IL MINISTRO SANGIULIANO INVITA IL PERSONALE DEL SUO MINISTERO A LAVORARE NEI GIORNI FESTIVI : MA E’ UNA CULTURA D’ALTRI TEMPI ??

Alla faccia di Filippo Facci che qualche giorno fa dalla rete aveva lanciato un’invettiva contro i napoletani accusati di non lavorare per come tifano!
Una “onorevole” risposta, seppur non a lui (etero)diretta, arriva da un napoletano “DOCG”, nientepopodimeno che dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Che da ieri sta sulla bocca di tutti e, forse, pure altrove per i suoi colleghi occupanti il c.d. posto fisso, i quali, a seguito del “richiamo” post liberazione incassato, molto probabilmente, l’unica liberazione a cui anelano è proprio quella dell’attuale Ministro.
Ma Sangiuliano non vuole fare certo il Brunetta di turno, no! Lui è di un’altra… levatura e, appunto, dall’alto del suo incarico redarguisce i suoi poco zelanti collaboratori, rei di essersene andati in ferie a ridosso del ponte del 25 aprile. Il suo epistolare richiamo, però, ha un logico – se non lapalissiano – fondamento dato che musei e luoghi di cultura, appunto, debbono essere aperti proprio nei giorni in cui “gli altri”, i non addetti ai lavori, sono in ferie. E, in ossequio alla critica positiva e propositiva, propone una sorta di turnazione affinché non si ripresenti la stessa situazione del 24 aprile ultimo scorso, quando, convocati 11 generalissimi al Ministero, se ne sono presentati solo in due, anzi, uno solo perché l’altro, seppur astante, era in pausa ed era andato a mangiare un gelato. Inoltre, nella missiva inviata, il Sangiuliano pensa pure di incrementare di mezzo euro il costo d’ingresso ai musei a Natale, a Pasqua e a Ferragosto per poter destinare il surplus ai dipendenti in servizio proprio in queste giornate festive.
Pare che molti dipendenti abbiano pure apprezzato la tiratina d’orecchi del numero uno di Via del Collegio Romano e gli abbiano scritto per esortarlo a continuare il cammino nella direzione intrapresa.
Ma che razza di napoletano è mai questo Ministro che, non solo lavora, offre esempio e lo fa dall’alto della sua carica di vertice, ma addirittura induce gli altri – non napoletani, ma tanto solo per sfatare un vecchio cliché in cui casca solo chi napoletano non è – a non assentarsi e a lavorare anche quando sarebbe comodo non farlo? Che cultura partenopea è mai questa che non rispecchia la furberia, l’arte di arrangiarsi, la paranza di pizze margherite, cuopp’ ‘e pesce e sfogliatelle con babà, la delinquenza e l’illecito, la canzone e il reddito di cittadinanza? E ora di cosa cianceranno i vari De Giovanni, i Saviano e tutti gli altri accentratori della tipica e topica cultura barattata per meno di trenta denari a favore del più remunerativo Sputtanapoli? Dovranno aggiornarsi e correre ai ri-pari, ora che persino Gigino da Pomigliano, padre dello “scrocco” statale a cinque stelle del reddito di nullafacenza, s’ingengna – senza che qualcuno s’indigni – ed “emigra” nientemeno che nel Golfo Persico per andare a “fa…ticare”.
Insomma, in questa Italia allo sfascio, fatta di fasci e di Facci, di eterni “fasciati”, di mascherine e tante mascherate, il solo punto fermo è rappresentato ancora (e menomale!) dalla proverbiale generosità sudicia – del Sud, s’intende – del signor Ministro che, per la prossima festività di Ferragosto (non “romano”, per carità) – ancora nessuno lo ha accusato di negazionismo per aver omesso di ricordare i “rossi” 1 maggio e 2 giugno o tutti gli accusatori sono ancora in ferie? – ha invitato tutti a pranzo. Offre lui! D’altronde, siamo o non siamo il Mezzogiorno d’Italia?

https://www.camposud.it/il-ministro-sangiuliano-invita-il-personale-del-suo-ministero-a-lavorare-nei-giorni-festivi-ma-e-una-cultura-daltri-tempi/tony-fabrizio/

Giggino Di Maio, un riciclato nel Golfo Persico (con 12mila euro al mese)

Roma, 24 apr – Tra le cose che meno interessano agli italiani c’è sicuramente quello di porsi il problema di come passi le giornate l’ex ministro Giggino Di Maio. Che “ha da fa’ pe’ campà”, giusto per farlo intendere anche a lui. Anche perché la stragrande maggioranza di loro non vedeva l’ora di toglierselo dalle scatole, visto che il “suo” Impegno Civico ha raccolto meno dell’1% all’ultima tornata elettorale e, da ministro uscente che non è altro, non è bastato l’inciucio col Pd e la mano del sempreverde Tabacci per riconquistare la cadrega in Parlamento. Certo, l’italiano ancora presente a sé stesso ancora si interroga su come sia stato possibile che un personaggio come “Giggino da Pomigliano” abbia potuto farsi strada nei meandri della politica e soprattutto arrivare ad essere parlamentare prima e doppiamente ministro poi. Ma da qualche ora si dovrà pure chiedere – spiegare sarà difficile, almeno scientemente – come possa proprio Di Maio essere “il più indicato”, a parità di… “curri-cula”, dei 27 Paesi con la stellina a rappresentare l’Unione Europea nel Golfo Persico.
Giggino Di Maio, riciclato nel Golfo a 12mila euro al mese
Se pensiamo che il suo nome non sarà (più?) legato a quello dell’Italia, si potrebbe persino pensare di esultare. Guadagnerà 12mila euro al mese e beneficerà pure della tassazione agevolata dell’Unione per fare non si sa ancora bene cosa, ciò che dovrebbe far riflettere sono le “qualità e le competenze” sciorinate nel curriculum: che abbia preso spunto dal racconto di carriera del suo ex Peppuccio Conte, frequentatore di prestigiosi atenei stranieri dove nessuno lo ha però mai visto? Ah, se solo al posto dei tanti (in)successi decantati su carta, a Bruxelles avessero ricordato anche solo i compaesani di Giggino impiegati alla Whirlpool di Napoli, oggi tutti disoccupati, nonostante le vittorie intestatesi che Pirro al confronto è un principiante o anche le famiglie dei 18 pescatori di Mazara del Vallo sequestrati per oltre 100 giorni dopo “un viaggio di lavoro” del nostro ministro degli Esteri per i quali, accampati in tenda in piazza Montecitorio per mesi, il telefono della Farnesina rimase sempre muto. Tanto per citare solo due episodi di quando sedeva all’uno e all’altro ministero.
Uno vale l’altro
Se la scelta avrebbe dovuto proprio ricadere sull’Italia, avremmo potuto senza dubbio esprimere candidati di ben alt(r)o spessore, ma ciò che spiazza (e non stupisce) è il silenzio da parte delle forze di governo, fatta eccezione per qualche lamento della Lega, perché la “preferenza” europea cade ancora una volta dalla parte opposta a quella espressa dai cittadini che hanno scelto di relegare Di Maio nell’oblio. “Menomale” che l’astensionismo è in aumento, che i giovani sono disabituati alla politica, almeno a quella elettorale che è il volto peggiore della politica, e che i loro modelli sono ormai costituiti da influencer, youtuber, tiktoker e tutto ciò che finisce con “er” che tutto possono fare tranne che insegnare, altrimenti dovrebbero guardare a Di Maio, su cui siamo davvero al lapalissiano, come un modello di uomo di successo: pure che non conosce la lingua in cui si esprime, pure che non ha completato gli studi né si è specializzatosi in qualsiasi cosa – sarà questo il significato insito nel motto a cinque stelle “uno vale uno”, diventato per convenienza uno vale l’altro, pure se questo vale zero? – come appunto “uno” che può arrivare ad essere ministro degli Esteri senza conoscere alcuna lingua straniera e subito prima ministro del Lavoro senza aver mai lavorato.
Lo so, qui scadiamo nella retorica che più blanda e superficiale non si può, ma assicuriamo che è tutto solo merito di Giggino. Ora anche lui dovrà fare la valigia e lasciare casa, gli affetti e la propria terra e provare l’ebbrezza di dover emigrare per lavorare, certi che non costituirà un grosso problema per il cosiddetto fenomeno del brain drain che ci attanaglia. E non perché non sia una fuga. Tuttavia, un insegnamento Giggino ce lo lascia: in mancanza di dignità, di coraggio e di rispetto della volontà degli elettori non si può non riconoscere onore al merito di aver saputo stringere le amicizie che contano, almeno per il proprio tornaconto e alla capacità di sapersi riciclare: esulti pure Greta e tutti i suoi gretini.

https://www.ilprimatonazionale.it/politica/luigi-di-maio-si-ricicla-e-lo-spediscono-nel-golfo-persico-260808/

Giggino Di Maio, un riciclato nel Golfo Persico (con 12mila euro al mese)

Roma, 24 apr – Tra le cose che meno interessano agli italiani c’è sicuramente quello di porsi il problema di come passi le giornate l’ex ministro Giggino Di Maio. Che “ha da fa’ pe’ campà”, giusto per farlo intendere anche a lui. Anche perché la stragrande maggioranza di loro non vedeva l’ora di toglierselo dalle scatole, visto che il “suo” Impegno Civico ha raccolto meno dell’1% all’ultima tornata elettorale e, da ministro uscente che non è altro, non è bastato l’inciucio col Pd e la mano del sempreverde Tabacci per riconquistare la cadrega in Parlamento. Certo, l’italiano ancora presente a sé stesso ancora si interroga su come sia stato possibile che un personaggio come “Giggino da Pomigliano” abbia potuto farsi strada nei meandri della politica e soprattutto arrivare ad essere parlamentare prima e doppiamente ministro poi. Ma da qualche ora si dovrà pure chiedere – spiegare sarà difficile, almeno scientemente – come possa proprio Di Maio essere “il più indicato”, a parità di… “curri-cula”, dei 27 Paesi con la stellina a rappresentare l’Unione Europea nel Golfo Persico.
Giggino Di Maio, riciclato nel Golfo a 12mila euro al mese
Se pensiamo che il suo nome non sarà (più?) legato a quello dell’Italia, si potrebbe persino pensare di esultare. Guadagnerà 12mila euro al mese e beneficerà pure della tassazione agevolata dell’Unione per fare non si sa ancora bene cosa, ciò che dovrebbe far riflettere sono le “qualità e le competenze” sciorinate nel curriculum: che abbia preso spunto dal racconto di carriera del suo ex Peppuccio Conte, frequentatore di prestigiosi atenei stranieri dove nessuno lo ha però mai visto? Ah, se solo al posto dei tanti (in)successi decantati su carta, a Bruxelles avessero ricordato anche solo i compaesani di Giggino impiegati alla Whirlpool di Napoli, oggi tutti disoccupati, nonostante le vittorie intestatesi che Pirro al confronto è un principiante o anche le famiglie dei 18 pescatori di Mazara del Vallo sequestrati per oltre 100 giorni dopo “un viaggio di lavoro” del nostro ministro degli Esteri per i quali, accampati in tenda in piazza Montecitorio per mesi, il telefono della Farnesina rimase sempre muto. Tanto per citare solo due episodi di quando sedeva all’uno e all’altro ministero.
Uno vale l’altro
Se la scelta avrebbe dovuto proprio ricadere sull’Italia, avremmo potuto senza dubbio esprimere candidati di ben alt(r)o spessore, ma ciò che spiazza (e non stupisce) è il silenzio da parte delle forze di governo, fatta eccezione per qualche lamento della Lega, perché la “preferenza” europea cade ancora una volta dalla parte opposta a quella espressa dai cittadini che hanno scelto di relegare Di Maio nell’oblio. “Menomale” che l’astensionismo è in aumento, che i giovani sono disabituati alla politica, almeno a quella elettorale che è il volto peggiore della politica, e che i loro modelli sono ormai costituiti da influencer, youtuber, tiktoker e tutto ciò che finisce con “er” che tutto possono fare tranne che insegnare, altrimenti dovrebbero guardare a Di Maio, su cui siamo davvero al lapalissiano, come un modello di uomo di successo: pure che non conosce la lingua in cui si esprime, pure che non ha completato gli studi né si è specializzatosi in qualsiasi cosa – sarà questo il significato insito nel motto a cinque stelle “uno vale uno”, diventato per convenienza uno vale l’altro, pure se questo vale zero? – come appunto “uno” che può arrivare ad essere ministro degli Esteri senza conoscere alcuna lingua straniera e subito prima ministro del Lavoro senza aver mai lavorato.
Lo so, qui scadiamo nella retorica che più blanda e superficiale non si può, ma assicuriamo che è tutto solo merito di Giggino. Ora anche lui dovrà fare la valigia e lasciare casa, gli affetti e la propria terra e provare l’ebbrezza di dover emigrare per lavorare, certi che non costituirà un grosso problema per il cosiddetto fenomeno del brain drain che ci attanaglia. E non perché non sia una fuga. Tuttavia, un insegnamento Giggino ce lo lascia: in mancanza di dignità, di coraggio e di rispetto della volontà degli elettori non si può non riconoscere onore al merito di aver saputo stringere le amicizie che contano, almeno per il proprio tornaconto e alla capacità di sapersi riciclare: esulti pure Greta e tutti i suoi gretini.

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Una lezione sul 25 aprile? E’ scolpita al sacrario di Sant’Angelo in Formis

Caserta, 22 apr – Ormai è chiaro a tutti, il 25 aprile, al netto di ogni partigianeria, è tutto ciò che (non) dovrebbe essere: i festeggiamenti di una sconfitta, ciò che avrebbe potuto essere e non è stato per “colpa” di quelli che hanno perso – dunque, stando così le cose, hanno perso davvero? -, la storia riscritta, voce del verbo infoibare, e inventata ad libitum dai “vincitori”, la liberazione ad opera di quei liberatori che hanno, di fatto, occupato l’Italia. In questa narrazione va inserita anche la guerra che i partigiani hanno combattuto a guerra finita, il nemico riconosciuto nel loro stesso popolo, la verginità riconquistata. Così i partigiani, quelli anagraficamente contestualizzati, li possiamo vedere a ridosso del 25 aprile coprirsi (e coprire) di una delle pagine più infami che hanno mai scritto, in realtà, che i “liberatori” hanno scritto per loro. Un esempio è scolpito nella pietra al sacrario di Sant’Angelo in Formis. Ma andiamo con ordine.

“Per la salvezza dello spirito e della civiltà”: l’ultima sigaretta e un bacio alla mamma

Siamo in Campania, nella provincia di Caserta, il carcere è quello di Santa Maria Capua Vetere. Si aprono le porte, esce un giovane dalla camminata fiera e spavalda, volto aquilino, sguardo fiero, vestito di camicia (nera) con le maniche arrotolate fino ai gomiti, festante, come se dovesse andare a far baldoria con gli amici, monta sul camion che lo condurrà al palo della morte. Dalle immagini stipate negli archivi Usa, sembra poter riconoscere Mario Tapoli, romano, non ancora ventenne. Le stesse immagini lo ritraggono insieme ad altri due camerati (appartenenti alla RSI) anche loro rigorosamente in camicia nera, polsi legati al palo, che fronteggiano fieri il plotone di esecuzione in una cava di tufo di cui non ne esce che la sola parte superiore tra rovi di spine e piante di ulivo. Si riconoscono Italo Palesse e Franco Aschieri, 22 e 18 anni.

Sono accusati di essere spie al servizio delle SS, ma bastava il solo non essere “dalla parte giusta” per decretarne la fine. Bastava l’abiura, come quella pretesa (e mai ottenuta) dai militi della X MAS rinchiusi nel vicino carcere di Nisida, come riportato a un aviere della RSI dalla sua insegnate (comunista) di inglese: “Era stata convocata al tribunale alleato e, con un anziano colonnello americano, delegato a giudice, condotta nella cella ove erano rinchiusi tre di quei giovani in attesa d’essere processati. L’ufficiale le chiese di tradurre quanto intendeva proporre loro: dato che oramai la guerra era perduta, dunque, sarebbe stato il loro un sacrificio inutile, gli dessero lo spunto per salvare loro la vita, trascorrendo così il resto del periodo bellico in qualche campo di prigionia, ad esempio (ammettendo) che erano stati costretti ad agire sotto minaccia dei loro superiori. Riferita la proposta, i tre chiesero di potersi consultare e, subito dopo, vollero che lei traducesse quanto deciso: nessuno ci ha obbligato, siamo volontari, dunque ciascuno compia il proprio dovere: il colonnello a condannarli, essi legati al palo dei fucilati. Una richiesta, questa sì, di non essere bendati per poter vedere l’azzurro del cielo d’Italia per cui avevano combattuto e per essa dato la vita”.

Altra razza per un’altra Italia realmente esistita. Eroica. O, forse, non proprio un’altra Italia, se pensiamo al modo di morire del filosofo Giovanni Gentile o di Fabrizio Quattrocchi. La stessa razza a cui appartenevano anche Palesse e Aschieri di cui diamo testimonianza del loro ultimo esempio: Palesse ancora oggi sbalordisce: dopo aver chiesto che gli venga tolta la camicia nera per non bucarla, morirà, fumando l’ultima sigaretta in faccia al plotone schierato, gridando “Dio stramaledica gli inglesi!”. Di Aschieri, invece, riportiamo alcuni passi dell’ultima lettera scritta alla madre, dall’alta carica di spiritualità: «Cara mamma, con l’animo pienamente sereno mi preparo a lasciare questa vita che per me è stata così breve e nello stesso tempo così piena e densa di esperienze sensazionali (…). Ti prego, mamma, fa’ che il mio distacco da questa vita non sia accompagnato da lacrime, ma sia allietato dalla gioia serena di quegli animi eletti che sono consapevoli del significato di questo trapasso. Ieri, dopo che mi è stata comunicata la notizia, mi sono disteso sul letto ed ho provato una sensazione che avevo già conosciuta da bambino: ho sentito cioè che il mio spirito si riempiva di forza e si estendeva fino a divenire immenso (…). Non ho alcun risentimento per coloro che stanno per uccidermi perché so che non sono che degli strumenti scelti da Dio (…). Io resterò vicino a te per sostenerti e aiutarti finché non verrai a raggiungermi; perché sono certo che i nostri spiriti continueranno insieme il loro cammino di redenzione (…). In questo momento sono lì da te e ti bacio per l’ultima volta, e con te papà e tutti gli altri cari che lascio. Cara mamma, termino la lettera perché il tempo dei condannati a morte è contato fino al secondo. Sono contento della morte che mi è destinata perché è una delle più belle, essendo legata ad un sacro ideale. Io cado ucciso in questa immensa battaglia per la salvezza dello spirito e della civiltà, ma so che altri continueranno la lotta per la vittoria che la Giustizia non può che assegnare a noi. Viva il fascismo. Viva l’Europa. Franco».

Il 25 aprile e il sacrario di Sant’Angelo in Formis

Potremmo riportare anche i nomi degli altri tredici militi che hanno combattuto la guerra del “sangue contro l’oro” e che sono stati ammazzati – al grido di Viva il Duce, Viva il Fascismo, Viva l’Italia – in quello che è il sacrario pressoché sconosciuto di Sant’Angelo in Formis, dalla barbarie “liberatoria” anglo-americana di cui restano solo i buchi dei proiettili nel tufo, tutt’oggi visibili. Per questi eroi, invece, restano le parole di Brasillach incise nella pietra a dare il benvenuto nel luogo: “Amore e coraggio non sono soggetti a processo”. Resta immortale per noi il loro esempio, resta eterno per loro il nostro Presente.

https://www.ilprimatonazionale.it/cultura/25-aprile-sacrario-sant-angelo-formis-260758/

Irpinia, un incredibile polmone verde per candidati “furbetti”: 5 liste per 275 abitanti

Roma, 17 apr – Cairano, Rocca San Felice, ameni paesini arroccati sulle alture dell’entroterra dell’Irpinia che nemmeno il (demo)cristiano miracolo operato dai tipici e topici Ciriachino De Mita, Valentino Sullo, Gerardo Bianco e tutta la combriccola dello scudo crociato è riuscito nell’intento di farli conoscere se non al mondo, quantomeno al resto d’Italia, rimanendo noti ai (sempre più pochi) residenti, ai nativi (emigrati) e agli stoici allogeni. Borghi – tra i più belli d’Italia – ricchi di storia e di folklore che negli ultimi anni hanno conosciuto un vero e proprio boom da parte di certi appartenenti alle Forze dell’Ordine. Non per chissà quale losco nascondiglio di un qualsiasi malvivente in fuga, ma semplicemente perché questi paesini rappresentano un vero e proprio “polmone verde” per i furbetti con le stellette.
Candidati mai visti
Il mese prossimo, infatti, sono tanti i centri che saranno chiamati a rinnovare le proprie amministrazioni comunali, ma nei due paesi di Cairano e Rocca San Felice, in provincia di Avellino, si è registrato un fenomeno quantomeno singolare, in verità non nuovo, ma che sta prendendo sempre più piede negli ultimi anni: all’atto della presentazione delle liste che concorrono per aggiudicarsi la fascia tricolore, hanno fatto comparsa ben tre liste composte da persone che nessuno ha mai visto in questi piccoli centri e che, a dirla tutta e con tutta probabilità, non sono nemmeno minimamente interessati a dare il proprio contributo nell’amministrazione della cosa pubblica, visto che non sono residenti né hanno nulla a che fare con questi posti. E, dopo l’election day, spariscono come neve al sole, almeno fino alla prossima tornata elettorale.
In Irpinia 5 liste per 275 residenti
Perché, allora, partecipano alla corsa elettorale? Perché essere candidati, pur senza impegno di partecipazione e tantomeno qualunque speranza di vittoria, permette loro di avere diritto a un mese di permesso straordinario dal lavoro. Pure retribuito. Semplice e sufficiente. Tutto ipso iure, sia bene inteso. Nei centri con una popolazione residente non superiore a mille abitanti, recita la norma, non è prevista la sottoscrizione delle liste, dunque chiunque, anche per un motivo “personalistico”, può candidarsi. Più di chiunque, visto che nel comune di Cairano, che vanta 275 residenti, sono ben cinque le liste presentate, di cui due appartenenti a militari pugliesi e campani, come riferisce al Corriere dell’Irpinia il primo cittadino uscente e non ricandidabile per raggiunti limiti di mandato, se non a consigliere, de Angelis che, però, non le manda certo a dire e lancia l’allarme chiedendo anche di cambiare la normativa attualmente in vigore.
Stessa situazione anche nella (fu) roccaforte demitiana di Rocca San Felice: 800 persone, cinque liste di cui tre “fantasma”, ognuna composta di dieci militari. E se questa è l’Irpinia d’oriente, dal versante opposto, laddove Campania e Puglia confinano, nel paesino di Greci, poco più di 600 abitanti, la situazione è la medesima e anche lì spunta l’immancabile lista “uniforme” di “Altra Italia”. Cose dell’altro mondo…

https://www.ilprimatonazionale.it/politica/irpinia-un-incredibile-polmone-verde-per-candidati-furbetti-5-liste-per-275-abitanti-260394/

Aeronautica militare, compie 100 anni la forza armata nazionale (nonostante la cancel culture)

Roma 25 marzo – Ieri l’Italia si è svegliata con un richiamo – che, però, ha tutto il sapore del rigurgito – “all’italianità”, all’orgoglio di sentirsi (non essere, che è differente) italiani, così è stata ribattezzata tale giornata da tivvù e giornali cui sempre più spesso viene affidata la delega esclusiva dell’in-formazione, epurandola, però, da ogni elementare, quanto dovuta, riflessione.

Aeronautica militare, oggi i 100 anni

Quella che ci viene presentata non è l’Italia del pallone che ha rimediato la sconfitta contro la “perfida Albione”, ma proprio l’Italia nel pallone, quella che riesce a ricordare i 100 anni della fondazione dell’Aeronautica Militare senza alcuna celebrazione ufficiale – il ministro della Difesa Guido Crosetto ha pensato bene di andarsene in gita alla Leonardo, eccellenza italiana della sicurezza, dell’aerospazio e della difesa, ma in ambito industriale e “figlia” controllata dal Ministero dell’Economia e Finanze – e poi si è recato di protocollo alle Fosse Ardeatine; la stessa Italia che si ricorderà nuovamente di inno & bandiera solo al prossimo incontro di calcio; quella che dà ascolto ad un Frantoianni qualunque e cancella il nome di un asso dell’aviazione come Italo (nomen omen!) Balbo dalla cadrega degli aerei di stato; la stessa Italia che abolisce la festa del papà per rispetto di chi un papà non ce l’ha – ma come è possibile? – per restare nella stretta attualità o, addirittura, pretende di festeggiare il Natale senza il “nato”, se vogliamo dare una visione più ampia dello stesso tema.

Celebrazioni della “fascistissima”, senza cancel culture

Ebbene, questa Italia del cancella culture, ieri è riuscita persino a celebrare il centesimo anno di vita dell’Aeronautica senza citare mai, minimamente il Fascismo. La Regia Aeronautica, infatti, fu una delle prime creature del movimento littorio appena insediatosi al governo, tanto è vero che la sua fondazione avvenne solo cinque mesi dopo la Marcia su Roma, facendo, rapidamente, dei “combattenti dell’aria” una delle eccellenze di casa nostra che meglio incarnavano il prestigio dell’Italia all’estero, da dove i nostri connazionali emigrati sognavano di ritornare, un giorno, in Patria, magari a bordo dell’Ala Littoria, la compagnia di bandiera – sì, ne avevamo una, allora – italiana.

Proprio per la sua fondazione, proprio per i suoi padri come Balbo, già ras di Ferrara e quadrumviro della Marcia, proprio perché quell’arma del cielo era “totalitaria”, nel senso che piaceva proprio a tutti, dai nazionalisti che volevano un’Italia competitiva e moderna, agli intellettuali come d’Annunzio e i futuristi che cantavano l’aeroplano quale protagonista di una nuova società dinamica, fino agli imperialisti che volevano avvalersi di strumenti moderni da utilizzare “in” e “per” i possedimenti coloniali e agli industriali che, fin dai tempi della Grande Guerra, avevano visto nell’aviazione un affare lucroso, senza fare eccezione per lo stesso Mussolini, immediatamente brevettatosi, che amava pilotare, che non disdegnò di offrire la vita di due dei suoi figli, piloti in guerra anche loro – e, non ultimo, grazie ai successi senza eguali, come parte dei primati detenuti e ancora imbattuti, primo su tutti la trasvolata oceanica, questa leggendaria Arma volante si guadagnò l’accezione di “fascistissima”.

Se, poi, vogliamo dirla tutta, ovvero ciò che l’”in-formazione ufficiale” ieri non ha raccontato, bisogna pure ricordare che dopo la resa incondizionata dell’8 settembre – che il mainstream chiama impropriamente “armistizio” – la “fascistissima” non esitò a “scegliere l’Italia” confluendo interamente nella Repubblica Sociale Italiana, da dove continuò a mietere successi e a dispensare esempi che sono giunti fino a noi.
Da queste colonne libere e non uniformate possiamo anche affermare, con piena tranquillità di coscienza, qualora non si sapesse, che ancora oggi le aviazioni degli altri Paesi guardano a quella che fu la Regia Aeronautica per studiare e perfezionarsi, a riprova del fatto che è esistito un italian style sia nelle creazioni di apparati statali sia nel combattimento; che oltreconfine tuttora guardano non all’Italia, ma a quella Italia, quale esempio ancora valido, quale ricchezza imperitura da cui ancora attingere, quale eccellenza cui tendere. Ed è di una tremenda bellezza vedere gli intellettò uniti e compatti, con cancellino e bianchetto, affannati a tentare di cancellare ora la statua, ora il palazzo, poi l’idea, il concetto, il neologismo, l’esempio, la storia, la civiltà. Certi che li troveremo ancora così, a fare le medesime cose, anche tra cent’anni. Senza che abbiano ancora finito il loro sporco lavoro di “pulizia”.

https://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/aeronautica-militare-compie-100-anni-la-forza-armata-nazionale-nonostante-la-cancel-culture-258816/

L’Anpi annuncia “boom di iscritti”. Cin cin, ora i partigiani rinuncino ai soldi pubblici

Roma, 20 mar – La notizia è di quelle che “fanno storia”, tanto da meritarsi titoloni e prima pagina de La Repubblica da incorniciare e appendere al muro per l’eccitazione di Berizzi. L’Anpi fa il pienone ed è record di iscritti: 140mila nuovi partigiani che versano l’obolo e si schierano “in difesa della costituzione e dell’antifascismo”. Almeno così titola La Repubblica che ha anche analizzato questo emergente fenomeno psico(socio)patico fornendo addirittura delle precise risposte: troppi – esiste un range di un minimo/massimo consentito (da chi?) ma nessuno lo sapeva – episodi di apologia di fascismo; molti svarioni della destra sull’antifascismo; troppi disvalori – che poi sarebbero i valori di chi non è come loro – in giro.

Cortocircuiti rossi

Come di consueto, però, il primo cortocircuito non tarda ad arrivare. Tra le cause che hanno portato al massiccio tesseramento pare ci sia anche la proposta, partita dall’assessore comunale, deputato e coordinatore regionale di Fratelli d’Italia, Fabrizio Rossi di Grosseto, di una “via della pacificazione”, ovvero una strada comune in cui confluiscono a loro volta due strade, intitolate una a Giorgio Almirante e l’altra ad Enrico Berlinguer. Giammai! Lotta continua. Since 1945. Ovvero quando la guerra era già finita. E loro l’avevano pure vinta, avendo sconfitto il nazifascismo. È da allora che festeggiano ogni 25 aprile ed è altrettanto da allora che combattono ogni giorno lo stesso fascismo da cui ci hanno liberato. Valli un poco a capire.

D’altronde questa è la loro identità: essere appartenuti a determinate formazioni, salvo poi scegliere la congrega opposta più conveniente al momento opportuno, aver combattuto una guerra a guerra finita, far parte di autonominate “brigate” che furono formazioni di una decina di uomini nel migliore dei casi, non riconosciuti da alcuno, senza una uniforme, per non citare omicidi, stupri, processi sommari, furti di galline, di soldi, di cibo.
Dunque i nuovi portatori di foulard rosso in gola con tanto di stella, i nuovi adepti di Tito, i nuovi fedeli di Pertini l’assassino che ha concesso più grazie che nessun altro santo in Paradiso, l’inginocchiato davanti al catafalco del boia iugoslavo e che non ebbe scrupoli nemmeno davanti a donne incinte come Luisa Ferida, si moltiplicano per andare a fare guerra a un manager già autodimissionario, dopo aver citato Mussolini – che si assunse la responsabilità politica di un omicidio – dicendolo di averlo scambiato per Nelson Mandela.

A proposito di abbagli antifascisti

Chissà se nelle loro riunioni politicamente corrette e uni-formate si leverà una voce di qualche semicolto che parlerà ai compagni partigiani di Dante Castelluccio, meglio conosciuto (da loro) come comandate Facio, già medaglia d’argento al valore militare, ammazzato dagli stessi compagni partigiani, dopo un processo sommario, come d’abitudine, o addirittura in una imboscata tesa da altri partigiani suoi simili. La “verità storica” l’Anpi su questa (loro) storia ancora non l’ha scritta. Forse i comitati sono troppo impegnati a fare altro. Chissà cosa, visto che nemmeno hanno tentato di riscrivere la storia – ancora! – dell’incendio a Parma avvenuto poco tempo fa di una corona di fiori all’antifascista Guido Picelli. Immediatamente i partigiani avevano nientemeno che gridato all’aggressione fascista – ad un “fascio” di fiori? – al ritorno del pericolo fascista con le squadracce armate di olio di ricino e manganello. Ma le indagini, però, raccontano un’altra verità. La Digos ha individuato in una sola persona l’autore del gesto. E c’è di più: il vandalo è addirittura un africano di 31 anni. Partono, allora, gli sfottò social degli utenti che chiedono se “essendo stato appurato che l’artefice del gesto è un africano di 31 anni, si può considerare aggressione fascista?” ai quali l’Anpi addirittura replica, dando prova di non conoscere la misura del ridicolo: “Sarebbe interessante conoscere le motivazioni del gesto“.

Insomma, anziché ammettere di aver diffuso una fake, di essere stati vittima della loro stessa follia visionaria cronico-degenerativa, di correre a rettificare i post che immediatamente avevano sciorinato nel metaverso, i nipoti dei rossi protagonisti della nostra guerra civile preferiscono ipotizzare l’esistenza di una sorta di fascio africano. Altri fantasmi. A questo punto e stante questo livello, la cosa che davvero dovrebbe preoccupare (sempre loro) è proprio il numero crescente delle iscrizioni – che siano come le tessere farlocche del Pd? – che, è evidente, non ha una corrispondenza nella qualità di ciò che dicono, fanno, inventano.

Boom di iscritti all’Anpi? Utile a rinunciare ai soldi pubblici

Insomma, requisiti essenziali per entrare in quelle scuole “rette” da dirigenti scolastici come quella del Michelangiolo di Firenze e spacciare ancora verità comode a danno della storia vera, del libero pensiero, della conoscenza. Che è verità. Chissà, però, se almeno questa volta che sono così numerosi, avranno la dignità di costituirsi finalmente quale associazione autonoma e di rinunciare a un incomprensibile quanto ingiustificato contributo statale, vieppiù elargito stavolta da un governo “di destra” – che non è la giusta collocazione del fascismo, ma i loro monologhi senza contraddittori nemmeno permettono di capirlo – da avversare in ogni modo, nonostante l’atteggiamento dell’esecutivo sia sovente quello di (com)piacere a più non posso una certa sinistra. Niente di più, niente di meno della fine dei loro duri e puri compagni antifà anticapitalisti di Potere al Popolo di Napoli che fanno richiesta e ottengono ben 16 milioni di fondi del Pnrr per aggiustare la casetta (okkupata) ma con i soldi sottratti al popolo. Sarà vera gloria per questi partigiani nuovi di zecca? Ai kompagni l’amara sentenza.

https://www.ilprimatonazionale.it/politica/anpi-annuncia-boom-iscritti-ecco-ora-partigiani-rinuncino-soldi-pubblici-258402/

Guerriglia a Napoli: e se accadesse anche altrove e non solo per il calcio?

Roma, 17 mar – Le immagini di Napoli messa a ferro e fuoco sono di una rabbia indicibile e rischiano di esserlo non solo per il capoluogo campano. La guerriglia dei supporters tedeschi dell’Eintracht l’abbiamo vista tutti: attività commerciali distrutte, panico tra gli abitanti, terrore tra i turisti. Il giorno dopo è il giorno della conta dei danni e quello delle chiacchiere da bar. Più di qualcuno, che dopo due anni di chiusure folli per la pandemia e l’alluvione che solo qualche mese fa interessò il lungomare della città stava tentando di rialzarsi, dovrà ricominciare da capo ancora una volta, ma da nessuno in questa prima giornata si è sentito parlare di responsabilità. O, se vogliamo, di colpe. C’era della ruggine tra le due tifoserie? Alimentata dai gemellaggi del tifo delle due squadre? Il calcio giocato, in questo caso da giocare, c’entra ben poco. Gli scontri dei tifosi tedeschi sono avvenuti principalmente con le forze dell’ordine – se così ancora si possono chiamare – impiegate in numero esiguo e facenti funzione di meri accompagnatori. Ma anche loro, in realtà, hanno subìto il malumore generato dall’indegno “balletto del biglietto” ideato dai vertici delle istituzioni: trasferta vietata, anzi no, ammessa. Allora, escludiamo solo i tifosi tedeschi. Ma perché? Divieto solo per chi risiede a Francoforte, no?

Guerriglia a Napoli, un caos istituzionale

Il caos istituzionale ha generato la reazione dei tifosi esclusi, a cui è stato vietato l’accesso allo stadio, ma non alla città, quali figli di Schengen che non siamo altro. Quando, a volerla dire tutta, il posto più sicuro dove concentrare tutta quella gente era proprio lo stadio, il solo luogo dove li avresti potuti tenere fino a notte inoltrata, per poi organizzare un corretto deflusso, in piena sicurezza per la città, per i cittadini, per i turisti e per tutti quelli che, invece, hanno subìto tali divieti. Oltre che i danni. Davvero non era prevedibile una simile reazione? Davvero non ci sono state letture delle avvisaglie che tutti avevano pur già anticipato? Davvero nessuno è riuscito ad intercettare quella falange di tifosi giunti a Napoli, previa tappa a Bergamo?

Il coro unanime immediatamente levatosi è stato tutto un chiedere le dimissioni del Prefetto della città partenopea, del Questore e persino del Capo del Viminale che è un “tecnico” con un passato già da Prefetto di Roma e avrebbe dovuto essere il vero valore aggiunto nell’organizzazione dell’ordine pubblico. È possibile che ci sia stata solo colpa della disorganizzazione e dobbiamo abbeverarci alle varie fonti dell’errore, della disattenzione, della mancata ponderazione del pericolo e (fare finta di) credere che l’esperienza maturata stavolta abbia toppato? O, magari, si “ottimizzerà” tali eventi occorsi per approntare una nuova stretta, una nuova restrizione, magari parimenti (folle) a quella già paradossale in vigore al Maradona che prevede l’ingresso senza bandiere, senza tamburi, senza trombe, senza striscioni?

Sono queste le personalità deputate alle decisioni, questi protocolli elaborati dai “periti” di uno Stato ormai ridotto a mero participio, che soccombe sotto la minima minaccia di chiunque, senza la benché elementare dignità, così come dimostrato dal sindaco di Napoli Gaetano Manfredi che, a guerriglia ancora in atto, convocava l’ambasciatore di Germania in città e, in favore di microfoni e obiettivi, si sperticava per rilanciare parole vuote e retoriche di amicizia e collaborazione, anziché presentare il conto dei danni, far sentire la propria voce per il semplice e non scontato motivo che ci si trova in casa nostra.

Oltre il calcio

Oggi, anche la narrazione sta cambiando: colpa dei napoletani. Forse per evitare di pagare i danni ai napoletani. Danni da chiedere proprio tramite il diplomatico subito rassicurato a Palazzo San Giacomo. E stiamo parlando di un caso già annunciato e destinato a risolversi in quarantott’ore al massimo. E se, invece, dovessimo affrontare simili casi improvvisi? Pensiamo che la presenza di tifosi che hanno raggiunto Napoli per la partita è lo stesso numero di sbarchi di clandestini che, ormai, si registra in una sola giornata. Se le “risorse” che sbarcano ogni giorno, se quelle già sbarcate, se quelle che ormai bivaccano in ogni parte del territorio nazionale, o, peggio, se insieme decidessero di comportarsi come i tifosi tedeschi ieri a Napoli, si agirebbe nello stesso modo?

Con uno sparuto numero di agenti che, al massimo, riescono a fare salire tutti gratuitamente su un bus per poi accompagnarli in una delle tante strutture ricettive messe a loro disposizione (da noi, contribuenti passivi)? Con tanto di guanti bianchi verso i “diversamente italiani”, ma non disdegnando di sparare getti d’acqua ad altezza d’uomo e lacrimogeni su italiani contribuenti che chiedevano solo di continuare a svolgere il proprio lavoro, di potersi godere le bellezze di questa nazione, vestigia di quella Civiltà per eccellenza che incarniamo da secoli. Da sempre.

Non è cambiando il nome, ma formando altre menti e altre coscienze, magari nazionali, avendo rispetto di ciò che ci è stato gratuitamente dato in eredità e conquistato (non da noi) a colpi di sangue e di genio, con l’orgoglio – da riscoprire – di essere italiani che ci si incammina per risolvere questi problemi. Ma non oggi. Oggi il mainstream ha rispolverato un’altra puntata della serie con protagonista Matteo Messina Denaro che va in onda da trent’anni ormai, in questo Paese. Tanto per non parlare. E per parlare d’altro.

https://www.ilprimatonazionale.it/cronaca/guerriglia-a-napoli-e-se-accadesse-anche-altrove-e-non-solo-per-il-calcio-258172/

Claudio Anastasio e lo strano caso del manager “mussoliniano” dimissionario

CLAUDIO ANASTASIO Ð PRESIDENTE 3-I S.P.A

Roma, 15 mar – La notizia è ormai di dominio pubblico e non si può non accoglierla di primo acchito con una grassa risata: Claudio Anastasio, il presidente della 3-I, la partecipata che ingloba Inps, Inail e Istat, ha rimesso il suo incarico. Il manager scelto dal governo Meloni ha deciso di fare un passo indietro dopo che La Repubblica aveva pubblicato una mail dello stesso Anastasio indirizzata al CdA in cui riportava gran parte del discorso pronunciato da Benito Mussolini all’indomani dell’uccisione di Giacomo Matteotti. Unica e sola variante l’aver sostituito la parola “fascismo” con il nome della società che era stato chiamato a dirigere.

Claudio Anastasio e il coraggio delle idee

Così, mentre l’opinione pubblica si divide (anche) su questo tema, come se ce ne fosse ulteriormente bisogno, tra chi urla allo scandalo e chi ulteriormente si scinde tra scusanti di goliardia e accuse di megalomania, forse è il caso di porsi qualche domanda. In primis, se volessimo dare ascolto allo “scandalo” montato ad arte, verrebbe da chiedersi su quali basi vengono scelte certe personalità o, meglio, gli incarichi da attribuire loro. Ma soprattutto domandarsi cosa possa spingere a riportare fedelmente uno dei discorsi più conosciuti e studiati – anche dagli “anti” – pronunciati, stavolta a un CdA e non alla Nazione, da una personalità italiana che ancora oggi, quasi un secolo dopo, continua a dividere e che consente a Benito Mussolini “in persona” di continuare a vivere almeno quanto divide.

E ancora: se una persona ha delle idee e non è disposta a correre dei rischi per quella idea… perché avventurarsi per certe strade, salvo poi ritrattare e dimettersi? Pare che nessuno abbia, anche dopo, messo in discussione le competenze “tecniche” che hanno sicuramente portato alla nomina di Anastasio. Se si crede in un’idea, che sacrosanta non lo è certo meno perché è criticata da altri (magari avversari ai quali sempre più spesso si deve piacere), allora perché fare un passo indietro? Non è forse peggiore l’idea delle (auto)dimissioni, ammesso che esistano idee migliori di altre?

Con l’amore o con la forza?

Certo che tra reazioni che si sprecano, dall’evergreen “apologia di fascismo” (Picerno del Pd), all’”aspirante gerarca” (Frantoianni), e sterili quanto gratuiti tentativi di difesa “evidentemente crede di aver sbagliato” (Foti di FdI) – ma cosa avrebbe sbagliato, qualche citazione? – Anastasio stravolta ha fatto pure il lavoro dell’opposizione: si è infatti dimesso, anticipando e accontentando la minoranza che un giorno sì e l’altro pure chiede la testa di qualche componente dell’esecutivo. Silenzio dai big del governo, però, a questo punto, sarebbe utile, ai fini della paradossale vicenda, conoscere se le dimissioni siano state indotte “con l’amore, se possibile o con la forza, se necessario”, per dirla con… Anastasio.

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LA SCHLEIN TROMBA DE LUCA (padre e figlio!)

“Mi candiderò in eterno!” annunciava titanicamente durante i suoi gratuiti soliloqui in “regionevisione” solo qualche settimana fa il presidente Vincenzo De Luca. Lui che non accettava tetti massimi di ricandidabilità. Ed aveva già fatto persino l’accordo (e i conti senza l’oste): in campo il Governatore con il lanciafiamme aveva schierato tutti i suoi uomini – attivi e no, da Mario Casillo che “vale” 41mila voti a Loredana Raia con le sue 26789 preferenze, passando per Bruno Fiola (23mila voti circa) e fino al presidente del consiglio regionale Gennaro Oliviero, per non parlare degli “spenti” Lello Topo e Umberto Del Basso De Caro – per portare preferenze all’emiliano Stefano Bonaccini che, in visita a Napoli qualche giorno fa, aveva dato il suo placet al terzo mandato per Vicienzo.
Di parere nettamente antipodico, la Schlein che aveva immediatamente replicato al governatore emiliano, come riporta Il Mattino «Al mio competitor voglio chiedere una cosa molto seria: ho sentito che da parte sua c’è un’apertura al terzo mandato di De Luca. Mi chiedo se sia questa l’idea di rinnovamento di Bonaccini, perché abbiamo idee molto diverse. Nuovo gruppo dirigente e poi De Luca? Bene…».
La Schlein femminista, ecologista, sostenitrice delle politiche lgtbq+*, “progressista figlia di papà incarna, dall’alto della sua tripla cittadinanza”, tutte quelle caratteristiche che l’inquilino di Palazzo Santa Lucia aveva intravisto nei giovani concorrenti del Festival della Canzone italiana più politicizzato di sempre: “sciammanati, sfessati, sfrantumati”. In rigoroso ordine gerarchico. E ancora: “La cosa più incredibile è che pensano di essere moderni. No, sono degli imbecilli!” e, amaro scherzo del destino, sarà proprio lei che è come loro a decretare la vita o la morte (politica) del Governatore d’acciaio, la cacciata del despota dal suo regno, del tiranno dalla sua roccaforte.
Se il sistema Salerno, ben oleato con gli uomini giusti piazzati ai posti che contano, gli operanti miracoli della moltiplicazione delle tessere, i padrini della (loro) politica clientelare e le truppe cammellate al gran completo pronte ad eseguire l’ordine del padrone arroccato nel suo castello che li precettava per controllare le sezioni, (un po’ meno i gazebi), ha retto e funzionato eccetto che a Napoli, il trionfo della Elly potrebbe colpire doppio e tranciare le gambe – politicamente parlando – anche al più onorevole rampollo di casa De Luca, Pierino, alle strette dipendenze del concorrente sconfitto Bonaccini e per lui coordinatore delle iniziative politiche e del programma per il Mezzogiorno.
Il deluchismo stavolta ha toppato e ne è consapevole anche il capostipite fondatore, tanto che alla prima uscita pubblica dell’era Schlein in occasione del convegno “Sanità e autonomia differenziata” indetto dalla Uil, ha dribblato cronisti e telecamere – e non è da lui! – e si è chiuso in un eloquente mutismo. De Luca, però, assurto ormai alla caricatura de sé stesso, senz’altro potrebbe deliziarci con la sua eroica battaglia a suon di “perle” a difesa del feudo (c)ostruito e indirizzate alla pulzella elvetica. Ci sarebbe pure da ridere, se il lascito di De Luca non si concretizzasse nell’invivibilità più completa: dalla decimazione e dall’azzeramento del Servizio Sanitario, all’impossibilità di trovare un’occupazione e al conseguente inevitabile aumento della povertà, dal disastro del servizio di trasporti pubblico locale – da quello su gomma e quello su rotaie – all’emigrazione giovanile che è tornata ai tempi del dopoguerra, dall’impossibilità di mettere su famiglia sino all’urbanistica che, con la legge ad hoc varata a Ferragosto, va a favorire amici e compari della solita (e solida) congrega del mattone. Una Regione ferma, che non cresce e in cui non si può avere un futuro. Tutte sfide di cui il centrodestra regionale dovrà interpretare e farsi carico, inevitabilmente, se non si vorrà regalare di nuovo la Regione agli Elly campani, magari capeggiati da un resuscitato (senza meriti) de Magistris e stipati nei centri sociali che qualcuno in città si è attivato perché beneficino dei soldi (di tutti) del Pnrr per la ristrutturazione dell’ex complesso  carcerario okkupato di Materdei.
https://www.camposud.it/la-schlein-tromba-de-luca-padre-e-figlio/tony-fabrizio/