Non oltre. Quella fiamma ancora viva, come ogni atto rivoluzionario.

https://www.camposud.it/francesco-cecchin-quale-eredita-dopo-43-anni-di-oblio/tony-fabrizio/

I FUTURI MERCENARI

È ancora fresco l’inchiostro con cui Vladimiro Putin ha firmato – rendendolo già operativo – il decreto che dà di fatto avvio alla russificazione.

Fresco come il sangue dei combattenti a Charkiv, a Irpin, a Mariupol. Nell’Ucraina da denazificare che, adesso diventa da russificare, dopo averla razziata – nulla c’entra il termine con “razza” che richiama Norimberga – che è un processo farsa per come si è svolto – né tantomeno il famoso Manifesto che probabilmente nessuno si è preso la briga di leggere, nemmeno di iniziare a leggere, tanto che già l’art. 1 recita “Le razze umane esistono. La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano ad ereditarsi”. Dunque, che che ne dicano l’anpi, i buonisti e tutta la pseudo-intellighenzia da salotto, non dice che una razza è superiore ad un’altra – ora è tempo di passare alla fase 2 dell'”operazione speciale”.
L’editto emanato – tecnicamente uzaka, è la Provda che lo dice – è un capolavoro di dettato giuridico, a partire dal giuramento, con tanto di formula ufficiale: “Mi impegno a essere fedele alla Russia, a compiere scrupolosamente il mio dovere civico e a sostenere i miei obblighi in accordo con la Costituzione e le leggi della Federazione russa”.
Dunque, un “do ut des”, come a dire “io ti do la cittadinanza facile e tu mi dai la fedeltà”. E la vita.
Cosa c’è di tanto terribile in quest’ultimo atto d’amore dell’ex agente segreto divenuto Presidente e zarista in fieri? Che tutto quanto concepito dalla mente del fine giocatore di scacchi riguarda i bambini! Solo i bambini. Quelli che le bombe altrui hanno reso orfani. Quelli che probabilmente hanno avuto il padre in trincea e la mamma stuprata, alla quale hanno portato via i figli. Magari prima che morisse. Quei bambini – oltre 4000 – che non si sa che fine abbiano fatto quando da Azovstall’ partivano i famigerati pullman che non sono mai giunti al punto di destinazione concordato.
Ebbene, “l’ultimo baluardo della cristianità” ha compiuto quest’ulteriore opera buona e ha semplificato – per gli orfani potranno giurare persino i responsabili dei ricoveri che li ospitano – la procedura di adozione a vantaggio delle famiglie russe che potranno (o dovranno?), così, adottare i bambini, orfani e no, ma i bambini, una volta diventati uomini (e donne?) dovranno assolvere a ciò che la Grande Madre Russia chiede loro, compreso imbracciare un fucile e andare al fronte per servire la Patria. Che non è la loro.
Merce umana importata, altro che ius sanguinis! O forse no, visto che per Putin l’Ucraina non esiste, che è Russia a tutti gli effetti e, in base a questa sua cartina geografica, non ha nemmeno invaso.
Merce umana che dovrà rimpiazzare le gravi perdite subite in Ucraina. Merce umana che si va a prelevare altrove per importarla e sostituire quella esistente, secondo un piano ben collaudato che dovrebbe ricordare un odiatissimo nemico ai tanti figli di Putin nostrani.
Ma d’altronde in Russia – così come in Ucraina – non è vietato nemmeno affittare un utero, perché mai si dovrebbe vietare questo tornaconto personale? Quasi una necessità. Un male neccessario.
Dunque, come non si può volere denazificare un Redis, al secolo Denis Prokopenko, che, mentre studiava filologia germanica e si laureava in lingue e letterature straniere, non ha mai smesso di concepire la sua avversione alla Russia come una questione personale: quasi tutta la sua famiglia, originaria della Carelia – oggi repubblica della Federazione russa al confine con la Finlandia – fu sterminata dall’Armata rossa nella guerra del 1939, quando il territorio passò da Helsinki all’Unione Sovietica.
Certo, fa paura che a 30 anni e fresco di studi, quando il mondo è tuo e si dovrebbe solo andare in giro per locali, ti cuci la patch della Carelia sull’avambraccio e tenti di rendere giustizia ai tuoi avi. E agli sconosciuti come loro.
Anche Denis è in Russia, ma Putin si è guardato bene dal mostrare il trofeo di guerra, il simbolo della denazificazione, della sua famigerata e celebrata vittoria con le manette ai polsi. Così come al posto dei laboratori segreti, dove tutti giocavano al piccolo chimico nei cunicoli segreti dell’acciaieria, ha trovato solo quasi 3000 tonnellate di acciaio da razziare. E ha razziato! Ma le prove dell’esistenza dei laboratori le porta all’Onu. Che è americano e corrotto nonché parte integrante di quell’apparato criminale che (i figli di) Putin dicono/dice di avversare.
Che poi è ciò che i gementi e piangenti figli di Putin hanno già vissuto con il loro eroe già dimenticato, tale Puzer Stefano, di professione portuale, incarnazione di infinite identità del metaverso e, manco a dirlo, uomo di Putin – come lo era Salvini. E Draghi – quando fu mandato a comprare il sale da un palazzo all’altro, poverello.
Il copione si ripete, sempre uguale, ma tanti – ormai troppi – ancora una volta si prestano a questa recita a soggetto. Ad essere spettatori. Secondo le voci fuori campo della contro(in)formazione – che va unicamente contro il bene dei tanti seguaci fondamentalisti – riducendo tutto a tifo, a piaggeria, a partigianeria.
Non è per me una vittoria riportare una simile bestialità neo-bolscevica, in tanti interpreteranno la fonte, si appelleranno alla traduzione della lingua, dovranno incipriare tutto per fare apparire, non essere, tutto bello e buono. Persino buonista. Finanche (auto)illudendosi. Per continuare a credere senza capire. A tifare. Quando mai in una guerra si tifa? La guerra che doveva portare alla denazificazione da parte di Putin e che i suoi seguaci dal divano hanno condotto contro Azov. Che si è “arreso”. Che poi si è riorganizzato e combatte per la propria Terra, per la propria Patria versando ancora il proprio sangue.
La guerra tifata in differita che ancora non finisce, ma che Putin avrebbe già dovuto vincere perché la denazificazione è avvenuta. E, invece, va avanti. Verso l’accesso al mare. Verso nord. Verso quell’imperialismo che vede nell’Ucraina solo il primo boccone di un lauto banchetto. In salsa americana. Che ha pregato tanto la Russia di invadere l’Ucraina. Che nel conflitto Nato-Russia non invia più i missili a medio raggio. E che, dopo oltre tre mesi, ancora non vede scambiarsi un solo colpo tra Washington e Mosca. Ma che rivede Kissinger. Che è lo yenkee che riarmò e rialzò la Russia dopo il crollo dell’Urss e che oggi ri-apre a Mosca. Ancora. Oggi, come ieri. Come a Yalta.
È tutto così tremendamente chiaro che lo capirebbe persino un bambino. Proprio come quei bambini ucraini “rapiti” e “adottati” da Putin.

L’EPITAFFIO DI CIRIACO DE MITA : “SONO DEMOCRISTIANO”!

Sulla sua tomba un biglietto che riporta la dicitura “sono democristiano” pare sia stata l’ultima volontà di Luigi Ciriaco De Mita.
Sì è spento la mattina del 26 maggio all’età di 94 anni presso la clinica Villa dei Pini di Avellino, dove era stato ricoverato in seguito a delle complicanze per la rottura del femore, solo l’ultimo degli acciacchi che, ormai, affliggevano il politico di Nusco. Quasi centenario e ancora “democristianamente” presente in politica, da Sindaco del paese natale fino alle sue “mani in pasta” alle regionali con lo storico, scellerato patto di Marano con De Luca – la notte prima del voto – e che ha portato alla morte dei suoi territori, quelli interni, ma anche nazionali con la mancata elezione degli “eredi”.
Il fenomeno De Mita è ancora troppo vicino storicamente per poterne tracciare con esattezza un profilo politico-istituzionale, ma poiché è vissuto sulla cresta dell’onda per quarant’anni e oltre non mancano le testimonianze – almeno di cronaca – per un ritratto, o forse, una caricatura a dir poco irriverente.
Ciriachino, come era affettuosamente chiamato dai compaesani dell’Alta Irpinia, si percepiva quasi come un unto – a.c. che sta per ante Covid – del Signore, una manna dal cielo e, si sa, una manna lava l’altra. Sempre democristianamente inteso.
7 volte segretario della Democrazia cristiana e un anno da Presidente del Consiglio dei ministri. Un uomo così zelante da non lasciare niente per nessuno, tanto che questi suoi doppi incarichi, quasi unici nella storia della prima repubblica, lasciavano il malcontento e l’amaro in bocca – asciutta – a tanti.
Proprio come con Vincenzino De Luca, Ciriachino aveva già vissuto un odi et amo, un rapporto stile amore/odio con politici di ben altra caratura, come ad esempio quello con Bettino Craxi, il cui esilio – se di esilio è giusto parlare – fu la vera fortuna del “capoclan avellinese” che finì per decidere il bello ed il cattivo tempo nell’Italia del dopo Tangentopoli, dove ha coronato 11 primavere alla Camera e un paio anche a Strasburgo.
Ultimamente in calo tanto di notorietà quanto di consensi, al punto che nel Comune dal lui amministrato, dove la politica è ancora – per fortuna – un secondo lavoro, in tanti gli contestavano il fatto di convocare assemblee e consigli solo nei giorni feriali e per di più in orari diurni, ovvero quando tutti quelli che non mangiano di politica erano a lavoro – a dirla tutta, i pochi che hanno avuto la fortuna di vederlo in Comune, visto che si è dovuto muovere persino il Prefetto per intimargli di riunire la giunta ed approvare il bilancio comunale – aveva guadagnato gli onori della cronaca per un furto nella sua villa di Nusco, quando alcuni malviventi si erano introdotti in casa obbligandolo ad aprire la cassaforte e facendo razzia di contanti, oro e preziosi.
Ben meno grave dell’altra vicenda che gli si è abbattuta tra capo e collo che ha coinvolto la moglie Anna Maria Scarinzi, ex collaboratrice di un altro politico campano – il compianto Fiorentino Sullo, Dc anch’egli – e che, unitamente alle figlie di papà Simona e Floriana, due di quattro, sono state indagate dalla Procura di Avellino con l’accusa di peculato e truffa aggravata per aver malversato con la Onlus, di cui l’ex First lady è presidente, dei proventi destinati a bambini diversamente abili. Forse, la vera presa di coscienza del tramonto del politico che può essere riassunto col vecchio adagio “finché è in cima ci si inchina, quando cala lo si impala”.
Non ultimo, il sogno demitiano di perpetrare la dinastia in politica con l’elezione mancata del nipote prediletto, forse il solo cognome è stato insufficiente per Giuseppe.
De Mita, però, per tanti avellinesi, se, nel bene, è (stato) sinonimo di pane e lavoro, di piaceri e “posti fissi”, come l’occupazione – in senso di impiego – presso l’ufficio stampa quirinalizio di Sergio Mattarella per la figlia Antonia, nel male ha inevitabilmente significato la partenza per lavoro di tanti altri figli d’Irpinia.
D’altronde, De Mita in persona ha regalato all’Italia due pezzi…da 90: proprio a lui devono le loro fortune Sergio Mattarella e Romano Prodi. Un “padrino” per dirla con Montanelli che fu trascinato in Tribunale da “Sciriaco” che vide l’incasso di un milione di lire, ma l’assoluzione del giornalista che, a sua volta, si vendicò sguinzagliando un altro giornalista – Paolo Liguori – che curò un reportage a puntate da cui venne fuori un vero “sistema De Mita” in Irpinia: non si muove foglia che Ciriachino non voglia. In realtà, la diatriba di carte bollate era nata a seguito di una battuta dell’Avvocato. Gianni Agnelli, infatti, aveva detto “un tipico intellettuale della Magna Grecia” di Ciriachino da Nusco, ignorando che la Magna Grecia si estendeva solo sulle coste e non nell’entroterra famoso del parto di Marano di cui sopra, e Montanelli replicò chiedendo lumi perché non capiva cosa c’entrasse la Grecia.
In tempi di amarcord, si ricorderà anche l’abbaglio di un altro giornalista – Eugenio Scalfari – che ebbe a dire che “l’Italia con lui sarebbe diventata una opulenta Svizzera mediterranea”. Abbaglio facile e verificato a posteriori.
Di lui si ricorderanno anche altri primati che lo hanno portato ad occupare il settecentottesimo posto di assenze su 733 presenze richieste, oltre un biennio di assenze nel Comune natale: sarà per questo che i tanti concittadini, anche il 77% di chi gli ha accordato la preferenza, chiedono illuminazione pubblica serale, trasporto e mensa scolastica? Sarà il dispetto dell’anziano leader al fatto che i suoi compaesani nella “scuola di Alta formazione politica” che ha portato in paese l’intellighenzia partenopea manco il naso hanno voluto metterci?
Ma il “padrino” ha fatto anche cose buone. E non (solo) per sé: non è stato minimamente sfiorato, ad esempio, dal taglio dei vitalizi voluto dai 5 stelle – la cui funzione è stata salutare fino a che non sono arrivati al governo”, ma “ora il malato ha finito per sostituirsi al medico e impone lui la cura per tutti, leggasi per l’Italia”. In questi casi, aggiunse, “finisce che si muore”- per cui gli eredi continueranno ad incassare i 6000 euro, visti i 40 anni di attività o potranno godersi ciò che rimane dell’attico e del superattico di Via Arcione a Roma: 650 mq di vista mozzafiato sui giardini del Quirinale. Ce lo aveva in locazione quando era premier e lo ha riscattato nel 2010 con 3 milioni e mezzo anziché 8 del valore di mercato. Pare poi rivenduto a 11.
E chissà che a proposito di valore, non ricordiamo ancora un vecchio politico, oggi come non mai, nel bene e nel male, di cui si sente, se non la mancanza (di capacità di ingegnarsi), quantomeno la necessità di avere personalità di questo livello. Già il rimpiangere i protagonisti della prima repubblica è un preoccupante termometro della situazione di questa disastrata Italia. D’altronde, se aveva la concezione di cui sopra delle nuove forze – forse – politiche del Paese, non lo preoccupavano da meno quelle storiche. Il PD, il “suo” PD, in una vecchia, seppur attuale intervista, lo aveva paragonato a Garibaldi in Sicilia: “Quando stava in Sicilia, e gli dissero di ritirarsi, Garibaldi rispose: “Sì, ma dove?”. Così è il Pd. Pure se si ritira, non sa dove andare. E quando non sai dove andare, la massima velocità che riesci a raggiungere è rimanere fermo”.
Magari fossero rimasti fermi quelli che rimossero i manifesti dell’Asse De Mita-Mancino (in foto) in vista delle amministrative del capoluogo irpino del 2018: oggi avremmo apprezzato di più quell’ironia, quel sarcasmo, quell’irriverenza, quei “ragionamendi” che ricordano le logorroiche di Aldo Moro. Ben altra tempra le filippiche almirantiane, ad esempio, che attaccava il politico anche e soprattutto quando era forte, quando De Mita lavorava con tutti, proprio con tutti, per fare sì che l’MSI non fosse compreso nell’arco parlamentare. Padre, padrino e padrone di quel pentapartito, ribattezzato “larghe intese”, ma che, in realtà, vuol dire “inciucio” da sempre. E poi i miliardi arrivati e spartiti per la ricostruzione del terremoto dell’80, la benedetta ricostruzione perennemente in fieri e mai terminata – tanto che i prefabbricati sono ancora esistenti, ma pure funzionanti – lo scempio perpetrato, con la complicità dei politici locali, del vicino Sannio, il ribaltone in Regione per fare cadere la giunta Rastrelli…
Oggi il politically correct, l’ipocrisia da etichetta vuole tutti mesti, lacrime agli occhi e fazzoletti in mano. Perché la morte è una cosa seria e quando si muore magicamente si diventa buoni, bravi, capaci, onesti, assennati, scrupolosi, tutti amici di tutti.
E per verità, per giustizia, per l’interesse di tutti non si può non ricordarlo come lui stesso spesso diceva: “Chi vuol far sembrare semplice una cosa complessa, non l’ha capita”.

https://www.camposud.it/lepitaffio-di-ciriaco-de-mita-sono-democristiano/tony-fabrizio/

IL D.D.L. ZAN ESCE DALLA PORTA DEL PARLAMENTO ED ENTRA DALLA FINESTRA DI TUTTE LE SCUOLE.

Proprio così. Non è bastata la decisione del Parlamento di scrivere la parola “fine” su quel Decreto obbrobrioso proposto dal membro – non è una discriminazione! – della Camera dei Deputati il pdino Alessandro Zan, che questi ci riprovano attraverso altre vie.
Un ulteriore smacco per quel Parlamento rappresentante del popolo (fu) sovrano agli ultimi rantoli, dopo essere stato esautorato, tra l’indifferenza  e  la convenienza – generale in cui ancora è aperta la caccia ai 23 franchi tiratori proprio tra PD, 5 stelle e Leu che hanno affossato la proposta di Zan.
Con la Circolare (ancora una circolare!) come quelle con cui il Viminale ha tentato di mettere le pezze a provvedimenti e leggi pieni di buchi che il governo dei migliori aveva partorito, per l’esattezza la – n. 1211 del 4 maggio 2022 il Ministero dell’Istruzione, lo stesso Ministero dove sono stati partoriti i banchi con le rotelle, l’uso indiscriminato della mascherina sopra i 6 anni – ovvero dalla scuola dell’obbligo – e il vaccino obbligatorio per poter insegnare, vigilare e pulire le aule, compreso di certificazione verde per l’accesso anche per la firma di un modulo al plesso scolastico, istituisce la “giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia”. Prendendo a pretesto una risoluzione del Parlamento europeo – che, come e ormai più di quello italiano, non serve perfettamente a nulla, visto che a Bruxelles decide tutto la Commissione Europea alla cui scelte i cittadini non partecipano – i docenti e le scuole di ogni ordine e grado sono invitati(?) a creare occasioni di approfondimento con i propri studenti sui temi legati alle discriminazioni, al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Occasioni di approfondimento, che equivale a indottrinamento da parte delle scuole che in-formano, ovvero buttano dentro la testa, nozioni del tipo “tu puoi decidere di che sesso essere”, “sappi che se ora in bagno fai la pipì in piedi, alle scuole superiori potrai essere donna” e amenità simili.
Nell’ottica del rispetto non si potrà chiaramente dire che le donne dovranno concepire con un uomo o che i maschietti non potranno partorire: al bando la complementarità!
Occasioni di approfondimento, mica una discussione o un confronto. Vizietto tipicamente propagandistico di un’ala di questo sciagurato paese. D’altronde questa è la scuola che abolisce la festa del papà e della mamma per rispetto di chi “una mamma ed un papà non ce l’ha” – che poi i docenti sanno benissimo che, seppur in provetta e in un frigorifero, un papà e una mamma ci deve essere per forza, ma che forse è solo assente in nome della distruzione della famiglia tradizionale -, che abolisce il Natale e lo modifica, stravolgendo, in nome del proprio mos maiorum per rispetto di chi nel Natale di Cristo non crede, ma si ferma ugualmente il 25 e il 26 di dicembre, come da calendario di quel posto in cui ha scelto di vivere.
L’agenda è nota e il programma non deve essere fermato: si dovrà iniziare a scoprire il proprio corpo già all’asilo e, se fatto bene, il ciclo – mica il termine non rispetta lo standard del politically correct? – si dovrà concludere alle medie con l’insegnamento, non solo teorica, della masturbazione. In quelle stesse scuole in cui finanche la carta igienica dobbiamo portarci da casa!
Quelle scuola misurata, o meglio, monitorata con i test invalsi da Bruxelles che ci bacchetta su tutto, tranne che sulla qualità della scuola. Che, tuttavia, ancora riesce a sfornare eccellenze che poi gli altri Paesi vengono puntualmente a rubarci. Capaci di tutto, istruiti capillarmente, ma privi di ogni senso critico, di ogni elementare ragionamento: esiste più una educazione civica? Lo studio del Diritto – sempre e più solo commerciale e per di più in inglese – scuote in me quella coscienza utile a capire se la Costituzione italiana è davvero la più bella del mondo? È in atto un vilipendio del diritto (romano) in ogni azione dell’attuale vivere civile? Esiste in questo famoso diritto – visto che da ogni sperduto angolo di questa Terra studiano il nostro, quello romano – una legge che tuteli e condanni le discriminazioni in base all’orientamento sessuale? Sì, esiste già. Dunque, perché allora questa solfa trita e ritrita, impresentabile e puntualmente ripresentata dell’omofobia, bifobia, transfobia che pare il “lascia o raddoppia” dei termini? È davvero una legge – che poi non è nemmeno tale – che tutela le diversità – che poi sarebbero le vere ricchezze – o è un provvedimento liberticida, volto a zittire ogni voce contraria alla vulgata del politicamente corretto? Provvedimenti che vedono in prima linea sia il deputato Zan – che, a dirla tutta non rappresenta nemmeno le comunità lgtpq e che sopravvive persino alla blasfemia alfabetica della lettera Z, inesistente nell’alfabeto cirillico – sia Mario Mieli, teorico omosessuale che è arrivato a sdoganare persino la pedofilia attraverso percorsi di transizione – abbiamo anche un ministero con tale aggettivazione! Ma non stupiamoci: nell’Italia unita dal 1861 abbiamo pure un Ministero per il Sud senza che qualcuno gridi alla discriminazione!
Il tutto accadrà oggi, in ogni scuola d’Italia, tra il silenzio interessato e il disinteresse ben mascher(in)ato di tutti, in un’anonima mattina di maggio di fine anno scolastico. Dire che queste derive sono pericolose non è discriminazione: è la realtà. Quella nostra attuale realtà in cui persino la libertà è diventata una opinione.

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IL ROSSO E IL NERO. E NON E’ STENDHAL!

Honestà! Che che ne dicano e ne sappiano i novelli figli di Putin nostrani, inguaribili esterofili e amanti dell’erba del vicino che è sempre più verde, incredibile a credersi, anche questa Italia liberata, rifiutata, ripudiata e sostituita, vittima per “viltade del gran rifiuto” ha il suo 9 maggio. E se non lo celebra in pompa magna – per una festa al mese basta il 1° maggio di rosso – lo ha elevato a giornata internazionale per le vittime del terrorismo, che come tutte le “giornate internazionali o mondiali di” non serve esattamente a nulla.
Il 9 maggio il (fu) Belpaese ricorda (più?) la giornata in cui fu ritrovato cadavere il corpo di Aldo Moro in via Fani a Roma. Rosso (non?) come certe feste e certe piazze, come il lenzuolo che lo ricopriva e su cui impattarono gli 11 colpi della mitraglietta Samopar Vizor 6.1, dopo che la Walther PPK 9X17 si inceppò. Rossa come la Renault 4 rubata mesi prima a bordo della quale il presidente della DC fu fatto salire, dopo essere entrato in una cesta di vimini e dopo avergli detto di essere stato graziato. “Per non farlo soffrire inutilmente”. Rosse come le brigate che rivendicarono il sequestro, ma che sbagliarono a tracciare persino il loro segno, aggiungendo una sesta punta alla loro stella e che occupavano l’unico appartamento del condominio di via Gradoli 96, a sua volta occupato interamente da personalità del Sisde e che non fu perquisito perché non c’erano quegli abitanti che di notte sembravano “battere un alfabeto Morse” – a detta dei vicini lamentosi – ma dove gli operanti non ravvisarono dagli altri condomini motivo di sospettare una presenza brigatista e che in assenza dei quali non si pensò di buttare giù la porta, come da prassi in quegli anni.
Buchi neri sulla storia del cadavere più eccellente di questa Italia in rovina. Nero come il missino Pinuccio Rauti che qualcuno ha tirato in ballo quale testimone del sequestro, visto che abitava in una strada che faceva angolo con via Fani e che dal balcone avrebbe visto una parte della scena. Ma nessuno ha mai visto sulla scena del sequestro l’emergente boss della ‘ndrangheta Nirta, né dopo si è domandato il perché di quella presenza. O della presenza di due “civette” del sequestro che poi si è scoperto essere agenti dei Servizi e che uno di loro passasse, come dichiarato, in via Fani per andare a pranzo. Benché fossero solo le 9 del mattino. Un buco nero come quello della DIGOS che rispose che non esisteva alcuna via Gradoli a Roma. Nella Roma ultra-blindata per 55 giorni, tanto che si pensò di perquisire il paesino lacustre di Gradoli, nel viterbese. Quella Roma ultra-blindata, ma in cui i brigatisti quella tragica mattina riuscirono ad attraversare tutta la città per arrivare al centro storico, con l’ingombrante carico nel portabagagli, in via Caetani, dietro Botteghe Oscure, sede del Pci e poco distante da piazza del Gesù, sede della Dc.
Tanti buchi neri – e, forse, pure rossi – voragini ancora oggi e che portarono la famiglia Moro a rifiutare i funerali di stato, per un uomo dello stato. O, forse, solo delle Istituzioni. E anziché puntare ancora la luce sulla nostra storia, su quella che ci riguarda e, che ancora dopo quasi mezzo secolo, brancola nel buio più pesto (ma presto) ci occupiamo e, in alcuni (irrecuperabili) casi, festeggiamo la vittoria. Degli altri. Per gli altri. Ma se non ci si è interrogati finora sui “fatti nostri”, ci si può mai interrogare ora che hanno ridotto ogni facoltà intellettiva ad automa e automatica passiva accettazione di ogni cosa – seppur obbrobriosamente offensiva – spacciataci, ogni reminiscenza storica, politica, culturale, neuronale sostituita, in nome del cancella-culture imperante ed ossequiante, da una sterile approvazione da QR code.
Dunque, meglio imbucarsi alle feste altrui, imbacuccarsi con i loro vessilli seppur finora detestati – chissà se per davvero – e, da meri vassalli, non chiedersi perché si festeggia una vittoria, se il numero dei caduti supera, se non duplica, quello dei loro avversari. Se quello dei morti prodotti è quello più alto – stime loro – di ogni altra dittatura o regime in oltre duemila anni di storia. Che vittoria sarebbe chiedersi perché, persino a Norimberga tanto in voga in questo tempo in cui tutti sono assetati di giustizia, perché la stessa Russia stava dall’altra parte del banco degli imputati, se non si capisce che – anche per questi motivi – Norimberga fu un processo farsa? Se non ci si domanda che senso ha chiedere giustizia, se la giustizia nostrana è palamarizzata e vive il periodo di sputtanamento maximo della storia di questa disastrata repubblica. Disastro iniziato con la piaggeria verso la prima toga-star e finita(?) con i deleteri effetti dello stato che oggi tutti noi subiamo sulla nostra pelle. Con l’avallo proprio della giustiziah. E ancora oggi a rappresentarci a destra e a manca, ad ogni livello ci propinano dei magistrati. Inguaribili amanti del ’92. Ci si dovrebbe chiedere se quella vittoria non sia stata contro di noi, italiani, contro chi ci è simile e soprattutto perché. Ma si tende solo a cambiar padrone. Passivamente. Ora che anche gli atei santificano il dubbio che non è tale, ma è solo una tecnica (ben collaudata: cfr. strage di Primavalle) lottacontinuista, intrisa del più becero cerchiobottismo. Che stordisce solamente. Niente spirito. Solo alcol. Meglio se vodka. E allora, intrufoliamoci pure in casa d’altri, a festeggiare le loro vittorie – che è poi solo un successo – non tanto diverse da quella Italia che festeggia la sconfitta e non la vittoria, il 25 aprile e non il 4 novembre. Ora, persino il 1° maggio. Senza lavoro, ma con tanti ricatti. Raccattando la sopravvivenza e non la vita. Chiamando vita l’attesa della morte. Il 9 maggio la nuova liberazione. Come la nostra. Pura utopia. Come la piazza di Mariupol, sede dell’annunciata parata, tristemente uguale alla Piazza Rossa di Mosca. Tristemente uguale alla terza Roma. Tristemente uguale a quella vittoria di chi ha combattuto contro di noi e che oggi trova proprio noi al loro fianco solo per combattere la NATO americana, padrone della nostra Terra che, da “mera espressione geografica”, è ridotta, o meglio, adibita a più grande portaerei nel Mediterraneo con la bandiera blu – sia essa stars&stripes o con le stelline dorate, che poi è la stessa cosa – che combatte tramite nazi(onali)sti di cui però non si apprezza la lotta. Di male in peggio. Con tutti gli scheletri e i cadaveri nell’armadio. Nostri. Nostrani. Mostri. Da consegnare alla storia. Che è verità.

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