Giggino Di Maio, un riciclato nel Golfo Persico (con 12mila euro al mese)

Roma, 24 apr – Tra le cose che meno interessano agli italiani c’è sicuramente quello di porsi il problema di come passi le giornate l’ex ministro Giggino Di Maio. Che “ha da fa’ pe’ campà”, giusto per farlo intendere anche a lui. Anche perché la stragrande maggioranza di loro non vedeva l’ora di toglierselo dalle scatole, visto che il “suo” Impegno Civico ha raccolto meno dell’1% all’ultima tornata elettorale e, da ministro uscente che non è altro, non è bastato l’inciucio col Pd e la mano del sempreverde Tabacci per riconquistare la cadrega in Parlamento. Certo, l’italiano ancora presente a sé stesso ancora si interroga su come sia stato possibile che un personaggio come “Giggino da Pomigliano” abbia potuto farsi strada nei meandri della politica e soprattutto arrivare ad essere parlamentare prima e doppiamente ministro poi. Ma da qualche ora si dovrà pure chiedere – spiegare sarà difficile, almeno scientemente – come possa proprio Di Maio essere “il più indicato”, a parità di… “curri-cula”, dei 27 Paesi con la stellina a rappresentare l’Unione Europea nel Golfo Persico.
Giggino Di Maio, riciclato nel Golfo a 12mila euro al mese
Se pensiamo che il suo nome non sarà (più?) legato a quello dell’Italia, si potrebbe persino pensare di esultare. Guadagnerà 12mila euro al mese e beneficerà pure della tassazione agevolata dell’Unione per fare non si sa ancora bene cosa, ciò che dovrebbe far riflettere sono le “qualità e le competenze” sciorinate nel curriculum: che abbia preso spunto dal racconto di carriera del suo ex Peppuccio Conte, frequentatore di prestigiosi atenei stranieri dove nessuno lo ha però mai visto? Ah, se solo al posto dei tanti (in)successi decantati su carta, a Bruxelles avessero ricordato anche solo i compaesani di Giggino impiegati alla Whirlpool di Napoli, oggi tutti disoccupati, nonostante le vittorie intestatesi che Pirro al confronto è un principiante o anche le famiglie dei 18 pescatori di Mazara del Vallo sequestrati per oltre 100 giorni dopo “un viaggio di lavoro” del nostro ministro degli Esteri per i quali, accampati in tenda in piazza Montecitorio per mesi, il telefono della Farnesina rimase sempre muto. Tanto per citare solo due episodi di quando sedeva all’uno e all’altro ministero.
Uno vale l’altro
Se la scelta avrebbe dovuto proprio ricadere sull’Italia, avremmo potuto senza dubbio esprimere candidati di ben alt(r)o spessore, ma ciò che spiazza (e non stupisce) è il silenzio da parte delle forze di governo, fatta eccezione per qualche lamento della Lega, perché la “preferenza” europea cade ancora una volta dalla parte opposta a quella espressa dai cittadini che hanno scelto di relegare Di Maio nell’oblio. “Menomale” che l’astensionismo è in aumento, che i giovani sono disabituati alla politica, almeno a quella elettorale che è il volto peggiore della politica, e che i loro modelli sono ormai costituiti da influencer, youtuber, tiktoker e tutto ciò che finisce con “er” che tutto possono fare tranne che insegnare, altrimenti dovrebbero guardare a Di Maio, su cui siamo davvero al lapalissiano, come un modello di uomo di successo: pure che non conosce la lingua in cui si esprime, pure che non ha completato gli studi né si è specializzatosi in qualsiasi cosa – sarà questo il significato insito nel motto a cinque stelle “uno vale uno”, diventato per convenienza uno vale l’altro, pure se questo vale zero? – come appunto “uno” che può arrivare ad essere ministro degli Esteri senza conoscere alcuna lingua straniera e subito prima ministro del Lavoro senza aver mai lavorato.
Lo so, qui scadiamo nella retorica che più blanda e superficiale non si può, ma assicuriamo che è tutto solo merito di Giggino. Ora anche lui dovrà fare la valigia e lasciare casa, gli affetti e la propria terra e provare l’ebbrezza di dover emigrare per lavorare, certi che non costituirà un grosso problema per il cosiddetto fenomeno del brain drain che ci attanaglia. E non perché non sia una fuga. Tuttavia, un insegnamento Giggino ce lo lascia: in mancanza di dignità, di coraggio e di rispetto della volontà degli elettori non si può non riconoscere onore al merito di aver saputo stringere le amicizie che contano, almeno per il proprio tornaconto e alla capacità di sapersi riciclare: esulti pure Greta e tutti i suoi gretini.

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Una lezione sul 25 aprile? E’ scolpita al sacrario di Sant’Angelo in Formis

Caserta, 22 apr – Ormai è chiaro a tutti, il 25 aprile, al netto di ogni partigianeria, è tutto ciò che (non) dovrebbe essere: i festeggiamenti di una sconfitta, ciò che avrebbe potuto essere e non è stato per “colpa” di quelli che hanno perso – dunque, stando così le cose, hanno perso davvero? -, la storia riscritta, voce del verbo infoibare, e inventata ad libitum dai “vincitori”, la liberazione ad opera di quei liberatori che hanno, di fatto, occupato l’Italia. In questa narrazione va inserita anche la guerra che i partigiani hanno combattuto a guerra finita, il nemico riconosciuto nel loro stesso popolo, la verginità riconquistata. Così i partigiani, quelli anagraficamente contestualizzati, li possiamo vedere a ridosso del 25 aprile coprirsi (e coprire) di una delle pagine più infami che hanno mai scritto, in realtà, che i “liberatori” hanno scritto per loro. Un esempio è scolpito nella pietra al sacrario di Sant’Angelo in Formis. Ma andiamo con ordine.

“Per la salvezza dello spirito e della civiltà”: l’ultima sigaretta e un bacio alla mamma

Siamo in Campania, nella provincia di Caserta, il carcere è quello di Santa Maria Capua Vetere. Si aprono le porte, esce un giovane dalla camminata fiera e spavalda, volto aquilino, sguardo fiero, vestito di camicia (nera) con le maniche arrotolate fino ai gomiti, festante, come se dovesse andare a far baldoria con gli amici, monta sul camion che lo condurrà al palo della morte. Dalle immagini stipate negli archivi Usa, sembra poter riconoscere Mario Tapoli, romano, non ancora ventenne. Le stesse immagini lo ritraggono insieme ad altri due camerati (appartenenti alla RSI) anche loro rigorosamente in camicia nera, polsi legati al palo, che fronteggiano fieri il plotone di esecuzione in una cava di tufo di cui non ne esce che la sola parte superiore tra rovi di spine e piante di ulivo. Si riconoscono Italo Palesse e Franco Aschieri, 22 e 18 anni.

Sono accusati di essere spie al servizio delle SS, ma bastava il solo non essere “dalla parte giusta” per decretarne la fine. Bastava l’abiura, come quella pretesa (e mai ottenuta) dai militi della X MAS rinchiusi nel vicino carcere di Nisida, come riportato a un aviere della RSI dalla sua insegnate (comunista) di inglese: “Era stata convocata al tribunale alleato e, con un anziano colonnello americano, delegato a giudice, condotta nella cella ove erano rinchiusi tre di quei giovani in attesa d’essere processati. L’ufficiale le chiese di tradurre quanto intendeva proporre loro: dato che oramai la guerra era perduta, dunque, sarebbe stato il loro un sacrificio inutile, gli dessero lo spunto per salvare loro la vita, trascorrendo così il resto del periodo bellico in qualche campo di prigionia, ad esempio (ammettendo) che erano stati costretti ad agire sotto minaccia dei loro superiori. Riferita la proposta, i tre chiesero di potersi consultare e, subito dopo, vollero che lei traducesse quanto deciso: nessuno ci ha obbligato, siamo volontari, dunque ciascuno compia il proprio dovere: il colonnello a condannarli, essi legati al palo dei fucilati. Una richiesta, questa sì, di non essere bendati per poter vedere l’azzurro del cielo d’Italia per cui avevano combattuto e per essa dato la vita”.

Altra razza per un’altra Italia realmente esistita. Eroica. O, forse, non proprio un’altra Italia, se pensiamo al modo di morire del filosofo Giovanni Gentile o di Fabrizio Quattrocchi. La stessa razza a cui appartenevano anche Palesse e Aschieri di cui diamo testimonianza del loro ultimo esempio: Palesse ancora oggi sbalordisce: dopo aver chiesto che gli venga tolta la camicia nera per non bucarla, morirà, fumando l’ultima sigaretta in faccia al plotone schierato, gridando “Dio stramaledica gli inglesi!”. Di Aschieri, invece, riportiamo alcuni passi dell’ultima lettera scritta alla madre, dall’alta carica di spiritualità: «Cara mamma, con l’animo pienamente sereno mi preparo a lasciare questa vita che per me è stata così breve e nello stesso tempo così piena e densa di esperienze sensazionali (…). Ti prego, mamma, fa’ che il mio distacco da questa vita non sia accompagnato da lacrime, ma sia allietato dalla gioia serena di quegli animi eletti che sono consapevoli del significato di questo trapasso. Ieri, dopo che mi è stata comunicata la notizia, mi sono disteso sul letto ed ho provato una sensazione che avevo già conosciuta da bambino: ho sentito cioè che il mio spirito si riempiva di forza e si estendeva fino a divenire immenso (…). Non ho alcun risentimento per coloro che stanno per uccidermi perché so che non sono che degli strumenti scelti da Dio (…). Io resterò vicino a te per sostenerti e aiutarti finché non verrai a raggiungermi; perché sono certo che i nostri spiriti continueranno insieme il loro cammino di redenzione (…). In questo momento sono lì da te e ti bacio per l’ultima volta, e con te papà e tutti gli altri cari che lascio. Cara mamma, termino la lettera perché il tempo dei condannati a morte è contato fino al secondo. Sono contento della morte che mi è destinata perché è una delle più belle, essendo legata ad un sacro ideale. Io cado ucciso in questa immensa battaglia per la salvezza dello spirito e della civiltà, ma so che altri continueranno la lotta per la vittoria che la Giustizia non può che assegnare a noi. Viva il fascismo. Viva l’Europa. Franco».

Il 25 aprile e il sacrario di Sant’Angelo in Formis

Potremmo riportare anche i nomi degli altri tredici militi che hanno combattuto la guerra del “sangue contro l’oro” e che sono stati ammazzati – al grido di Viva il Duce, Viva il Fascismo, Viva l’Italia – in quello che è il sacrario pressoché sconosciuto di Sant’Angelo in Formis, dalla barbarie “liberatoria” anglo-americana di cui restano solo i buchi dei proiettili nel tufo, tutt’oggi visibili. Per questi eroi, invece, restano le parole di Brasillach incise nella pietra a dare il benvenuto nel luogo: “Amore e coraggio non sono soggetti a processo”. Resta immortale per noi il loro esempio, resta eterno per loro il nostro Presente.

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Irpinia, un incredibile polmone verde per candidati “furbetti”: 5 liste per 275 abitanti

Roma, 17 apr – Cairano, Rocca San Felice, ameni paesini arroccati sulle alture dell’entroterra dell’Irpinia che nemmeno il (demo)cristiano miracolo operato dai tipici e topici Ciriachino De Mita, Valentino Sullo, Gerardo Bianco e tutta la combriccola dello scudo crociato è riuscito nell’intento di farli conoscere se non al mondo, quantomeno al resto d’Italia, rimanendo noti ai (sempre più pochi) residenti, ai nativi (emigrati) e agli stoici allogeni. Borghi – tra i più belli d’Italia – ricchi di storia e di folklore che negli ultimi anni hanno conosciuto un vero e proprio boom da parte di certi appartenenti alle Forze dell’Ordine. Non per chissà quale losco nascondiglio di un qualsiasi malvivente in fuga, ma semplicemente perché questi paesini rappresentano un vero e proprio “polmone verde” per i furbetti con le stellette.
Candidati mai visti
Il mese prossimo, infatti, sono tanti i centri che saranno chiamati a rinnovare le proprie amministrazioni comunali, ma nei due paesi di Cairano e Rocca San Felice, in provincia di Avellino, si è registrato un fenomeno quantomeno singolare, in verità non nuovo, ma che sta prendendo sempre più piede negli ultimi anni: all’atto della presentazione delle liste che concorrono per aggiudicarsi la fascia tricolore, hanno fatto comparsa ben tre liste composte da persone che nessuno ha mai visto in questi piccoli centri e che, a dirla tutta e con tutta probabilità, non sono nemmeno minimamente interessati a dare il proprio contributo nell’amministrazione della cosa pubblica, visto che non sono residenti né hanno nulla a che fare con questi posti. E, dopo l’election day, spariscono come neve al sole, almeno fino alla prossima tornata elettorale.
In Irpinia 5 liste per 275 residenti
Perché, allora, partecipano alla corsa elettorale? Perché essere candidati, pur senza impegno di partecipazione e tantomeno qualunque speranza di vittoria, permette loro di avere diritto a un mese di permesso straordinario dal lavoro. Pure retribuito. Semplice e sufficiente. Tutto ipso iure, sia bene inteso. Nei centri con una popolazione residente non superiore a mille abitanti, recita la norma, non è prevista la sottoscrizione delle liste, dunque chiunque, anche per un motivo “personalistico”, può candidarsi. Più di chiunque, visto che nel comune di Cairano, che vanta 275 residenti, sono ben cinque le liste presentate, di cui due appartenenti a militari pugliesi e campani, come riferisce al Corriere dell’Irpinia il primo cittadino uscente e non ricandidabile per raggiunti limiti di mandato, se non a consigliere, de Angelis che, però, non le manda certo a dire e lancia l’allarme chiedendo anche di cambiare la normativa attualmente in vigore.
Stessa situazione anche nella (fu) roccaforte demitiana di Rocca San Felice: 800 persone, cinque liste di cui tre “fantasma”, ognuna composta di dieci militari. E se questa è l’Irpinia d’oriente, dal versante opposto, laddove Campania e Puglia confinano, nel paesino di Greci, poco più di 600 abitanti, la situazione è la medesima e anche lì spunta l’immancabile lista “uniforme” di “Altra Italia”. Cose dell’altro mondo…

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Ora l’Anpi vuole “infoibare” anche i crimini di Tito

Roma, 7 apr – Se fino ad ora l’Anpi si è arrogato il compito, mai delegatole da nessuno, di riscrivere la storia che ha fondato su fantasie e, quando la fantasia scarseggia, su vere e proprie balle venute fuori da quei vuoti creati dal taglia e cuci operati a loro immagine e somiglianza, oggi tutto questo non le basta più e con il “ritorno (eterno) del fascismo” – funzionale ed essenziale per i “novelli partigiani” altrimenti non potrebbero più esistere (e non potrebbero nemmeno continuare ad incassare fiumi di denaro di Stato elargiti anche dall’attuale governo “fascista”) – si erge a difesa delle menzogne propinate che, con il disincanto del tempo, dopo un secolo, ormai non reggono più. Dunque, cosa fa? Protesta affinché gli altri non parlino. Accade a Milano, in occasione del convegno organizzato da “un editore nero”, per dirla alla Berizzi, l’esempio più eccellente di come ancora si campa grazie al fascismo, che ha per argomento della discussione Borovnica e altri campi di Tito”titolo di un libro delle edizioni di Ritter. Di quei campi terribili non si deve parlare.

Così l’Anpi vuole censurare i crimini di Tito

I difensori della dem-ocrazia, nella loro veste più spuria di anti-tutto, mica si presentano democraticamente al dibattito e cercano di misurarsi con il contraddittorio al solo fine di ricercare quella verità che non può mica trovarsi nel mezzo, ma è sicuramente sotto la spessa coltre di menzogne con cui hanno provato a “rifondare” il mondo. No, loro frignano, si appellano a chiunque e, come riporta il quotidiano Il Giorno, “invitano tutti e tutte (poteva mai mancare!) coloro che trovano assurdo e ingiustificabile che vengano concessi spazi pubblici a coloro che non condividono i valori costituzionali – antitaliani anche nella lingua con cui si esprimono – al presidio di domani sera (del 6 aprile, ndr), a pochi giorni dal 25 aprile. Contro coloro che non lo festeggiano e anzi lo disprezzano in maniera sprezzante”.

Quindi, i pronipoti dei banditi in foulard rosso chiedono giustificazioni al Municipio VIII che, per bocca della numero uno del parlamentino Giulia Pelucchi, ha pronta la pezza (rossa) con cui si giustifica dicendo che “L’ente promotore dell’iniziativa, Comitato 10 febbraio, ha preso in affitto (pecunia non olet?) i locali attraverso una procedura esclusivamente amministrativa che non coinvolge né Giunta né Consiglio Municipale”. Tutto in regola, dunque, ma non basta: “Come maggioranza prendiamo assoluta distanza dai promotori e ribadiamo con orgoglio i valori democratici (chissà quali!) e antifascisti (ecco!) su cui si fonda il nostro paese e la nostra città, medaglia d’oro nella lotta di Liberazione”. E rincara la dose: “Come Presidente mi impegno sin da ora a rivedere le modalità di concessione degli spazi, per evitare che si ripetano situazioni analoghe in cui una qualsiasi associazione può firmare l’adesione ai principi della Costituzione italiana invitando poi relatori che dichiaratamente ne contrastano i valori. […] Ho già richiesto di poter vedere la procedura di concessione”. Alla faccia della democrazia, della pluralità e dell’inclusione che predicano urbi et orbi. Insomma, ancora un uso “gramsciano” delle istituzioni su cui nemmeno il fratello antifascista del fascista Mario Gramsci sarebbe d’accordo.

La paura della verità storica

Ma come, proprio loro non riescono “democraticamente” a confrontarsi, tanto da essere costretti ad appellarsi all’oblio e ai democratici divieti? “E allora Borovnica?”. Cosa non si deve sapere? Che esistevano campi di concentramento titini? Che lì i partigiani rossi concentravano militari, italiani e fascisti a guerra finita? Che i campi di concentramento non erano campo di lavoro quando ormai non c’era più del lavoro da fare? Che proprio lì, sotto la direzione del boia jugoslavo, uomini e donne italiani trovarono la morte con il metodo della crocifissione o del trascinamento? O semplicemente che l’Anpi vuole nascondere i crimini commessi a danno dei loro stessi connazionali? No, fa più impressione la verità storica che non si infoiba rispetto ai loro petalosi deliri isterici. Nonostante i loro petalosi deliri isterici. Chissà che da lor signori, sic stantibus rebus, non si renda necessaria la proposta (e la pretesa) di istituire “democratici tribunali popolari antifascisti” cui delegare le decisioni su chi far parlare e su cosa. Proprio come nella Jugoslavia di Tito.

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PARABOLA DELLA FINE DEL MONDO (DEL CALCIO)!

Sbagliare è umano, ma se uno persevera sta a significare che non solo non ha capito di aver sbagliato, ma anche di essere convinto di aver operato bene. Dunque, la devastazione messa a segno dai tifosi tedeschi nell’ultimo incontro di Champions a Napoli e subìta da commercianti già in ginocchio per le chiusure pandemiche, da turisti che avevano scelto Napoli per una loro vacanza e chissà se la sceglieranno ancora per le loro future mete, da utenti e cittadini prigionieri in casa e ostaggi in strada non ha minimamente fatto interrogare i tutori dell’ordine pubblico. I quali anzi, continuano con gli esperimenti, visto che da nessuna parte si vede qualcosa di minimamente simile al loro operare – per la loro “dritta via”, fatta di divieti, confinamenti – traslitterazione perfetta di lockdown – e accessi “elitari”.
Da una e trina idea del Prefetto di Napoli Claudio Palomba, del questore Alessandro Giuliano e del sindaco Gaetano Manfredi, per la regia dell’attendente aggiunto alla pubblica sicurezza patron Aurelio De Laurentiis, il piano sicurezza per i festeggiamenti per la vittoria (tiè!) del campionato di calcio pare prevedere ingressi a numero chiuso in piazza, festeggiamenti in differita, inviti e scremature a vantaggio di soli pochi eletti. Una gestione “ZTL” che ottimamente rispecchia l’attuale classe amministrativa inetta e autoreferenziale. Se questa è la gestione sinistra che dovrebbe essere messa a punto, il centrodestra d’opposizione langue. E come potrebbe essere diversamente, visto che, già con Conte premier, il partito oggi maggioritario e al governo si rese protagonista di una singolare – che più che un complimento è una speranza affinché possa essere l’unico caso al mondo – protesta in una romana Piazza del Popolo aperta solo per 4280 fortunati, seduti e opportunamente mascherinati?
Il piano, così come immaginato, pare non prevedere alcun criterio di assegnazione dello spazio – o meglio, del recinto – in cui è con-cesso festeggiare, quindi, nessun modo come (e perché?) poter fronteggiare eventuali rifiuti (sic!). Che, magari, degenereranno in protesta, in lite, più che giusta. Giusta (e forse atta) a rovinare i festeggiamenti. Perché, poi?
In base a chissà quale astratto assioma, forti della smentita ante litteram, smentita anzi doppia, se volessimo pensare al solo presente, come la vittoria della Coppa Italia in piena emergenza Covid e, poi, l’occasione della morte di Maradona che rovesciò ogni previsione degli esperti più “studiati”, è risaputo – dice stavolta la quaterna in questione – con piglio da periti consumati e consunti – che in detti momenti di generale ilarità, si moltiplicano eventi criminosi quali scippi, furti, rapine; la criminalità organizzata va a nozze con questi eventi per poter mettere a segno omicidi illustri e chissà quali loschi affari (non calcistici?); la gente avrà bisogno di ambulanze per malori (già prevedibili?), delle 17 ambulanze di cui 4 medicalizzate – De Luca ancora non si è erto a Deus ex machina? – insomma non una festa che manca da 30 anni, ma una guerra. L’apocalisse. La fine del mondo (calcistico, grazie a loro). Napoli si distruggerà, il Vesuvio esploderà, lo stadio Maradona, per arrabbiatura di San Paolo, si farà in mille pezzi. E la qua(quaraquà)terna giudicatrice da Castel Sant’Elmo dividerà in due i tifosi, quelli in possesso della tessera a sinistra, i renitenti a destra. Qualcuno farà il furbo e vorrà camuffare sotto suddetta tessera anche striscioni, tamburi e bandiere, ma ADL lo vedrà e invocherà il daspo. “Nemmeno la bandiera al balcone deve poter mettere. Via il Napoli da lui!”. E questi saranno tantissimi, più di mille miliardi, più dei cinesi! E ci saranno tre porte: una strettissima per Piazza Plebiscito, una media per le piazze di periferia e un’altra grandissima, quella di casa propria. Quelli del Plebiscito rideranno, quelli della periferia un po’ ridono e un po’ piangono e quelli a casa loro, primo cittadino in testa, piangeranno. Soprattutto se la festa scud*** dovesse iniziare da Torino. E io… Io speriamo che me la cavo!
https://www.camposud.it/parabola-della-fine-del-mondo-del-calcio/tony-fabrizio/

Aeronautica militare, compie 100 anni la forza armata nazionale (nonostante la cancel culture)

Roma 25 marzo – Ieri l’Italia si è svegliata con un richiamo – che, però, ha tutto il sapore del rigurgito – “all’italianità”, all’orgoglio di sentirsi (non essere, che è differente) italiani, così è stata ribattezzata tale giornata da tivvù e giornali cui sempre più spesso viene affidata la delega esclusiva dell’in-formazione, epurandola, però, da ogni elementare, quanto dovuta, riflessione.

Aeronautica militare, oggi i 100 anni

Quella che ci viene presentata non è l’Italia del pallone che ha rimediato la sconfitta contro la “perfida Albione”, ma proprio l’Italia nel pallone, quella che riesce a ricordare i 100 anni della fondazione dell’Aeronautica Militare senza alcuna celebrazione ufficiale – il ministro della Difesa Guido Crosetto ha pensato bene di andarsene in gita alla Leonardo, eccellenza italiana della sicurezza, dell’aerospazio e della difesa, ma in ambito industriale e “figlia” controllata dal Ministero dell’Economia e Finanze – e poi si è recato di protocollo alle Fosse Ardeatine; la stessa Italia che si ricorderà nuovamente di inno & bandiera solo al prossimo incontro di calcio; quella che dà ascolto ad un Frantoianni qualunque e cancella il nome di un asso dell’aviazione come Italo (nomen omen!) Balbo dalla cadrega degli aerei di stato; la stessa Italia che abolisce la festa del papà per rispetto di chi un papà non ce l’ha – ma come è possibile? – per restare nella stretta attualità o, addirittura, pretende di festeggiare il Natale senza il “nato”, se vogliamo dare una visione più ampia dello stesso tema.

Celebrazioni della “fascistissima”, senza cancel culture

Ebbene, questa Italia del cancella culture, ieri è riuscita persino a celebrare il centesimo anno di vita dell’Aeronautica senza citare mai, minimamente il Fascismo. La Regia Aeronautica, infatti, fu una delle prime creature del movimento littorio appena insediatosi al governo, tanto è vero che la sua fondazione avvenne solo cinque mesi dopo la Marcia su Roma, facendo, rapidamente, dei “combattenti dell’aria” una delle eccellenze di casa nostra che meglio incarnavano il prestigio dell’Italia all’estero, da dove i nostri connazionali emigrati sognavano di ritornare, un giorno, in Patria, magari a bordo dell’Ala Littoria, la compagnia di bandiera – sì, ne avevamo una, allora – italiana.

Proprio per la sua fondazione, proprio per i suoi padri come Balbo, già ras di Ferrara e quadrumviro della Marcia, proprio perché quell’arma del cielo era “totalitaria”, nel senso che piaceva proprio a tutti, dai nazionalisti che volevano un’Italia competitiva e moderna, agli intellettuali come d’Annunzio e i futuristi che cantavano l’aeroplano quale protagonista di una nuova società dinamica, fino agli imperialisti che volevano avvalersi di strumenti moderni da utilizzare “in” e “per” i possedimenti coloniali e agli industriali che, fin dai tempi della Grande Guerra, avevano visto nell’aviazione un affare lucroso, senza fare eccezione per lo stesso Mussolini, immediatamente brevettatosi, che amava pilotare, che non disdegnò di offrire la vita di due dei suoi figli, piloti in guerra anche loro – e, non ultimo, grazie ai successi senza eguali, come parte dei primati detenuti e ancora imbattuti, primo su tutti la trasvolata oceanica, questa leggendaria Arma volante si guadagnò l’accezione di “fascistissima”.

Se, poi, vogliamo dirla tutta, ovvero ciò che l’”in-formazione ufficiale” ieri non ha raccontato, bisogna pure ricordare che dopo la resa incondizionata dell’8 settembre – che il mainstream chiama impropriamente “armistizio” – la “fascistissima” non esitò a “scegliere l’Italia” confluendo interamente nella Repubblica Sociale Italiana, da dove continuò a mietere successi e a dispensare esempi che sono giunti fino a noi.
Da queste colonne libere e non uniformate possiamo anche affermare, con piena tranquillità di coscienza, qualora non si sapesse, che ancora oggi le aviazioni degli altri Paesi guardano a quella che fu la Regia Aeronautica per studiare e perfezionarsi, a riprova del fatto che è esistito un italian style sia nelle creazioni di apparati statali sia nel combattimento; che oltreconfine tuttora guardano non all’Italia, ma a quella Italia, quale esempio ancora valido, quale ricchezza imperitura da cui ancora attingere, quale eccellenza cui tendere. Ed è di una tremenda bellezza vedere gli intellettò uniti e compatti, con cancellino e bianchetto, affannati a tentare di cancellare ora la statua, ora il palazzo, poi l’idea, il concetto, il neologismo, l’esempio, la storia, la civiltà. Certi che li troveremo ancora così, a fare le medesime cose, anche tra cent’anni. Senza che abbiano ancora finito il loro sporco lavoro di “pulizia”.

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L’Anpi annuncia “boom di iscritti”. Cin cin, ora i partigiani rinuncino ai soldi pubblici

Roma, 20 mar – La notizia è di quelle che “fanno storia”, tanto da meritarsi titoloni e prima pagina de La Repubblica da incorniciare e appendere al muro per l’eccitazione di Berizzi. L’Anpi fa il pienone ed è record di iscritti: 140mila nuovi partigiani che versano l’obolo e si schierano “in difesa della costituzione e dell’antifascismo”. Almeno così titola La Repubblica che ha anche analizzato questo emergente fenomeno psico(socio)patico fornendo addirittura delle precise risposte: troppi – esiste un range di un minimo/massimo consentito (da chi?) ma nessuno lo sapeva – episodi di apologia di fascismo; molti svarioni della destra sull’antifascismo; troppi disvalori – che poi sarebbero i valori di chi non è come loro – in giro.

Cortocircuiti rossi

Come di consueto, però, il primo cortocircuito non tarda ad arrivare. Tra le cause che hanno portato al massiccio tesseramento pare ci sia anche la proposta, partita dall’assessore comunale, deputato e coordinatore regionale di Fratelli d’Italia, Fabrizio Rossi di Grosseto, di una “via della pacificazione”, ovvero una strada comune in cui confluiscono a loro volta due strade, intitolate una a Giorgio Almirante e l’altra ad Enrico Berlinguer. Giammai! Lotta continua. Since 1945. Ovvero quando la guerra era già finita. E loro l’avevano pure vinta, avendo sconfitto il nazifascismo. È da allora che festeggiano ogni 25 aprile ed è altrettanto da allora che combattono ogni giorno lo stesso fascismo da cui ci hanno liberato. Valli un poco a capire.

D’altronde questa è la loro identità: essere appartenuti a determinate formazioni, salvo poi scegliere la congrega opposta più conveniente al momento opportuno, aver combattuto una guerra a guerra finita, far parte di autonominate “brigate” che furono formazioni di una decina di uomini nel migliore dei casi, non riconosciuti da alcuno, senza una uniforme, per non citare omicidi, stupri, processi sommari, furti di galline, di soldi, di cibo.
Dunque i nuovi portatori di foulard rosso in gola con tanto di stella, i nuovi adepti di Tito, i nuovi fedeli di Pertini l’assassino che ha concesso più grazie che nessun altro santo in Paradiso, l’inginocchiato davanti al catafalco del boia iugoslavo e che non ebbe scrupoli nemmeno davanti a donne incinte come Luisa Ferida, si moltiplicano per andare a fare guerra a un manager già autodimissionario, dopo aver citato Mussolini – che si assunse la responsabilità politica di un omicidio – dicendolo di averlo scambiato per Nelson Mandela.

A proposito di abbagli antifascisti

Chissà se nelle loro riunioni politicamente corrette e uni-formate si leverà una voce di qualche semicolto che parlerà ai compagni partigiani di Dante Castelluccio, meglio conosciuto (da loro) come comandate Facio, già medaglia d’argento al valore militare, ammazzato dagli stessi compagni partigiani, dopo un processo sommario, come d’abitudine, o addirittura in una imboscata tesa da altri partigiani suoi simili. La “verità storica” l’Anpi su questa (loro) storia ancora non l’ha scritta. Forse i comitati sono troppo impegnati a fare altro. Chissà cosa, visto che nemmeno hanno tentato di riscrivere la storia – ancora! – dell’incendio a Parma avvenuto poco tempo fa di una corona di fiori all’antifascista Guido Picelli. Immediatamente i partigiani avevano nientemeno che gridato all’aggressione fascista – ad un “fascio” di fiori? – al ritorno del pericolo fascista con le squadracce armate di olio di ricino e manganello. Ma le indagini, però, raccontano un’altra verità. La Digos ha individuato in una sola persona l’autore del gesto. E c’è di più: il vandalo è addirittura un africano di 31 anni. Partono, allora, gli sfottò social degli utenti che chiedono se “essendo stato appurato che l’artefice del gesto è un africano di 31 anni, si può considerare aggressione fascista?” ai quali l’Anpi addirittura replica, dando prova di non conoscere la misura del ridicolo: “Sarebbe interessante conoscere le motivazioni del gesto“.

Insomma, anziché ammettere di aver diffuso una fake, di essere stati vittima della loro stessa follia visionaria cronico-degenerativa, di correre a rettificare i post che immediatamente avevano sciorinato nel metaverso, i nipoti dei rossi protagonisti della nostra guerra civile preferiscono ipotizzare l’esistenza di una sorta di fascio africano. Altri fantasmi. A questo punto e stante questo livello, la cosa che davvero dovrebbe preoccupare (sempre loro) è proprio il numero crescente delle iscrizioni – che siano come le tessere farlocche del Pd? – che, è evidente, non ha una corrispondenza nella qualità di ciò che dicono, fanno, inventano.

Boom di iscritti all’Anpi? Utile a rinunciare ai soldi pubblici

Insomma, requisiti essenziali per entrare in quelle scuole “rette” da dirigenti scolastici come quella del Michelangiolo di Firenze e spacciare ancora verità comode a danno della storia vera, del libero pensiero, della conoscenza. Che è verità. Chissà, però, se almeno questa volta che sono così numerosi, avranno la dignità di costituirsi finalmente quale associazione autonoma e di rinunciare a un incomprensibile quanto ingiustificato contributo statale, vieppiù elargito stavolta da un governo “di destra” – che non è la giusta collocazione del fascismo, ma i loro monologhi senza contraddittori nemmeno permettono di capirlo – da avversare in ogni modo, nonostante l’atteggiamento dell’esecutivo sia sovente quello di (com)piacere a più non posso una certa sinistra. Niente di più, niente di meno della fine dei loro duri e puri compagni antifà anticapitalisti di Potere al Popolo di Napoli che fanno richiesta e ottengono ben 16 milioni di fondi del Pnrr per aggiustare la casetta (okkupata) ma con i soldi sottratti al popolo. Sarà vera gloria per questi partigiani nuovi di zecca? Ai kompagni l’amara sentenza.

https://www.ilprimatonazionale.it/politica/anpi-annuncia-boom-iscritti-ecco-ora-partigiani-rinuncino-soldi-pubblici-258402/

Guerriglia a Napoli: e se accadesse anche altrove e non solo per il calcio?

Roma, 17 mar – Le immagini di Napoli messa a ferro e fuoco sono di una rabbia indicibile e rischiano di esserlo non solo per il capoluogo campano. La guerriglia dei supporters tedeschi dell’Eintracht l’abbiamo vista tutti: attività commerciali distrutte, panico tra gli abitanti, terrore tra i turisti. Il giorno dopo è il giorno della conta dei danni e quello delle chiacchiere da bar. Più di qualcuno, che dopo due anni di chiusure folli per la pandemia e l’alluvione che solo qualche mese fa interessò il lungomare della città stava tentando di rialzarsi, dovrà ricominciare da capo ancora una volta, ma da nessuno in questa prima giornata si è sentito parlare di responsabilità. O, se vogliamo, di colpe. C’era della ruggine tra le due tifoserie? Alimentata dai gemellaggi del tifo delle due squadre? Il calcio giocato, in questo caso da giocare, c’entra ben poco. Gli scontri dei tifosi tedeschi sono avvenuti principalmente con le forze dell’ordine – se così ancora si possono chiamare – impiegate in numero esiguo e facenti funzione di meri accompagnatori. Ma anche loro, in realtà, hanno subìto il malumore generato dall’indegno “balletto del biglietto” ideato dai vertici delle istituzioni: trasferta vietata, anzi no, ammessa. Allora, escludiamo solo i tifosi tedeschi. Ma perché? Divieto solo per chi risiede a Francoforte, no?

Guerriglia a Napoli, un caos istituzionale

Il caos istituzionale ha generato la reazione dei tifosi esclusi, a cui è stato vietato l’accesso allo stadio, ma non alla città, quali figli di Schengen che non siamo altro. Quando, a volerla dire tutta, il posto più sicuro dove concentrare tutta quella gente era proprio lo stadio, il solo luogo dove li avresti potuti tenere fino a notte inoltrata, per poi organizzare un corretto deflusso, in piena sicurezza per la città, per i cittadini, per i turisti e per tutti quelli che, invece, hanno subìto tali divieti. Oltre che i danni. Davvero non era prevedibile una simile reazione? Davvero non ci sono state letture delle avvisaglie che tutti avevano pur già anticipato? Davvero nessuno è riuscito ad intercettare quella falange di tifosi giunti a Napoli, previa tappa a Bergamo?

Il coro unanime immediatamente levatosi è stato tutto un chiedere le dimissioni del Prefetto della città partenopea, del Questore e persino del Capo del Viminale che è un “tecnico” con un passato già da Prefetto di Roma e avrebbe dovuto essere il vero valore aggiunto nell’organizzazione dell’ordine pubblico. È possibile che ci sia stata solo colpa della disorganizzazione e dobbiamo abbeverarci alle varie fonti dell’errore, della disattenzione, della mancata ponderazione del pericolo e (fare finta di) credere che l’esperienza maturata stavolta abbia toppato? O, magari, si “ottimizzerà” tali eventi occorsi per approntare una nuova stretta, una nuova restrizione, magari parimenti (folle) a quella già paradossale in vigore al Maradona che prevede l’ingresso senza bandiere, senza tamburi, senza trombe, senza striscioni?

Sono queste le personalità deputate alle decisioni, questi protocolli elaborati dai “periti” di uno Stato ormai ridotto a mero participio, che soccombe sotto la minima minaccia di chiunque, senza la benché elementare dignità, così come dimostrato dal sindaco di Napoli Gaetano Manfredi che, a guerriglia ancora in atto, convocava l’ambasciatore di Germania in città e, in favore di microfoni e obiettivi, si sperticava per rilanciare parole vuote e retoriche di amicizia e collaborazione, anziché presentare il conto dei danni, far sentire la propria voce per il semplice e non scontato motivo che ci si trova in casa nostra.

Oltre il calcio

Oggi, anche la narrazione sta cambiando: colpa dei napoletani. Forse per evitare di pagare i danni ai napoletani. Danni da chiedere proprio tramite il diplomatico subito rassicurato a Palazzo San Giacomo. E stiamo parlando di un caso già annunciato e destinato a risolversi in quarantott’ore al massimo. E se, invece, dovessimo affrontare simili casi improvvisi? Pensiamo che la presenza di tifosi che hanno raggiunto Napoli per la partita è lo stesso numero di sbarchi di clandestini che, ormai, si registra in una sola giornata. Se le “risorse” che sbarcano ogni giorno, se quelle già sbarcate, se quelle che ormai bivaccano in ogni parte del territorio nazionale, o, peggio, se insieme decidessero di comportarsi come i tifosi tedeschi ieri a Napoli, si agirebbe nello stesso modo?

Con uno sparuto numero di agenti che, al massimo, riescono a fare salire tutti gratuitamente su un bus per poi accompagnarli in una delle tante strutture ricettive messe a loro disposizione (da noi, contribuenti passivi)? Con tanto di guanti bianchi verso i “diversamente italiani”, ma non disdegnando di sparare getti d’acqua ad altezza d’uomo e lacrimogeni su italiani contribuenti che chiedevano solo di continuare a svolgere il proprio lavoro, di potersi godere le bellezze di questa nazione, vestigia di quella Civiltà per eccellenza che incarniamo da secoli. Da sempre.

Non è cambiando il nome, ma formando altre menti e altre coscienze, magari nazionali, avendo rispetto di ciò che ci è stato gratuitamente dato in eredità e conquistato (non da noi) a colpi di sangue e di genio, con l’orgoglio – da riscoprire – di essere italiani che ci si incammina per risolvere questi problemi. Ma non oggi. Oggi il mainstream ha rispolverato un’altra puntata della serie con protagonista Matteo Messina Denaro che va in onda da trent’anni ormai, in questo Paese. Tanto per non parlare. E per parlare d’altro.

https://www.ilprimatonazionale.it/cronaca/guerriglia-a-napoli-e-se-accadesse-anche-altrove-e-non-solo-per-il-calcio-258172/

Claudio Anastasio e lo strano caso del manager “mussoliniano” dimissionario

CLAUDIO ANASTASIO Ð PRESIDENTE 3-I S.P.A

Roma, 15 mar – La notizia è ormai di dominio pubblico e non si può non accoglierla di primo acchito con una grassa risata: Claudio Anastasio, il presidente della 3-I, la partecipata che ingloba Inps, Inail e Istat, ha rimesso il suo incarico. Il manager scelto dal governo Meloni ha deciso di fare un passo indietro dopo che La Repubblica aveva pubblicato una mail dello stesso Anastasio indirizzata al CdA in cui riportava gran parte del discorso pronunciato da Benito Mussolini all’indomani dell’uccisione di Giacomo Matteotti. Unica e sola variante l’aver sostituito la parola “fascismo” con il nome della società che era stato chiamato a dirigere.

Claudio Anastasio e il coraggio delle idee

Così, mentre l’opinione pubblica si divide (anche) su questo tema, come se ce ne fosse ulteriormente bisogno, tra chi urla allo scandalo e chi ulteriormente si scinde tra scusanti di goliardia e accuse di megalomania, forse è il caso di porsi qualche domanda. In primis, se volessimo dare ascolto allo “scandalo” montato ad arte, verrebbe da chiedersi su quali basi vengono scelte certe personalità o, meglio, gli incarichi da attribuire loro. Ma soprattutto domandarsi cosa possa spingere a riportare fedelmente uno dei discorsi più conosciuti e studiati – anche dagli “anti” – pronunciati, stavolta a un CdA e non alla Nazione, da una personalità italiana che ancora oggi, quasi un secolo dopo, continua a dividere e che consente a Benito Mussolini “in persona” di continuare a vivere almeno quanto divide.

E ancora: se una persona ha delle idee e non è disposta a correre dei rischi per quella idea… perché avventurarsi per certe strade, salvo poi ritrattare e dimettersi? Pare che nessuno abbia, anche dopo, messo in discussione le competenze “tecniche” che hanno sicuramente portato alla nomina di Anastasio. Se si crede in un’idea, che sacrosanta non lo è certo meno perché è criticata da altri (magari avversari ai quali sempre più spesso si deve piacere), allora perché fare un passo indietro? Non è forse peggiore l’idea delle (auto)dimissioni, ammesso che esistano idee migliori di altre?

Con l’amore o con la forza?

Certo che tra reazioni che si sprecano, dall’evergreen “apologia di fascismo” (Picerno del Pd), all’”aspirante gerarca” (Frantoianni), e sterili quanto gratuiti tentativi di difesa “evidentemente crede di aver sbagliato” (Foti di FdI) – ma cosa avrebbe sbagliato, qualche citazione? – Anastasio stravolta ha fatto pure il lavoro dell’opposizione: si è infatti dimesso, anticipando e accontentando la minoranza che un giorno sì e l’altro pure chiede la testa di qualche componente dell’esecutivo. Silenzio dai big del governo, però, a questo punto, sarebbe utile, ai fini della paradossale vicenda, conoscere se le dimissioni siano state indotte “con l’amore, se possibile o con la forza, se necessario”, per dirla con… Anastasio.

https://www.ilprimatonazionale.it/cronaca/claudio-attanasio-e-lo-strano-caso-del-manager-dimissionario-258055/

……… MA CHE FINE HA FATTO NAPOLI…..!!!???

Mo basta! Ma che razza di (mal)trattamento viene riservato alla città di Napoli su tutti i fronti, in ogni campo, a qualsiasi livello, ormai dipinta irrimediabilmente solo nel suo stato peggiore? Ed esiste pure una corsa, con tanto di competizione in cui coinvolgere la popolazione, per andare a conquistare lo scranno più alto di ogni Palazzo, da dove dare il proprio contributo alla distruzione della città, per cancellare la cultura della napoletanità, per minare inevitabilmente l’identità partenopea. Quella identità che pure è rimasta immutata nel tempo, nella lingua, così come nella struttura della città che, ancora oggi, continua ad affascinare e ad esercitare quell’attrattiva unica subìta da spagnoli, da francesi, da italiani e da ognuno che sia giunto alle falde del Vesuvio per dominare, finendo irrimediabilmente con l’essere dominato. Quel Vesuvio che sbuffa ritratto in quelle cartoline che, per fortuna, nei tabacchini non si vendono più, altrimenti fotograferebbero il (paradossale) divieto di fumo – pardon, di svapo – non del Vesuvio, in una terra dei fuochi dove il rischio cancro, anche infantile, con conseguente mortalità, è altissimo, quasi certo. E non per tabagismo.
Quella città ordinata nel suo disordine che ha conservato, come pochissime altre, la sua struttura originaria: quel reticolo di cardi e decumani che “settorializzava” ogni settore: ‘o burevo, il Borgo di Sant’Antonio per il mercato e quello degli Orefici per i preziosi, la zona del Duomo per gli abiti da cerimonia, le “mura” (sotto e ‘ngoppa) per il pesce fresco, San Gregorio Armeno che non ha bisogno certo di presentazioni, San Sebastiano con i più disparati strumenti musicali, fino ad arrivare a Port’Alba, straripante di ogni genere di libro, scolastico e no.
Centro storico oggi ridotto a tristi serrande abbassate, ad una sorta di “buchi appilati” dall’ennesimo kebabbaro fuoriuscito che sul web fa a gara con la miliardesima vera pizzeria aperta, con la vecchia frittatina nuova di zecca o col pasticcere autoproclamatosi Re della frolla quando nella Napoli vera(ce) – quando c’era vera Napoli – questa manco rientra(va) fra le sfogliatelle.
Per i fortunati che nella metropoli riescono a (soprav)vivere, invece, pare non ci sia altra strada che la povertà, la delinquenza, la faida, la paranza dei bambini, per dirla con un “best seller” ultimamente in voga. Questo è ciò che dice e scrive l’intellighenzia autoctona – una volta alimentata da gente del calibro di Goethe e Leopardi – che ha monopolizzato i salotti esportando il messaggio in tivvù e su ogni altra sorta di diavoleria, decrescenziana “prolunga” di quei libri che nessuno legge più: in principio fu Saviano, oggi la voce unica è stata monopolizzata da tal De Giovanni che propaganda un’asfissiante Napoli del Ventennio, dove realtà e finzione (persino ultraterrena) s’intrecciano (e si compensano), fino al giorno d’oggi quando un’intera città attende “solo” un’assistente sociale, una Wonder Woman di cui tutti a Napoli hanno un incessante bisogno per tentare di risolvere i mille problemi che solo la protagonista sembra non avere. Se non qualche filarino che non porta ad alcuna stabilità. In ottemperanza alle regole vigenti del mondo moderno, tanto per rendere umana pure lei. Passando per l’amica geniale che offre uno spaccato del mondo “femminista”, di mancate libertà e soprusi, anche scolastici, da una società (maschilista? Patriarcale?) che è più finta dell’opera stessa.
Si dirà, ma questa è la “radice” eduardiana che, per quanto capolavoro e figlia del proprio tempo che non è più il nostro, narra solo di miserie, sotterfugi e furberie. Che ci sono ovunque, o, se vogliamo, non ci sono solo a Napoli. E continuano per questa via e questi lidi anche i suoi figli più fortunati, tanto per citare apprezzati showman poliedrici – cantante, attore, cabarettista, ballerino – che nelle ultime comparsate si riducono a patetici cantori dei mille guai e della miseria di “quand’era piccirillo”. E, per fortuna (ma non di Napoli), non è nemmeno il solo volto noto a prestarsi al ruolo di nuova prefica che fa tanto Napoli Milionaria!…
Ma lo “sputtanapoli” è un gioco al rialzo che investe ogni campo. Ultimo, ma solo in ordine cronologico, il mancato apprezzamento o, meglio, il rifiuto “istituzionale” dell’artista Domenico Sepe e della sua opera che ritrae divinamente Maradona, omaggio a tutti i napoletani (e no) in occasione della morte del campione argentino. Lo stesso Sepe – nemo propheta in Patria – apprezzato altrove e chiamato in questi stessi giorni a Vicenza per omaggiare – ironia della sorte – proprio con una statua un altro campione del calcio: Paolo Rossi. Ma se cancellazione e distruzione deve essere, non ci si può mica limitare “solo” – Comune in primis – nel rifiutare la statua di Maradona per la città? Il popolo del calcio, che a Napoli è la città tutta e pure oltre, che vive di una “identità sportiva”, ri-conquistata proprio dal Pibe de oro e mai scalfita nel corso dei tanti anni, deve essere oggetto di attenzione speciale, proprio in quest’anno di fortuna e meriti sportivi tanto attesi: così a tifare la squadra della propria città, nell’impianto sportivo di Fuorigrotta – “paraculamente” subito intitolato al D10S – si è ammessi soltanto senza bandiere, senza trombe, senza striscioni, senza tamburi. La bandiera è l’emblema dell’identità, non solo sportiva, e il tamburo, gli striscioni non sono che caratteristiche del proprio essere! Che, semplicemente, non “è” più. Che stadio è uno stadio anonimo, asettico, insipido, senza colori, né canti? Il Maradona di Napoli! Ma soprattutto qual è la logica di tutto ciò, visto che nessun regolamento lo prevede, come accade in tutti gli altri stadi d’Italia? Ma dove altro in Italia accade che un pugile apra una libreria che diventa una casa editrice che poi è costretto a chiudere senza che le istituzioni muovano anche solo una falangetta di uno delle dieci dita delle due mani? Quella città abbandonata a sé stessa, che si (auto)degrada perché non la si ama, in cui un’altra palestra che diventa un avamposto di legalità, che strappa i giovani dalla (cattiva) strada è costretta a chiudere perché il Comune, tanta croce e ben poco delizia della sua gente, dice di avanzare dei soldi da quella palestra che ha sempre pagato quanto pattuito un quarto di secolo fa. Ben 23 anni in cui il Vicolo Sottomonte ai Ventaglieri di Montesanto è anche un vicolo di sport, oltre che di armi e di droga. Dove la retta per lo sport se la può permettere solo un giovane su dieci, ma c’è posto per tutti in quella palestra che ha inventato campioni della portata di Oliva e Cotena. Insomma non proprio la zona della sinistra Ztl cui appartiene il Sindaco che non riuscirà – eguagliando i suoi infelici e sconfitti predecessori – nel far morire Napoli perché “il napoletano se fa sicco ma non more”. Perché Napoli è l’arte di arrangiarsi e di trovare sempre una strada, è il panaro solidale e il caffè sospeso senza sapere se esiste qualcuno che non se lo può permettere. Perché Napoli è città del sole e del mare, dove “prendi aria buona ‘a parte ‘e Caracciolo, se ti senti poco bene”, per dirla con Eduardo, perché anche ciò che ti dovrebbe curare ormai finisce per ammazzarti, grazie al miracolo di aver trasformato la sanità in santità operato da quell’”uomo e galantuomo” di Vincenzo De Luca, presidente della Regione e commissario alla sanità. Quella stessa via Caracciolo dove è sorto l’Hotel Continental, su una delle cinque fonti d’acqua della città: l’acqua ferrata, di Telese, zuffregna, del Serino e della Madonna. La famosissima “banca ‘ell’ acqua”. Insomma, Napoli come re Mida che avrebbe fatto fortuna pure se avesse fatto acqua da tutte le parti. Che con le sue suggestive piazze e i suoi regali palazzi, numerosissimi edifici di culto (chiese, cattedrali, edicole) e complessi monumentali, è stata definita dalla BBC come “la città italiana con troppa storia da gestire”: forse per questo una certa sinistra dem-progressista “usa” sfoltire, andando a cozzare, però, con il femminismo “tossico” che vanno propagandando? D’altronde Napoli è femmina e, come tutte ‘e belle femmene, è molto invidiata: forse tutto questo scempio è solo frutto di tanta invidia?

https://www.camposud.it/ma-che-fine-ha-fatto-napoli/tony-fabrizio/