’E’ “NAPOLI CONTEMPORANEA” E LA NAPOLI CONTEMPORANEA.

E alla fine la Venere di stracci è stata inaugurata. La statua che coniuga, o almeno dovrebbe nell’intento dell’amministrazione Manfredi, il passato col futuro, la tradizione con l’innovazione. E menomale che c’è Venere – che conferisce valore all’opera – a svettare sopra la montagna di stracci muticolor che da giorni affollano Piazza Municipio, incuriosendo turisti e guadagnando lo sdegno dei soliti bene informati.
Come saggiamente i Padri hanno tramandato “de gustibus non disputandum est”, ma ciò su cui ci interroghiamo non è certo il valore (discutibile) dell’opera, ma il modus operandi di questa classe dirigente autoreferenziale e inetta.
Dopo la chiave di Milot che non sappiamo quanta gente abbia potuto attrarre in città, ora ci viene presentata “Napoli contemporanea”, la manifestazione attraverso cui – parole del primo cittadino Gaetani Manfredi – “Vogliamo far vivere pezzi di città attraverso l’arte contemporanea facendo realizzare installazioni da grandi maestri dell’arte”. O ancora “Questo programma vuole anche essere il segno di una Napoli fiera della propria storia e tradizione, ma che è anche proiettata verso il futuro attraverso la proposizione di opere che fanno discutere sui grandi temi del presente proprio come la Venere degli stracci che unisce l’arte classica con i temi della povertà e della sostenibilità”. A dirla tutta, questa installazione può essere il vero emblema della Napoli di Manfredi, dove regnano caos e disordine, sporcizia e accozzaglia ad ogni angolo della città. Ed è emblema del politichese cui questa classe politica ci ha tristemente abituati: vorremmo chiedere al Sindaco della prima città del Mezzogiorno se, quando cita i “grandi maestri d’arte” o anche la “Napoli fiera della propria storia e tradizione”, si riferisce alla stessa Napoli che non è stata capace di trovare una giusta collocazione – non è azzardata la perifrasi “ha in tutti i modi avversato” – alla statua del Maradona del napoletanissimo maestro Domenico Sepe. Il grande artista chiamato in altra patria, in altri stadi, come il Dall’Ara di Bologna, che ha commissionato un’opera che è un vero e proprio capolavoro. I Padri insegnano anche questa volta: “Nemo propheta in Patria”.
Chissà se il Signor Sindaco e gli accoliti di Palazzo San Giacomo si siano, anche minimamente, resi conto che Napoli, ormai da mesi, è su tutte le pagine di giornali e telegiornali, la città pullula di turisti, gli alberghi hanno fatto registrare il “tutto esaurito” da tempo. Ci auguriamo vivamente di no, altrimenti non si spiegherebbe come mai la città è sempre più sporca e disordinata, in balia di senzatetto che fanno tutto ciò che vogliono ovunque vogliono, che il disordine e la sporcizia la fanno da padrone, che non c’è un servizio di trasporto pubblico degno di questo nome. Questa è la Napoli contemporanea! Che senza “Napoli contemporanea” ha ridato smalto ad una città che non ha bisogno di niente e di nessuno, menchemeno di “genialate” free ed ecosostenibili di una sinistra arcobaleno, Ztl, tutta gauche caviar.
L’autentico miracolo lo ha fatto da sola Napoli, grazie alla sua Storia e alla sua Tradizione; grazie a quei monumenti che “grazie” a quello scellerato “Patto per Napoli”, per la regia del liquidatore di stato “Mariolino” Draghi, oggi è costretta a (s)vendere; a quella collocazione paesaggistica che il mondo intero ci invidia; a quella cucina che, nonostante imbarbarimenti e imbastardimenti, continua ad essere il riferimento della dieta mediterranea; a quella napoletanità invidiata e mai riuscita a copiare, ad imitare, ad esportare. A rubare, tiè! All’arte, alla storia, alla cultura che, con una botta di politically correct, si vuole cancellare. Eppure, anche nel giorno dell’inaugurazione, quando i tassisti scorrazzano turisti, mentre la Municipale blocca il traffico perché si è fatta una sosta dove non si potrebbe fare creando file e ingorghi, mentre macchine e motorini sfrecciano in ogni direzione possibile, dove un bus turistico non fa in tempo a fermarsi che arrivava un bangladese con la sua mercanzia – ma ce lo vedete uno che dal Bangladesh spiega al tedesco di turno il rito apotropaico di iniziazione di un cornetto affinché faccia effetto? – il rumore assordante del traffico che per qualche secondo viene sovrastato dalle ruote dei trolley tirati a forza sui basamenti di pietra lavica, come d’incanto, nel tratto che va da Piazza Trieste e Trento fino alla Biblioteca Nazionale, tutto questo frastuono s’interrompe, non è più parte del corredo urbano che viene soavemente sostituito dalle note della Marcia Trionfale dell’Aida di Verdi e di quelle dell’Inno Nazionale che valicano i confini delle finestre del Regio Teatro San Carlo. Quando una comitiva di Tedeschi, con cappellino in testa e infante sul groppone, si ferma e aspetta il “Sì” – che non verrà mai pronunciato – conclusivo dell’opera per riprendere la marcia. Questa è la Napoli contemporanea! Ma che ne sa Manfredi…

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Francesco Cecchin è ancora presente

Roma, 16 giu – E con questo 16 giugno sono quarantaquattro. Quarantaquattro gli anni trascorsi dalla morte di Francesco Cecchin, volato nell’Olimpo degli eroi, dopo essere volato dal parapetto di un’abitazione al civico 5 di via Montebuono, nel quartiere Salario a Roma, una volta riconosciuti i suoi aggressori che, nel frattempo, erano diventati “solo” i suoi inseguitori. Gli stessi con cui nel pomeriggio Francesco aveva avuto un alterco per una questione di manifesti. Dopo quasi mezzo secolo sappiamo chi è Francesco Cecchin e sappiamo della sua militanza politica nel Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile dell’MSI.

Francesco Cecchin, sappiamo tutto

Sappiamo della sua lunga agonia – coma indotto per diciannove giorni – così come sappiamo delle fratture su tutto il corpo, eccetto mani e gambe: strano modo di cadere per uno che vola da un’altezza considerevole. O meglio, di atterrare. Di testa.
Sappiamo del cranio fracassato, sappiamo della milza spappolata, sappiamo delle chiavi di casa piegate ancora tra le mani, usate per difendersi e del pacchetto di sigarette (gettato) vicino al ragazzo ferito. Sappiamo che sul suo corpo è stata eseguita un’autopsia il cui esito è indiscutibile e sappiamo che, nonostante quella perizia, non è mai stata fatta giustizia.

Sappiamo che gli assassini di Francesco avevano tutta l’intenzione di uccidere – l’accusa fu di omicidio volontario che, molto verosimilmente, era solo il nuovo significato da attribuire alla parola “caduta” – ma non sappiamo perché l’unico indagato, nonostante abbia mentito spudoratamente al processo riguardo il proprio alibi ed essere andato al cinematografo Ariel per assistere alla visione de Il Vizietto nonostante quella sala non avesse in proiezione il film indicato – s’è potuto guadagnare, con la falsa testimonianza sostenuta, il premio per non aver commesso il fatto. Il fatto sarebbe il concorso in omicidio, ma non si sa con chi. Altro vizietto tipico della italica giustizia. Come quello di non trovare il colpevole. Che pure esiste. Come esiste qu­ella verità storica che non può più esse­re nascosta, o peggi­o, ulteriormente negata, in attesa che la giustizia scr­iva la parola fine su questa feroce esec­uzione.

Una parola fine che serve a non ammazzare ancora una volta Francesco, cui il Viminale, il “deputato” all’ordine pubblico della sicurezza di questa repubblica, ha negato anche la possibilità di essere inserito tra le vittime del terrorismo. Come se gli anni di piombo siano stati solo una marachella adolescenziale. Come se il suolo d’Italia in quegli anni non sia stato calpestato dall’odio politico, spesso avallato e coperto nella stanza dei bottoni con lo stesso telo bianco con cui si è da sempre tentato di coprire la verità e sotto il quale è stata sepolta la giustizia.

Sappiamo che il giovane Cecchin era un militante che credeva in una Idea difesa col sangue. Quella Idea di cui oggi altri, magari suoi coetanei, hanno potuto raccogliere il testimone e le conseguenti fortune politiche elettorali. Fortuna altrui che è figlia di un sacrificio nell’accezione latina del termine, il rendere sacro, persino sé stesso, per l’Idea. Sappiamo che lui l’ha fatto. Sappiamo, quarantaquattro anni dopo, che lui è ancora presente.

https://www.ilprimatonazionale.it/politica/francesco-cecchin-ancora-presente-264834/

SALERNO, L’ANPI vieta di presentare i libri e vieta chi non vuole vietare!

Una mattina mi son svegliato e ho scoperto che un rispettabilissimo Docente universitario di storia medievale ha pubblicato un libro – di storia, pensa un po’ – e che intende presentarlo in una sala di una pubblica libreria – che strano, eh ?

Si tratta di “Controstoria della Resistenza”, la nuova fatica letteraria dal prof. Tommaso Indelli, edito da Altaforte Edizioni.

Allora, un’altra mattina mi sono svegliato e, tutto sudato, “batto” un comunicato congiunto, con tutto quanto può includersi nella mega galassia antifà, atto a vietare ad una libreria della città campana l’utilizzo della sala che avrebbe dovuto ospitare la presentazione del volume e che, di fatto, ha finito per boicottare sia l’opera che l’autore.

“Una semplice opinione” da parte di CGIL, CISL, UIL, Arcigay, schwa & asteriski vari che tentano così di mettere un “democratico” bavaglio alla controcultura. O meglio, alla cultura “non conforme”, alla vulgata in “uso” e consumo since 1945. La storia che nessuno deve conoscere e, se qualcuno la conosce, nessuno deve poter raccontare. Quella che per quasi un secolo ha portato a nascondere una tragedia immane, un vero genocidio ai danni dei propri connazionali, come é stato per le foibe.
Ora come allora, qualcuno non ci sta e, quindi, si attiva per riportare l’ago della bilancia quantomeno vicino alla verità vera, ben consapevole che non potrà mai godere di un “democratico” e civile contraddittorio in libreria.
In religiosa ottemperanza agli usi e costumi di lorsignori che li vuole ben nascosti e ottimamente assiepati,  a quei partigiani nuovi di zecca  viene chiesto, a casa loro, tramite un goliardico striscione “inclusivo”, se avessero per caso paura dei libri.
La reazione rossa – o meglio, verde – non si è fatta attendere, seppur di sabato, strano giorno per “lavorare”: giornali, tivvù, forza pubblica, militanti, “mili-pochi” a giudicare dalle immagini raccolte, tutti sono accorsi ad asciugare le lacrime versate e a raccogliere il grido di sdegno contro chi ha osato ribellarsi ai loro democratici divieti. Uno smacco insopportabile, un atto di ribellione non gradito, una protesta troppo poco politically correct quella semplice domanda che ha mandato in cortocircuito l’intellighenzia cittadina che non si è ripresa dall’illogicità della loro stessa richiesta: perché vietare quando ci si può confrontare? Perché tacitare quando il dibattito può arricchire? Perché cancellare ciò che non ci fa comodo sapere? Sinistre domande, perfino per loro.
Una mattina mi sono svegliato e, dopo aver vietato, minacciando la verità, penso bene che il sogno debba continuare calcando la mano e chiamando in causa persino il “clima da anni ’70” che, però, fanno notare gli avversati esponenti ribelli che la storia la conoscono e non la dimenticano, ha visto proprio nella stessa città campana la morte di un odiato giovanissimo avversario mezzo cieco come Carlo Falvella per motivi meramente politici. Di odio politico. Odio evidentemente mai sopito, in primis per la verità. Per la coerenza. Per interesse, visto che l’unica cosa che ha contato è stata la parcella degli avvocati assoldati per difendere i compagni assassini.
Interesse nel non sapere leggere un semplice striscione che ha avuto il merito di sottolineare tutta l’incoerenza di quanto fino a quel momento predicato, di quanto sia strumentale la loro concezione di democrazia, di quanti problemi abbiano con l’inclusione, quella vera, in un semplice confronto dialettico, culturale. Forse perché loro la “cooltura” la fabbricano. Con balle. Con stravolgimenti e con invenzioni. Con cancellazioni e riscrittura.
Una mattina mi sono svegliato e, pure se sono il sindacato dei lavoratori, “me ne frego” e impedisco ad un semplice esercente di lavorare, semplicemente perché mi è scomodo, sparando ogni cartuccia ancora disponibile e immaginabile, come l’azione intimidatoria – uno striscione! – il pericolo per la democrazia, quando sono loro stessi ad imporre divieti: ma, se proprio non si riesce a sostenere un dibattito culturale, se proprio non si riesce a leggere il libro, non era meglio, di sabato, continuare a dormire?

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Sulla strage di Capaci (non) abbiamo scoperto l’America

Roma, 23 mag – Solita corona di fiori, retorica fiera delle belle parole, nave della legalità. Mica della giustizia. Anche quest’anno è stato approntata la commemorazione della strage di Capaci, dove persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie, giudice anche lei, Francesca Morvillo e tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montonato, che furono feriti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza. Oltre ad un’altra ventina di anonimi rimasti tali che passavano disgraziatamente per lo svincolo di Capaci. Come ogni anno, anche quest’anno tutto è stato curato per il ricordo, per un’altra puntata farsa di quella commedia che si ripete ormai da trent’anni.

Strage di Capaci, quello che ancora non è stato chiarito

Un canovaccio hollywoodiano su cui imbastire una narrazione per tanti anni ancora, tanto… non si recita certo a soggetto, volendo farsi beffa di un altro illustre siciliano. Che parlava, giustappunto, di maschere e di volti. Una sceneggiatura che pullula di elementi vuoti in numero pari alle cicche di sigarette che fumi quando sei nervoso. Un intreccio buono da dare in pasto all’opinione pubblica e ad una magistratura inquirente, ma che non indaga. O almeno, non come dovrebbe. Il brutto e il cattivo contro cui la gente può divertirsi e accanirsi. ‘O verru – il porco – o lo scannacristiani, come è stato definito, per la sua ferocia con cui era solito ammazzare le persone. Uno capace di uccidere anche a mani nude. Uno che è stato definito sostanzialmente un “picuraro”, anzi, una pecora – per come eseguiva gli ordini – in mezzo a tanti pecorari, senza offesa per nessuno. Che si è intestato centinaia di omicidi, da quello del piccolo Di Matteo sciolto nell’acido sino a quello del giudice Chinnici, quando aveva già adoperato l’autobomba. “Più di cento, ma meno di duecento”, così tanti da non ricordare tutti i nomi. Ma tutti con dovizia di particolari. Come le cicche che l’FBI ha analizzato – fatte trovare? – e su cui ci sono le tracce di Brusca. Un pecuraru capace di fare saltare in aria un uomo dello Stato, uno che conoscevano anche – e forse soprattutto – all’estero, visto che giornali del calibro del New York Times aprivano parlando di lui, ma che lascia le cicche a terra. Uno che è uno scannacristiani che ha sciolto, sezionato e dato in pasto a maiali e familiari un bambino di 12 anni e che è nervoso per premere un telecomando. Sempre che un pecuraru sappia come usarlo un telecomando. O che i telecomandi non siano due. E un secondo telecomando sarebbe stato azionato da altrettanti pecurariPecurari in grado di progettare, architettare un simile attentato al cuore dello stato? In grado anche di calcolare la curva della carica cava come un perito di esplosivostica? Dieci centimetri più giù e la Croma bianca si sarebbe alzata in aria senza che succedesse nulla. Se Falcone fosse stato sul sediolino posteriore – lì dove avrebbe dovuto essere – si sarebbe addirittura salvato, come si è salvato il suo autista. Al suo posto.

Cosa Nostra aveva al suo interno una simile intelligence “militare”, visto che anche la maggior parte delle deposizioni sono state lasciate nemmeno in lingua italiana?
Abbandonando un poco il copione ufficiale – che altri hanno provveduto a scrivere per noi – potremmo chiederci se l’elemento su cui riflettere sia davvero la badilata di tritolo, la dinamica esplosiva, di chi fosse il ditino che ha pigiato il bottoncino o è utile – per le indagini, per la verità, per la giustizia (di cui, però, manca la nave) – su chi abbia avvisato chi che Giovanni Falcone aveva appena lasciato il ministero di Grazia e Giustizia ed era diretto all’aeroporto di Ciampino, da dove si sarebbe imbarcato su un volo privato con destinazione Punta Raisi, aeroporto intitolato a lui e al suo amico Borsellino, altra beffa di stato. Quel volo, oltre ad essere privato, era riservato, dei servizi, volava in segreto e nessuno, oltre chiaramente ad apparati dello stato, sapeva, avrebbe dovuto sapere di quel volo: orario di partenza, di decollo, di atterraggio e chi trasportasse e dove.

Chi ha analizzato le intercettazioni telefoniche ha potuto notare delle telefonate in orari particolari, localizzazioni e destinazioni che destano più di un sospetto. Un numero 0337, clonato, effettua delle chiamate in America, nel Minnesota da dove non si è mai saputo chi abbia risposto. Il perché, forse, sì. L’autore – Antonino Gioè – è misteriosamente morto in carcere. E il mistero che aleggia sulla sua morte è solo frutto delle stesse indagini. Della lettera che il giudice Signorino, invece, scrisse prima della sua morte nemmeno se ne sente parlare. Si sente parlare di Ingroia, che, mentre Borsellino gli diceva del tritolo arrivato in Sicilia per lui, Ingroia parlava delle ferie imminenti. Si parla di un altro magistrato-giustiziere, made in Usa, Andonio Di Pietro e la Tangentopoli che spazzò via una intera classe dirigente. Con la fine della cosiddetta prima repubblica, ci propinarono Giuliano Amato a Palazzo Chigi, un uomo metà politico e metà tecnico, solo una presidenza transitoria per aprire la strada al primo banchiere di nome Carlo Azeglio Ciampi. Solo pochi giorni dopo, il 2 giugno, fecero la festa alla repubblica a Civitavecchia sul panfilo inglese Britannia, dove iniziò la svendita del patrimonio italiano. Sempre nello stesso anno il magnate “filantropo” Giorgio Soros partecipò alla vendita della Lira speculando contro la Banca d’Italia. La lira perse oltre il 30% del suo valore e ne conseguì l’uscita dal Sistema Monetario Europeo.

Chi ha sconfitto la mafia e chi l’ha riportata in Italia

Ma l’emergenza era un’altra ed era costituita dai “naziskin”, con casi montati ad arte, con i talk che iniziavano a nascere per preparare la gente ad ing(r)oiare il primo reato d’opinione, la legge Mancino. Così facendo la stessa gente non ha mai chiesto alla tivvù, perché è stata messa in condizione di non chiedersi più, se la mafia potesse architettare il congegno, l’organizzazione, la predisposizione, lo studio, la scelta, il momento, il perché di una strage come quella di Capaci, come quella di via D’Amelio.

Il (de)corso creato in quel lontano 1992 oggi è visibile a tutti, dall’euro fino ai vari (tentativi di) bavagli e di un movimento innominabile sui social, ma l’unico a scendere in piazza e che ha voluto solo esprimere il dissenso contro i vari governi antitaliani che – guarda caso – ha ritrovato dopo 24 anni quegli stessi uomini che, mentre Falcone saltava in aria, salpavano sul Britannia. Quel movimento – non elettorale – che è l’erede di tale Cesare Mori che debellò il fenomeno mafioso in Sicilia e che fu richiamato per entrare nei ranghi dello Stato che, gramscianamente, è potere anche se non è governo. Quella mafia riapparsa, guarda caso, nuovamente sul finire della guerra, nel 1943, insieme ai “liberatori alleati”.

 

NAPOLI SVENDESI : 620 immobili comunali diranno addio alla città (con qualche eccezione)

Erano i tempi di Mario Draghi premier. Gli era stata appena passata la campanella, quando “alcuni italiani” lo accolsero con striscioni in tutta Italia per ribadire il loro NO al “Draghi liquidatore di stato”.
Di Mariolino Draghi, nel frattempo, si sono perse le tracce, ma si riconoscono i segni del suo operato. Come non ricordare il famoso, meglio famigerato, Patto per Napoli, immediatamente ribattezzato su queste colonne (https://www.camposud.it/una-calorosa-stretta-di-mano-per-sancire-il-nuovo-pacco-per-napoli/tony-fabrizio/) “pacco per Napoli”? Ebbene, quel patto scellerato inizia ad avere esecuzione.
È notizia recente, infatti, che il Comune di Napoli ha messo in vendita ben 620 immobili per salvare sé stesso dalla scriteriata gestione dei sindaci che si sono succeduti. La notizia è più che ufficiale e riportata anche sul sito istituzionale con riferimento alla Delibera di Consiglio n° 66/2017 in cui si fa riferimento alla “preziosa collaborazione del Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Napoli, Torre Annunziata e Nola e della Borsa Immobiliare di Napoli (BIN)” con cui si avvia una messa all’asta di una parte consistente del patrimonio immobiliare comunale. Ricordate il primo cittadino Gaetano Manfredi, che al Patto per Napoli aveva vincolato la sua salita a Palazzo San Giacomo, quando andava dicendo “Valorizzare il patrimonio immobiliare per metterlo a reddito”? Politichese. Tradotto significa soltanto cederlo. O per meglio dire, svenderlo.
Significa che Napoli e i napoletani saranno privati – leggi impoveriti – di veri e propri gioielli storici e architettonici quali la Galleria Principe di Napoli, Palazzo Cavalcanti, il complesso del Carminiello a sant’Eligio, l’ex Deposito ANM di Posillipo, le caserme della Polizia di Stato in via Medina e quella della Guardia di Finanza in via Quaranta, l’ex Villa Cava a Marechiaro.
Queste non sono tutte le proprietà di cui il Comune si disferà, ma solo quelle di cui si disferà nell’anno in corso. A queste vanno aggiunte altre strutture come lo Stadio Diego Armando Maradona – ex San Paolo – e altri impianti sportivi come il Palazzo del Consiglio Comunale di via Verdi. Non fanno eccezione le partecipate come l’ANM, Asia, Napoli Servizi ed altre aziende controllate dal Comune che, dopo il turn over, potranno valere molto di più rispetto all’attuale valore. O almeno così dovrebbe essere.
Eppure, qualche ex collega di Gaetano Manfredi, come il prof. Alberto Lucarelli, docente di Diritto Costituzionale nell’Ateneo guidato proprio da Manfredi, uno dei giuristi italiani più noti, che può vantare anche una breve parentesi da assessore nella giunta de Magistris, aveva lanciato un campanello d’allarme paragonando il Patto agli “aiuti” che la Commissione Europea aveva messo in campo per la Grecia di Tsipras, quella Grecia in cui si negò persino il latte ai bambini.
E, tra le cose gravi, questa non è certo la più grave: pur di salvare sé stesso, il Comune di Napoli ha accettato una svendita senza alcuna condizione. Un po’ come la resa incondizionata dell’Italia nella II Guerra Mondiale, fatta passare per armistizio, impastata con la liberazione, firmata a Cassibile le cui clausole ancora oggi, quasi cent’anni dopo, continuano ad essere segrete. Anzi, secretate. Così nel Patto per Napoli – dove quella semplice preposizione avrebbe dovuto sancire quantomeno un complimento di vantaggio – sarà lo Stato italiano, per mezzo di una Società per Azioni – la Imvit, – non solo ad occuparsi della liquidazione dei beni immobili del Comune, ma addirittura a dettarne le condizioni. Che saranno pari a zero o che rasenteranno tale livello, visto che l’obiettivo è vendere per fare cassa. Per Imvit, per Napoli e per lo Stato. Come ricorda(va) ancora – e inutilmente a quanto pare – il prof. Lucarelli “I soldi erano quelli della legge finanziaria del 2022 ma legati ad un contratto di diritto privato dove il contraente – lo Stato, ha dettato tutte le condizioni al Comune di Napoli. Altro che valorizzazione del patrimonio pubblico cittadino: qui si tratta di alienazione, di vendita, di svendita. E non faranno eccezione castelli, monumenti, edifici di interesse storico che potranno andare in mano di privati che potrebbero anche decidere di non far godere di storia, cultura e bellezza il pubblico.
Se questa è la “legge”, però, subito è stato trovato l’inganno, perché un’eccezione c’è ed è rappresentata dall’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Materdei, oggi centro sociale occupato dalla sinistra che ha pensato di stabilirci la sede del partito Potere al popolo.
Il palazzo occupato non rientrerà nella compra-(s)vendita di stato perché per i piccoli rivoluzionari rossi si sono mossi i paparini che hanno fatto inserire lo stabile negli immobili da “riqualificare” con i soldi del Pnrr, ovvero con i soldi di tutti che potevano essere utilizzati per l’intera comunità napoletana.
Non resta che aspettare giugno 2023, dunque, quando la Corte dei conti di concerto con il MEF (chissà se avere lì Gigino sarebbe stato “interessante”) avvierà gli accertamenti per la liquidazione e per il commissariamento di gioielli quali il Maschio Angioino e Castel dell’Ovo e sperare nell’inflessibilità da parte del governo Meloni affinché possa tutelare in qualche modo (ma quale?) il fu patrimonio pubblico. Perché vedere il Comune e i suoi okkupanti ridotti, nella migliore delle ipotesi, ad un ruolo di semplici supervisori non rappresenta certo una soddisfazione nemmeno per quelli che – giustamente – non hanno mai avuto fiducia in loro.
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Con l’acqua alla gola…

“Non perché non accada più, ma per quando accadrà di nuovo. Perché accadrà. Dobbiamo imparare a conviverci”.
La sintesi dell’alluvione in Romagna è questa. Che poi è la stessa usata per il covid e che può tranquillamente andare bene anche per la crisi climatica. Energetica. Alimentare.
Perché non è che si deve capire, studiare, prevenire, no. Si deve accettare! E basta. Non ci si vede nemmeno interrogare, ma è così perché così dovrà continuare ad essere. È fatalismo, l’accettazione. Meno chi provoca. E pensare che Venner per invitarci a insorgere contro questo fatalismo si è sparato un colpo alla tempia a Notre Dame. Ma questo la tivvù non lo dirà. I giornalisti non diranno né scriveranno che la Romagna di oggi è (anche) il coronamento di un capolavoro di tal Matteo Renzi che ha cancellato la Guardia Forestale, oggi Carabinieri. Che tipo di correlazione c’è chi lo potrà capire mai. Lo stesso Renzi che potrà tranquillamente essere ricordato e invocato e spergiurato tra qualche settimana, con l’inizio degli incendi che manderanno in fumo le nostre aree verdi. Sempre quel Renzi che oggi, in ottemperanza al precariato (ma solo di facciata, voce del verbo “col culo degli altri”) dirige – sì, proprio così, dirige! – un giornale, ma senza mollare l’attività politica, ridotta ormai a mera demagogia: ricordate quando il bischero toscano proponeva di voler abolire il Senato e di lasciare la politica se avesse perso il referendum? Bene, a referendum perso continua a fare il bello e il cattivo tempo da Palazzo Madama. Viva l’Italia! Anzi no, Italia viva. Finché non muore. E poiché è uno abituato a tenere il piede in due scarpe, oggi fa parte di quella schiera prezzolata che può dirsi fatta solo di comunicat(t)ori che mandano in onda il dramma nel dramma. Per vendere qualche copia in più. Per lo share. Per l’audience. Nessuna riflessione, nessuna domanda scomoda, tipo quella a Bonaccini e Schlein, oggi divisi(vi), ma una volta a braccetto tra Emilia & Ro-magna e che hanno restituito (Dio voglia!) i fondi da utilizzare per le alluvioni e che non hanno saputo utilizzare. Nessuna arrembante prova del giornalismo d’inchiesta che si inerpechi su sentieri poco o per nulla battuti, tipo quelli che portano a Bonaccini e Schlein, oggi divisi(vi), ma una volta a braccetto tra Emilia & Ro-magna e che hanno restituito (Dio voglia!) i fondi da utilizzare per le alluvioni e che non hanno saputo utilizzare.
Nessuno che (si) chieda che fine abbiano fatto e perché i cantonieri, quegli ominidi – tali perché estinti – di cui ogni strada, via, regio tratturo e sentiero pullulava e, pensa un po’, avevano diritto anche ad una casa per tenere pulito costantemente il tratto di strade, cunette, argine dei fiumi e simili.
Nessuno, perché tutti debbono trasmettere l’immagine del pargolo a cavalcioni sull’eroe di turno che sarà da dimenticare presto, non appena il fango permetterà la stesa del tappeto rosso per la (pre)parata di onorevoli, ministri e sottosegretari. Tutti preferiscono immortalare il dramma di chi ormai è disperato, di chi ha perso tutto e che andrà ad ingolfare la fila dei nuovi poveri. Con (mal)celato intento propedeutico. D’altronde è questa la velina che è stata passata ed è questo il messaggio che bisogna passare. Pecunia non olet. Anzi… Da Casamicciola a Cesena. E se dovesse capitare di fare vedere un uomo scampato a morte certa per via dell’acqua che invade il sottoscala, meglio puntare sul terrore dipinto sul volto dell’uomo piuttosto che sulla solidarietà umana, di gente, di popolo che ha permesso con mezzi di fortuna di spaccare i vetri, tirar via la grata e tendere mani e braccia al malcapitato. Non parliamo di avambracci in questa terra, per carità! D’altronde non è questo il compito della c.d. controinformazione? Speculare, complementare, concomitante all’informazione ufficiale. Entrambe accessorie nel farsi dire le cose che si vogliono sentire: è l’emergenza siccità! Macché, è il cambiamento climatico! Cazzo dici, è un modo per farci fuori, visto che siamo in troppi; sono bombe, d’acqua, provocate dalla guerra alle nuvole. Qualsiasi sia la tesi, preferita o meno, valida o meno, irreale o fantascientifica, il fine unico, permesso e consentito, non è la ricerca della verità – che non sta nel mezzo, come la democrazia cristiana, ma alla quale ci si può arrivare tramite il confronto, che è arricchimento. Anche culturale – ma che non ci deve essere confronto che è il frutto della democrazia, così come non c’è democrazia. Che a dirla tutta è solo un frutto marcio. Ma ormai ci dobbiamo nutrire di vermi e muffa. Ci deve essere scontro, non incontro. Ci si deve ancora una volta dividere: “sciatori chimici” contro gretini, verità versus gomblotto. Per cui meglio inveire contro i boccaloni che credono al gretinismo, (consentire di) assiepare le fila delle generazioni FFF, fare passare per pazzoide chi crede ad un secondo fine dell’alluvione e che magari prima “negava” la siccità e il Po in secca. Meglio odiarsi che unirsi. Meglio litigare che fare fronte comune. Meglio accampare scuse, pure fantasiose, che inchiodare un compagno alle proprie responsabilità. Meglio blaterare che andare a spalare fango. E continuare ad assistere allo spettacolo propinatoci da giornali e tivvù. Ma anche con un semplice clic dal divano di casa perché tanto lorocielodiconopure!
The show must go on…

Napoli, cosa ci dice la (auto)distruzione del Maradona di Sepe

Napoli, 9 mag – La festa scudetto a Napoli ci ha regalato ogni tipo di scena: criticabile, condivisibile, capibile, esagerata. In una sola parola “napoletana”. La vittoria del campionato di calcio ha portato anche i tifosi a contestare il patron Aurelio De Laurentiis che, con la complicità di un comitato per l’ordine pubblico, li aveva “disarmati” di bandiere e tamburi. Dell’identità, insomma. Lo stesso patron che poi ha fatto la pace con i tifosi con tanto di foto di rito. La prima gara interna da campioni d’Italia ha portato al Maradona anche l’ex rettore dell’Università Federico II e oggi sindaco juventino (non da oggi) Gaetano Manfredi, che, come Draghi e come Conte, “arruola” la sua bambina alla quale viene affidato il messaggio – preconfezionato – d’amore per la città di Napoli. Da napoletana stereotipata emigrante e studente di un altro ateneo mica quello retto da papà. E poi caroselli di auto, gente in strada, palazzi bardati a festa con gli immancabili nastri azzurri.
Mentre tutta Napoli, però, faceva festa e con essa i napoletani sparsi in giro per il mondo, da New York a Londra, dall’Australia al nord Europa, un altro napoletanissimo artista è stato costretto a “fare festa” a modo suo, il maestro Domenico Sepe, autore del magnifico capolavoro di Diego Armando Maradona a grandezza naturale, impreziosito dal calco originale del piede del D10S.

Lo scultore che distrugge la sua opera: breve storia del Maradona di Domenico Sepe

Si sarebbe dovuto parlare della magnificenza del capolavoro che ritrae il Pibe de Oro come un dio greco, apprezzare la tecnica a cera persa, la stessa dei bronzi di Riace, inorgoglirsi per l’omaggio dell’artista a Diego e al popolo napoletano tutto, visto che la sola richiesta del Sepe è stata quella di collocare la statua laddove tutti napoletani potessero vederla. Niente affatto. Già de Laurentiis, non si sa il perché, ordinò alla morte del campione argentino la “sua” statua presso le Fonderie Nolane – dalle parti di origine del sindaco – che “regalarono” un prodotto più “industriale” rispetto all’artigianalità plasmata dal Sepe che riuscì ad esporre la sua creazione per una sola giornata al Maradona. Dopodiché il Comune di Napoli non sapeva cosa fare – e come disfarsene, soprattutto – di questo omaggio artistico, fino a quando ha fatto sapere di non potere accettare perché la donazione artistica potrebbe comportare da parte dell’autore la richiesta degli alimenti. E non c’è cavillo o burocrazia da scomodare stavolta.

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Poi sono venute le richieste di acquisto dei comuni limitrofi – Afragola e Casalnuovo su tutti – mai prese in considerazione da parte dell’artista. Fino a quando dal proprio profilo social Sepe ha annunciato che “solo l’artista decide il destino della sua opera”. E nel clima di gioia tanto attesa, mentre impazza(va)no i festeggiamenti e monta(va) il delirio, Sepe ha cominciato la distruzione della sua opera. L’autodistruzione. “Il tramonto del D10S”, come l’ha rinominata lui, una decisione sofferta che non va commentata, ma solo rispettata. Un’ingiuria, un’offesa alla cultura da parte di una classe dirigente autoreferenziale, un’incapacità di saper riconoscere il valore, se non quello della cancella culture, da parte di quell’intellighenzia Ztl cittadina che identifica ottimamente nient’altro che se stessa.

Dopo il caos (che non ha generato alcuna poltrona saltata) dell’inspiegabile e gratuito divieto di trasferta per i tifosi dell’Eintracht, dopo l’interdizione del tifo, se non a favore di uno stadio dove tutti sono seduti, composti e muti, ora le mummie se la prendono con le statue. Anzi con “la” statua, quella del D10S mentre Napoli si “consacra” ancora al fuoriclasse argentino scomparso, persino nella vittoria dello scudetto e loro incassano i fischi del Maradona nonostante la gioia del successo. Per questi interessati sciacalli un’altra medaglia alla capacità di distruzione conquistata sul campo, da appuntarsi sul petto ed esserne fieri. Meritatamente.

https://www.ilprimatonazionale.it/cultura/napoli-cosa-ci-dice-la-autodistruzione-del-maradona-di-sepe-261803/

TRISTE EPILOGO DI UNA STORIA INCREDIBILE: (AUTO)DISTRUTTA LA STATUA DEL DS10S DEL MAESRO SEPE.

Napoli in festa per la conquista dello scudetto ha fatto emozionare il mondo intero, da New York a Pechino, da Buenos Aires a Sidney perché questi sono i confini di Napoli. Eppure, mentre tutti i napoletani festeggia(va)no e gli altri ammira(va)no il “modo” di fare festa dei tifosi azzurri, c’è un tifoso in particolare che ha fatto, ha dovuto far festa “a modo suo”. Si tratta dell’artista e vanto della città, Domenico Sepe, fine scultore, della cui amara vicenda Campo Sud si è prontamente interessata (https://www.camposud.it/napoli-gia-sogna-ma-la-statua-di-maradona-viene-rifiutata-dal-sindaco/tony-fabrizio/).
Come si apprende dal profilo social dello stesso maestro Sepe, la statua del D10S, rifiutata dal Comune, mai collocata in un punto di accesso per tutti i napoletani – la sola richiesta dell’artista – che aveva ricevuto vere e proprie offerte di acquisto da (ben) altre amministrazioni comunali quali quelle di Casalnuovo ed Afragola, ma mai prese in considerazioni dall’artista per ovvie ragioni morali anche abbondantemente esplicate, non esiste più.
Dunque, mentre i tifosi erano in delirio, la città di era bloccata e tinta d’azzurro, oltre il cielo, oltre il mare, de Laurentis incassava ringraziamenti, dopo aver stretto mani a destra e a manca, e il primo cittadino Gaetano Manfredi incassava fischi all’unisono dal Maradona, previo rispolvero della figlia napoletana che dichiara il suo amore per la squadra, il Sepe distruggeva la sua meravigliosa creazione. “Il tramonto del D10S” : ha intitolato il suo sfogo distruttivo lo stesso autore dell’opera.
Un vero capolavoro di “buona amministrazione” quello messo in piedi dall’attuale Amministrazione comunale di Napoli, iniziato con il caos burocratico del divieto di trasferta ai tifosi dell’Eintracht e che non poteva non avere migliore finale che quello dei meritatissimi fischi. E pensare che la notizia non era ancora di dominio pubblico. Un autogol clamoroso quello messo a segno dall’intellighenzia ZTL della città di Partenopee, incapace, per chissà quale oscura ragione, di trovare un cavillo affinché il Comune, di cui si è solo amministratori e (fortunatamente) non per sempre, potesse onorarsi del dono definitivo e a titolo gratuito dell’artista che è stato apprezzato in questo stesso campo, ma su altri stadi.
Una decisione “indotta” quella dell’artista che ha commentato laconicamente “Solo l’artista decide il destino delle sue opere”.
Una vera opera d’arte a più mani quella creata da parte dell’attuale Amministrazione Comunale con la partecipazione della dirigenza del Calcio Napoli che bene identificano questi personaggi in cerca di un improbabile ruolo.
https://www.camposud.it/triste-epilogo-di-una-storia-incedibile-autodistrutta-la-statua-del-ds10s-del-maesro-sepe/tony-fabrizio/

IL MINISTRO SANGIULIANO INVITA IL PERSONALE DEL SUO MINISTERO A LAVORARE NEI GIORNI FESTIVI : MA E’ UNA CULTURA D’ALTRI TEMPI ??

Alla faccia di Filippo Facci che qualche giorno fa dalla rete aveva lanciato un’invettiva contro i napoletani accusati di non lavorare per come tifano!
Una “onorevole” risposta, seppur non a lui (etero)diretta, arriva da un napoletano “DOCG”, nientepopodimeno che dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Che da ieri sta sulla bocca di tutti e, forse, pure altrove per i suoi colleghi occupanti il c.d. posto fisso, i quali, a seguito del “richiamo” post liberazione incassato, molto probabilmente, l’unica liberazione a cui anelano è proprio quella dell’attuale Ministro.
Ma Sangiuliano non vuole fare certo il Brunetta di turno, no! Lui è di un’altra… levatura e, appunto, dall’alto del suo incarico redarguisce i suoi poco zelanti collaboratori, rei di essersene andati in ferie a ridosso del ponte del 25 aprile. Il suo epistolare richiamo, però, ha un logico – se non lapalissiano – fondamento dato che musei e luoghi di cultura, appunto, debbono essere aperti proprio nei giorni in cui “gli altri”, i non addetti ai lavori, sono in ferie. E, in ossequio alla critica positiva e propositiva, propone una sorta di turnazione affinché non si ripresenti la stessa situazione del 24 aprile ultimo scorso, quando, convocati 11 generalissimi al Ministero, se ne sono presentati solo in due, anzi, uno solo perché l’altro, seppur astante, era in pausa ed era andato a mangiare un gelato. Inoltre, nella missiva inviata, il Sangiuliano pensa pure di incrementare di mezzo euro il costo d’ingresso ai musei a Natale, a Pasqua e a Ferragosto per poter destinare il surplus ai dipendenti in servizio proprio in queste giornate festive.
Pare che molti dipendenti abbiano pure apprezzato la tiratina d’orecchi del numero uno di Via del Collegio Romano e gli abbiano scritto per esortarlo a continuare il cammino nella direzione intrapresa.
Ma che razza di napoletano è mai questo Ministro che, non solo lavora, offre esempio e lo fa dall’alto della sua carica di vertice, ma addirittura induce gli altri – non napoletani, ma tanto solo per sfatare un vecchio cliché in cui casca solo chi napoletano non è – a non assentarsi e a lavorare anche quando sarebbe comodo non farlo? Che cultura partenopea è mai questa che non rispecchia la furberia, l’arte di arrangiarsi, la paranza di pizze margherite, cuopp’ ‘e pesce e sfogliatelle con babà, la delinquenza e l’illecito, la canzone e il reddito di cittadinanza? E ora di cosa cianceranno i vari De Giovanni, i Saviano e tutti gli altri accentratori della tipica e topica cultura barattata per meno di trenta denari a favore del più remunerativo Sputtanapoli? Dovranno aggiornarsi e correre ai ri-pari, ora che persino Gigino da Pomigliano, padre dello “scrocco” statale a cinque stelle del reddito di nullafacenza, s’ingengna – senza che qualcuno s’indigni – ed “emigra” nientemeno che nel Golfo Persico per andare a “fa…ticare”.
Insomma, in questa Italia allo sfascio, fatta di fasci e di Facci, di eterni “fasciati”, di mascherine e tante mascherate, il solo punto fermo è rappresentato ancora (e menomale!) dalla proverbiale generosità sudicia – del Sud, s’intende – del signor Ministro che, per la prossima festività di Ferragosto (non “romano”, per carità) – ancora nessuno lo ha accusato di negazionismo per aver omesso di ricordare i “rossi” 1 maggio e 2 giugno o tutti gli accusatori sono ancora in ferie? – ha invitato tutti a pranzo. Offre lui! D’altronde, siamo o non siamo il Mezzogiorno d’Italia?

https://www.camposud.it/il-ministro-sangiuliano-invita-il-personale-del-suo-ministero-a-lavorare-nei-giorni-festivi-ma-e-una-cultura-daltri-tempi/tony-fabrizio/

Giggino Di Maio, un riciclato nel Golfo Persico (con 12mila euro al mese)

Roma, 24 apr – Tra le cose che meno interessano agli italiani c’è sicuramente quello di porsi il problema di come passi le giornate l’ex ministro Giggino Di Maio. Che “ha da fa’ pe’ campà”, giusto per farlo intendere anche a lui. Anche perché la stragrande maggioranza di loro non vedeva l’ora di toglierselo dalle scatole, visto che il “suo” Impegno Civico ha raccolto meno dell’1% all’ultima tornata elettorale e, da ministro uscente che non è altro, non è bastato l’inciucio col Pd e la mano del sempreverde Tabacci per riconquistare la cadrega in Parlamento. Certo, l’italiano ancora presente a sé stesso ancora si interroga su come sia stato possibile che un personaggio come “Giggino da Pomigliano” abbia potuto farsi strada nei meandri della politica e soprattutto arrivare ad essere parlamentare prima e doppiamente ministro poi. Ma da qualche ora si dovrà pure chiedere – spiegare sarà difficile, almeno scientemente – come possa proprio Di Maio essere “il più indicato”, a parità di… “curri-cula”, dei 27 Paesi con la stellina a rappresentare l’Unione Europea nel Golfo Persico.
Giggino Di Maio, riciclato nel Golfo a 12mila euro al mese
Se pensiamo che il suo nome non sarà (più?) legato a quello dell’Italia, si potrebbe persino pensare di esultare. Guadagnerà 12mila euro al mese e beneficerà pure della tassazione agevolata dell’Unione per fare non si sa ancora bene cosa, ciò che dovrebbe far riflettere sono le “qualità e le competenze” sciorinate nel curriculum: che abbia preso spunto dal racconto di carriera del suo ex Peppuccio Conte, frequentatore di prestigiosi atenei stranieri dove nessuno lo ha però mai visto? Ah, se solo al posto dei tanti (in)successi decantati su carta, a Bruxelles avessero ricordato anche solo i compaesani di Giggino impiegati alla Whirlpool di Napoli, oggi tutti disoccupati, nonostante le vittorie intestatesi che Pirro al confronto è un principiante o anche le famiglie dei 18 pescatori di Mazara del Vallo sequestrati per oltre 100 giorni dopo “un viaggio di lavoro” del nostro ministro degli Esteri per i quali, accampati in tenda in piazza Montecitorio per mesi, il telefono della Farnesina rimase sempre muto. Tanto per citare solo due episodi di quando sedeva all’uno e all’altro ministero.
Uno vale l’altro
Se la scelta avrebbe dovuto proprio ricadere sull’Italia, avremmo potuto senza dubbio esprimere candidati di ben alt(r)o spessore, ma ciò che spiazza (e non stupisce) è il silenzio da parte delle forze di governo, fatta eccezione per qualche lamento della Lega, perché la “preferenza” europea cade ancora una volta dalla parte opposta a quella espressa dai cittadini che hanno scelto di relegare Di Maio nell’oblio. “Menomale” che l’astensionismo è in aumento, che i giovani sono disabituati alla politica, almeno a quella elettorale che è il volto peggiore della politica, e che i loro modelli sono ormai costituiti da influencer, youtuber, tiktoker e tutto ciò che finisce con “er” che tutto possono fare tranne che insegnare, altrimenti dovrebbero guardare a Di Maio, su cui siamo davvero al lapalissiano, come un modello di uomo di successo: pure che non conosce la lingua in cui si esprime, pure che non ha completato gli studi né si è specializzatosi in qualsiasi cosa – sarà questo il significato insito nel motto a cinque stelle “uno vale uno”, diventato per convenienza uno vale l’altro, pure se questo vale zero? – come appunto “uno” che può arrivare ad essere ministro degli Esteri senza conoscere alcuna lingua straniera e subito prima ministro del Lavoro senza aver mai lavorato.
Lo so, qui scadiamo nella retorica che più blanda e superficiale non si può, ma assicuriamo che è tutto solo merito di Giggino. Ora anche lui dovrà fare la valigia e lasciare casa, gli affetti e la propria terra e provare l’ebbrezza di dover emigrare per lavorare, certi che non costituirà un grosso problema per il cosiddetto fenomeno del brain drain che ci attanaglia. E non perché non sia una fuga. Tuttavia, un insegnamento Giggino ce lo lascia: in mancanza di dignità, di coraggio e di rispetto della volontà degli elettori non si può non riconoscere onore al merito di aver saputo stringere le amicizie che contano, almeno per il proprio tornaconto e alla capacità di sapersi riciclare: esulti pure Greta e tutti i suoi gretini.

https://www.ilprimatonazionale.it/politica/luigi-di-maio-si-ricicla-e-lo-spediscono-nel-golfo-persico-260808/