E che palle questa Italia di questi Italiani! Mai contenti di niente, ormai ridotti a due grossi filoni: quelli che, abbeverandosi all’informazione ufficiale, tracannano di tutto e quelli che, controinformandosi, vedono complotti e marcio ovunque. I primi sono i fan del vaccino e le vittime della “pandemia”, i secondi sono i cosiddetti no-vax e sono ugualmente vittime della “pandemia”. I primi strenui difensori dell’agnello sacrificale ucraino – non di Zelensky, ma nemmeno del suo popolo, bensì solo del “simbolo” Ucraina, quasi come un’entità astratta, senz’anima né corpo, né identità, praticamente come loro pascendi in questa Patria – i secondi adulatori di Putin, incapaci di interrogarsi o meno se lo zar (caesar in latino, traslitterato in csar – evidentemente non andavano d’accordo con le “e” – e poi storpiato in zar) sia effettivamente un macellaio, perché sono tutti impegnati a scartavetrare le palle con le immagini di repertorio di qualche cineteca online, a misurare col righello di Word le dimensioni del pisello di Bidenich, ignari se stiano discettando del pre o del post erezione. Vedono in Mosca, ops nella nuova Roma, il Bene assoluto, pur se le sue truppe al comando dell’Uomo del KGB, del fine stratega, dell’eccelso giocatore di scacchi siano cadute nel tranello dell’invasione, sicuramente provocato da quella Nato che non aveva più ragione di esistere – ora, di nuovo, grazie a Putin, sì – con cui la Grande Madre Russia (di Putin) ha partecipato ad esercitazioni esterne, dopo che aveva chiesto di entrare a farne parte. Confini netti: male ad ovest della Russia, bene da destra dell’Ucraina. Entrambi, però, vittime di questo gigantesco esperimento sociale, se non altro perché sono stati “divisi” e resi divisivi: che siano putiniani o fan di Zelensky poco importa. Importa che non facciano fronte comune. Importa che si schierino per l’una o l’altra fazione del solo imperialismo ammesso, non certo che facciano il tifo per loro. Non che prendano consapevolezza del loro reale valore. E così, con questo modus ragionandi, debbono leggere ogni cosa: dal diritto/dovere di andare a votare (che non significa certo credere nel (solo) modo e non moto per cambiare le cose), dalla scelta di scendere o meno in piazza in virtù dell’indice di gratitudine e tolleranza (personale) per questo o quel personaggio (mica del motivo per cui si scende in piazza!) fino all’arresto dell’ultimo capomafia, passando per l’outfit della signora premier. Cosa avrebbe dovuto fare? Non andare a Palermo? Bene, l’avreste criticata lo stesso. V’indignate per il fatto che Matteo Messina Denaro fosse in Sicilia alla stessa maniera con cui ricorrete alla mamma o alla moglie per trovare i calzini nel cassetto del comodino. Magari ai Carabinieri la ricerca del superlatitante lo “stato” l’ha fatta fare per davvero e, se è vero che hanno dovuto scremare in 5 anni – perché pare che fino al 2018 lo stesso fosse in Germania – i registri oncologici di mezza Europa, dopo intercettazioni telefoniche di alcuni parenti che solo per decifrarle si è impegnato un paio d’anni, poi lavorare su documenti falsi (o falsificati, che non è la stessa cosa) da cui ricavare i connotati fisici, accorgersi che un soggetto malato su tutti gli indagati non si è presentato ad un appuntamento per due volte in due differenti cliniche della Sicilia, avendo la conferma solo da lui stesso quando ieri mattina è stato fermato, beh se questa è la verità, il lavoro di ricerca vale addirittura doppio. E dovrebbe indignare il triplo se nello “stato” c’è chi sa ed ha retto il gioco. Se non il giogo.
Tanto già dal giorno dopo, da oggi, liberato lo sfogo, la vicenda assumerà lo stesso interesse che assume l’attività parlamentare dei politici. E pensare che c’è chi va a votare per categorie, senza nemmeno leggere il programma: destra-sinistra, russia-ucraina, vax-novax, bene-male.
Sarà vero successo per lo stato contro l’antistato se riusciranno a far parlare Matteo Messina Denaro perché, consegnatosi o meno (a proposito: ma uno che campa di terrore incusso, di connivenza e omertà, di delinquenza e stragi e che non s’è fatto scrupolo di sciogliere un bimbo nell’acido, davvero non riesce a procurarsi una chemio, dopo che è stato operato per un cancro e devi affidarsi allo stato? Era persino in possesso della tessera sanitaria!) resta il custode dei segreti del periodo delle stragi e del patto stato-mafia (questo lo è?) su tutto. Vuoterà il sacco sulla famigerata Massoneria dello Scontrino, il centro culturale frequentato nientepopodimeno che dal signor, dottor, professor Sergio Mattarella, attualmente presidente della repubblica italiana e appartenente a quella DC che ha distrutto l’Italia, che è stata spietata persino nei confronti di (suoi) personaggi quelli Aldo Moro? Cosa rivelerà di questa massoneria, pare imparentata con la P2 che annoverava tra i suoi accoliti Silvio Berlusconi, oggi nel governo? Questo sarà il vero successo, altrimenti sul cesso l’onorevole stato avrà messo i suoi servitori. Sarà vero successo se si potrà dire con chiarezza che la mafia non è solo quella della delinquenza in Sicilia, ma che esiste (anche) una mafia più onorevole, legalizzata, proprio come l’IVA, le accise, le tasse in genere. E per combatterla, per azzerarla devi essere un “Cesare di ferro”, là dove il ferro è da intendersi come purezza di spirito, come estraneità alla corruzione, che è il vero cancro di questo paese in metastasi.
Chissà quanto durerà in carcere il malato Messina Denaro, chissà quale compatibilità con la sua condizione di malato oncologico e di amante della minchia e delle cavuse dâ sita, della bellavita. Quelle cavuse dâ sita che non potremmo vedere più indossare alla Lollobrigida di cui si parlerà un’ultima volta (confido nella bontà) ai suoi funerali, morta finalmente dopo che l’hanno fatta morire il figliolo e il tutore, resa incapace di intendere e di volere, resa boccone appetibile da fagocitare dai soliti “personaggi in cerca d’attore” come quel magistrato prestato alla politica e poi ritornato alla toga che però presterebbe volentieri il culo allo scranno di velluto di quell’Ingroia che reclamava a Paolo Borsellino il suo diritto di andare in vacanza subito dopo la morte di Giovanni Falcone e che ora, immaginiamo, non sa a quale vento votarsi: se a quello della(nti)mafia o a quella della Lollo, da lui scirtturata a favore di Potere al Popolo. Triste destino quella della Lollo che ha avuto la sfortuna di morire nel giorno della cattura/consegna de ‘u siccu, dopo che per una vita l’in-formazione ha provato a metterla in lotta contro un’altra diva come Sophia Loren. Che poi rivali di che? Quelli erano tempi che non si recitava per finta: il talento o ce l’avevi o no, le tette o ce l’avevi o no! Era un cinema vero, un recitare e non un fingere: un teatro, dove tutto è finto,
ma niente c’è de farzo e questo è vero, per dirla con Proietti. Già allora due fazioni con cui schierarsi: con l’avvenente Bersagliera o con la giunonica Sophia. Una Tina Pica non era ammessa. Tertium non datur. Ma ci sono date che sono fatte così: o tanto o niente, date che parlano come ebbe a dire Baiardo, come quelle della cattura di Riina e quella di Messina Denaro. Però Baiardo lo aveva (pre)detto in tivvù, a vantaggio dello spettacolo da quel Giletti che, però, non chiede come mai Baiardo stesso possa dire certe cose e perché sa certe cose. Tremendamente attuali. Soprattutto ora che si sono verificate. Al pari di come sia potuto accadere che Ninetta Bagarella, moglie di Riina, abbia partorito per cinque volte e non nello stesso anno in una delle migliori cliniche della centralissima via Dante a Palermo. Meglio allora parlare di Dante fascio, da parte di quella politica che prende in prestito politici dalla società civile che politici non sono, di quel Sangiuliano prima santo e poi ministro che ha operato il miracolo di fare prendere in mano qualche libro a tanti, eccezion fatta per Gasparri rimandato sulla guerra di Crimea. Meglio il clamore che il vero significato, meglio il contorno che la sostanza in sé, meglio lo spettacolo di Messina Denaro che il denaro con la ratifica del MES. Sicuri che la prossima volta che si parlerà dello Scontrino sarà per rompere il cazzo per l’ennesima volta al malcapitato barista evasore – non come il libera tutti di Buonafede, omonimo di M.M.D e grazie a cui beneficerà qualche detenuto eccellente – per non aver battuto il costo del caffé sul registratore di cassa.
NAPOLI: La chiave di Milot trova pace tra finta accoglienza e tanto “dialogo”
Solo qualche giorno fa, riflettevamo proprio sulle colonne di questo giornale su cosa sia diventata Napoli. E su cosa (non) abbia fatto la propria classe dirigente inetta e autoreferenziale per aver costretto questa città all’attuale decadenza. Se a questi politici stia bene che Napoli ormai sia solo “la pizza, la pizza, la pizza e niente cchiù”. Ed ecco che, manco lo sapessimo, arriva l’annuncio dell’amministrazione comunale che ci dà prontamente ragione.
Palazzo San Giacomo, per l’occasione “enjoy” – deve essere l’influenza del sindaco di Avellino Gianluca Festa – annuncia cacchio cacchio e tomo tomo che ospiterà da marzo prossimo e per la durata di tre mesi l’installazione dell’opera dell’artista albanese Milot e denominata “Key of Montevergine”.
La chiave di Montevergine è una installazione artistica realizzata in ferro dalle enormi dimensioni (25 metri × 7 in pianta e raggiunge l’altezza di 15) realizzata dall’artista Milot, Alfred Mirashi all’anagrafe, subito ribattezzato dai giornali italiani quale italo-albanese. Ma, in realtà, egli è orgogliosissimo di essere albanese e lo si vede già dal nome. Milot è infatti la città di origine – tanto da tornare spesso in Albania, da dove partì su un barcone negli anni ’90 per approdare sulle coste pugliesi. Ma è in Campania e, precisamente a cavallo tra Sannio e Irpinia, nel comune di Cervinara, che trovò chi fu pronto ad accoglierlo e, riconosciute le inclinazioni artistiche, a pagargli gli studi all’Accademia di Brera.
La realizzazione di Milot, il cui prototipo è ospitato proprio nel comune di Cervinara (AV), è pregna di significato, per così dire, “autobiografico”: è un invito ad utilizzare la chiave del dialogo e dell’accoglienza, è una chiave che serve ad aprire tutte le porte e che, una volta aperte, deve essere ripiegata su sé stessa, in modo da non poter essere riutilizzata. Magari per chiudere quelle stesse porte. Occasione da non farsi sfuggire e significato da reinterpretare, è proprio il caso di dirlo, in “chiave” politica, tristemente attuale. Retoricamente vuota e ipocritamente buonista da tutti quelli che nella politica ci vedono solo il “mezzo” per poter raggiungere i propri scopi. Napoli capofila. Non è certo da discutere sui gusti, come saggiamente ci hanno insegnato i Latini, ma qualche dubbio viene proprio circa la collocazione, circa la location tanto per sentirsi più international, dell’opera: Piazza Mercato, il quartiere più storico di Napoli. Innanzitutto perché questa amministrazione non è certo una mosca bianca nell’iter consumistico-progressista globalizzato del “mercato” che affligge una certa politica e, poi, perché Napoli ha già dato numerosissime volte dimostrazione di essere una “città d’amore”, per dirla col napoletanissimo Luciano De Crescenzo: vogliamo forse ricordare gli alloggi IRO allestiti a Capodimonte per ospitare i profughi istriano-giuliano-dalmati?; non certo una città in cui “anche un vicino di casa è un lontano di casa” parafrasando i temi che il nordico maestro elementare Marco Tullio Sperelli assegnava agli scugnizzi di “Io speriamo che me la cavo”. È, inoltre, “marchio” riconosciuto nel mondo intero l’animo generoso dei napoletani, al pari della pizza, degli spaghetti e della mozzarella. Forse, pure in difetto se da Piazza Mercato ci spostiamo poco più in là, nel Lavinaio o nel Vasto, per vedere quanto siamo stati generosi nei confronti di immigrati, extra comunitari e pure clandestini consegnando interi quartieri al degrado, all’insicurezza e alla delinquenza.
Ma Piazza Mercato, dicono gli addetti ai lavori, è stata scelta perché chiunque arrivi in città possa godere di questo potente messaggio. Probabilmente un tentativo di bissare la già mal riuscita pubblicità per la scultura permanente by Gigino de Magistris “Nessuno escluso”, la rotonda in ferro che si trova sulle teste di chi entra in città da via Vespucci.
E pensare che non questa amministrazione e nemmeno quella precedente e nemmeno quella precedente ancora sembra ricordare che proprio a Piazza Mercato fu ritrovata l’erma di Partenope, un monumento funerario così grande – racconta nientemeno che Strabone – che accoglieva ogni persona che arrivasse a Napoli dal mare. In realtà il monumento doveva essere collocato tra Palazzo Reale e il Maschio Angioino, ovvero nel porto utilizzato da Partenope, l’insediamento sorto nei pressi di Pizzofalcone, e successivamente dalla Nea Polis, la nuova città appunto, ma quando i napoletani ritrovarono l’erma decisero che quella era “‘a capa d”a sirena”, la testa di Napoli.
Piazza Mercato (Campo Moricini, in illo tempore) ospita anche il “cippo dei cuoiai”, dove fu probabilmente decapitato appena sedicenne Corradino di Svevia per mano di un boia-macellaio o da un cavaliere francese con la sua stessa spada. Il tutto incorniciato da una navata trecentesca della chiesa di Santa Croce e Purgatorio al Mercato, manco a dirlo, oggi chiusa al pubblico. Chapeau per le amministrazioni! Sulla stessa piazza, all’interno della Basilica del Carmine, custodito in un monumento funebre costruito in marmo foggiato dallo scultore neoclassico, il danese Bertel Thorvaldelsen su commissione dell’imperatore Massimiliano II re di Baviera, riposa anche il corpo del ragazzo, dove la leggenda vuole che i monaci nascosero le spoglie dell’ultimo degli Hohenstaufen per impedire il trasporto in Germania, per volere di Hitler e, dove da 754 anni, si celebra una messa in suffragio.
Ci si potrebbe dilungare a lungo su quanto Napoli di bello e di storico abbia da offrire, ma, invece, ci tocca assistere all’ospitata della chiave da parte di questa “chiavica” – nel senso buono, eh! – di amministratori che addirittura sfidano il parere degli esperti in materia della Soprintendenza e del Ministero dei Beni Culturali. Ebbene sì, perché sappiamo che Cervinara, Mercogliano e Avellino in quanto a visibilità non sono certo Napoli, ma è altrettanto bene sapere che la Chiave della pace, del dialogo e dell’accoglienza non trova pace perché non ha trovato accoglienza: doveva, infatti, essere installata all’ingresso della città di Avellino e più precisamente nella rotonda all’uscita del Casello autostradale di Avellino Ovest della A16, ma il Ministero della Cultura, tramite la Direzione generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Avellino e Salerno, rifilò una sonora bocciatura al progetto. Non venivano certo messe in discussione i valori dell’opera (“se non per le notevoli dimensioni”), bensì «il suo rapporto e il relativo riferimento, dal punto di vista paesaggistico, all’ambiente destinato ad ospitarlo» perché «non dialoga, ma interferisce e predomina sul paesaggio che lo ospita e lo circonda», si legge proprio nella relazione. Non si ritenne congrua la collocazione in uno spazio aperto come lo svincolo autostradale di Mercogliano perché avrebbe annullato le bellezze paesaggistiche, lasciando irrisolte le altre criticità, chissà come si fa a ritenere congrua l’installazione in una piazza che trasuda storia e arte da ogni mattone. D’altronde il Sindaco di Mercogliano aveva promesso che si sarebbe provveduto alla ricollocazione della scultura anche in altri contesti. E la politica è sinonimo di promessa. Solo che ogni promessa è debito. Promessa da parte del D’Alessio e debito da parte di Napoli con la propria storia, con la propria cultura e con la propria identità. La chiave in piazza non durerà che tre mesi, ma le chiaviche a Napoli… purtroppo dureranno un po’ di più!
https://www.camposud.it/napoli-la-chiave-di-milot-trova-pace-tra-finta-accoglienza-e-tanto-dialogo/tony-fabrizio/
CAPITO(L) (H)IL(L)… BRASILE?
Questa cosa dei paragoni sembra essere sfuggita di mano nelle redazioni di giornali e tivvù. Pelé-Maradona, Ratzinger-Bergoglio, Capitol Hill-Brasilia. Da intendersi, petalosamente, che il confronto spesso è scontro. Piccolo inciso: Capitol Hill si chiama così perché Jefferson voleva emulare il colle (del Campidoglio) dove sorge il tempio a Giove Optimus Maximus, il re degli dei. E già tanto basta per schifarli. Nell’occasione Jefferson inaugurò “l’invenzione” con tanto di cerimonia massonica e un arrosto di 250 kg. Punto. Per davvero.
Dicev(an)o, Brasilia come Capitol Hill, sciamano compreso, anche se i soliti bene in-formati hanno già reso noto tanto di tweet di anni addietro che il cornuto in salsa carioca era già in azione in illo tempore. E come a Capitol Hill, la rivoluzione è stata fatta con tempi addirittura minori rispetto alla durata in carica del segretario del PD di turno. Azione coalizzata in salsa sudamericana che attacca simbolicamente i tre punti nevralgici del Paese: la capitale e più nello specifico il Congresso, il Palazzo presidenziale e il Tribunale supremo, ovvero i palazzi del potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Il tempo di far battere la notizia alle agenzie di stampa – la voce dell’unico padrone – che arriva la Polizia e i golpisti se ne vanno comodamente a casa, non prima, però, di aver scambiato convenevoli con i (magari) questurini. La situazione rientra nella normalità e, tempo due giorni, vengono emessi mandati di cattura internazionale per i finanziatori del tentato golpe. Questo sì che è ordem e progresso! Il tutto per contestare l’elezione di Lula, incoronato presidente con un margine risicatissimo di vittoria ai danni di Bolsonaro. La stampa, ovvero, il megafono del padrone, con queste cose ci va a nozze e per dare in pasto la notizia ai tanti boccaloni che osservano con la bocca aperta e il vuoto cranico da farcire, appioppano innanzitutto delle etichette: Bolsonaro de destra e Lula de sinistra. Che, poi, ci siano una miriade di sfumature “di area” poco se ne fregano: l’importante non è catalizzare il consenso dell’opinione pubblica – ormai pubica – ma far sì che la gente sia divisa. E divisiva. E per far capire da che parte stare, basta collocare ad hoc la parolina magica a mo’ di cancro: viuleeeenza! Che significa fascismo. A destra, per forza. Per Bolsonaro. Che è come dirlo alla Meloni, per intenderci. E, per intenderci ancora di più, in Italia “ha vinto” perché c’è chi ci crede.
Ma perché ciò che succede nello stato più grande del Sudamerica dovrebbe interessare al mondo intero e in particolar modo al Bel Paese? Innanzitutto perché l’asinistra nostrana vedeva realizzarsi in Brasile ciò che non era riuscita a realizzare qui. E, quindi, la sinistra progre$$ista, tutta ambientalismo e teoria gender, era in pieno orgasmo. Dal del…atore GASsman (l’uomo-puzzetta) al Sumahoro dei suoi stivali, via ANPI. E chissenefotte – dice la sinistra – degli scandali di Lula e della sua Petrobras, dell’assoluzione avvenuta per un vizio di forma e non per estraneità ai fatti, per innocenza. Lula è l’amico, anzi, il compagno che si oppose al rientro in Patria dell’assassino pac-comunista Cesare Battisti!
Al Brasile è sempre stato riservato un trattamento di favore da parte degli Stati Uniti che lo hanno sempre osservato in maniera speciale, ma non mancavano di fargli qualche concessione, come nella lettera di Tommasino in Natale in casa Cupiello: “fa’ stà buono pure a zio Pasqualino, però con qualche malattia!”. Il bastone e la carota, insomma. Soprattutto con l’avvicinarsi da parte dei Carioca alla Russia in piena guerra fredda. Avvicinarsi che in termini geopolitici è da intendersi come dipendenza. Del grano, dei fertilizzanti, del gas. Voce deo verbo “soffermati e rifletti”.
Dipendenza e partnership del Brasile – le cui spinte egemoni sono sempre guardate con un certo sospetto da Washington – si concretizzano in un patto di cui il paese sudamericano sarà uno dei fondatori, il BRICS, il sistema economico che si contrappone al dollaro.
Come fare argine, dunque? Serviva un cavallo di Troia e il suo nome è proprio Lula. Già, perché Lula ha subito una metamorfosi nel corso dei suoi tre mandati, arrivando ad essere quel comunista che tanto piace agli Usa. Ma anche a quelli di casa nostra tutti Rolex e caviale: differenze sociali ancora più marcate, palate di finanziamenti all’agro-business, nessuna misura contenitiva contro i colossi privati della comunicazione – giusto per manipolare quel tanto che basta, che serve – sistema fiscale generoso per i multimilionari. Il coronamento all’ottimo lavoro che Lula stava portando avanti arriva direttamente da mr. President in persona e più volte pure, addirittura in mondo visione: i complimenti sdolcinati di Barack Hussein Obama che lo definì “il presidente più popolare del Brasile”, ricambiato con il dono della maglia del Brasile al G8 di Genova, la bramosia di Bidenich che “non vede l’ora di lavorarci insieme”.
Un gran bel colpo da parte degli Usa quello di avere il loro fido nel sistema economico dei propri avversari economici. Apro parentesi: ma Putin non è un fine giocatore di scacchi, uno stratega di spessore? E, se è tale, allora è complice? Chiudo la parentesi.
Dunque, si fa un po’ di casino, giusto un paio d’ore di pomeriggio, poi a ora di cena tutti a casa, si smonta tutto e il circo si sposta da Capitol Hill in Brasile. Prove generali per l’Iran che, insieme al Brasile è un polo fondamentale per il comparto energia: il Brasile è tra i poli più attrattivi per l’investimento di petrolio e gas naturale, mentre l’Iran detiene la riserva naturale di gas più grande del mondo, seconda solo alla Russia. Si tenga presente, infine, che anche l’Iran ha fatto richiesta per entrare a fare parte del BRICS.
È chiaro adesso cosa sta succedendo in Brasile? A discapito persino della guerra in Ucraina – altra terra ricchissima – che ha perso spessore, tanto che in queste ore il Segretario Generale della NATO ha dichiarato che il Patto ha terminato le riserve di armi. Tanto a Putin è stato tolto il North Stream, la vera arma (di ricatto) della guerra.
Guerra fin(i)ta, dunque? C’è un’altra guerra pronta adesso. USiamo questa, gettiamo l’altra, consumisti che non sono altro. E mentre i signori del mondo si fanno la guerra attraverso la povera gente, la gente povera, in guerra ci si schiera. L’importante è schiera a favore di se stessi. Se l’Ucraina rischia di essere fagocitata da Mosca, si benedicano pure le armi europee. L’Europa è un boccone troppo appetibile per tutti: prima dipendente dalla Russia e ora legata a doppia mandata agli Usa. Festeggiate la liberazione, ma in realtà vi fanno strozzare col piano Marshall!L
La rivoluzione non è un pranzo di gala e Usa e Russia (leggi Cina) sono ancora comodamente appropinquati al desco di Jalta. In tanti, invece, non contenti di stare sotto al tavolo a racimolare le briciole, litigano persino per la sedia presso cui (sotto)stare.
NAPOLI TUTTO ESAURITO NELLE FESTE NATALIZIE: SARA’ VERA GLORIA??
MORTO IL PAPA NON SE NE FA UN ALTRO
Prima che ci avvelenino con maratone televisive che manco Mentana si sognerebbe di sopportare, tentiamo di regalare un ricordo quantomeno dignitoso di Benedetto decimosesto – sono certo che lui gradirebbe/gradisce questa aggettivazione – al secolo Joseph Aloisius Ratzinger.
Diffidiamo, dunque, degli speciali ad hoc mandati in onda dal mainstream prezzolato, in modo visione, “urbi e tordi” perché proprio i cantori mediatici, gli in-formatori hanno contribuito a “far morire” papa Benedetto. Che essendo il vicario di Cristo è morto sì, ma secondo la concezione cristiana.
I media tutti, dopo essere stati riuniti, invece di parlare, anziché indagare sul perché delle dimissioni, almeno sui motivi oscuri, mai chiariti e persino sorprendenti, hanno preferito accogliere il successore, il secondo Papa o meglio, il papa secondo alcuni, in pompa magna: Francesco, il papa dei poverelli e dell’umiltà: non dicendo che il nome scelto nulla ha a che fare con il poverello di Assisi, ma è un “omaggio battesimale” ad uno dei padri gesuiti. Quel Francesco che rifiuta l’oro della croce e del piscatorio: ma non hanno mai chiarito la raffigurazione, quindi, il significato della croce di ferro che porta al collo. Nemmeno quando altri l’hanno analizzata per capire (e sono sorte dietrologie o, almeno, dubbi, polemiche oscure, insinuazioni di verità?). Francesco che esce fuori dagli schemi (non siamo scemi!) ma sempre dentro gli schermi: Francesco che cammina a piedi, Francesco che telefona a casa della gente. Mica Francesco che non va in Argentina e perché; Francesco che si autodefinisce sempre e solo Vescovo di Roma e non Papa al cospetto del Papa Emerito; Francesco che in Vaticano riceve i potenti della terra, ma non l’allora presidente della nazione più potente della terra (Donald Trump) e le oscure ospitate in Vaticano di lobbisti, dei signori della finanza internazionale da parte di chi dovrebbe (re)incarnare la povertà; del perché egli stesso alloggi nel complesso di Santa Marta e non nell’appartamento papale. Per dirla, appunto, in maniera papale papale.
Francesco è più diretto, arriva più facilmente alla gente semplice, rispetto al “pastore tedesco” – testuale definizione de Il Manifesto – che, invece, ha la colpa di essere un fine teologo, pare essere considerato addirittura il più importante del XX secolo, uno studioso come non se ne vedevano da tempo, un coniugatore di Tradizione e innovazione, di Fede e Ragione, di ellenismo e cristianesimo, uno strenuo difensore dell’Europa cristiana e delle sue radici.
Se Cristo s’è fermato a Eboli, papa Benedetto XVI è morto a Ratisbona. Proprio nell’università che l’ha visto studente (tra i migliori) e dove è ritornato per tenere una Lectio Magistralis (come quella tenuta ugualmente a La Sapienza di Roma, dove gli fu impedito di entrare) che sancì la sua “fine” e pure il suo fine: nella città bavarese, ebbe modo di pronunciare un paio di frasi destinate a scuotere il mondo. Frasi non sue, in verità, ma di Manuele II Paleologo, padre dell’ultimo imperatore dell’Impero Romano Costantino XI che, mentre era ostaggio del sultano ad Ankara, con sapienza greca affrontava un saggio persiano dicendo “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo e vi troverai solo cose cattive e disumane, come la sua direttiva di difendere per mezzo della spada la fede che egli predicava” e ancora, “Non con la spada, ma con la ragione si trasmette la fede perché Dio non si compiace col sangue”. Parole che suonarono come delle autentiche bombe in una Europa in ostaggio degli attentati terroristici alla metropolitane di Londra e Madrid – la cattolicissima Spagna – al Bataclan, all’esterno dello Stade de France in occasione dell’incontro di calcio Francia-Germania, a Saint-Étienne-du-Rouvray, quando, due uomini armati di coltelli, entrano in una chiesa uccidendo il parroco e presero in ostaggio alcune persone, ed altri ancora.
Il messaggio era chiaro: o rimuovete “il fine teologo” o avrebbero continuato. Anche perché papa Ratzinger aveva incarnato un non certo arrendevole difensore di un’Europa antica, ma sempre viva, ormai sentita come quasi estranea e superata. In nome di una Chiesa di un discutibile Cristianesimo orientata ad occuparsi sempre più (ideologicamente) di temi sociali, di una umanità asservita e piegata – leggi sottomessa – alla tecnica e alla chimera della scienza. Che procede, come egli stesso sosteneva, “etsi Deus non daretur” – come se Dio non ci fosse – per ridurre l’uomo ad una sola dimensione orizzontale. L’Europa, e con lei la Chiesa, doveva seguire una rotta (da altri) già tracciata che avrebbe portato ad approdare ai porti sicuri dell’accoglienza senza distinzione (tra chi ha veramente bisogno e chi no) in nome di una giustizia sociale, di impronta socialista, di tutti i migranti, se lo dice una qualunque ong, dell’ambiente delirante, o secondo i capricci di una bambina viziata come Greta Thumberg.
Un programma che trova la sua personificazione (un caso?) proprio nel successore di papa Benedetto che riceve curiosi riconoscimenti di Cristo con falce e martello, Cristo guevarista da dittatori cubani e boliviani, rendendolo così amato da lobbisti ed elite bancarie, dai regimi sudamericani (forse non è più tornato a Buenos Aires perché in Argentina non c’è un regime), da trafficoni e trafficanti di merce umana da ridurre a offerte da scambio e schiavitù. Tutti temi graditi ad una certa sinistra, sempre più colorata, tanto che sempre Il Manifesto ebbe a dire che la sinistra è appesa ad un pontefice, ad un prete. Vista l’emorragia di segretari, da Vendola a Frantoiani, passando per la decina e oltre di segretari del PD che si sono avvicendati, che sia proprio papa Francesco il reggente ed il collante affinché la gente torni a votare rosso… porpora?
Ciò che papa Francesco ha fatto finora, in realtà, è tutto ciò che il suo predecessore temeva: anche solo (?) l’assecondare la transizione globalista dal Dio confessionale al dio dissacrato (a tratti anche sostituito: pachmama vi ricorda qualcosa?), sdivinizzato, un diosenzadio, un ateo, un ibrido incrocio bastardo tra un mezzo idolo new age e una statuetta della rivoluzione francese. Tutto è mescolato, tutto è relativo e, poiché niente risulta essere davvero qualcosa, tutto è annullabile. A partire dall’identità. Poiché il Papa Emerito non era uno che faceva le cose a metà, ma era uno che doveva apparire tedesco, cattivo per antonomasia – chissà perché non lo hanno mai ritratto con l’elmetto di ferro in testa, come da copione, avendo fatto parte della Hitler-Junged – aveva avviato una campagna di “tolleranza zero” contro le “sporcizie della Chiesa”, in riferimento a delle molestie sessuali consumatesi da un prete ospitato nella sua diocesi con lo scopo “di farlo curare”. Pare, almeno da ciò che finora è emerso dal processo, che Ratzinger non fosse nemmeno direttamente responsabile, anzi un altro sacerdote si è assunto la propria responsabilità di non aver comunicato a Benedetto, allora vescovo, quanto accadeva. Evidentemente non si doveva scoperchiare un vaso in cui erano custoditi i segreti di tanti. Se fossero stati anche i suoi segreti, avrebbe avuto interesse a “tollerare zero”? È evidente che chi tocca certa cacca con le mani finisce per sporcarsi: lo sappiamo bene noi in Italia che abbiamo processato e continuiamo ad accanirci ancora e ancora contro un ultranovantenne servitore dello stato come Bruno Contrada, pur se le accuse sono sostenute sulle dichiarazioni dei soli pentiti. A convenienza.
È notizia del post mortem del Papa che il processo a suo carico continuerà e a pagarne (eventualmente?) saranno gli eredi. Non ci stupirebbe se chi non potrà difendersi sarà giudicato colpevole. Per l’altrui salvezza, se vogliamo leggerla secondo il cristianesimo 2.0, quello di Pachmama e da lavanda di piedi a suon di baci carponi.
Sarà strano, ma é la prima volta che un Papa celebrerà i funerali di un altro Papa. Non sarà la prima volta, però, che non sarà dichiarata la sede vacante, condizione imprescindibile per dare luogo a nuove elezioni: era già accaduto con Bergoglio. Se, dunque, la sede vacante è la condizione imprescindibile per la nuova elezione e questo non è avvenuto, l’elezione dovrebbe essere nulla.
Quindi il papa non è Papa. E non ci sarà nemmeno una nuova elezione, visto che avremmo un Papa-non-Papa, o almeno non ufficiale. Quindi ci sarebbe una sede vacante, che è condizione per poter indire una nuova elezione.
Al netto dei tecnicismi e dei cavilli, contano le azioni per rimanere nell’eternità. E quelle di Benedetto XVI pare siano andate tutte, se non verso la Santità, sicuramente sulla via tracciata dalla Parola. Ché è stato un Pontefice ripudiato da quella Chiesa che non l’ha difeso, perché non piaceva all’Islam. E non certo per l’amore per la birra, per la cucina tedesca, per Mozart in cui rivedeva l’armonia di Dio e perché si fermava a parlare con i gatti che si dice fossero numerosi al suo seguito.
Umano troppo umano. Anche. In netta antitesi con il gigante della sua ultima enciclica “Caritas in veritate”, dove sembra dire che va bene il perdono, va bene la carità, ma non al costo da compromettere la Fede, quella cristiana, no categorico all’abiura. Può solo questo, tutto questo, essere condizione sufficiente per tradire, per ripudiare non come Giuseppe di Nazareth, ma come Iscariota che pure era un fedele discepolo, un eletto ammesso alla mensa e pure il più “affettuoso” degli adepti?
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SottoMESSI al capitalismo
Il day after propone lo scandalo della premiazione (per parlarne ancora): se da un lato ci si indigna (ma perché?) per Emiliano Martinez che ritira il premio di miglior portiere del mondiale qatariota – una manina gigante – e la porta a livello dei genitali, in favore di fotografi e cameramen, dall’altro ha fatto discutere il fatto che Messi abbia indossato il bisht al momento del ritiro della coppa del mondo. Tolto, poi, al momento del giro di campo con la coppa, per inciso.
Il bisht – ‘o pigiama ‘e flanella – è un soprabito riservato a chi si eleva al rango di sovrano e Messi, in campo calcistico, sovrano lo è indubbiamente. Messi, dunque, si è sottomesso? Non meno di chi si è genuflesso al cospetto della buffonata del black lives metter. Non meno del pilota di Formula 1 Lewis Hamilton che, al GP del Golfo, beve acqua colorata al posto del boccione di Mumm e rinuncia all’ombrellina al suo fianco prima di partire.
Maradona, però, non lo avrebbe mai fatto. Probabile, considerata la sua avversione – con fatti e non a chiacchere – al modello capitalistico. Aveva tatuato Che Guevara sul braccio, ma, ad analizzare bene, vogliamo ricordare come e perché è morto il rivoluzionario argentino?
Messi avrebbe dovuto rifiutare? Sì, forse, non so. Posso dire che mi sarebbe piaciuto vedere Fini e Salvini non indossare la kippah. Posso dire che a me dà enormemente fastidio vedere gente, donne con il velo (integrale, a mezzo busto, che copre solo i capelli) sotto al Duomo, in fila per visitare la Cappella (con la C maiuscola, intesa come Duomo) del Brunelleschi, in fila davanti al Cristo velato (magari!) o alla Vucciria.
Il discorso su Messi è diverso. Completamente.
Lì non si tratta di rispetto dei luoghi e del mos maiorum, di integrazione o di chissà quale altra diavoleria. Lì è meramente un fatto di dané. Plutocrazia. Soldi. Soldi assai. Citofonare PD, Bruxelles, Fifa. Che, poi, non sono tutti la stessa abominevole cosa? È un fatto di sponsor. Nient’altro. La FIFA – che ha incassato un miliardino più del previsto – twitta proprio quest’immagine? È un caso? Grazie al caso!
Più che i tifosi dovrebbero essere incazzati gli sponsor. Adidas per primo. Quelli che sono insorti e hanno ottenuto finanche l’ammonizione del giocatore che esulta dopo una rete togliendosi la maglietta? A chi nuoce? A chi dà fastidio? Agli sponsor! Che perdono il momento di maggiore visibilità per foto e video.
Gli stessi sponsors che si scontrarono in modo epico a France 98. Adidas Vs. Nike. Adidas che sponsorizzava i Galli con il capitano Zidane, uomo simbolo, contro la Nike, sponsor tecnico dei verde-oro su cui era improntata tutta la campagna pubblicitaria (dané, soldi, soldi assai), con Ronaldo il fenomeno uomo di punta.
Spot sfizioso, ambientato nell’aeroporto e colonna sonora – Mas que nada – diventata un vero tormentone. Fin qui nulla di strano. Lo strano è che nessuno ha preferito parola sul fatto che Ronaldo il fenomeno morì per un minuto, poco prima della partita più importante della carriera di un calciatore: la finale dei Mondiali. Il suo cuore si fermò per un minuto, a causa di una posizione innaturale della testa che Ronaldo aveva assunto mentre guardava il Gp di Formula 1. Il suo malore fu curato come crisi epilettiche (medici umani troppo umani pure per i paperoni con i piedi d’oro), sulla distinta ufficiale che la FIFA premeva per averla il nome di Ronaldo non compariva. Non compariva perché era in ospedale da dove su una barella aveva seguito l’intero prepartita.
Qualche frazione d’ora più tardi il numero 10 della Seleção è regolarmente in campo per giocare la peggior partita della sua carriera, finendo per essere nemmeno l’ombra di se stesso.
Edmundo – ‘o animal – che doveva giocare al posto del Fenomeno fu fatto fuori proprio dagli sponsor che pretesero che Ronaldo prendesse parte alla gara. Questione di immagine. E che immagine! Al medico della Nazionale brasiliana non fu mai più concesso di esercitare la propria professione. Ancora oggi. I fatti di quel pomeriggio sono arrivati finanche al Parlamento brasiliano che ha organizzato una commissione d’inchiesta.
Pecunia non olet. In Qatar, dove la situazione non è poi tanto diversa da France 98, abbiamo due squadre a contendersi il trofeo. Due numeri 10. Entrambi appartenenti ad un club francese (francese!) a sua volta appartenente ad un emiro. Due fuoriclasse, già uomini-simbolo e ieri – guarda un po’- anche uomini partita. Anzi, uno ha addirittura segnato una tripletta, come non accadeva da mezzo secolo. Questione di pigmentazione! Ha anche ottenuto il titolo di capocannoniere. Questione di pigmentazione! Ha perso, ma nonostante tutto ha vinto. Questione di pigmentazione! Si sprecano i titoloni sulla cartastraccia per il rispetto della medaglia d’argento che ha tenuto al collo. Questione di pigmentazione sicuramente! La gara non ha visto vincitori né vinti. Non ha visto nessuno prevalere sull’altro. L’Albicelesti che vanno in vantaggio di due lunghezze a zero e i cuginetti d’oltralpe che eroicamente rimontano. Merito della baguette e della mancanza del bidet. Un rigore ciascuno, così non scontentiamo nessuno. Tempi supplementari non senza emozioni e, poi, gli immancabili, spettacolari rigori.
Di certo, non ci aspettavamo potesse vincere l’Afrancia, dopo che, grazie a quegli amici mangialumaca di Blatter e Platini, il Qatar si è aggiudicato l’organizzazione dei mondiali. Dopo che l’Eliseo ha smerciato proprio agli arabi una cinquantina di aerei. Dopo che la FIFA è stata premiata con un miliardo in più rispetto al previsto. Rispetto a quello che si sa.
Ditemi chi ha perso. Se non il calcio. Se non i tifosi. Se non le centinaia di schiavi morti per costruire gli stadi, da oggi buoni nemmeno più a ospitare cammelli. Se non gli autori teatrali, capaci di scrivere spettacoli sicuramente migliori e molto meno, meno scontati.
UN CONTRATTO DI LAVORO PER “SPAZZARE VIA TUTTO”……ANCHE LA COSCIENZA !!
L’aria che si respira è quella del di dì festa, la location addirittura un castello, il Maschio (toccherà pensarci prima o poi) Angioino (ancora con razze, casate e toponimi?) la sala, elegantissima, quella dei Baroni. Il motivo della cerimonia uno tra i più importanti nella vita, quello che spazza via tutto: un contratto di lavoro. Allora è consentita pure la partecipazione di mammà e babbo a vedere ‘o figlio ca piglia ‘o posto. Ma le “contraddizioni’ – per dirla con un luogo comune – non finiscono qui. Nossignore. Perché i contratti di lavoro sono ben 200 sottoscritti in una sola giornata, vieppiù nella città di Napoli, per antonomasia – ma quante se ne nascondono dietro la Nea Polis è un segreto di Pulcinella – capitale della disoccupazione. E non è tutto: i duecento nuovi occupati saranno degli operatori ecologici in quella che tutti identificano come la capitale della monnezza.
Al netto di un’amara ilarità, questa situazione, che è la conclusione del concorsone terminato a settembre, quello che si è tenuto per opera e volontà di “masto Vicienzo Co.Co.Co” – con il Covid, nonostante il Covid, nonostante quello che è stato Vicienzo con il Covid – apre profonde riflessioni su molteplici fronti. A partire proprio dai luoghi comuni che vanno infranti, se a Napoli 200 giovani – età media 24 anni – hanno firmato un contratto di lavoro per operatori ecologici, la verità incontrovertibile è che c’è una gran voglia di lavorare. E qui va aperta un’ulteriore riflessione sul Meridione da tempo coda antipodica del nord unico motore dell’economia italica; sulla capitale – che poi non è tale – del reddito di cittadinanza inteso come sussidio di stato, a partire proprio dal padre del RdC Peppino Conte che, appena il governo Meloni ha annunciato di voler rivedere l’elargizione economica, si è immediatamente fiondato sotto al Vesuvio: Scampia, quando deciderai di non farti sfruttare così?
Dei 200 assunti, si apprende, solo 19 hanno la licenza media, 169 sono diplomati presso una scuola superiore e 19 sono addirittura laureati! Onore a loro, non c’è che dire, ma davvero mammà e papà hanno fatto sacrifici – leggi privazioni – per un ventennio almeno, per far studiare il proprio figlio pe’ se piglià ‘no posto e il posto tanto ambito è quello del netturbino? Mestiere nobile, maestro di una vita “superiore” anche per un napoletano doc quale è Totò che gli affida la morale de La Livella che è maestra di vita. Ma se un laureato, un diplomato “vince facile” per andare ad accaparrarsi il posto dello scopatore, non preclude forse la possibilità a chi non ha proseguito gli studi o non li ha proprio finiti? Ed è corretto, e forse pure normale, che chi sa districarsi tra i labirinti giuridici (i DPCM quotidiani di Conte, tanto per dirne una), che chi sa leggere un bilancio comunale, chi sa valutare la stabilità di un palazzo e magari renderlo sicuro, dopo tanta formazione debba seguire un ulteriore corso per imparare a guidare una macchina atta a spazzare la strada, piuttosto che seguire le direttive di come si spazza un marciapiedi? Sempre per un fatto di scelte, di attitudini, di formazione.
Ribadiamo: onore al valore, coraggio su tutti, di questi ragazzi plurititolati che non hanno certo avuto paura di cominciare dal basso (sperando per loro che non finiscano sempre più in basso), ma a voler riflettere, persino i “professoroni” che hanno permesso tutto questo potevano interrogarsi sulla liceità del loro operato. Sulla “giustizia” ai sacrifici di ognuno. Se sia giusto spazzare via – è proprio il caso di dirlo – così sacrifici, impegno, difficoltà, sogni passate per i tanti tomi ingurgitati. Distruggere ambizioni e possibilità. Imparare ad accontentarsi. Se sia giusto che un “dottore”, pur di lavorare, sia indirettamente costretto ad accettare le regole del gioco. E del giogo. Se non si voglia, invece, indirettamente, ma nemmeno tanto, creare un appiattimento di ogni individuo nella società, magari con quella fisima dell’essere tutti uguali che è tutt’altra cosa rispetto all’uguaglianza, altra cosa ancora rispetto all’equità. Atteso il fine buono, buonissimo, buonista di tutti. Omnia Munda Mundis. OMM….. Omm’….
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ISCHIA “CALENDA EST”
Ci pensa Calenda. In un pomeriggio ben poco onorevole, emergenziale, come lo può essere una pioggia a fine novembre, e noioso per via della sospensione del panem et circenses quale può essere il campionato italiano di calcio a favore del mondiale – anche qui con poca, pochissima, inesistente Italia: dopo il Covid 19 ecco propinarci il Qatar 22 – ecco che ci pensa Calenda!
Comodamente dal sofà del suo loft etnico-oligarchico, in modalità agile – smart working, direbbero i fanatici come lui – che fa tanto delivery, con una cinguettata nel metaverso, serve comodamente la polemica sciacalla, dopo aver chiaramente indossato la mascherina del prode leguleio. Attacca, quindi, il professor (di) “diritto” ed ex occupante di Palazzo Chigi Peppino Conte da Volturara Appula- incredibile a dirsi: oltre ad aver firmato un’infinità di Dipiciemme volti alla repressione più totale di ogni elementare libertà costata lacrime e sangue, ad aver confinato la gente nei propri domicili, a (non) aver curato qualcosa di curabile con fantasiosi protocolli governativi sospendendo quelli medici, dicono sia stato anche il Presidente del Consiglio dei Ministri – reo di aver concesso un “condono pericoloso” all’isola di Ischia e cancellato l’unità di missione “Casa Italia” per la ragione che l’aveva istituita Matteo Renzi. Entrambi “gravi errori” a suo dire, ma cercare a posteriori di prendere in giro gli italiani con eloquio stile azzecarbugli è anche peggio”. E così continua il panegirico in onore (e in odore) di Matteo Renzi il salvatore, protettore del deretano sul velluto, dispensatore del miracolo dell’aver salvato da morte (politica) certa il buon Carletto, acciuffato per i capelli in zona Cesarini.
Avrebbe potuto bofonchiare ancora un po’ Calenda, quel tanto che, se capace, basta per apprezzare – magari un tweet a riguardo sarebbe risultato più fruttuoso, quantomeno per l’animo degl’ischitani – la dignità di un popolo messo in ginocchio e che continua a ritenersi fortunato perché figli e nipoti sono tutti salvi (almeno qualcuno!).
Un popolo che parla già di rialzarsi, nonostante nessuno abbia attivato un numero verde ed un conto corrente (Renzi meglio di no, Carle’!) ad hoc; perché nonostante non vi siano i retorici sermoni mediatici d’occasione, continua disperatamente a spalare fango perché ancora speranzoso di trovare un proprio caro o essere d’aiuto ai propri compaesani che piangono i propri morti, i dispersi e il non avere più nulla.
Quel silenzio che avrebbe potuto fargli comprendere (siamo volutamente buonisti questa volta) che a Ischia non c’è colpa, perché l’abusivismo non c’entra nulla: lo dicono i tecnici, gli esperti, ma non quelli della task force delle “quattro stagioni”, riciclabili indistintamente dall’ambito sanitario a quello militare, sconfinando nel geopolitico – ma tutto è scaturito dal Monte Epomeo.
Ischia è un’isola vulcanica formata sostanzialmente da due tipi di roccia: quella solida, ben ancorata al terreno e uno strato di roccia più sottile (ma dai pochi centimetri può raggiungere e superare anche il metro di spessore), friabile e che è il risultato di eruzioni vulcaniche passate. Piogge di lapilli di precedenti eruzioni.
Quando un fenomeno atmosferico particolarmente importante, come una pioggia copiosa, si abbatte in un territorio più o meno sensibile, può verificarsi che lo strato più sottile di suolo e meno radicato a terra, inizi a staccarsi (punto di innesco) e a scivolare verso valle. Mano a mano che si genera la “valanga” di cenere e lapilli, questa prende forza (trascinando con sé altro materiale “friabile” non ancorato a terra) e velocità, spazzando e travolgendo via tutto quanto non riesce a vincere la sua forza cinetica (ecco perché su un lato del monte Epomeo sembra esserci uno squarcio, senza più l’ombra di un albero), per poi fermarsi a valle dove tutto viene ammassato.
Semplificando, questo è quanto successo a Casamicciola, ma è ciò che potrebbe succedere, se non è già successo, in ogni parte restante d’Italia, essendo questa una terra telluricamente giovane e geomorfologicamente mobile. Con una spiccata sensibilità topica nei punti laddove ci sono dei rilievi montuosi. Praticamente ovunque, se pensiamo che oltre alle Alpi e agli Appennini – che sono rispettivamente la corona e la spina dorsale d’Italia – abbiamo anche rilievi montuosi di carattere vulcanico.
Sono fenomeni che si possono prevedere, allora? Certo. Lo sappiamo già. È tutto già scritto, basta dare un’occhiata alle mappe elaborate dai geologi e si vedrà che l’Italia – fatto salva per qualche parte della pianura padana, principalmente in Romagna – è tutta una zona rossa. Basti pensare che l’Italia è terra franosa per eccellenza e che il 70% e oltre del territorio europeo soggetto a frana è concentrato proprio in Italia. Praticamente la quasi totalità. Che tradotto in termini “calendoscopici”- ovvero gli scopi di Calenda – significherebbe che in Italia non si potrebbe costruire da nessuna parte. Mica solo a Ischia! O a Sarno, a Genova, o a Firenze.
Eppure il dottor Peduto, da Presidente del Consiglio nazionale dei geologi, si batteva per rimettere al centro dell’agenda politica proprio la geologia, con il suo binomio intrinseco di prevenzione e monitoraggio. Peduto era riuscito ad arrivare addirittura (sì, proprio addirittura!) a presentare il suo progetto salvifico e salvavita nientepopodimeno che all’allora Ministro dell’Ambiente e a chi siedeva al Viminale. La proposta piacque, ma al governo di allora successe una colata, proprio come a Casamicciola, che lo coinvolse e lo distrusse irrimediabilmente. Bisognava rimboccarsi le maniche e cominciare a ricostruire tutto da zero. Ma la politica politicante di questo non è stata più capace. Mica come a Ischia, a Sarno, a Firenze, in Umbria, dove c’è gente comune e diversamente onorevole.
Perché la politica faccia tanta difficoltà a parlare di prevenzione, a capire che si deve agire con un approccio preventivo è un interrogativo al quale Calenda in primis, da politico, potrebbe tentare di rispondere. Magari fare prima a se stesso. E attivarsi. Evitando polemiche sterili e strumentali. Gli strumenti servono agli ischitani. Come pale e stivali. E braccia. Magari onorevoli, sottratte proprio alla politica. Azione! Non parole.https://www.camposud.it/ischia-calenda-est/tony-fabrizio/
RICORDATI DI “USARE SEMPRE”
NAPOLI MARCIA… PER LA PACE
Finalmente è arrivato il tanto agognato 28 ottobre e la diarchia formata da Vincenzo De Luca e da Gaetano Manfredi scende in piazza… per la pace. Che poi nemmeno a loro è chiaro se vogliono la pace o vogliono dire no alla guerra che non è esattamente la stessa cosa, così come entrambi auspicano l’immediato cessate il fuoco, ma i rispettivi partiti di appartenenza spingono per l’invio a mandare armi in Ucraina. Che non vuol dire certo fare la guerra.
Siccome, però, non c’è due senza tre, allo spettacolo non poteva mancare nientepopodimeno che lei, la guest star istituzionale, il mercoledì in mezzo alla settimana, la prezzemolina Liliana Segre, senatrice a vita (fino alla morte) della Repubblica italiana.
Ma andiamo con ordine in questo “guazzabuglio di guelfi e ghibellini” – come direbbe il Principe della risata – che, però, non fa ridere, ma anzi, ottimamente rende la situazione per quella che è.
Metti la Segre che ha subìto la persecuzione nazifascista all’indomani delle leggi razziali del ’38 che, però, sostiene il governo ucraino di Zelensky il quale, però ancora, annovera tra le sue Forze Armate l’ormai famoso Battaglione A3OV la cui ideologia si rifà ai principi del nazionalsocialismo tedesco;
metti che il governat(t)ore De Luca, colui che minacciava di far imbucare i Carabinieri con il lanciafiamme alle feste di laurea, colui che, mentre invocava la riapertura dei manicomi, minacciava l’utilizzo indiscriminato del Napalm, colui che si presenta in piazza a manifestare con la mascherina mentre il ministro Schillaci firma il decreto che reintegra i medici non vaccinati – lo stesso vaccino che De Luca aveva diviso e moltiplicato: laddove il Ministero e l’Istituto Superiore di Sanità davano indicazioni per tre, massimo quattro iniezioni per dose, Vicienzo riusciva a ricavarne ben cinque! – e sospende l’utilizzo di mascherine negli ospedali, colui che non si è risparmiato nel definire “idioti” i fratelli d’Italia scesi in piazza a Salerno, proprio a casa di De Luca, proprio come lui ha fatto oggi, proprio lui parla di pace!;
metti anche il sindaco Gaetano Manfredi che, mentre ciancia di rincari dovuti alla guerra e, di conseguenza, propina a destra e a manca attenzioni e parsimonia, più falsati dei rincari, nell’utilizzo di corrente e gas, si accolla, o meglio accolla ai contribuenti napoletani, le spese per le utenze dei centri sociali – per stessa candida ammissione dei figli di papà annoiati & mantenuti – e allora il miglior cortocircuito è servito!
Da Piazza del Plebiscito si è, dunque, levato il loro grido “trino e uno”, sicuramente unico nel suo genere, distante migliaia di chilometri da ogni fronte di guerra.
Ma anche i numeri dell’evento sono da capogiro: quasi 300000 (trecentomila!!!) euro per mobilitare gli astanti. Che, tradotto dal politichese, significa che la regione Campania, ovvero De Luca in persona, ha sostenuto un costo pari a circa 300 mila euro per trasportare a Napoli i manifestanti provenienti pure dagli angoli più remoti della regione. Manco a dirlo, quelli usati sono soldi dei contribuenti campani. Che sarebbero dovuti essere utilizzati sicuramente in maniera migliore, per altre criticità magari impellenti e, non ultimo, per la collettività, non certo per finanziarsi una manifestazione sicuramente non del tutto chiara e trasparente.
La puzza di bruciato è fortissima e arriva molto lontano, tanto che la sente persino lo scrittore Maurizio de Giovanni, l’intellighenzia che ha monopolizzato addirittura la mammasantissima RAI. “È un sit-in da evitare, una parata ambigua” ha detto lo scrittore. Una prova di forza che manco Xi Jinping riconfermato per la terza volta alla guida del partito. Strana assonanza, perché anche De Luca vorrebbe candidarsi per il terzo mandato consecutivo a Palazzo Santa Lucia. Per continuare ad “amminestrare” la Regione con parenti, amici e compagni tutti “sistemati”, previo prova del consenso: pare esista addirittura un sistema-Salerno, accertato pure dalla magistratura! E certo vogliamo stupirci dell’uso strumentale che l’inquilino della Regione fa delle istituzioni? Mica vogliamo parlare della convocazione, su carta intestata della Regione Campania, della Protezione Civile? O dell’”invito” esteso a tutte le scuole campane? Una manifestazione organizzata in un giorno di scuola, in un orario scolastico in una regione in cui la dispersione scolastica ha raggiunto livelli importanti e si è guadagnato addirittura il triste primato per gli studenti che finiscono la scuola senza essere in possesso delle competenze fondamentali. Che sono quelle basilari. È lo stesso De Luca fautore delle scuole sempre chiuse per il Covid! Chissà quanti studenti e quante scuole avrebbero partecipato, se la “marcia” fosse stata organizzata di sabato pomeriggio o di domenica. Non ci saremmo stupiti se alla partecipazione avesse corrisposto anche un bonus per i crediti formativi, come fatto in occasione della marcia della pace Perugia-Assisi divenuta una marcia d’odio e di guerra nei confronti di Matteo Salvini, allora Ministro dell’Interno. E a proposito di ex ministri: anche il fu ministro della Salute Robertino Speranza, recentemente candidato e riconfermato proprio nel regno di Vicienzo, boccia la sanità campana che si guadagna, non senza (de)meriti, il primo posto per mortalità “evitabile”, cancro e patologie cardiache nello specifico. Si tratta dello stesso De Luca impegnato a propagandare senza sosta la riapertura di ospedali interi, nuovi padiglioni attrezzati, unità di emergenza nuove di zecche, mentre decuplicava giornalmente i posti in terapia intensiva?
Strano che non abbia saputo indicare la panacea per un problema semplice ed evitabile come il disagio procurato agli automobilisti con la sua trovata di piazza (basti pensare che era interdetto il parcheggio nell’intero tratto che andava da Piazza del Plebiscito a Piazza del Carmine!) che, però, avrebbe aperto il dibattito sulle condizioni stradali della città che avrebbero ben gradito per la manutenzione una parte dei fondi utilizzati per pagarsi e affollarsi la sua manifestazione. Condizioni stradali che non saranno certo sfuggite a chi si è recato a Napoli per la manifestazione, in primis agli studenti, visto che, almeno dai pareri raccolti, della guerra in Ucraina ne sapevano meno di quanto interessasse loro. Però, loro voteranno, per cui è bene che vengano già “istruiti” a scuola. E non si gridi nemmeno alla strumentalizzazione del sistema scolastico! Mica li si può indurre a pensare che la struttura dove si recano per apprendere è spesso fatiscente, piuttosto che stimolarli ad interrogarsi se sia costruita di cartone, visto che basta un po’ di vento e alle prime quattro gocce d’acqua viene chiusa? Meglio chiuderla pure oggi!
E pure se De Luca non si vede dal palco, l’importante è che se ne parli. Se non dal palco, meglio (anche) al seggio. Pure se alla pace avrebbe potuto gridare il 5 novembre, come nel resto dello Stivale, ma meglio una manifestazione tutta “sua”, o meglio, tutta per sé. Vincenzocentrica! Pure se la pace poca gli interessa, visto che gli interessi sono altri. E pace pure alla marcia, se la prima cosa ad essere marcia è proprio l’ambientazione di questa ennesima, indecorosa tragicommedia.
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