ZUK CONTRO MUSK: CHI CI PERDE E’ L’IMMAGINE POSITIVA DELL’ITALIA!!

È bastato lanciare l’esca in rete che tanti pesci sono abboccati. Per carità, non parliamo di “modernità”, di pragmatismo, di pubblicità e di valorizzazione. E non buttate nel calderone pure la beneficenza che fa tanto politically correct e basta più. Una buona maschera da mettere a quelli che una faccia non ce l’hanno più perché non possono più mostrarla.
Dopo l’annuncio dei due re del mondo social, Zuckerberg e Musk, di volersi sfidare in un incontro di arti marziali, di tenere una challenge, forse così è molto più international, dopo l’impossibilità di utilizzare quale location nientemeno che il Colosseo, abbiamo assistito al meretricio politico più spurio, che ha valicato i confini della decenza, ha superato la soglia della dignità, ha calpestato spudoratamente persino il decoro. Da nord a Sud dello Stivale, da Verona a Taormina, da Firenze a Pompei è stato un vero e proprio “offrirsi” ai due americani, affinché la “città aperta” ad ospitare l’evento potesse accaparrarsi lo “storico” avvenimento. E come se non bastasse già tutta questa vergogna tricolore, la Campania fa di più, bissa addirittura, non lascia ma raddoppia: se il Sindaco di Pompei mette a disposizione dei due “colossi” social l’Anfiteatro di Pompei, con tanto di bacchettata da parte del Primo Cittadino della vicina Ercolano che invita i due a venire in Campania “per le idee e non per le botte”, immediatamente Mastella, da buon mastino, candida Benevento tra i papabili della scelta col suo – di Benevento, non di Mastella – teatro romano.
Il copione che recita la politica è unico, nel senso che è uguale da nord a sud, isole comprese, monòtono e monotòno. Il politichese perfetto, la demagogia pneumatica incartapecorita di united colors rossa, bianca e blu con le stelline: la pubblicità. La visibilità. Dopotutto abbiamo a che fare con un mondo, quello di Zuck & Musk, perennemente in vetrina. Pubblico. E, forse, pure pubico. Non pudico.
Davvero dobbiamo credere che serviva il “duo yankee” per conoscere e far conoscere nel mondo intero l’Arena di Verona – e, perché no, quella di Pola – Firenze, ma solo su modello Leonardo vs Michelangelo (Nardella evidentemente ignora il taglio romano che i due avrebbero voluto dare al duello), Pompei ed Ercolano, Benevento, Matera e Taormina?
Se tutti questi Sindaci, amministratori che non sono altro, la smettessero di comportarsi come dei novelli promoter, potrebbero davvero iniziare a pensare ai siti archeologici che (s)vendono, in termini di pulizia, salvaguardia, formerebbero personale qualificato, si batterebbero per creare infrastrutture e potenzierebbero i modi per arrivarci. Potrebbero fare di tutto, eccetto, però, assecondare i capricci di due miliardari che vorrebbero rendere i nostri siti archeologici unici al mondo per bellezza, storia, età, conservazione, significato dei meri parchi giochi. Accessibili solo a loro. Ignorando e prestandosi al gioco di mettere un prezzo a ciò che ha solo un valore.
I due, però, potrebbero non essere il peggio dell’intera vicenda. Peggio di loro ci sono i nostri (ahinoi!) rappresentanti, che si sono scapicollati per farsi notare, come delle banderuole al vento, che si sono inginocchiati peggio di uno sciuscià che ha più dignità ed ora che i due sembrano aver bleffato e sono in procinto di annullare l’incontro-evento, la pubblicità promessa all’Italia tutta e, alla fine, non promossa da nessuno, non rimane che un’immane figuraccia, la prova plastica della spina dorsale ridotta a cinquantunesima stella o quattordicesima striscia. Una dimostrazione di fedeltà coloniale ai limiti dell’imbarazzo per l’identità italica e l’orgoglio tricolore.
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Avellino, tra diritto allo svago e violenze in centro città

Avellino, 11 ago – Per chi se n’è accorto tardi o era semplicemente spensierato, com’è giusto che sia in una serata agostana, la scena è questa: un’auto piomba su un muro di gente in centro città e tenta di aprirlo a mo’ di testa di ariete. Ne seguono insulti e ammaccature con calci e pugni alla macchina, finché, sceso il conducente, ne nasce una scazzottata, ingigantita in rissa di 20 “pedoni” contro il solo conducente dell’auto-ariete. Entrano in scena sirene blu di Forze dell’ordine e ambulanze. Risultato: due giovani finiti in ospedale per l’investimento; indagini per accertare chi ha fatto cosa e perché; opinione pubblica divisa tra chi “tifa” residenti e chi si schiera a favore della movida. Movida a parte, poteva sembrare una scena degna della migliore Baghdad o immagini già viste come sugli Champs Elysees, ma siamo ad Avellino in un “normale” mercoledì sera d’agosto. E, forse, per trovare il bandolo della matassa bisogna partire proprio da qui: i “mercoledì del centro storico” organizzati dall’Amministrazione comunale guidata da Gianluca Festa che porta a riversare per le strade urbane una moltitudine di giovani, dall’aperitivo fino a tarda notte. Mattina presto, per i residenti che, attraverso numerosi esposti, fanno sapere di non reggere più la situazione, ormai insostenibile tra schiamazzi notturni, risse e gente che sporca in ogni dove. Il tutto in piena città, nel bel mezzo della settimana. Una trovata da parte del primo cittadino per (ri)animare la città che nel fine settimana è soggetta a esodo nella più vicina Salerno.

Avellino, tra violenze e diritto allo svago

Ieri sera, nello stesso giorno in cui un noto avvocato presentava l’ennesimo esposto a carico di un’altra persona che, nella centralissima piazzetta Kennedy, si è abbassato i pantaloni e ha urinato pubblicamente, come se si trovasse nell’ultima latrina della città più degradata della faccia della terra, si è sfiorata la tragedia tra chi stava esercitando il sacrosanto diritto allo svago e chi ha lo stesso identico diritto di rientrare in casa propria. Che però si trova al centro della movida e delle Ztl, queste non dipinte degli stessi colori dell’arcobaleno, come gli attraversamenti pedonali.

È possibile, però, che, vista la criticità e la recidività dei disagi provocati e, a questo punto, dei pericoli creati, da Palazzo di Città non è stata studiata alcuna soluzione alternativa? È possibile che Avellino, sempre più periferia di Napoli, deve conquistare gli onori delle cronache perché gli ultras della locale squadra di calcio irrompono durante i festeggiamenti per lo scudetto vinto dai partenopei picchiando liberamente chi altrettanto liberamente festeggiava o perché, lungo il centralissimo viale Italia, qualcuno esplode colpi di arma da fuoco in un “normale” sabato sera? Non dovrebbe essere difficile per un’Amministrazione capace di gestire la città come una Pro Loco o un comitato festa, che si gloria dei successi per il concertone di Geolier – a proposito: ma la rissa seguita dopo aver spruzzato dello spray al peperoncino c’è stata o no? È stato accertato il mistero o no? – come fosse stato gli eventi degli eventi, quando un’altra città confinante e altrettanto “provinciale” – e non nell’accezione negativa del termine – il concerto del rapper di Secondigliano lo inserisce in una serie di eventi, di ben altro spessore culturale, come Benevento Città Spettacolo? Che senso ha lanciare l’hashtag in Piazza della Libertà #lovellino, fusione delle parole “love” ed “Avellino”, in vista di eventi estivi e invernali che vedranno il culmine con l’Eurochocolate che si tiene, però, a Perugia, dove potremo scoprire che Avellino ha delle nocciole buonissime, ma che vengono lavorate in opifici non di Avellino? Servirà il turismo biancoverde e basta a portare gente in Irpinia quando questa terra ha delle potenzialità che sono inespresse in loco, ma valorizzate altrove?

Ma per dirla con il sindaco Festa (nomen omen?) che ha fortemente voluto la piattaforma digitale per promuovere le bellezze del territorio irpino e favorire lo sviluppo turistico: “Enjoy”! A protagonisti e spettatori dei fatti occorsi in città ieri sera l’ardua sentenza.

https://www.ilprimatonazionale.it/cronaca/avellino-diritto-svago-violenze-centro-citta-268024/

LA TRISTE STORIA DI UN OPPOSITORE DELLA POLITICA STATUNITENSE: IL CASO EMBLEMATICO DI JULIAN ASSANGE.

Se facciamo un giro in rete ci imbattiamo in una moltitudine totale di pesci, ovvero personaggi che non solo non parlano, ma, a quanto pare, nemmeno sentono. Pezzi di intellighenzia, intellettuali e pseudocolti che hanno k(ili) di seguaci – followers non rende l’idea – e che seguono a loro volta, ma che non vanno in nessun luogo e che non portano da nessuna parte. Eppure costoro hanno un’opinione su ogni cosa, dalla cucina alla geopolitica, dalla sanità alla guerra. Penne raffinatissime, frecce e punte che dovrebbero essere pronte a scoccare dall’arco e che, invece, si riducono ad essere in balia del vento; banderuole quando va bene, meri oggetti ornamentali, stracci quando va male. Mi riferisco precisamente al silenzio mediatico che è calato sulla vita – e la morte – di Julian Assange, l’hacker australiano che ha dichiarato guerra agli Stati Uniti d’America. Né la liberazione di Patrick Zaki – al quale è stata concessa la cittadinanza italiana, mentre per Assange votarono onorevolmente tutti i deputati in massa – né il recente caso di Navalny, l’oppositore più temuto da Putin, sono riusciti a fare anche solo alitare sul caso Assange. Chicco Foti, invece, è stato esibito sul palco del politichese e dell’elettoralismo credulone, tronfio trionfo della incapacità onorevole deputata, prova di fiducia di quel colonialismo che ha portato, invece, ad avere un jet col motore già caldo quando le aule del Tribunale di Perugia non erano ancora state chiuse in faccia ad Amanda Knox.
Eppure, lor signori, i rivoluzionari (di carta), i cantori di gesta eroiche (del passato) che dovrebbero dettare l’agenda ed essere avanguardia, illuminati e illuminanti, sensibili e romantici sono sempre pronti a trovare il collegamento con tutto: parli del clima impazzito (ciclicamente) e vanno a tirarti fuori la tromba d’aria del Montello del 1930; parli della guerra in Ucraina e qualcuno, più coraggioso, arriva fino all’holodomor. Ma su Assange… Silenzio tombale. Profetico. Eppure il silenzio che cala, che è stato fatto calare, è la prova schiacciante che Assange ha ragione. Ma come può avere ragione un hacker, uno che si infila abusivamente e illegalmente  nei server della Difesa americana e ne mette a repentaglio la sicurezza, non solo cibernetica e a livello mondiale? Semplicemente perché ha tolto tanto trucco alla democrazia più potente dell’intero pianeta con un colpo di spugna, raccontando la verità. Ma come, in democrazia, nel Paese democratico per eccellenza, che si gloria di esportare la democrazia tanto che ce n’ha, non si può affermare democraticamente ciò che si conosce? Liberamente? A quanto pare no! La democrazia, il pilastro su cui poggia l’Aquila calva, è essenziale, ma non deve essercene troppa, altrimenti diventa una minaccia persino per sé stessa. Cosa avrà mai trovato Assange di tanto compromettente intrufolandosi negli archivi del Pentagono, della CIA, di SIS e USIC? La prima verità ad essere secretata è stata la “Collateral Murder”, l’uccisione di civili inermi a Baghdad da parte di militari americani su un elicottero che poi sghignazzano e se la ridono come matti. Persino un passante fermatosi per soccorrere, viene assassinato davanti alle figlie. Seguono le risate. Come prima.
Poi Assange, attraverso WikiLeaks, l’organizzazione da lui fondata, tira fuori ( che sta per “pubblica in rete” ) 92 file segreti sulla guerra in Afghanistan, 391mila sulla guerra in Iraq, 251287 sulla diplomazia a stelle e strisce e ben 779 schede su Guantanamo, la prigione americana che non ha bisogno di presentazioni e che potrebbe dischiudere i suoi cancelli proprio al blogger australiano. La Casa Bianca non è certo stata a guardare nel frattempo: se fare la guerra è il loro passatempo preferito, se non la ragione della loro esistenza, figuriamoci cosa possono fare con chi vuol fare loro la guerra. Non escluso Trump, che, dopo essersi affidato ai QAnon e al mondo controinformatore più variopinto, ha pensato di graziare solo chi avesse con esso reati finanziari, ma non Assange, dimostrandosi, non senza sorpresa, un americano tra gli americani.
Atto I: Assange viene accusato (e condannato) per due casi di stupro – come un Clinton o un Biden qualunque – poi ridottisi a molestie sessuali. Aperto una nuovo processo per stupro la cui accusa (meno grave) è aver avuto rapporti sessuali con due donne consenzienti senza l’uso del preservativo (da loro richiesto). Dopo la pubblicazione dei file relativi alla guerra in Iraq, Assange stesso si consegna a Scotland Yard, la polizia inglese – da sempre miglior alleato degli Usa – che lo ferma su ordine della Procura svedese per estradarlo e interrogarlo in merito alla vicenda degli stupri. Assange trova rifugio nell’ambasciata ecuadoriana di Londra, il cui allora presidente era in rapporti ostili con Washington, dove vivrà in una stanza di pochi metri quadri che avrebbe fatto impazzire chiunque. Il suo cervello, però, continua a funzionare e lui si dice pronto a rispondere ad ogni domanda dei giudici svedesi che, tuttavia, non si recheranno mai in terra inglese per interrogarlo. Gli Inglesi minacciano di portarlo via con la forza e in perfetta copia dello stile di Sigonella, circondano l’Ambasciata, che dovrebbe essere un luogo inviolabile anche in guerra. Guerra che effettivamente gli Usa stanno facendo ad Assange e viceversa  e riescono a prendere Assange facendo leva su una legge addirittura del 1917. Portato via come il peggiore dei delinquenti. Un libero cittadino, uno dei più liberi e in mondovisione. Preso in consegna e portato nel carcere peggiore di Sua Maestà, il Prison Belmarsh, il più duro del Regno Unito, insieme con detenuti pericolosissimi, ma senza uno straccio di condanna, in attesa della sentenza – che è praticamente già scritta e che decreterà o meno l’estradizione negli Stati Uniti. Cent’anni fa quasi, Qualcuno ebbe modo di dire “Dio stramaledica gli Inglesi!”: nessuno meglio di Assange potrà dire quanto queste parole siano tristemente profetiche!
Qualora la richiesta fatta alla Perfida Albione dovesse essere accolta, gli States, i democratici states, accoglieranno Assange col carcere duro, con 175 anni di isolamento, sia nella cella di 3X3 metri, senza tivvù né finestre e con lavabo e tazza in acciaio attaccata al pavimento e alle pareti, sorvegliato a vista 24 ore su 24 e con la luce sempre accesa (Ezra Pound, il pazzo, vi dice niente?), sia nelle parti comuni del penitenziario con limitazioni anche per l’ora d’aria che sarà goduta sempre in assoluta solitudine e con sorveglianza affidata ad un corpo speciale di secondini.
Un’americanata che, stavolta, non scorre sulle pellicole di Hollywood di cui tutti noi siamo passivi spettatori senza nemmeno aver scelto di seguirne il copione e che servirà a dare una lezione a chi vuole essere più democratico dei democratici. Ne hanno colpito uno per educarne cento, anche se non siamo in Cina. E a vedere lo stato di “disciplina” di reporter e giornalisti, di corrispondenti ed inviati , di editorialisti fino all’ultimo correttore di bozze, dalle tivvù di stato alle tivvù (finte) libere devono aver fatto un gran bel lavoro. Chissà, che questo silenzio non è altro che l’impegno profuso nel preparare il necrologio funebre e l’epitaffio più bello. Quelle parole vuote e vane perché postume con le quali scatterà la gara di velocità quando il boia avrà deciso, quelle parole che non serviranno a montare coscienze né a purificare cervelli, ma saranno solo catene per gli stessi giornalisti, scrittori, studiosi, intellettuali che le pronunceranno. Parole inutili, che più non serviranno. Ma che servono. Che ottimamente servono. Come questa Italia serva. Che serve.

https://www.camposud.it/8599-2/tony-fabrizio/

“Fitto” mistero sui 16 milioni di euro all’ex Opg di Napoli

Roma, 6 ago – Ora usciranno pazzi per davvero. Si interrompe la favoletta dell’ex Opg (ospedale psichiatrico-giudiziario) di Napoli che non godrà più della pioggia di fondi del Pnrr. Ne dà notizia addirittura Open di Mentana, che a leggerlo è come la ciliegina sulla torta. L’ex struttura fatiscente del rione Materdei, dopo essere stata abbandonata nel 2008 dal corpo di Polizia Penitenziaria, è stata occupata dai centri sociali rossi molto vicini all’allora sindaco della rivoluzione arancione e fautore della flotta napoletana, oggi reinventatosi autore teatrale – chissà se di tragedie politiche magari autobiografiche – Gigino de Magistris, e successivamente presi a balia anche dal suo successore a Palazzo San Giacomo ed ex rettore della Federico II, Gaetano Manfredi, che, da buon figlio di papà e papà di cotanti figli, congela lo sgombero dello stabile e convoca in comune gli okkup-anti; quindi, di concerto con i novelli ribelli, valuta i progetti con cui poter dare una giustificazione di esistenza alla vecchia struttura di via Jannelli e successivamente inventarsi un modo per assegnare la sede al centro sociale “Je so pazz” e a Potere al Popolo.

L’ex Opg di Napoli, tanti saluti ai 16 milioni

Poco importa che l’edificio, a detta di Prefettura e Demanio, che intanto ne era diventato proprietario, risulti essere pericolante, persino per gli occupanti e proprio per questo avevano più volte tentato lo sgombero. Le proteste di piazza e le campagne giornalistiche della stampa amica hanno impedito che tutto ciò avvenisse, almeno fino all’inizio dell’anno corrente quando pare che la Prefettura fosse intenzionata a mettere tutti alla porta con l’uso della forza. Almeno fino a quando il primo cittadino non si era messo di traverso ed era riuscito ad inserire il recupero della struttura tra i beneficiati del PNRR. “Perché, se l’edificio era pericolante e doveva essere messo in sicurezza, non c’era nulla di più urgente da fare”. Almeno fino a quando sulla “Napoli rossa” non si è abbattuta la scure di nome Raffaele Fitto, attuale ministro per gli Affari europei, le politiche di coesione e il Pnrr che non solo ha cancellato la regalia dei 16 milioni di euro, ma ha ulteriormente “inguaiato” il primo cittadino partenopeo, ereditiero delle già disastrate casse del Comune “amministrate” da de Magistris e che ora dovrà sborsare la cifra di 246.248 euro per i lavori già cominciati. Se non hanno idea di dove prenderli, possono sempre attingere dall’”acconto” che i militanti della sezione Berta consegnarono molto generosamente fin sull’uscio di casa, appena il centro fu bagnato dalla pioggia di milioni.

Ma i diretti interessati – si fa per dire – cosa dicono? Hanno fatto sapere che “no pasaran”: non hanno abbandonato quei locali imbrattati con graffiti e disegni che non cancellano l’inagibilità, né hanno reso sicura e minimamente dignitosa la loro roccaforte e annunciano battaglia a suon di feste, concerti e manifestazioni. Magari ancora una volta, come sempre, con il portafogli di papà. Quei papà che, a quanto pare, hanno perso potere, ma che continueranno a mettere bambagia nel mondo finto dei loro pargoli, in modo da continuare a farli giocare senza che si facciano male per davvero. Belli, ciao!

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COVID CARD REGIONE CAMPANIA: CONTESTATO ALLA CRICCA DE LUCA UN DANNO ERARIALE DI OLTRE UN MILIONE DI EURO!!!

Era maggio 2021 quando dalle colonne di questo giornale (https://www.camposud.it/il-garante-della-privacy-la-covid-card-di-de-luca-a-me-me-pare-na-fessaria/tony-fabrizio/) ci chiedevamo quali costi e perché avrebbero dovuto sostenere i contribuenti campani – senza, tra l’altro, poter proferire parola – per la “genialata” della Covid card. Genialata che, manco a dirlo, porta(va) la firma e la forma del presidente della Regione Vincenzo De Luca. Il buffone di corte, il gigione di tutti i Presidenti che (mal) accettava la “reclusione” a Palazzo Santa Lucia, vissuta sempre più come un confino dei palazzi della politica romana mai raggiunti da De Luca senior. Da dove, quindi, poter fare ciò che più gli pareva in e della Campania.
De Luca, per cui il Covid è stata una vera manna dal cielo, quel tocco di popolarità per il resto dello Stivale di cui avremmo volentieri fatto a meno, pensò, o meglio, arrivò per primo a partorire quella nullità rivelatasi tale che è stato il passepartout per “gli amici del buco” che, grazie alla cosiddetta e conquistata Covid card, avrebbero potuto andare al cinema, al ristorante, sposarsi. Insomma, una carta, anzi una card che fa più international, che avrebbe dovuto garantire una parvenza di vita normale, dopo l’inoculazione di n. dosi di vaccino.
Quei costi ieri sono stati resi noti dagli uomini del nucleo di Polizia economica e finanziaria della Guardia di Finanza che hanno consegnato allo Sceriffo lucano un invito a dedurre della Procura regionale per la Campania della Corte dei conti (una sorta di avviso di garanzia) tramite la quale si contesta, come riporta l’Ansa, un danno contabile complessivo di quasi un milione di euro (oltre 928mila per l’esattezza). Il 25% è direttamente “intestabile” a Vincenzo De Luca, mentre lo stesso avviso è stato consegnato ad altri cinque componenti dell’unità di crisi allestita dalla Regione.
In realtà le Covid card, comprate e basta, non sono mai entrate in uso perché, a stroncarle sul nascere, fu il Garante della privacy che ritenne ledessero la riservatezza dei dati personali dei cittadini.
L’ennesimo capolavoro deluchiano che ci saremmo risparmiati volentieri insomma, sia in termini economici che in quelli di immagine. Entrambi compromessi dal satrapo di palazzo, e con la gestione della pandemia e con le dirette tivvù nelle quali minacciava l’uso di lanciafiamme, la caccia ai runner e ogni altra diavoleria che la sua bocca riusciva a defecare per gestire il suo regno come nemmeno un’enclave.
“L’invito a dedurre non è una condanna ma semplicemente un atto dovuto per accertare la responsabilità di un danno erariale certo”, sottolinea all’Adnkronos Antonio Giuseppone, procuratore regionale per la Campania della Corte dei Conti. E, noi che la Campania la viviamo e il “sistema De Luca” lo subiamo, siamo certi che questo “atto dovuto” volto ad accertare un danno certo, non riguarda certamente (purtroppo) solo le Covid card. Noi di Campo Sud lo sappiamo bene. La notizia dell’avviso a De Luca era ancora calda che subito è stata approntata la polemica politica, fotocopia di quel politichese tutto uguale da destra a sinistra passando per il centro: “gestione scellerata”, “sperpero di soldi pubblici” fino al postumo profetico “Ve l’avevamo detto”, ma la verità vera è che a denunciare i misfatti del Governatore campano, e in tempo reale, tempi non sospetti per i più è stato solo e soltanto il presidente dell’Associazione Campo Sud Marcello Taglialatela. Denunce doverose, mosse da quell’amore per la cosa pubblica, per la propria terra e per le proprie radici che si riveleranno, ne siamo certi, una tegola sulla testa dell’inquilino di Palazzo Santa Lucia.
Il Covid e la sua (di)gestione fecero la fortuna elettorale di don Vincenzo, ma non quella politica i cui risultati sono oggi sotto gli occhi e nelle tasche di tutti i cittadini, campani per primi che, tra non molto, saranno chiamati a scegliere con chi sostituire il Presidente che, sic stantibus rebus, non potrà più candidarsi. In realtà, egli aveva già minacciato di “candidarsi in eterno” e ha annunciato di stare studiando – sicuramente starà facendo solo quello, visto lo stato in cui versa l’intera regione Campania – come modificare la norma che gli permetterebbe la candidatura in aeternum. Fregandosene di ciò che pensano e vogliono i campani. Solo che il Covid adesso non c’è più, ci sono i postumi del feno-meno, i frutti di ciò che ha seminato, i risultati della sua inettitudine mascherata dalla macchietta che portava in tivvù ogni venerdì, come una croce, (ab)usando persino degli spazi istituzionali per fini personali e personalistici.
Chi è causa del suo male…

https://www.camposud.it/covid-card-regione-campania-contestato-alla-cricca-de-luca-un-danno-erariale-di-oltre-un-milione-di-euro/tony-fabrizio/

VENERE VS FENICE : Scontro tra un figlio e un figliastro.

Se la Venere degli stracci in Piazza Municipio è durata un paio di settimane in tutto, le critiche e i propositi d’occasione seguite al rogo dell’opera del Pistoletto da Torino, sono durate ancora meno. Alla fine, la statua ha avuto più pubblicità per la sua distruzione che per la sua ammirazione. Eccetto quel “costume” – è una metafora, non offenderemmo mai gli stracci parte dell’opera – che stava per prendere piede “ad opera” di passanti e visitatori che facevano sì le foto, ma non con l’opera, bensì con una parte di essa. Con la Venere? No, con un’altra parte di essa. Con i glutei marmorei, sotto i glutei scolpiti, per la precisione. Dalla parte di Palazzo San Giacomo, lato stanza del Sindaco, per intenderci.
La Venere, però, si è sciolta manco fossero le ali di Icaro, gli stracci ignifughi si sono incendiati, la polemica è divampata, i soldi – dei cittadini (ignari) – sono andati in fumo e ora si dice di voler ricostruire ciò che è stato cancellato. Come? Con un “crowdfunding”. Una sottoscrizione, per intenderci. Cioè chiedendo nuovamente ai cittadini soldi per il valore pari a X per ricostruire la statua che dovrebbe avere, però, (anche) un valore e non solo un prezzo. La strategia è già ben rodata e oleata: la sottoscrizione era già partita con l’allora giunta de Magistris, il sindaco con la pezza arancione in fronte (e altre pezze altrove), che, per mezzo dell’assessore Eleonora de Majo, tentò una questua tra i cittadini per regalare alla città una statua di Maradona che avrebbero scelto, però, loro del Comune. Poi l’idea fallì, non senza inchiesta giudiziaria. E prima che si pensasse alla ricostruzione della Venere, i gendarmi avevano già individuato il colpevole pur non avendo questo un nome, trattandosi di un senzatetto, mentre Pistoletto dai social e da Torino urlava al femminicidio – davvero! – e parlava di una baby gang che sui social anticipava l’atto vandalico. E la vigilanza che, stando alle rassicurazioni del Comune, avrebbe dovuto vigilare h24? Vabbè, non soffia sul fuoco nemmeno l’artista piemontese che si appella alla vigilanza cittadina – che è più delirante del femminicidio della (rifatta) Venere di plastica – avrà fatto la fine dell’opera .
Solo che mentre gli occhi erano puntati su Napoli, sempre in Campania si consumava un altro rogo. Forse pure più importante, sicuramente molto più grave. Nell’agro nocerino, a Sant’Antonio Abate, forse a causa di fuochi pirotecnici accesi per festeggiare un matrimonio, un incendio di vaste proporzioni ha interessato la storica industria conserviera La Torrente. Stando a quanto ricostruito dai Vigili del Fuoco, dei fuochi d’artificio sarebbero caduti su alcune pile di pedane in legno poste ai lati della fabbrica che ha fatto da innesco per delle plastiche che hanno distrutto irrimediabilmente un capannone e danneggiato seriamente parte dell’opificio. Al punto che la lavorazione si è dovuta fermare – nel periodo di massima produzione – con tutte le perdite del caso, rappresentate dal mancato incasso e dalla distribuzione del prodotto. Un incendio serio e pericoloso anche per chi abita nelle vicinanze della fabbrica costretto all’evacuazione.
Per i lavoratori de La Torrente, vera eccellenza del posto, tipica e tipica, che “punta a valorizzare le eccellenze locali”, per dirla con le parole usate dalla rassegna “Napoli contemporanea”, nessun politico ha espresso solidarietà, nessun rappresentante dei cittadini – che probabilmente sono stati pure votati, che, anzi, sicuramente sono stati pure votati – si è messo in moto per aiutare, nessun benefattore ha aperto un crowdfunding almeno per far ripartire al più presto la produzione, per scongiurare eventuali licenziamenti, per limitare i danni già ingenti o gettare semplice acqua sul fuoco.
Che nessuno sia profeta in Patria è una triste verità, soprattutto in un mondo dove non si riconosce la Patria e la si cancella annullando i confini, ma allora anche i confini di Sant’Antonio Abate non sono altro da quelli di Napoli, della Campania, di Torino e di Biella, Patria di Pistoletto, sicuramente più lontana del borgo facente parte della città metropolitana di Napoli, dal cui palazzo di governo, dal balcone della stanza del Sindaco, proprio dietro la Venere che non c’è più, ormai è possibile intravedere le ceneri de La Torrente. Sperando sia una fenice!

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Borsellino, Via D’Amelio e il depistaggio che dopo 31 anni “(non) c’è stato”

Roma, 19 lug — Questa è una storia all’incontrario, che si inizia a raccontare dalla fine, tale solo per la sua cronologia, degna di un Paese (purtroppo) rovesciato. È una storia di contraddizioni tipiche e topiche di questa Italia ormai identificazione dell’ossimoro per antonomasia. È una storia di ricordi, che per ricordare ti impone di dimenticare. È la storia dei 31 anni della strage di Via d’Amelio, che 31 anni dopo ancora non si chiama con il proprio nome: depistaggio! Perché depistaggio è “stato” o, se vogliamo, di depistaggio si è “trattato”. Accade così che si ricorderà la morte di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli con il solito florilegio d’occasione, opportun(istic)amente preparato.

Borsellino, le origini

Accade così che anche quest’anno – e quest’anno più che mai – ci si ricorderà di dimenticare le origini del personaggio Paolo Borsellino, quel giovane studente liceale che dirige un giornale destrorso – L’Agorà – e poi nel 1959, da studente di Giurisprudenza iscrittosi al FUAN, rappresentante della lista “Fanalino”, fino ad entrare a farne parte e diventare in solo tre anni il vice di Guido Lo Porto. Suo amico di allora era Pippo Tricoli, storico esponente della Destra siciliana che gli presentò un altro uomo “di valore”, un giovane assistente universitario, Adriano Romualdi, altro intellettuale della “parte sbagliata”, morto prematuramente a 33 anni in uno strano incidente stradale. Personalità della parte sbagliata, ma di talento, che avevano il senso dell’onore e che rischiavano per le proprie Idee anche la vita perché, come scriveva Ezra Pound, “Se qualcuno non è disposto a lottare per le proprie Idee, o queste non valgono niente o non vale niente lui”.

E Paolo Borsellino è uno che per le sue Idee aveva sentito forte il desiderio di mettersi al servizio della Nazione e di lottare contro la mafia, fino all’estremo sacrificio della sua vita, accolto con eroico fatalismo. Egli, però, non è il solo eroe e martire di questa ingloriosa repubblica, fastidiosa da quando ha avuto l’ultimo – speriamo vivamente di no – sussulto di orgoglio patrio con la faccenda dell’Achille Lauro. Che, è bene sappiano le nuove generazioni, non è solo il sindaco più glorioso che Napoli abbia mai avuto, né l’indegno (del nome) urlatore defecato a Sanremo.

Gli altri eroi della lotta alla mafia 

Se si parla di eroi caduti nella lotta alla mafia non si può non ricordare il giornalista Mauro De Mauro, aderente alla RSI con la gloriosa X MAS probabilmente eliminato per le sue indagini scomode – allora il giornalismo si faceva così – sulla morte di Enrico Mattei. Scomodo come Beppe Alfano, una vita tra Fronte della Gioventù, Ordine Nuovo e MSI-DN, per le sue inchieste – era un giornalista! – sugli appalti pubblici sui cui Cosa Nostra aveva messo le mani e che lo “premiò” con tre colpi di pistola. Fino ad arrivare al Prefetto di ferro, Cesare Mori i cui risultati non hanno bisogno certo di presentazioni, ma di tanta mistificazione, misto a revisione, vista la sua appartenenza di governo. Risultati inquinati dagli stessi autori dello strappo di Sigonella, mezzo secolo dopo.

E sfidiamo a trovare qualcuno che sui libri si storia – stando al lasso di tempo di questo si tratta – abbia trovato anche solo citato il nome di Mariano De Caro, ragioniere e abile tiratore arruolato nella fanteria Trapani e inviato al fronte da ufficiale nella Grande Guerra. Lo ritroviamo nei Fasci di Combattimento, dove spese la sua vita per quel senso di giustizia sociale che passò per la riscossa di braccianti e salariati schiavi di quei latifondisti interessati solo al proprio tornaconto personale e incuranti dello sfruttamento dei lavoratori.

Un depistaggio c’è stato, ma non si sa chi sia stato

Anche per questo occorre ricordare di dimenticare. Allo scopo, è utile qualsiasi favoletta preconfezionata come quelle pronte da spacciare per ogni occasione. Chi se ne frega, allora, di far sapere quale sia il depistaggio se nel processo Borsellino quater (che sta per quattro processi, ognuno composto di tre fasi di giudizio che hanno stabilito che c’è “stato” inequivocabilmente il depistaggio) le accuse a carico degli imputati sono andate in prescrizione! Che non significa che non hanno colpe.

Dunque, un depistaggio c’è stato, ma non si sa chi sia stato. Neppure quei soggetti-oggetti pezzi di istituzioni accusati di aver vestito il “pupo” Scarantino sulla cui parola sono state emesse sentenze – definitive, anche di ergastolo – quando è appurato e dimostrato che Scarantino è ritenuto inattendibile. Uno che – lo dice lui, eh! – in una riunione deliberativa di commissione (mafiosa), quella in cui Totò Riina comunicò di uccidere anche Borsellino e si raccomandava di fare attenzione perché Falcone, se fosse stato al suo posto in auto, sarebbe stato ancora vivo, entra a prendere un bicchiere d’acqua. In una riunione di commissione. Deliberativa.

E su queste dichiarazioni di questo personaggio, in nome del popolo italiano di questa disastrata repubblica si è emesso una sentenza di condanna all’ergastolo di un povero cristo – chissà cosa ha pensato del quesito ad hoc del referendum sulla giustizia di cui tanti se ne sono fottuti – che il lunedì mattina (20 luglio) apre la sua officina, si accorge di un furto di targhe di una 126 e, recatosi al commissariato Brancaccio, viene trattato come il peggiore dei criminali.

L’arrivo dei Servizi Usa

Che ad esplodere in via D’Amelio sarà una 126 lo si appurerà solo nel tardo pomeriggio del 20 luglio, quando un tecnico FIAT venuto da Termini Imerese riconoscerà un blocco motore (solo) compatibile con quelli montati sulle 126 ma che dalle immagini girate dai Vigili del fuoco non compare mai. 126 che viene già menzionata nel lancio di un’agenzia di stampa (Ansa) tre quarti d’ora dopo l’esplosione, il giorno prima. Dopo, però, l’arrivo dei Servizi Segreti (americani) che arrivano in sito nel giro di un quarto d’ora “vestiti tutti uguali e senza una goccia di sudore – è domenica 19 luglio a Palermo! – freschi che sembravano stessero dietro l’angolo” dirà un poliziotto in qualità di teste.

È pur vero che in Via D’Amelio c’erano tutti quel 19 luglio. Anche chi fece repertare tutto e, raccogliendo la roba in sacchi della spazzatura neri, di quelli condominiali e catalogando alla carlona con un generico “si sequestra quanto ivi contenuto” – cioè nulla – inviò tutto a Roma a disposizione dell’FBI. E perché? E perché l’FBI non ha mai nemmeno fatto (pervenire?) un verbale? Una catalogazione? C’è una pista americana anche per via D’Amelio? Gli stessi americani che non digerirono Sigonella? Che, pare, siano stati la regia della strage di Capaci, dove gli esperti di esplosivistica hanno “sentenziato” che non si può fare saltare in aria un’autostrada tramite un cunicolo, se non vi è un muro laterale che faccia sì che l’esplosione non avvenga appunto di lato?

I pentiti

E che in via D’Amelio il depistaggio inizi proprio dalla 126 di cui gli inquirenti sono così sicuri tanto da fare rimangiare ai “pentiti” le dichiarazioni secondo cui l’esplosivo è stato messo in un bidone della calce. Gli stessi inquirenti, coadiuvati da “pezzi di istituzione” che hanno distrattamente (o)messo verbali – inesistenti per loro stessa ammissione in fase processuale di interrogatori di taluni pentiti – in faldoni di “ignoti”, ovvero tra le denunce dormienti dello scippo e del furto di bicicletta. Ma se la legge è uguale per tutti e c’è qualcuno più uguale degli altri, perché mai questo non dovrebbe valere per i pentiti, il cui “valore’ è direttamente proporzionale al numero di persone ammazzate? Pentiti che non esistevano quando nei palazzi non avevano ancora dato il compito di creare il “pentificio” di stato a chi è assente da ogni processo, da ogni intervista e non risponde alle accuse né ad elogi. Niente. Spariti. A mo’… di latitante.

Quel chi che ha, però, utilizzato – come altri – la mafia e la Sicilia quale trampolino di lancio per sfavillanti carriere. In Polizia come in Magistratura. Qualcuno pure in politica, dalla magistratura, per poi tornare indietro e riciclarsi. Come se nulla fosse. Magari incurante della memoria a tempo e delle dichiarazioni prive di riscontro come l’incontro con persone morte, incontri avvenute in stanze mai esistite e in tempi incompatibili per delinquenti rinchiusi in carcere. Al 41 bis. Oppure no. Il che apre alla connivenza istituzionale. Pezzi di… istituzioni che anche quest’anno saranno in prima fila a Capaci prima e in via D’Amelio poi, magari appenderanno anche il peluche petaloso in via Notarbartolo raccomandando(si), ancora una volta, di ricordare di dimenticare.

https://www.ilprimatonazionale.it/cronaca/borsellino-via-damelio-e-il-depistaggio-che-dopo-31-anni-non-ce-stato-267240/

Capodanno del Mugnaio, l’importanza di produrre Grano Nostrum

Capodanno del Mugnaio, l’importanza di produrre Grano Nostrum

5 Luglio 2023 2 comments
grano nostrum

Caserta, 5 lug – Un appuntamento che si rinnova ancora, usi e costumi che ormai sono diventati un rito, una innovazione che inizia a percorrere il binario della tradizione. È giunto già al settimo anno il “Capodanno del Mugnaio”, la festa che sancisce l’inizio della mietitura del grano che si celebra a Frignano (CE) e che quest’anno, oltre al consueto banchetto approntato di ogni bendidio che deriva dal grano – dal dolce al salato, dalla pasta ai dolci – ha visto la presenza anche del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, il presidente della Camera dei deputati Lorenzo Fontana e l’assessore regionale Gianluca Cantalamessa.

Capodanno del Mugnaio, l’importanza del Grano Nostrum

Tra trebbiatrici in azioni, spighe che si raccolgono per la benedizione, offerta, condivisione e assaggio di ogni prelibatezza farinacea da consumarsi rigorosamente nei campi, la parola d’ordine è una sola: produrre “Grano Nostrum”, ovvero produzione di farina 100% del sud Italia (basso Lazio, Campania, Puglia, Molise, Abruzzo e Basilicata), controllati dalla semina alla macinazione – a cura del Mulino Caputo di Napoli, vero valore aggiunto della progettazione – che ha portato alla lavorazione di un progetto comune che ha dato vita ad una vera e propria filiera alimentare, certificata dalla facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II che ha potuto attestare ben cinque varietà di frumento tenero (Trafalgar, Bisanzio, Apulia, Ala 360, Giocondo), così come riporta lAnsa.

Un vero e proprio laboratorio sperimentale che tocca vari settori: dalla semina del grano avvenuta nel mese di febbraio 2023 – e non in novembre dell’anno precedentemente, come da convenzione – sino all’innovazione tecnologica che prevede l’impiego di una concimazione totalmente naturale, nell’ottica di aumento della sostenibilità ambientale delle pratiche agricole, passando per il “rigido disciplinare”, ovvero il protocollo di garanzia che garantisce sia la qualità del prodotto che il rendimento economico dei coltivatori che vi aderiscono. Non ultimo, il concetto, più volte rimarcato dal ministro Lollobrigida circa il sovranismo alimentare, necessario da raggiungere per rendere l’Italia autosufficiente, almeno dal punto di vista del fabbisogno dell’approvvigionamento alimentare di base, necessario per far fronte a casi che potrebbero rivelarsi un problema, come quello appena occorso ad esempio, e che ha interessato l’importazione del grano dall’Ucraina cui si è dovuto far fronte a seguito dell’aggressione da parte della Russia.

Grano che raggiungerà il momento di massima visibilità pubblica in vista del riconoscimento dell’Unesco che dovrebbe arrivare intorno al 2025. Iniziativa che – a detta del ministro – “rappresenta un’occasione per poter raccontare quello che siamo, orgogliosamente perché l’orgoglio è una cosa importante. Ma essendo consapevoli della potenzialità di immaginare un mercato che si apre ancora di più e porta i nostri 60 miliardi di euro di export a diventare 120, 180, infiniti rispetto al mercato che si apre se la qualità resterà l’elemento con il quale si sceglie il cibo”. Anche il cibo si sta andando sempre più a tutelare, ricorda il numero uno del dicastero di via Venti Settembre, con un progetto di legge che va contro il cibo sintetico: la sua approvazione farà dell’Italia la prima nazione che proibirà la produzione, l’importazione e la commercializzazione di tutto quel finto cibo che non rappresenta il corretto rapporto tra uomo, natura, lavoro che ha portato a crescere la civiltà in migliaia di anni e che dobbiamo difendere”.

Speriamo non sia solo “politichese” quanto affermato da Lollobrigida e che ancora una volta non dobbiamo assistere a vergognosi “inchini istituzionali” che più volte abbiamo dovuto vedere pur di piacere a quelli che bisogna com-piacere per forza. Al Capodanno del Mugnaio si è toccato con mano l’Italia dell’eccellenza, l’Italia della qualità, l’Italia che, nonostante imbarbarimenti, inquina-menti e cancellazioni di ogni genere, nonostante epidemie, carestie e guerre, continua ad essere e a fare l’Italia.

https://www.ilprimatonazionale.it/economia/capodanno-del-mugnaio-limportanza-di-produrre-grano-nostrum-266296/

’E’ “NAPOLI CONTEMPORANEA” E LA NAPOLI CONTEMPORANEA.

E alla fine la Venere di stracci è stata inaugurata. La statua che coniuga, o almeno dovrebbe nell’intento dell’amministrazione Manfredi, il passato col futuro, la tradizione con l’innovazione. E menomale che c’è Venere – che conferisce valore all’opera – a svettare sopra la montagna di stracci muticolor che da giorni affollano Piazza Municipio, incuriosendo turisti e guadagnando lo sdegno dei soliti bene informati.
Come saggiamente i Padri hanno tramandato “de gustibus non disputandum est”, ma ciò su cui ci interroghiamo non è certo il valore (discutibile) dell’opera, ma il modus operandi di questa classe dirigente autoreferenziale e inetta.
Dopo la chiave di Milot che non sappiamo quanta gente abbia potuto attrarre in città, ora ci viene presentata “Napoli contemporanea”, la manifestazione attraverso cui – parole del primo cittadino Gaetani Manfredi – “Vogliamo far vivere pezzi di città attraverso l’arte contemporanea facendo realizzare installazioni da grandi maestri dell’arte”. O ancora “Questo programma vuole anche essere il segno di una Napoli fiera della propria storia e tradizione, ma che è anche proiettata verso il futuro attraverso la proposizione di opere che fanno discutere sui grandi temi del presente proprio come la Venere degli stracci che unisce l’arte classica con i temi della povertà e della sostenibilità”. A dirla tutta, questa installazione può essere il vero emblema della Napoli di Manfredi, dove regnano caos e disordine, sporcizia e accozzaglia ad ogni angolo della città. Ed è emblema del politichese cui questa classe politica ci ha tristemente abituati: vorremmo chiedere al Sindaco della prima città del Mezzogiorno se, quando cita i “grandi maestri d’arte” o anche la “Napoli fiera della propria storia e tradizione”, si riferisce alla stessa Napoli che non è stata capace di trovare una giusta collocazione – non è azzardata la perifrasi “ha in tutti i modi avversato” – alla statua del Maradona del napoletanissimo maestro Domenico Sepe. Il grande artista chiamato in altra patria, in altri stadi, come il Dall’Ara di Bologna, che ha commissionato un’opera che è un vero e proprio capolavoro. I Padri insegnano anche questa volta: “Nemo propheta in Patria”.
Chissà se il Signor Sindaco e gli accoliti di Palazzo San Giacomo si siano, anche minimamente, resi conto che Napoli, ormai da mesi, è su tutte le pagine di giornali e telegiornali, la città pullula di turisti, gli alberghi hanno fatto registrare il “tutto esaurito” da tempo. Ci auguriamo vivamente di no, altrimenti non si spiegherebbe come mai la città è sempre più sporca e disordinata, in balia di senzatetto che fanno tutto ciò che vogliono ovunque vogliono, che il disordine e la sporcizia la fanno da padrone, che non c’è un servizio di trasporto pubblico degno di questo nome. Questa è la Napoli contemporanea! Che senza “Napoli contemporanea” ha ridato smalto ad una città che non ha bisogno di niente e di nessuno, menchemeno di “genialate” free ed ecosostenibili di una sinistra arcobaleno, Ztl, tutta gauche caviar.
L’autentico miracolo lo ha fatto da sola Napoli, grazie alla sua Storia e alla sua Tradizione; grazie a quei monumenti che “grazie” a quello scellerato “Patto per Napoli”, per la regia del liquidatore di stato “Mariolino” Draghi, oggi è costretta a (s)vendere; a quella collocazione paesaggistica che il mondo intero ci invidia; a quella cucina che, nonostante imbarbarimenti e imbastardimenti, continua ad essere il riferimento della dieta mediterranea; a quella napoletanità invidiata e mai riuscita a copiare, ad imitare, ad esportare. A rubare, tiè! All’arte, alla storia, alla cultura che, con una botta di politically correct, si vuole cancellare. Eppure, anche nel giorno dell’inaugurazione, quando i tassisti scorrazzano turisti, mentre la Municipale blocca il traffico perché si è fatta una sosta dove non si potrebbe fare creando file e ingorghi, mentre macchine e motorini sfrecciano in ogni direzione possibile, dove un bus turistico non fa in tempo a fermarsi che arrivava un bangladese con la sua mercanzia – ma ce lo vedete uno che dal Bangladesh spiega al tedesco di turno il rito apotropaico di iniziazione di un cornetto affinché faccia effetto? – il rumore assordante del traffico che per qualche secondo viene sovrastato dalle ruote dei trolley tirati a forza sui basamenti di pietra lavica, come d’incanto, nel tratto che va da Piazza Trieste e Trento fino alla Biblioteca Nazionale, tutto questo frastuono s’interrompe, non è più parte del corredo urbano che viene soavemente sostituito dalle note della Marcia Trionfale dell’Aida di Verdi e di quelle dell’Inno Nazionale che valicano i confini delle finestre del Regio Teatro San Carlo. Quando una comitiva di Tedeschi, con cappellino in testa e infante sul groppone, si ferma e aspetta il “Sì” – che non verrà mai pronunciato – conclusivo dell’opera per riprendere la marcia. Questa è la Napoli contemporanea! Ma che ne sa Manfredi…

https://www.camposud.it/ce-napoli-contemporanea-e-la-napoli-contemporanea/tony-fabrizio/

SALERNO, L’ANPI vieta di presentare i libri e vieta chi non vuole vietare!

Una mattina mi son svegliato e ho scoperto che un rispettabilissimo Docente universitario di storia medievale ha pubblicato un libro – di storia, pensa un po’ – e che intende presentarlo in una sala di una pubblica libreria – che strano, eh ?

Si tratta di “Controstoria della Resistenza”, la nuova fatica letteraria dal prof. Tommaso Indelli, edito da Altaforte Edizioni.

Allora, un’altra mattina mi sono svegliato e, tutto sudato, “batto” un comunicato congiunto, con tutto quanto può includersi nella mega galassia antifà, atto a vietare ad una libreria della città campana l’utilizzo della sala che avrebbe dovuto ospitare la presentazione del volume e che, di fatto, ha finito per boicottare sia l’opera che l’autore.

“Una semplice opinione” da parte di CGIL, CISL, UIL, Arcigay, schwa & asteriski vari che tentano così di mettere un “democratico” bavaglio alla controcultura. O meglio, alla cultura “non conforme”, alla vulgata in “uso” e consumo since 1945. La storia che nessuno deve conoscere e, se qualcuno la conosce, nessuno deve poter raccontare. Quella che per quasi un secolo ha portato a nascondere una tragedia immane, un vero genocidio ai danni dei propri connazionali, come é stato per le foibe.
Ora come allora, qualcuno non ci sta e, quindi, si attiva per riportare l’ago della bilancia quantomeno vicino alla verità vera, ben consapevole che non potrà mai godere di un “democratico” e civile contraddittorio in libreria.
In religiosa ottemperanza agli usi e costumi di lorsignori che li vuole ben nascosti e ottimamente assiepati,  a quei partigiani nuovi di zecca  viene chiesto, a casa loro, tramite un goliardico striscione “inclusivo”, se avessero per caso paura dei libri.
La reazione rossa – o meglio, verde – non si è fatta attendere, seppur di sabato, strano giorno per “lavorare”: giornali, tivvù, forza pubblica, militanti, “mili-pochi” a giudicare dalle immagini raccolte, tutti sono accorsi ad asciugare le lacrime versate e a raccogliere il grido di sdegno contro chi ha osato ribellarsi ai loro democratici divieti. Uno smacco insopportabile, un atto di ribellione non gradito, una protesta troppo poco politically correct quella semplice domanda che ha mandato in cortocircuito l’intellighenzia cittadina che non si è ripresa dall’illogicità della loro stessa richiesta: perché vietare quando ci si può confrontare? Perché tacitare quando il dibattito può arricchire? Perché cancellare ciò che non ci fa comodo sapere? Sinistre domande, perfino per loro.
Una mattina mi sono svegliato e, dopo aver vietato, minacciando la verità, penso bene che il sogno debba continuare calcando la mano e chiamando in causa persino il “clima da anni ’70” che, però, fanno notare gli avversati esponenti ribelli che la storia la conoscono e non la dimenticano, ha visto proprio nella stessa città campana la morte di un odiato giovanissimo avversario mezzo cieco come Carlo Falvella per motivi meramente politici. Di odio politico. Odio evidentemente mai sopito, in primis per la verità. Per la coerenza. Per interesse, visto che l’unica cosa che ha contato è stata la parcella degli avvocati assoldati per difendere i compagni assassini.
Interesse nel non sapere leggere un semplice striscione che ha avuto il merito di sottolineare tutta l’incoerenza di quanto fino a quel momento predicato, di quanto sia strumentale la loro concezione di democrazia, di quanti problemi abbiano con l’inclusione, quella vera, in un semplice confronto dialettico, culturale. Forse perché loro la “cooltura” la fabbricano. Con balle. Con stravolgimenti e con invenzioni. Con cancellazioni e riscrittura.
Una mattina mi sono svegliato e, pure se sono il sindacato dei lavoratori, “me ne frego” e impedisco ad un semplice esercente di lavorare, semplicemente perché mi è scomodo, sparando ogni cartuccia ancora disponibile e immaginabile, come l’azione intimidatoria – uno striscione! – il pericolo per la democrazia, quando sono loro stessi ad imporre divieti: ma, se proprio non si riesce a sostenere un dibattito culturale, se proprio non si riesce a leggere il libro, non era meglio, di sabato, continuare a dormire?

https://www.camposud.it/salerno-lanpi-vieta-di-presentare-i-libri-e-vieta-chi-non-vuole-vietare/tony-fabrizio/