ISCHIA “CALENDA EST”

Ci pensa Calenda. In un pomeriggio ben poco onorevole, emergenziale, come lo può essere una pioggia a fine novembre, e noioso per via della sospensione del panem et circenses quale può essere il campionato italiano di calcio a favore del mondiale – anche qui con poca, pochissima, inesistente Italia: dopo il Covid 19 ecco propinarci il Qatar 22 – ecco che ci pensa Calenda!
Comodamente dal sofà del suo loft etnico-oligarchico, in modalità agile – smart working, direbbero i fanatici come lui – che fa tanto delivery, con una cinguettata nel metaverso, serve comodamente la polemica sciacalla, dopo aver chiaramente indossato la mascherina del prode leguleio. Attacca, quindi, il professor (di) “diritto” ed ex occupante di Palazzo Chigi Peppino Conte da Volturara Appula- incredibile a dirsi: oltre ad aver firmato un’infinità di Dipiciemme volti alla repressione più totale di ogni elementare libertà costata lacrime e sangue, ad aver confinato la gente nei propri domicili, a (non) aver curato qualcosa di curabile con fantasiosi protocolli governativi sospendendo quelli medici, dicono sia stato anche il Presidente del Consiglio dei Ministri – reo di aver concesso un “condono pericoloso” all’isola di Ischia e cancellato l’unità di missione “Casa Italia” per la ragione che l’aveva istituita Matteo Renzi. Entrambi “gravi errori” a suo dire, ma cercare a posteriori di prendere in giro gli italiani con eloquio stile azzecarbugli è anche peggio”. E così continua il panegirico in onore (e in odore) di Matteo Renzi il salvatore, protettore del deretano sul velluto, dispensatore del miracolo dell’aver salvato da morte (politica) certa il buon Carletto, acciuffato per i capelli in zona Cesarini.
Avrebbe potuto bofonchiare ancora un po’ Calenda, quel tanto che, se capace, basta per apprezzare – magari un tweet a riguardo sarebbe risultato più fruttuoso, quantomeno per l’animo degl’ischitani – la dignità di un popolo messo in ginocchio e che continua a ritenersi fortunato perché figli e nipoti sono tutti salvi (almeno qualcuno!).

Un popolo che parla già di rialzarsi, nonostante nessuno abbia attivato un numero verde ed un conto corrente (Renzi meglio di no, Carle’!) ad hoc; perché nonostante non vi siano i retorici sermoni mediatici d’occasione, continua disperatamente a spalare fango perché ancora speranzoso di trovare un proprio caro o essere d’aiuto ai propri compaesani che piangono i propri morti, i dispersi e il non avere più nulla.
Quel silenzio che avrebbe potuto fargli comprendere (siamo volutamente buonisti questa volta) che a Ischia non c’è colpa, perché l’abusivismo non c’entra nulla: lo dicono i tecnici, gli esperti, ma non quelli della task force delle “quattro stagioni”, riciclabili indistintamente dall’ambito sanitario a quello militare, sconfinando nel geopolitico – ma tutto è scaturito dal Monte Epomeo.
Ischia è un’isola vulcanica formata sostanzialmente da due tipi di roccia: quella solida, ben ancorata al terreno e uno strato di roccia più sottile (ma dai pochi centimetri può raggiungere e superare anche il metro di spessore), friabile e che è il risultato di eruzioni vulcaniche passate. Piogge di lapilli di precedenti eruzioni.
Quando un fenomeno atmosferico particolarmente importante, come una pioggia copiosa, si abbatte in un territorio più o meno sensibile, può verificarsi che lo strato più sottile di suolo e meno radicato a terra, inizi a staccarsi (punto di innesco) e a scivolare verso valle. Mano a mano che si genera la “valanga” di cenere e lapilli, questa prende forza (trascinando con sé altro materiale “friabile” non ancorato a terra) e velocità, spazzando e travolgendo via tutto quanto non riesce a vincere la sua forza cinetica (ecco perché su un lato del monte Epomeo sembra esserci uno squarcio, senza più l’ombra di un albero), per poi fermarsi a valle dove tutto viene ammassato.
Semplificando, questo è quanto successo a Casamicciola, ma è ciò che potrebbe succedere, se non è già successo, in ogni parte restante d’Italia, essendo questa una terra telluricamente giovane e geomorfologicamente mobile. Con una spiccata sensibilità topica nei punti laddove ci sono dei rilievi montuosi. Praticamente ovunque, se pensiamo che oltre alle Alpi e agli Appennini – che sono rispettivamente la corona e la spina dorsale d’Italia – abbiamo anche rilievi montuosi di carattere vulcanico.
Sono fenomeni che si possono prevedere, allora? Certo. Lo sappiamo già. È tutto già scritto, basta dare un’occhiata alle mappe elaborate dai geologi e si vedrà che l’Italia – fatto salva per qualche parte della pianura padana, principalmente in Romagna – è tutta una zona rossa. Basti pensare che l’Italia è terra franosa per eccellenza e che il 70% e oltre del territorio europeo soggetto a frana è concentrato proprio in Italia. Praticamente la quasi totalità. Che tradotto in termini “calendoscopici”- ovvero gli scopi di Calenda – significherebbe che in Italia non si potrebbe costruire da nessuna parte. Mica solo a Ischia! O a Sarno, a Genova, o a Firenze.
Eppure il dottor Peduto, da Presidente del Consiglio nazionale dei geologi, si batteva per rimettere al centro dell’agenda politica proprio la geologia, con il suo binomio intrinseco di prevenzione e monitoraggio. Peduto era riuscito ad arrivare addirittura (sì, proprio addirittura!) a presentare il suo progetto salvifico e salvavita nientepopodimeno che all’allora Ministro dell’Ambiente e a chi siedeva al Viminale. La proposta piacque, ma al governo di allora successe una colata, proprio come a Casamicciola, che lo coinvolse e lo distrusse irrimediabilmente. Bisognava rimboccarsi le maniche e cominciare a ricostruire tutto da zero. Ma la politica politicante di questo non è stata più capace. Mica come a Ischia, a Sarno, a Firenze, in Umbria, dove c’è gente comune e diversamente onorevole.

Perché la politica faccia tanta difficoltà a parlare di prevenzione, a capire che si deve agire con un approccio preventivo è un interrogativo al quale Calenda in primis, da politico, potrebbe tentare di rispondere. Magari fare prima a se stesso. E attivarsi. Evitando polemiche sterili e strumentali. Gli strumenti servono agli ischitani. Come pale e stivali. E braccia. Magari onorevoli, sottratte proprio alla politica. Azione! Non parole.https://www.camposud.it/ischia-calenda-est/tony-fabrizio/

RICORDATI DI “USARE SEMPRE”

Italiani, “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori”. Una volta. Cent’anni fa. Non ci si crede, eppure sono ormai svariati giorni che nell’italico Stivale tiene b(r)anco una polemica nata da una influencer che, in veste di giudice, critica rigorosamente a posteriori – voce del verbo: dopo che qualcuno glielo ha spiegato e messo in bocca – un comico che partecipa ad un programma di ballo ma non per come balla, trasmesso sulla rete statale ammiraglia, quella sovvenzionata obtorto collo dalla popolazione tutta, indipendentemente se la si guarda o meno.
Inutile riproporre il solito e retorico sermone sulla legittimità dell’uso della maglietta della X MAS e sullo slogan dannunziano “Memento Audere Semper”, piuttosto che sull’attualissima e altrettanto inutile diatriba secondo cui il motto riprodotto sulla t-shirt (non è già abbastanza penoso così?) sia dannunziano oppure fascista. Dannunziano non fascista è un ossimoro intriso di una concezione antifascista che nemmeno il peggior Giordano Bruno Guerri oserebbe pronunciare con tanta nonchalance.
Peggio della maglietta indossata da Enrico Montesano a Ballando con le Stelle, dunque, c’è solo l’abiura di Enrico Montesano per aver indossato la maglietta del pluridecorato reparto speciale della Marina militare Italiana e, poi della RSI. L’andare a Canossa, nientepopodimeno che direttamente con una formale e urgentissima udienza presso il Santo Padre padrone e Presidente dell’ANPI presso cui, con capo cosparso di cenere e il corpo totalmente asperso e madido di lagrime catartiche, “rammentare il suo passato di uomo legato al rigoroso rispetto dei valori della libertà e della democrazia”. Quella stessa libertà e democrazia che lo vede essere costretto a giustificarsi per delle leggerezze sicuramente compiute “in buona fede” e per gli inciampi in cui è maldestramente (non sinistramente, si badi bene!) caduto. Parole sue, eh! Magari con la storica – e a questo punto pure stoica – tessera del PSI nella tasca mancina a riprova della mai perita fedeltà.
Che poi l’Eminentissimo Padron dell’ANPI mica siede allo stesso tavolo di Mamma RAI con lady Lucarelli! Certo che, se indossi una simile maglia e non ti aspetti il polverone di ritorno sei veramente un ingenuo. Come Giulio Andreotti e più dello stesso divo Giulio! Ingenuo non pensare che tutto lo spettacolo possa essere una immane messa in iscena creata ad hoc a favore di sorella audience e di fratello share. Soltanto che se decidi di prestare la maschera – con tutta la faccia – all’indecoroso spettacolo, non puoi non sfidare i pareri contrari, conditi ma non contriti, buoni, buonissimi, buonisti e non correre il rischio per le tue (?) idee. Altrimenti, penosamente passi dal “ricordati di osare sempre” al “ricordati di usare sempre”. Meno dignitosamente persino dei tifosi usati e abusati della neo-plutocratica monarchia parlamentare (in maschera), ma assoluta (in volto) del Qatar che, pur di non offrire il veritiero spettacolo degli stadi ad aria condizionati e condizionati dall’aria che si respira laggiù in Medioriente completamente deserti, pagherà i tifosi che faranno solo finta di tifare, oltre che dotarli di bandiere e sciarpe e biglietto con cui ritenersi precettati per la gara del campionato mondiale di calcio. Tempi di (permanenza del) tifo, indipendentemente dal cammino della squadra tifata (leggi assegnata) almeno quattordici giorni, allietati anche con escursioni gratis.
Dopo aver fatto finta di tifare per chiunque, si farà finta anche di non conoscere le stime delle svariate migliaia lavoratori (importati) che sono morti per gli sforzi e per le condizioni di lavoro nella costruzione degli impianti da realizzare per la kermesse e si farà finta di non sapere nemmeno che nel Paese organizzatore (leggi compratore) della competizione mondiale non vengono garantiti, oserei – ma non alla Montesano maniera – dire che vengono calpestati, come e più dell’erbetta finta degli stadi nuovi di zecca, i più elementari diritti umani.
Finti come quei tifosi (che potremo vedere) alti, con la chioma color peli di carota e la couperose far finta di urlare “Ordem e Progresso” e magari pure ballare maccheronicamente una samba che nemmeno il Sol de Mayo argentino è riuscito a sciogliere. Nemmeno parzialmente. Nemmeno solo la lingua per gridare e opporsi. Problema che, tuttavia, l’Italia non ha: non solo non è partita alla volta del desertico Paese dei balocchi del Medioriente, ma quando la FIFA (dei cuginetti d’Oltralpe) ha assegnato loro i Mondiali vent’anni prima, nessuno ha osato – non alla Montesano – proferire parola contro questa decisione. Nemmeno sulla commessa di qualche decina di aerei commissionati dal Qatar alla Francia per il valore di 14,6 miliardi di euro, non prima, però, di aver investito nel club del Paris Saint-German divenuto simbolo dei progetti del calcio della famiglia desertica regnante.
Meglio non parlarne nel Bel Paese col senno di poi, meglio non commentare le dichiarazioni di monsieur Sepp Blatter, artefice dell’assegnazione, che ormai considera “un errore aver assegnato i Mondiali al Qatar”.  In compenso si potrebbe, però, parlare della decisione del presidente della repubblica Sergio Mattarella che ha telefonato a monsieur le président Emmannuel Mac(ca)ron per “sistemare” la questione migranti in stallo nel Mediterraneo. Continuiamo, dunque, ad essere mal-trattati dal Quirinale. Una “mattarellata” che non ha eguali nel settennato o poco più. Una gravissima ingerenza nell’operato del Governo (finalmente!) legittimamente eletto, inequivocabilmente maggioritario in quel Parlamento finora esautorato e ora nemmeno rispettato proprio dal Garante dell’unità nazionale. Un Costituzionalista che ormai fatica a capire che l’Italia, benché ci sia la Meloni a Palazzo Chigi, è ancora una repubblica parlamentale e non presidenziale, come lei vorrebbe. Una mossa alle spalle del Presidente del Consiglio impegnata nel summit dei Grandi (grandi che, poi?) 20 della Terra, col resto di uno. Dove, forse, si potrebbe far sentire la nostra voce. Dove per parlare della pace, o meglio, della guerra tra Russia e Ucraina si incontreranno Usa e Cina. Dove siamo parte in causa (silente) del conflitto scatenato alle tasche, alla pancia e al cuore dell’Europa. Italia in primis. Ma in Italia mica si parla di questo. Si parla del comico che balla giudicato da una influencer in una trasmissione andata in onda su una emittente televisiva che tutti pagano, ma nessuno guarda. O, meglio, che ci fanno guardare solo quando dicono loro, solo quello che vogliono. Quello che non serve. Quello che non ci è utile. Come il mondiale di calcio senza l’Italia. Come a sottolineare solo ciò che eravamo. Come siamo passati dall’osare ad essere usati.
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NAPOLI MARCIA… PER LA PACE

Finalmente è arrivato il tanto agognato 28 ottobre e la diarchia formata da Vincenzo De Luca e da Gaetano Manfredi scende in piazza… per la pace. Che poi nemmeno a loro è chiaro se vogliono la pace o vogliono dire no alla guerra che non è esattamente la stessa cosa, così come entrambi auspicano l’immediato cessate il fuoco, ma i rispettivi partiti di appartenenza spingono per l’invio a mandare armi in Ucraina. Che non vuol dire certo fare la guerra.
Siccome, però, non c’è due senza tre, allo spettacolo non poteva mancare nientepopodimeno che lei, la guest star istituzionale, il mercoledì in mezzo alla settimana, la prezzemolina Liliana Segre, senatrice a vita (fino alla morte) della Repubblica italiana.
Ma andiamo con ordine in questo “guazzabuglio di guelfi e ghibellini” – come direbbe il Principe della risata – che, però, non fa ridere, ma anzi, ottimamente rende la situazione per quella che è.
Metti la Segre che ha subìto la persecuzione nazifascista all’indomani delle leggi razziali del ’38 che, però, sostiene il governo ucraino di Zelensky il quale, però ancora, annovera tra le sue Forze Armate l’ormai famoso Battaglione A3OV la cui ideologia si rifà ai principi del nazionalsocialismo tedesco;
metti che il governat(t)ore De Luca, colui che minacciava di far imbucare  i Carabinieri con il lanciafiamme alle feste di laurea, colui che, mentre invocava la riapertura dei manicomi, minacciava l’utilizzo indiscriminato del Napalm, colui che si presenta in piazza a manifestare con la mascherina mentre il ministro Schillaci firma il decreto che reintegra i medici non vaccinati – lo stesso vaccino che De Luca aveva diviso e moltiplicato: laddove il Ministero e l’Istituto Superiore di Sanità davano indicazioni per tre, massimo quattro iniezioni per dose, Vicienzo riusciva a ricavarne ben cinque! – e sospende l’utilizzo di mascherine negli ospedali, colui che non si è risparmiato nel definire “idioti” i fratelli d’Italia scesi in piazza a Salerno, proprio a casa di De Luca, proprio come lui ha fatto oggi, proprio lui parla di pace!;
metti anche il sindaco Gaetano Manfredi che, mentre ciancia di rincari dovuti alla guerra e, di conseguenza, propina a destra e a manca attenzioni e parsimonia, più falsati dei rincari, nell’utilizzo di corrente e gas, si accolla, o meglio accolla ai contribuenti napoletani, le spese per le utenze dei centri sociali – per stessa candida ammissione dei figli di papà annoiati & mantenuti – e allora il miglior cortocircuito è servito!
Da Piazza del Plebiscito si è, dunque, levato il loro grido “trino e uno”, sicuramente unico nel suo genere, distante migliaia di chilometri da ogni fronte di guerra.
Ma anche i numeri dell’evento sono da capogiro: quasi 300000 (trecentomila!!!) euro per mobilitare gli astanti. Che, tradotto dal politichese, significa che la regione Campania, ovvero De Luca in persona, ha sostenuto un costo pari a circa 300 mila euro per trasportare a Napoli i manifestanti provenienti pure dagli angoli più remoti della regione. Manco a dirlo, quelli usati sono soldi dei contribuenti campani. Che sarebbero dovuti essere utilizzati sicuramente in maniera migliore, per altre criticità magari impellenti e, non ultimo, per la collettività, non certo per finanziarsi una manifestazione sicuramente non del tutto chiara e trasparente.
La puzza di bruciato è fortissima e arriva molto lontano, tanto che la sente persino lo scrittore Maurizio de Giovanni, l’intellighenzia che ha monopolizzato addirittura la mammasantissima RAI. “È un sit-in da evitare, una parata ambigua” ha detto lo scrittore. Una prova di forza che manco Xi Jinping riconfermato per la terza volta alla guida del partito. Strana assonanza, perché anche De Luca vorrebbe candidarsi per il terzo mandato consecutivo a Palazzo Santa Lucia. Per continuare ad “amminestrare” la Regione con parenti, amici e compagni tutti “sistemati”, previo prova del consenso: pare esista addirittura un sistema-Salerno, accertato pure dalla magistratura! E certo vogliamo stupirci dell’uso strumentale che l’inquilino della Regione fa delle istituzioni? Mica vogliamo parlare della convocazione, su carta intestata della Regione Campania, della Protezione Civile? O dell’”invito” esteso a tutte le scuole campane? Una manifestazione organizzata in un giorno di scuola, in un orario scolastico in una regione in cui la dispersione scolastica ha raggiunto livelli importanti e si è guadagnato addirittura il triste primato per gli studenti che finiscono la scuola senza essere in possesso delle competenze fondamentali. Che sono quelle basilari. È lo stesso De Luca fautore delle scuole sempre chiuse per il Covid! Chissà quanti studenti e quante scuole avrebbero partecipato, se la “marcia” fosse stata organizzata di sabato pomeriggio o di domenica. Non ci saremmo stupiti se alla partecipazione avesse corrisposto anche un bonus per i crediti formativi, come fatto in occasione della marcia della pace Perugia-Assisi divenuta una marcia d’odio e di guerra nei confronti di Matteo Salvini, allora Ministro dell’Interno. E a proposito di ex ministri: anche il fu ministro della Salute Robertino Speranza, recentemente candidato e riconfermato proprio nel regno di Vicienzo, boccia la sanità campana che si guadagna, non senza (de)meriti, il primo posto per mortalità “evitabile”, cancro e patologie cardiache nello specifico. Si tratta dello stesso De Luca impegnato a propagandare senza sosta la riapertura di ospedali interi, nuovi padiglioni attrezzati, unità di emergenza nuove di zecche, mentre decuplicava giornalmente i posti in terapia intensiva?
Strano che non abbia saputo indicare la panacea per un problema semplice ed evitabile come il disagio procurato agli automobilisti con la sua trovata di piazza (basti pensare che era interdetto il parcheggio nell’intero tratto che andava da Piazza del Plebiscito a Piazza del Carmine!) che, però, avrebbe aperto il dibattito sulle condizioni stradali della città che avrebbero ben gradito per la manutenzione una parte dei fondi utilizzati per pagarsi e affollarsi la sua manifestazione. Condizioni stradali che non saranno certo sfuggite a chi si è recato a Napoli per la manifestazione, in primis agli studenti, visto che, almeno dai pareri raccolti, della guerra in Ucraina ne sapevano meno di quanto interessasse loro. Però, loro voteranno, per cui è bene che vengano già “istruiti” a scuola. E non si gridi nemmeno alla strumentalizzazione del sistema scolastico! Mica li si può indurre a pensare che la struttura dove si recano per apprendere è spesso fatiscente, piuttosto che stimolarli ad interrogarsi se sia costruita di cartone, visto che basta un po’ di vento e alle prime quattro gocce d’acqua viene chiusa? Meglio chiuderla pure oggi!
E pure se De Luca non si vede dal palco, l’importante è che se ne parli. Se non dal palco, meglio (anche) al seggio. Pure se alla pace avrebbe potuto gridare il 5 novembre, come nel resto dello Stivale, ma meglio una manifestazione tutta “sua”, o meglio, tutta per sé. Vincenzocentrica! Pure se la pace poca gli interessa, visto che gli interessi sono altri. E pace pure alla marcia, se la prima cosa ad essere marcia è proprio l’ambientazione di questa ennesima, indecorosa tragicommedia.

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“CAMPANI IN CAMPANA!” L’ultimo monito del fratacchione De Luca

Campani, in campana!
L’adunata è convocata il giorno ventotto del mese di ottobre, venerdì – che non è sabato! – presso piazza Matteotti – che per i napoletani è e rimarrà sempre PP, Pd…P, Piazza della Posta Centrale insomma, alle ore 16. Ritieniti precettato!”.
Non è il solenne proclama di una delle tante manifestazioni per il centenario della marcia su Roma che, organizzata dai reDUCI fino ai nostalgici, stanno facendo sbarellare la parte dem di quello che fu il Bel Paese già (e mai più?) Nazione, ma la nuova trovata dello “sceriffo” di palazzo Santa Lucia che, deposto il lanciafiamme d’ordinanza, imbraccia la bandierina arcobalenata profondendo echi petalosi di amore universale.
Che De Luca sia un personaggio sui generis – forse anche troppo – è cosa nota e certa a tutti. Che sia la serpe in seno al partito che non è ancora “suo” e che suo potrebbe diventarlo, dopo la probabile presentazione della candidatura alla segreteria nazionale.
Certo, è assai curioso e particolarmente singolare che De Luca lanci la “sua” operaZione specïale (da leggersi con tanto di dïeresi deluchïana) in terra partenopea, quando il partito a cui appartiene – che manco voleva candidarlo per il secondo mandato – si scapicolla urbi et orbi, a sordi e tordi, per essere un fiero sostenitore dell’invio di armi all’Ucraina, un ferreo avversario di Putin il russo – sic! – e un adulatore disarmante di quel comico che danza nudo con solo i tacchi a spillo e che suona il pianoforte con il “gioiello”, messo a presiedere il Palazzo Mariyinsky di Kiev.
Andrebbe, il buon De Luca – e non è un fatto singolare – contro la linea del partito più partito che c’è.
È LVI o non è più lui l’asseggiolato sullo scranno più alto di Palazzo Santa LVCIA (vedi Tu che ce tocca ‘e vedè!) che, tra lanciafiamme quale gratuito omaggio alle feste di laurea, incursioni ai runner in corsa solitaria sull’amena e salubre riva del mare, al posto del rilassante suono della risacca, fiero invocatore della riapertura di manicomi, per due anni e oltre, visto che ancora continua, dà(va) la caccia al campano dissenziente?
Vicienzo, padre di Pierino l’eletto (e confermato da papà), ha sette vite come i gatti (e pure sette facce non da gatto, stavolta), è capace di (re)inventarsi ad libitum, una ne pensa e cento ne fa e, allora, lancia la “sua” manifestazione contro la guerra, scevra da analisi e dietrologie. Non si scenderà nei particolari – assicura il Governatore – ma chiediamo solo l’immediato cessate il fuoco.
Che sarebbe anche cosa buona, giusta e sacrosanta, ma si potrebbe spiegare al De Luca che fare cessare i cannoni non vuol dire certo non farsi la guerra – do you remember the “guerra fredda, Vicie’? – così come non è sufficiente e soprattutto duraturo dire “fatela finita e fate la pace” per vivere d’amore & d’accordo, se prima l’accordo non lo si trova? Magari pure con amore.
Il perché una simile richiesta venga da Napoli – che è la San Pietroburgo d’Italia nella misura in cui Mosca è la terza Roma – resta un mistero: forse perché De Luca ha dovuto organizzarsi una manifestazione tutta “sua” perché da altri organizzatori di una simile esternazione, ben più simbolica e decisamente meglio organizzata di una cosa a metà fra un sit-in statico e un flash mob improvvisato, con un corteo che si snoderà dall’Ambasciata americana a quella russa, si è alzato alto il grido a non intestarsi battaglie non proprie e in netta controtendenza con ciò che persino in campagna elettorale è stato predicato, sponsorizzato e di cui il partito di appartenenza si è persino inorgoglito?
Ignora o finge di ignorare l’onorevole petizione popolare nazionale cui è seguita una altrettanto tavola rotonda a Roma indetta dall’on. Gianni Alemanno? E in tempi e temi di campagna elettorale!
Davvero Vicienzo crede che la guerra sia tra Russia e Ucraina? Davvero crede che, dicendosi solidale con quella massiccia rappresentanza della comunità ucraina (silenzio totale verso i russi, ignoranza -nel senso di dimenticanza – completa verso di loro) presente a Napoli, possa andare a dire a Putin e a Zelensky (leggasi Bidenich) di mettere fiori nei loro cannoni? Solo crisantemi rischia di raccogliere! Che, considerate le capacità rigeneratrici del De Luca, ci propinerebbe come freschi in vista del 1 di novembre! Per poi autocelebrarsi “santo” (sùbito e subìto: “abbundandis ad abbundandum”) il giorno immediatamente successivo.
Una volta i partiti – oggi dipartiti – riversavano, anche a proprie spese, la gente in piazza solamente per contarsi: un’immagine d’altri tempi? Sì, no, forse.
Si è appena votato e non ci sono elezioni in vista! Eccetto quelle per la segreteria del PD e quelle per il terzo mandato alla regione Campania, previo un paio di aggiustamenti di giunta, volgarmente detti rimpasti, utili allo scopo.
Che c’entra tutto questo con la guerra in Ucraina? Lo scopriremo dal 28 ottobre in… Avanti!

Seguiranno aggiorna(de)menti.

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“VICIENZO M’E’ PATE A ME” : De Luca si prepara ad utilizzare la Giunta Regionale per compensare gli sconfitti delle elezioni politiche!!

Vicienzo m’è pate a me! Non è l’esilarante tormentone di Peppiniello nella celeberrima commedia teatrale Miseria e Nobiltà di Eduardo Scarpetta, bensì la nuova voce che si sente nei corridoi e nelle anticamere di Palazzo Santa Lucia. Si sa, la comicità è nata a Napoli e se il P.C. che sta per primo cittadino, sia chiaro – o guardando al personaggio meglio parlare di cittadino primo – campano, che a dirla tutta campano non è, non poteva che assurgere tutt’al più a macchietta di se stesso, a caricatura di se medesimo, finendo per gigionare e non divertire più nessuno, per non far ridere e forse, persino, per essere de-riso. Senza “sal”.

Pare, infatti, che la giunta regionale, almeno da quanto riporta agendapolitica.it, sia interessata da un restyling: un rimpasto per accontentare chi accontentato ultimamente non lo è stato. Tanto per intenderci, manco a dirlo, a vantaggio dei soliti nomi noti – e chi se ne frega se sono pure degli avversari (nemici, nel gergo dello Sceriffo) – perché ora è lui a detenere il potere e con un pollice verso può decretare la vita o la morte di quelli che, finora, hanno fatto fortuna col dito medio e oggi debbono ricordarsi che hanno famiglia.
Ma Vicienzo è inarrestabile, da portatore di lanciafiamme è passato ad essere un carrarmato, un bracciante del partito – che mai come ora è partito davvero – e si spertica per candidarsi alla segreteria del Pd che prima dell’emergenza Covid nemmeno ci pensava a ricandidarlo in Campania, ma che ora potrebbe diventare “suo” per davvero e, allo stesso tempo, arruola i “fedelissimi” (e che nessuno osi pensare al clientelismo! Ancora col clientelismo deluchiano?) prima ancora di – o, forse, proprio per – approvare la “legge speciale” che aprirà la via a Delucadonossor alla terza candidatura consecutiva.
Di pensare ad amministrare la Regione, di curare la Sanità che non riesce proprio a sanare, di dare il giusto seguito al mandato che gli è stato conferito, pensare al presente e invece che al futuro, specie al suo futuro, LUI non ci pensa minimamente.
Tre è il numero perfetto e tre saranno i moschettieri – Sandra, Rosetta e Gigino – tre anche le parole d’ordine: Sandra si fa bella: si scrive Lonardo ma si legge Mastella; Rosetta… e ‘n’ata vota s’assetta; Gigino, lascia la poltrona e si piglia ‘o seggiolino!
I prescelti dal Governatore sono i “trombati” delle ultime ore, delle ultime competizioni elettorali: Sandra Lonardo Mastella si presta ad un derby perché dovrebbe prendere il posto del fedele assessore mastelliano Casucci; l’ex presidente del Consiglio regionale e demitiana di ferro Rosetta D’Amelio gioca in casa anche lei e prenderebbe il posto dell’assessore Filippelli; l’“ape” Di Maio, invece, l’“incompetente”, “la sciagura per la politica” – sono testuali citazioni del Governator d’acciaio nei confronti del fu Ministro degli esteri – forte di tre (è realmente il numero perfetto!) consiglieri iscritti al Mo-Vi-Mento dell’ape (Gi)Gino potrebbe andare a soppiantare Nicola Caputo, vistoVICIENZ che De Luca lo considera fuori dalla maggioranza in virtù della creazione di una entità a sé di Italia Viva. Viva l’Italia! l’Italia mai liberata, l’Italia dei giri di valzer, l’Italia dei lacchè!
In compenso, abbiamo avuto modo di poter apprezzare il mezzo miracolo di Vicienzo ‘o guappo mutato in re Mida che è riuscito a traghettare nell’emiciclo di Montecitorio il figlio Pierino (‘e figlie so’ piezz’e’ core!) e il di lui kompagno, l’articolo (uno) Robertino Speranza. Una vera ciambella di salvataggio per quest’ultimo perché, con l’elezione nel collegio certo quanto blindato di “papà” Vicienzo, potrà avvalersi dell’immunità parlamentare in una ipotetica inchiesta contro il suo “onorevole” operato. E dove Vicienzo non arriva, Vicienzo rimedia: vedasi il viaggio di Gigino dalla Farnesina a Palazzo Santa Lucia.
Peccato non sentire più, almeno pubblicamente, gli epiteti che Vicienzo riservava a Gigino e le epiche filippiche riservate a De Luca dall’ex pasionaria a 5 stelle nonché “commara” (di nozze) Ciarambino, per De Luca semplicemente “la chiattona”.
Tiempe belle ‘e ‘na vota: questi sono tempi di guerra e De Luca, da buon padre di famiglia, diventa esempio e predica la pace (la pece per ape-Gigino), apre le braccia e accoglie tutti indistintamente, come un pdino qualunque, da sinistra al centro, da sopra a sotto, davanti e di dietro in nome del pluralismo senza identità e in ossequio a quell’utopia dell’unipolarismo tanto caro ai dem…
In attesa che nuovi sipari si dischiudano su questa non nuova (ed evitabile) tragedia, che riportino la Campania con il suo govern-attore sul proscenio di una tragedia che non farà più ridere nessuno, ci affidiamo al Principe della risata che avrebbe senz’altro saggiamente consigliato: “Vicie’, desisti!”
https://www.camposud.it/vicienzo-me-pate-a-me-de-luca-si-prepara-ad-utilizzare-la-giunta-regionale-per-compensare-gli-sconfitti-delle-elezioni-politiche/tony-fabrizio/

“VICIENZO M’E’ PATE A ME” : De Luca si prepara ad utilizzare la Giunta Regionale per compensare gli sconfitti delle elezioni politiche!!

Vicienzo m’è pate a me! Non è l’esilarante tormentone di Peppiniello nella celeberrima commedia teatrale Miseria e Nobiltà di Eduardo Scarpetta, bensì la nuova voce che si sente nei corridoi e nelle anticamere di Palazzo Santa Lucia. Si sa, la comicità è nata a Napoli e se il P.C. che sta per primo cittadino, sia chiaro – o guardando al personaggio meglio parlare di cittadino primo – campano, che a dirla tutta campano non è, non poteva che assurgere tutt’al più a macchietta di se stesso, a caricatura di se medesimo, finendo per gigionare e non divertire più nessuno, per non far ridere e forse, persino, per essere de-riso. Senza “sal”.
Pare, infatti, che la giunta regionale, almeno da quanto riporta agendapolitica.it, sia interessata da un restyling: un rimpasto per accontentare chi accontentato ultimamente non lo è stato. Tanto per intenderci, manco a dirlo, a vantaggio dei soliti nomi noti – e chi se ne frega se sono pure degli avversari (nemici, nel gergo dello Sceriffo) – perché ora è lui a detenere il potere e con un pollice verso può decretare la vita o la morte di quelli che, finora, hanno fatto fortuna col dito medio e oggi debbono ricordarsi che hanno famiglia.
Ma Vicienzo è inarrestabile, da portatore di lanciafiamme è passato ad essere un carrarmato, un bracciante del partito – che mai come ora è partito davvero – e si spertica per candidarsi alla segreteria del Pd che prima dell’emergenza Covid nemmeno ci pensava a ricandidarlo in Campania, ma che ora potrebbe diventare “suo” per davvero e, allo stesso tempo, arruola i “fedelissimi” (e che nessuno osi pensare al clientelismo! Ancora col clientelismo deluchiano?) prima ancora di – o, forse, proprio per – approvare la “legge speciale” che aprirà la via a Delucadonossor alla terza candidatura consecutiva.
Di pensare ad amministrare la Regione, di curare la Sanità che non riesce proprio a sanare, di dare il giusto seguito al mandato che gli è stato conferito, pensare al presente e invece che al futuro, specie al suo futuro, LUI non ci pensa minimamente.
Tre è il numero perfetto e tre saranno i moschettieri – Sandra, Rosetta e Gigino – tre anche le parole d’ordine: Sandra si fa bella: si scrive Lonardo ma si legge Mastella; Rosetta… e ‘n’ata vota s’assetta; Gigino, lascia la poltrona e si piglia ‘o seggiolino!
I prescelti dal Governatore sono i “trombati” delle ultime ore, delle ultime competizioni elettorali: Sandra Lonardo Mastella si presta ad un derby perché dovrebbe prendere il posto del fedele assessore mastelliano Casucci; l’ex presidente del Consiglio regionale e demitiana di ferro Rosetta D’Amelio gioca in casa anche lei e prenderebbe il posto dell’assessore Filippelli; l’“ape” Di Maio, invece, l’“incompetente”, “la sciagura per la politica” – sono testuali citazioni del Governator d’acciaio nei confronti del fu Ministro degli esteri – forte di tre (è realmente il numero perfetto!) consiglieri iscritti al Mo-Vi-Mento dell’ape (Gi)Gino potrebbe andare a soppiantare Nicola Caputo, vistoVICIENZ che De Luca lo considera fuori dalla maggioranza in virtù della creazione di una entità a sé di Italia Viva. Viva l’Italia! l’Italia mai liberata, l’Italia dei giri di valzer, l’Italia dei lacchè!
In compenso, abbiamo avuto modo di poter apprezzare il mezzo miracolo di Vicienzo ‘o guappo mutato in re Mida che è riuscito a traghettare nell’emiciclo di Montecitorio il figlio Pierino (‘e figlie so’ piezz’e’ core!) e il di lui kompagno, l’articolo (uno) Robertino Speranza. Una vera ciambella di salvataggio per quest’ultimo perché, con l’elezione nel collegio certo quanto blindato di “papà” Vicienzo, potrà avvalersi dell’immunità parlamentare in una ipotetica inchiesta contro il suo “onorevole” operato. E dove Vicienzo non arriva, Vicienzo rimedia: vedasi il viaggio di Gigino dalla Farnesina a Palazzo Santa Lucia.
Peccato non sentire più, almeno pubblicamente, gli epiteti che Vicienzo riservava a Gigino e le epiche filippiche riservate a De Luca dall’ex pasionaria a 5 stelle nonché “commara” (di nozze) Ciarambino, per De Luca semplicemente “la chiattona”.
Tiempe belle ‘e ‘na vota: questi sono tempi di guerra e De Luca, da buon padre di famiglia, diventa esempio e predica la pace (la pece per ape-Gigino), apre le braccia e accoglie tutti indistintamente, come un pdino qualunque, da sinistra al centro, da sopra a sotto, davanti e di dietro in nome del pluralismo senza identità e in ossequio a quell’utopia dell’unipolarismo tanto caro ai dem…
In attesa che nuovi sipari si dischiudano su questa non nuova (ed evitabile) tragedia, che riportino la Campania con il suo govern-attore sul proscenio di una tragedia che non farà più ridere nessuno, ci affidiamo al Principe della risata che avrebbe senz’altro saggiamente consigliato: “Vicie’, desisti!”
https://www.camposud.it/vicienzo-me-pate-a-me-de-luca-si-prepara-ad-utilizzare-la-giunta-regionale-per-compensare-gli-sconfitti-delle-elezioni-politiche/tony-fabrizio/

PROTESTANO I PANETTIERI: a lievitare sono rimasti solo i costi di produzione!!

Tante promesse, innumerevoli interessamenti, qualche palliativo, ma nulla di concreto. È questa la ricetta sposata e condivisa, specie in campagna elettorale, da destra a sinistra per le industrie del Bel Paese che già conta a migliaia quelle sul lastrico e non sono da meno quelle a rischio chiusura. Un esempio cardine, se vogliamo, può essere offerto dal bene primario per eccellenza: il pane. Non siamo (ancora?) per fortuna all’iperinflazione della Repubblica di Weimar, dove per comprare un chilo di pane occorrevano un chilo di banconote, ma la tendenza è (ormai) quella.
Stando all’ultimo allarme lanciato dalle associazioni di categoria, di questo passo il costo del pane arriverà molto presto a toccare i sei euro al chilo e sarà difficile trovarlo ad un costo inferiore. Certo, la guerra ha inasprito i costi, ma è risaputo che l’Italia non compra, o non compra del tutto, il grano dell’Ucraina. L’Italia importa la stragrande maggioranza del fabbisogno cerealicolo dall’americanissimo Canada – riconoscibili i segni dell’antico e sempre attuale Piano Marshall – e non si capisce il perché, con due immense pianure quali il Tavoliere delle Puglie e la Pianura Padana, nemmeno da questo punto di vista possiamo essere autonomi. Autarchia: un valore d’altri tempi!
Ad incidere sul prezzo finale del pane non sono, però, solo le materie prime, ma soprattutto i costi di gas ed elettricità che i produttori non possono non scaricare sul consumatore finale.
La conclusione è facile, logica e presto letta: la gente acquisterà meno pane e dove sarà più conveniente, se ancora lo comprerà. Se ancora potrà permetterselo. Il che non farà certo diminuire i costi di produzione. Le aziende artigianali, i forni storici, quelli che producono manicaretti d’eccellenza e di una genuinità rara, ma anche le pasticcerie, le pizzerie e simili rischieranno la chiusura, ovvero il fallimento. Altre partite IVA che non saranno affatto tutelate. Non mangeranno più, mentre la grande distribuzione che sforna obbrobri industriali se ne avvantaggerà. Fagociterà ancora.
Un comparto, quello dei panettieri, che tra aziende e indotto  conta all’incirca 1500 posti in cui trovano occupazione oltre 5000 famiglie e che potrebbero ad andare ad ingrossare le fila dei “nuovi poveri”.
Trecentomila, invece, i pastai, i pasticceri e gli impiegati nell’indotto che oggi 29 settembre protesteranno a Napoli per poi replicare lunedì 3 ottobre p.v. ad Avellino: chiedono interventi urgenti, misure straordinarie non più differibili a partire da energia elettrica e gas, altrimenti rischiano di tirare giù la serranda per sempre.
Sacrifici di una vita bruciati in un attimo perché a lievitare sono rimasti solo i costi di materie prime, di elettricità e del gas. Richieste di aiuto per poter lavorare. Per poter continuare dignitosamente a vivere.
Insomma, la nuova legislatura – la XIX – si apre così come si è chiusa quella precedente: le Camere, volendo essere ottimisti, non saranno convocate prima della metà di ottobre (il 13 pare sia la data più accreditata), poi bisognerà eleggere i Presidenti delle Camere. Infine potranno essere avviate le consultazioni del Presidente della Repubblica per formare il nuovo Governo. Solo dopo si potrà partire per tentare di salvare il salvabile. Che non è rappresentato solo da panettieri, pastai e pasticceri, ma almeno 25 milioni di famiglie che, sempre più spesso, per far fronte al caro vita, se non proprio alla disoccupazione, sono allargate a più nuclei ricongiunti a quelli originari che uniscono le forze per far fronte a questo dramma abbattutosi sull’Italia. Paese che stenta a trovare un fondamento logico e una conseguenza che non sia a diretta azione di forze politiche sciagurate.
Il governo Draghi si è concluso con le promesse al presidente Zelensky che l’Italia non lo avrebbe lasciato solo nella guerra, mentre la premier in pectore Giorgia Meloni ha da subito ricambiato complimenti e sostegno  via cibernetica con il Presidente Ucraino. Chissà se gli Italiani riusciranno a mangiare e a riscaldarsi con i complimenti e il sostegno all’Ucraina.  (ma questo é un altro discorso!)
Resta solo da sperare che facciano in fretta ad ottemperare a tutti gli adempimenti istituzionali previsti in questo arco di tempo tra la conclusione delle elezioni e la formazione del nuovo governo. Evitando così di arrivare fuori tempo massimo per intervenire a sostegno dei lavoratori del comparto dei panificatori e tanti altri ancora nelle medesime difficoltà. Risposte più concrete ai problemi reali di questa Nazione ormai martoriata devono pure essere fornite.
Chi provvederà a queste necessità impellenti e non più differibili? Ci penserà il Governo Draghi nelle more dell’avvio della nuova Legislatura, magari di concerto e sentiti i leader della coalizione risultata vincente alle elezioni di domenica scorsa? Sarà necessario approvare uno scostamento di bilancio (come richiedeva a gran voce Salvini e la Lega) o potranno essere sufficienti, nell’immediato, le proposte avanzate dalla Meloni di azzeramento di tutte le accise, l’IVA e ogni altro balzello a favore delle casse dello Stato e ancora caricate sulle bollette di famiglie e imprese?
Staremo a vedere. Certo é che la “nobilitas” del futuro Governo Meloni si potrà misurare sin da subito, a partire da questi auspicabili provvedimenti di urgenza per coloro che, loro malgrado, rimangono coinvolti nelle forche caudine del caro energia. Provvedimenti pur se assunti dal governo dimissionario, (Draghi) su sollecitazione forte e con la condivisione necessaria delle forze politiche uscite vincenti dalla competizione elettorale.
Questo si, sarebbe un gran segno di concretezza, vitalità e determinazione del nascente Esecutivo di Centro Destra.
https://www.camposud.it/protestano-i-panettieri-a-lievitare-sono-rimasti-solo-i-costi-di-produzione/tony-fabrizio/

AZOV È ACCIAIO

Prima le donne e i bambini. E tra i primi ad essere rilasciati c’è lei, Cateryna Poliskcuck, professione medico, nome di battaglia “Uccellino”, così ribattezzata grazie alle sue doti canore con le quali ha allietato le notti all’Azovstall.
Con lei, come lei torna libero Mykhailo Vershyn, capo della polizia di pattuglia di Mariupol. E anche il fotografo “Eyes of Azovstal” Dmytro Kozatsky. Insieme con “Chimico”, “Docente” e “Hassan”. Ci sono anche “Frost” e “Fox” di cui si scriveva fossero stati condannati al plotone d’esecuzione.
E non mancano i loro comandanti Denis “Redis” Prokopenko e Svyatoslav “Kalina” Palamar. Sono liberi. Come il maggiore Bodhan “Tavr” Krotevych. E pure il più giovane, il nemmeno ventenne Alexander Igorovitch.
Azov sta tornando a casa!
Non per stare sul divano o davanti alla tivvù a godersi lo spensierato riposo. Per gente come questa “casa” è l’Ucraina, casa è la loro terra martoriata e le loro abitazioni distrutte. Casa è quella battaglia da continuare per difendersi ancora. Per difendere la loro gente, il loro popolo, la loro Identità.
Il comandante Denis Prokopenko al riguardo ha fatto sapere che stanno bene, sono in uno stato d’animo combattivo e sono persino desiderosi di tornare a combattere. A dimostrazione che Azov è acciaio per davvero e che le loro battaglie in nome della difesa di Identità e Tradizione sono cucite tra pelle e animo, tra tatuaggi e mimetica da combattimento. Sono ragioni di vita, per continuare a vivere per davvero. Che è anche morire, per vivere in eterno.
Dei duecentoquindici difensori dell’Ucraina, duecento sono stati scambiati direttamente con Viktor Medvedchuc, l’oligarca amico di Putin. Nello scambio di duecento a uno sono stati inseriti praticamente tutti gli ufficiali del reggimento Azov. Questo conferma il valore degli oligarchi nel sistema russo. Un sistema di oligarchi, dunque, altro che sistema di popolo! Questo può indurci facilmente ad una seconda conclusione, seppur ovvia e scontata: il Cremlino fin da subito aveva dichiarato che non avrebbe mai accettato uno scambio Medvedchuc-Azov: evidentemente non è andata così. E non è la sola cosa che non è andata come pianificato dal fine giocatore di scacchi per questa – a questo punto – (solo) “sua” operazione speciale. Elevata a “mobilitazione militare parziale”, dove parziale non sta ad indicare certo il numero degli “arruolabili” sotto l’effige della rispolverata bandiera rossa con tanto di stella, falce e martello che nelle ore immediatamente successive al discorso dello zar ha fatto registrare il sold out dei voli in partenza dalla Grande Madre ed ingorghi automobilistici interminabili ai confini con la Georgia. Tutti civili quelli che fuggono? E, se è vero che la Russia può contare su un numero pressoché elevato tra riservisti e signori della guerra opportunamente addestrati – pare 300mila all’incirca – per quale motivo fuggono paradossalmente i “civili”, che non corrono il “pericolo” dell’arruolamento? Perché lasciano la propria terra f fare dove garrisce di nuovo la bandiera a strisce gialla e blu? E il consenso similplebiscitario dell’inquilino del Cremlino? Quel consenso che sembra essere ormai un problema anche tra storici alleati e nuovi padroni del regno dello zar, Pechino in primis. Ché, se il Dragone sta da una parte, è solo dalla propria parte. I musi gialli, infatti, si sono detti contrari non solo al prosieguo delle ostilità, ma finanche ai referendum nel Donbass e in Lugansk che avrebbero dovuto sancire la legittimità dell’operazione speciale, la russificazione, e, invece, si sta trasformando nella cartina tornasole del fallimento della strategia dello scolaretto revanscista del KGB. Che, poi, a dirla tutta, questa cosa delle elezioni pare tanto essere una replica di ciò che è già successo sotto regia yankee nel 2014 e oggi, magari inquinandone il risultato (scontato), non pare discostarsi da ciò che succede oltreoceano.
Le patrie galere sono ora libere di ospitare i (propri) renitenti alla leva, quei russi che sono scesi numerosi in piazza da Mosca a San Pietroburgo per protestare contro la mobilitazione ordinata dal Cremlino: la gente non ha voglia di guerra, ha voglia di vivere e non di morire, di andare via e godersi la vita sull’esempio degli oligarchi, non di perire per una idea non loro di rifondazione dell’unione sovietica. Forse, in questo la Russia è davvero “europea” nel peggior senso del termine, incapace di credere e di incarnare un’Idea ed è (anche) per questo che questa europa è incapace di riconoscere dignità e valore ai combattenti di Azov che non si sono tirati indietro difronte a chi ha minacciato la scomparsa della loro Identità. Di popolo e di Tradizione. Offrendo il più alto esempio di combattimento che si ricordi dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi. E, tocca ammetterlo, da apprezzare è addirittura il presidente-pupazzo Zelensky che ha tutte le colpe di questa guerra – che non è certo tra Russia e Ucraina – ma che è rimasto in Patria. Dove, forse, sarebbe dovuto rimanere Putin che ormai inanella continui passi falsi che si traducono in un bilancio tutt’altro che positivo: crescente rifiuto di combattere una guerra che i russi non vogliono – che significa anche un calo vertiginoso del consenso – rianimazione di un carro bestiame vecchio e senza motivo di esistere come la Nato con conseguente allargamento della stessa organizzazione; dimostrazione al mondo di arretratezza e incapacità dell’apparato bellico neosovietico – chissà cosa abbia appreso Putin dalle esercitazioni congiunte con la Nato e la sua richiesta di aderirvi -; implosione del CSTO e dell’area di influenza russa che certifica la potenza cinese con conseguente placet a fare razzia; conseguente isolamento diplomatico del Cremlino che si traduce in una già sudditanza cinese in primis, turca sicuramente e, forse, anche indiana; l’allontanamento, se non un definitivo addio, dei rapporti commerciali di Mosca con l’Europa – a vantaggio degli Usa che intavolano un nuovo piano Marshall – dopo (anche) la rottura dell’asse Mosca-Parigi-Berlino; crescente recessione economica russa che sarà costretta a svendere le proprie ricchezze, gas in primis a Cina e India su tutti che faranno da riserva per il Cremlino a prezzi stracciati; certificazione (e contributo) all’unipolarità del mondo a guida anglo-americana; ultimo il primo motivo dell’operazione speciale, quello della denazificazione che si è conclusa con la liberazione dei nazisti di Azov.
Per Putin e la Russia avrebbe dovuto essere lo sbocco al mare, ma qua tocca raccogliere il salvagente, seppur cinese, che Pe-chino ha lanciato allo zar, oltre che bisogna anche tenere presente che Kissinger ha cent’anni e non è eterno. A meno che non si scopra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che la Russia è solo l’altra faccia degli Usa. Allora potrà essere compreso anche Azov che è faccia pura, senza maschere né filtri. E che Putin, se non è complice, è proprio fesso. Che non so cosa sia peggio. C’è di vero, però, che gli Ucraini non sono i russi, che la loro Patria l’hanno resa grande contro una Grande Madre e che gli invasori stanno lasciando persino la propria terra d’origine. Per scelta e non per scelta, per convenienza e per continuare a vivere. Mentre gli aggrediti ritornano a casa, in quella casa mai abbandonata, più vivi che mai.

AUTOSTAZIONE “GODOT” DI AVELLINO: L’ENNESIMA INAUGURAZIONE FASULLA DI UN DE LUCA COMICO CHE NON FA RIDERE!!

De Luca fa, De Luca disfa. Vincenzo crea, Vicienzo distrugge. Non è certo l’onni (m)potente lui, ma è come se lo fosse. Perché lui si sente così. Lui non si discute. Lui è! Punto. Deve avere veramente un bel nulla da fare – o meglio d’affare – il Presidente plebiscitario della regione Campania per camuffare il nulla assoluto, il vuoto cosmico, per “ammacchiare” le macchie del suo “operato” divenendo macchietta egli stesso e finendo (in senso metaforico) per arricchire (e qui nessuna metafora è contemplata!) con sempre nuove genialate la sua infinita pièce teatrale.
E ieri, 7 settembre, lo sceriffo “ha fatto un altro piezzo”, inaugurando – dopo 36 anni di lavori – l’autostazione dei bus di Avellino. Che non è ancora completata.  E magari pure ringraziarlo qualora i lavori dovessero continuare ancora per il mancato completamento delle commissioni. Cosa assolutamente possibile, al momento.
Non è certo una commedia, purtroppo è tutto vero, tanto che la nuova opera è stata subito ribattezzata “Godot”. Il teatro dell’assurdo. L’eterno divenire. L’infinita perifrastica. La situazione in cui si continua ad aspettare in eterno qualcosa che appare come imminente, (e abbiamo detto che sono trascorsi “solo” 36 anni dall’inizio dei lavori!!) senza fare nulla perché siano effettivamente ultimati i lavori o, almeno, ci si dia una smossa.  Ed è proprio il caso dell’autostazione di Avellino  (De Luca ha specificato che si tratta proprio di un’autostazione e non di un semplice terminal) che, però, manca di collaudo e di ogni altra diavoleria burocratica perché possa iniziare ad essere fruibile dall’utenza. “Le autorizzazioni necessarie ci sono”, ha subito precisato il manager di AIR, meglio “di area”, l’area e l’aria sua, quella di De Luca che a gestire l’azienda di autotrasporti irpina ci ha piazzato un manager salernitano! Giusto per dire che la visione “salernocentrica” è una concezione deluchiana che “non esiste”. È l’ennesima eccezione che conferma la regola.
Allora, se le autorizzazioni necessarie ci sono, non si capisce perché la messa in servizio avverrà, meglio, dovrebbe avvenire si spera, solo il 7 di ottobre. Speriamo dell’anno corrente. E se le autorizzazioni per il collaudo non ci sono, come si è potuto tenere una pubblica manifestazione per inaugurare qualcosa che non c’é o non funziona ancora?? Poniamo così, assurdo per assurdo: l’opera inizierà(?) la sua attività il 7 di ottobre, ma il 7 di ottobre è una data successiva al 25 di settembre, l’election day dove Pierino De Luca, progenie di Vincenzo il Grande, si giocherà il futuro della permanenza in Parlamento, seppur candidato al primo posto in un collegio blindato. Allora ci pensa papà. E papà inaugura l’autostazione Godot durante le elezioni. Nonostante il “trascurabile” dettaglio che da domani l’opera inaugurata resterà chiusa. Domani, infatti, le corse partiranno da dove sono partite in tutti questi anni. Nulla è cambiato. Nemmeno i parcheggi potranno funzionare. E chissà quando potranno vedere la luce gli oltre 300 posti di lavoro promessi da De Luca. Riuscirà in un mese esatto a reclutare, formare e condurre alla meta burocratica le 300 persone che nell’opera inaugurata dovrebbero trovare un’occupazione?
Ma quello andato in “oscena” ieri ad Avellino non è che l’ennesimo tassello di una strategia collaudata – questa sì! – e che funziona nel tempo: come non dimenticare i numerosissimi ospedali inaugurati da De Luca nel biennio ’20/’21 a.c. (anno covid) e mai entrati in funzione? Che altro non erano che i moduli arrivati scenicamente in città di notte su un tir per poi essere abbandonati all’incuria e diventare sede di graminacee ed erbacce dalla crescita incontrollata. Alcuni di quegli “ospedali” mai entrati in funzione furono inaugurati più e più volte! Su Campo Sud Quotidiano troverete tutto il dossier, corredata dalle denunce presentate agli organi competenti dall’on. Marcello Taglialatela, il solo che ha intrapreso questa battaglia contro il satrapo annidatosi in Regione e che hanno fruttato già numerose comparizioni davanti agli organi giudiziari competenti. Quella stessa sanità che gli ha dato la “Santità”, secondo Vicienzo: non c’è un solo ospedale campano che non sia in emergenza: per carenza di risorse umane, per bilancio insufficiente, per attrezzature e macchinari sanitari inesistenti. Il Moscati di Avellino è stato addirittura costretto a chiudere il pronto soccorso agli interventi  che non fossero da codice rosso – ne abbiamo parlato qualche giorno fa sempre qui su campo Sud Quotidiano – interventi chirurgici saltati perché il personale – quello rimasto – è stato spostato per le emergenze e sottoposto a turni di lavoro massacranti. Emergenze che sono tali perché è stata congestionata l’affluenza presso i pochi ospedali risparmiati dai tagli, per nulla chirurgici, di Delucanossor, così come è stato ribattezzato nel besteller Terronia Felix, logica conseguenza e disagio già annunciato – non dai De Luca boys, però – presso i pochi ospedali che non hanno potuto fronteggiare l’emergenza. Ad arte creata. Così come “creati” sono stati di posti di degenza nelle terapie intensive: da posti effettivi siamo passati a quelli disponibili, poi a quelli utilizzati, poi a quelli… inventati! Così come le decine di posti in cardiologia presso l’ospedale di Sant’Angelo dei Lombardi inaugurati – manco a dirlo – da De Luca in persona e chiusi dopo 10 giorni! Perché? Non si sa. Bisognerebbe chiedere a Pierino De Luca che dice, in “campania elettorale” di voler riaprire l’ospedale di Solofra, potenziare le attività di quello di Ariano Irpino, di aprire nuovi reparti a Benevento e a Napoli: chissà se sa che tutti i nosocomi di cui ciancia sono stati chiusi proprio dal suo papà. Pieri’, Vicienzo t’è padre a te! Non ci stupiremmo di certo nel vedere Vicienzo Godot chiudere ospedali interi per poi farli riaprire dal figlio. Magari questa sarà la prossima mossa utile (e idiota) per l’avvicendamento sullo scranno più alto di Palazzo Santa Lucia, se col Parlamento dovesse andare male. Difficile, Pierino è capolista in un collegio blindato. Se proprio dovesse andare male, potrà sempre chiedere a papà Vicienzo un posto dei trecento all’autostazione “Godot” di Avellino. Altrimenti…. potrà sempre attaccarsi… al bus! Insieme al papà.

https://www.camposud.it/autostazione-godot-di-avellino-lennesima-inaugurazione-fasulla-di-un-de-luca-comico-che-non-fa-ridere/tony-fabrizio/

IL RICORDO DEL GENERALE DALLA CHIESA E DI QUELLA PORTA CHE NON SI APRÌ MAI

Tutto come da copione anche quest’anno. Galloni tirati a lucido, fasce tricolore fresche di tintoria, damine incipriate per il gran galà di coronamento della carriera. Le parole sono quelle buone, degne della “migliore” retorica, quelle da fiera delle belle intenzioni. Insomma, non è mancato proprio nulla per il quarantesimo anniversario della morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. A perenne ricordo che anche quarant’anni fa le parole delle istituzioni furono solo delle belle parole e nulla più. Quelle che ieri avevano tutto il carattere delle promesse e che, quarant’anni dopo, hanno tutto il sapore dell’inganno.
Non serve ripercorrere la carriera militare del Generale, né fare ricordo della sua umanità, delle sue qualità di solidarietà umana, di comprensione e di indulgenza verso gli altri ché, quelle no, non sono morte. Anzi, sono vive più che mai. Anche dopo quarant’anni.
Questa volta raccontiamo di quando il Generale bussò e nessuno gli rispose. O, forse, fu una risposta eloquente anche il silenzio. Omertoso. Lo raccontiamo perché, proprio nell’anno del quarantesimo anniversario della morte di Dalla Chiesa, è scomparso un altro (co)protagonista della vicenda: Ciriaco De Mita.
Dalla Chiesa, dopo aver combattuto sul campo, concretamente il Terrorismo rosso degli anni di piombo, dopo aver fronteggiato tutta la veemenza di chi, dopo mesi, anni di terrore, si trincerava dietro alla “prigionia politica” venne mandato in Sicilia per combattere la mafia.

Solo su di lui puntava lo stato. O, meglio, su di lui solo.

Egli chiese pieni poteri: gli furono promessi, non gli furono mai concessi.
Erano gli anni in cui non era stato ancora inaugurato il pentitificio di stato; per capire, per combattere il sistema delle cosche bisognava sporcarsi le mani nel vero senso del termine; erano gli anni in cui la Sicilia faceva paura e basta, non era ancora stata trasformata nel trampolino di lancio per stratosferiche carriere politiche, giuridiche, giornalistiche, imprenditoriali.
Erano gli anni in cui il generale Dalla Chiesa era solito rifugiarsi, soprattutto nel mese di agosto, a Villa Dora – così chiamata in onore della prima moglie – in un paesino delle verde Irpinia, Prata Principato Ultra. Amena collina, aria salubre, quiete e pace ristoratrici, vicini eccellenti. A meno di 30 km di distanza, nella natale Nusco, viveva l’allora presidente della Democrazia Cristiana Ciriaco De Mita. E proprio alla porta della tenuta del segretario della DC, già Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana, il Generale bussò senza, tuttavia, mai ricevere risposta. Ignorato totalmente. Indifferenza completa. E per questa cosa Dalla Chiesa non si dava pace. Non era possibile che nessuno lo ricevesse, che a nessuno importasse cosa lui avesse da dire. Come (non) potesse fare. Come (non) dovesse fare. Era impensabile – per lui – che i signori della politica pensassero che proprio l’incorruttibile Generale non stesse dallo loro stessa parte. Proprio lui che era arrivato al covo dove le Brigate rosse tenevano prigioniero il “compagno” di partito – poi di-partito per davvero – Aldo Moro, che a Bari commissionò proprio ad uno sconosciuto Dalla Chiesa la tesi per la laurea in Giurisprudenza, e proprio a lui fu detto di “lasciar stare” quell’appartamento. Proprio lui che aveva aperto le patrie galere a terroristi del calibro di Renato Curcio e di Alberto Franceschini.
E proprio lui fu inviato in Sicilia a combattere la mafia. Senza alcun potere speciale. Di quelli di cui si era avvalso per la lotta al Terrorismo rosso. Meglio un eroe morto che un combattente vivo, si potrà pensare in mala fede. E “a pensare male si fa peccato, ma spesso si indovina” era una delle convinzioni di Giulio Andreotti, esponente di spicco di quella DC del “silente” De Mita e dell’allora Presidente del Consiglio Spadolini che pensò di conservare bene bene nell’archivio di casa la lettera con cui il Generale chiedeva disperatamente a Roma i poteri speciali per espletare al meglio il proprio compito, per offrire il giusto successo – rendere giustizia – del proprio lavoro allo Stato committente.

Quella giustizia che annoverava tra le sue file il procuratore di Palermo Vincenzo Pajno – come racconta il prof. Nando Dalla Chiesa, figlio del Generale – che ebbe a dire verso suo zio che “non intendeva giocarsi le ferie!”. Un Ingroia ante litteram. Anche il buon magistrato persecutore di un altro servitore dello stato quale è Bruno Contrada e che oggi calca il palcoscenico della politica, nell’ultima tornata con Italia Sovrana e Popolare di Rizzo & co(mpagni), infatti, subito dopo la strage di Capaci e prima dei fatti di via D’Amelio, dove perse la vita Paolo Borsellino, ebbe l’ardire (e l’ardore) di dire al giudice missino che lui “doveva andare in ferie!”.

Ferie ristoratrici, ferie che servono ad incontrare amici e persone fidate, ferie che non ebbero tempo per il Generale presso Villa De Mita a Nusco né per una passeggiata presso Villa Dora di “Ciriachino”, dove al fresco del grande gelso il Generale ha ospitato tutta l’Italia che contava. Evidentemente non contava più Dalla Chiesa e di lui si contavano solo i giorni dell'(annunciata) agonia. Quattro mesi, nemmeno poi tanti, dovettero sforzarsi di contare coloro che lo lasciarono solo. Coloro che sono gli stessi che sono arrivati a contare i 40 anni dall’omicidio.
Coloro che avevano aperto la porta di casa a tutti, dove entravi fedele elettore ed uscivi “sistemato”. Lavorativamente. Almeno quelli che erano, appunto, elettori. Meno che per Dalla Chiesa. Le porte di quella casa dell’entroterra irpino che fu il suo rifugio estivo, però, sono aperte a tutti ancora oggi: Villa Dora è, infatti, un centro d’avanguardia per il recupero delle persone con problemi di tossicodipendenza. Perché quel senso di giustizia che fu il perno della vita, non solo istituzionale, del Generale continua ad essere seme e germoglio, frutto e pianta e radici. Forse legno, di porte non chiuse. Diversamente di quelle porte che adesso sono chiuse. Chiuse per sempre. Di quel legno arido. Secco. Morto per davvero.
Dopo 40 anni, col disincanto del tempo, sarebbe sufficientemente doveroso utilizzare due sole parole che, nelle cerimonie ufficiali, ancora sono estranee: grazie, per tutto quello che il Generale ha dato all’Italia: la sua vita e quella dei suoi cari in primis; e scusa, per tutto quelli che lo hanno ostacolato, per tutti quelli che lo hanno lasciato solo in vita e continuano a sfruttarlo da quarant’anni anche da morto. Se, poi, qualcuno lo ritiene opportuno, si inginocchi pure.

https://www.camposud.it/7002-2/tony-fabrizio/