ISOLATA LA VARIANTE CAMPANA : SI CHIAMA DE LUC(R)A, MA PARE ESSERE POCO ATTIVA !

Ed eccoci di nuovo qua, cioè al punto di partenza. Ci risiamo: si chiude! Di nuovo! CAMPANIA ZONA ROSSA. Mobilità ridotta, pance vuote, bocche asciutte, fiato trattenuto, vita sospesa, uomo annullato.
Il bollettino incriminato parla chiaro: su 25327 tamponi effettuati sono 2842 i positivi di cui 215 sono gli asintomatici (non gli ospedalizzati), pari all’11,2 %. Su 5802000 abitanti, i morti sono 13 ovvero lo 0,22%. Questi sono i numeri della morte, snocciolati quotidianamente a mo’ di rosario. Gonfiati o no, sono quelli con i quali si tenta di ammazzare una regione già agonizzante, come del resto tutte le “omologhe” facenti parti di questa Nazione proiettata sempre più verso quelli che furono gli stati preunitari, perché a guardare l’indice RT campano si assiste addirittura ad una flessione (da mettere all’indice perché da zona gialla): da 1,4 a 0,9.
Mica si può dire che la gente è stata responsabile, responsabilmente è uscita e si è comportata in maniera consapevole determinando, così, una condotta certificata dai numeri? La colpa è della gente che è andata sul lungomare a respirare! E cosa importa se in Irpinia – dove si registrano più contagi che a Napoli – o nel Sannio – dove il reparto Covid pare essere nientemeno chiuso per mancanza di clienti, ops… pazienti – non c’è il mare: lì la gente ha avuto l’ardire di andare al ristorante per godere delle eccellenze gastronomiche locali e, di contro, le “vittime” hanno osato esercitare un diritto su cui si fonda questa demokratica repubblica che è quello di lavorare, ragion per cui questa “gentaglia” è colpevole e va punita!
Dunque, nell’intera regione più importante del Mezzogiorno d’Italia, contro il “vairus” sembrano non funzionare più nemmeno le strategie da sceriffo del governatore De Luca, scaricato prima e riciclato poi persino dal suo (?) partito e votato in maniera plebiscitaria da quelli che ieri ridevano alle sue macchiette da baraccone di terz’ordine e oggi osannano le chiusure a iosa, invocano il lockdown incondizionato e, mai ebbri, continuano a rendersi partecipi di sporchi e pericolosi giochi (e gioghi) di palazzo.
E, nel tentativo di indurre in riflessione, guai a dire che se siamo di nuovo a questo punto, ovvero alla situazione di partenza che è voce del verbo “non abbiamo risolto niente” – il che, dopo un anno e più, è più che grave – è perché le strategie da sceriffo, le minacce dell’Impanicato, il lanciafiamme, l’odio verso chi è solo colpevole di lavorare, di vivere o di portare a pisciare il cane non sono servite a nulla, se non a incartare promesse elettorali farcite da demagogia da (ri)elezione cui è ormai ridotta questa putrefacente e incartapecorita politica nostrana, sempre più cappio e tagliola per tutti.
Siamo seri: la zona rossa di oggi è diretta discendente dell’immobilismo e persino dell’incapacità di ieri, di ieri l’altro ed è solfa vecchia di dieci anni. Della decennale fame mai doma, dell’ingordigia… virale.
E vergognosamente (per noi), seppur senza vergogna da parte loro, non si dà ora né ancora conto dei moduli Covid arrivati in nottata, con tanto di parata in pompa magna, su camion dell’Esercito, in perfetto stile (e conseguente crisi di inferiorità) “bare di Bergamo”, per la regia di quel Generale oggi sostituto del supercommissario con poteri speciali Domenico Arcuri; non si dà conto della condizione in cui versano detti moduli Covid; del motivo per cui sono stati inaugurati più volte e non sono entrati in funzione mai; dei ventilatori d’importazione che non si sono mai potuti utilizzare per la mancata traduzione del libretto d’istruzioni; delle strategie per il contenimento che vanno dai diktat al lanciafiamme, dalle denigrazioni pure agli infanti sino alle privazioni per tutti; dei posti letto, o meglio, della dichiarazione dei posti letto in terapia intensiva aumentati, raddoppiati, decuplicati che manco l’Italia intera!
È solo uno sporco (e vano) tentativo di nascondere il lerciume sotto al tappeto, ma che continua a rimanere in casa.
Dunque, il pericolo si incontra nelle scuole le cui aperture sono appannaggio del Ministero, dei Presidi e dei Sindaci, ma non nel tragitto che per arrivare ad essa si compie: per cui meglio chiudere la scuola se non si è fatto nulla per potenziare o organizzare il trasporto pubblico locale dove si viaggia come carri bestiame. Archiviato come complottismo, manco a dirlo, ogni tentativo di interrogarsi sui motivi per cui, con scuole chiuse a vantaggio del surrogato deno-minato DAD, non si è lavorato già un anno fa sul “nuovo modo di viaggiare”: nome altisonante buono da sfruttare per la propaganda elettorale in cui il Governat(t)ore ha profuso ogni sforzo. Meglio chiudere i negozi oramai vuoti che espongono ormai inutilmente le raccomandazioni istituzionali di distanziarsi, igienizzarsi e di isolarsi. La beffa che si aggiunge al danno. Un santo(ne) protettore capace di miracoli come quello di moltiplicare le dosi di vaccino arrivate in Campania, terra franca grazie a Lui, in maniera non equa rispetto al resto di quell’Italia che ora conviene considerare una Nazione e vaccinare il 135% di quanto è possibile. Come? Ripartendo in sei la dose che era per cinque. E se lo dice lui che è commissario straordinario alla San(t)ità…
Ora che la gente (anche grazie a Dio e non a Lui!) non muore più, in qualche modo bisogna (de) “lucrare” e il principio cardine, come da manuale, sembra essere quello di indire la zona rossa che significa proventi, risorse, guadagno, soldi (altro che ristoro!), ma non certo per la plebaglia. E De Luca stavolta la standing ovation se la merita tutta: regione rossa prima della (sempre invisa) Lombardia che sta, purtroppo, messa peggio di noi, unica regione d’Italia in zona rossa. Almeno all’atto della proclamazione.
Insomma, si continua a scappare da un virus, ad evitarlo anziché curarlo. Forse, non conviene.
Rilevata, dunque, la variante campana: prendere tempo per perdere tempo, cambiare tutto affinché nulla cambi, ha da passà ‘a nuttata insomma.
Allora chiudiamo per salvare il Natale, chiudiamo per salvare il Carnevale, chiudiamo per salvare la Pasqua, chiudiamo per salvare l’estate, chiudiamo per salvare di nuovo il Natale, chiudiamo per salvare di nuovo il Carnevale, chiudiamo per salvare di nuovo la Pasqua, chiudiamo per salvare di nuovo l’estate, chiudiamo per salvare il prossimo anno, chiudiamo per salvare il prossimo decennio, chiudiamo fin quando non ci sarà più nulla da chiudere, più nulla da salvare.

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QUANDO UNO VALE UNO………..SI FINISCE PER NON VALERE NULLA!!

RIFLESSIONI AMARE SULLA PERDITA DI DUE SERVITORI DELLO STATO.

Dunque, l’etichetta prevede: tweet con tanto di metti-tu-il-nome-tra-parentesi perché, come da preparazione catodica assurta (e assurda) istituzionale, tra il non conoscere nemmeno il nome di chi si scrive – che per te lavora – e strafalcioni nei post sui social che ha sostituito la vecchia cara agorà, vale la prima risposta; cravatta d’ufficio, giacca d’ordinanza, scarpe fresche di sciuscià, se nuove ancora meglio, da sfoggiare sulla passerella all’uopo preparata; silenzio, purtroppo solo quello fuori ordinanza, faccia falsamente triste di rito e ordine di preparare il compitino farcito della retorica più squallida per questo “Servitore dello Stato” – anche se erano due, ma non pretendiamo che uno sappia pure contare – da leggere in Camera. Dei deputati della Repubblica.
L’Ambasciatore italiano in Congo e il suo Carabiniere non erano ancora stati sepolti che già Di Maio riferiva in Aula, più che altro si affrettava a dire per smentire che il diplomatico viaggiava su un convoglio di auto non blindate e che era in missione per conto dell’ONU. Con convoglio di due auto.
Missione per conto dell’ONU – chissà se il Ministro degli Esteri lo sa – vuol dire nel pieno esercizio delle sue funzioni, per conto della Repubblica Italiana e, ed essendo egli stesso il titolare della Farnesina, anche sotto la propria egida. Almeno sulle carte. Quelle carte con cui, stando al dossier pubblicato da Il Riformista, il nostro Attanasio aveva chiesto scorta e mezzi blindati già nel 2018 proprio perché cosciente di operare in uno dei posti più a rischio della faccia della Terra. Percorso da un centinaio di diverse bande armate, da un sedicente fronte di liberazione del Rwanda e da predatori di minerali, animali ed esseri umani di ogni risma, dove in cinque anni hanno perso la vita duecento dei settecento “Ranger” in servizio in quella Riserva Naturalistica ove anche i due nostri connazionali sono stati trucidati.
Evidentemente alla Farnesina ritengono sciaguratamente che se un convoglio può consistere in due sole auto con normale equipaggiamento, come quelle che usano tutti i comuni mortali  (eccetto certi politici) , per scorta può essere inteso anche un solo Carabiniere, con la sola pistola d’ordinanza, seppur perfettamente addestrato, ma pur sempre unico addetto alla sicurezza e alla sua prima missione operativa in Congo.
Solo che alla richiesta del “Servitore dello Stato” il governo Conte rispose picche, anzi, invece di provvedere immediatamente alla richiesta del diplomatico inviando un’auto con le caratteristiche richieste, magari usata, attingendo dal parco auto di Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza, pensò (male) di indire addirittura una gara d’appalto.
Ma l’italica burocrazia è nota a tutti  e la procedura di appalto è andata per le lunghe. E così l’auto blindata l’ Attanasio-servitore-dello-stato non l’ha mai neppure vista.
Apparirebbe persino lapalissiano che il governo, questo governo che non è tanto differente dal precedente, almeno per nomi e ripartizioni – nonché spartizioni – sia correo, se non il principale responsabile, di questo assassinio.
Ma forse nemmeno questo apparirebbe punto su cui riflettere, visto che in Parlamento è andata in scena la vergognosa lettura secondo cui i due “Servitori dello Stato” non potevano essere protetti dal Governo e dal ministro Di Maio tramite le sue decisioni, perché “erano troppo lontani dalla Capitale”. E quindi fuori dalla giurisdizione protettiva che lo stato assicura ai suoi diplomatici. Attanasio, dunque, è morto per il suo spericolato senso di consegnare le derrate alimentari ai bambini denutriti (si stava recando in una scuola elementare) e la sua avventata bramosia filantropica ha trascinato con sé anche il carabiniere Iacovacci e il loro autista Mustapha Milambo.
Eppure il nostro rappresentante  alla Farnesina, Giggino da Pomigliano, dovrebbe sapere bene cosa sia un convoglio: ricorderà quando si recò nella pacifica Svizzera, a Mendrisio, appena una decina di chilometri al di là del confine italiano, con un corteo-processione di ben undici  auto blu blindate, ottimamente equipaggiate. Ma ahinoi,  non ricordiamo la stesura di nessuno storico trattato sottoscritto nel Magnifico Borgo tra le Alpi svizzere.
Se essere “avanguardisti” appare difficile e, sic stantibus rebus, pure pericoloso, oggi che il MoVimento è passato dal Vaffa al “mi consenta”, che persino un capopartito con ruoli di alto profilo istituzionale come Casalino si dà al meretricio politico arrivando ad autocandidarsi per lavorare persino “sotto” Berlusconi, i 5 Stelle potranno fare appello all’esperienza del Cavaliere e far tesoro di quando egli stesso in prima persona chiese a Claudio Scajola, allora al Viminale, di rassegnare le dimissioni all’indomani dell’assassinio del giuslavorista Marco Biagi per mano delle Brigate Rosse.
Lo facciano capire pure a Giggino che non è bastato gridare “honestà honestà” per non finire nello stesso minestrone berlusconiano in salsa renziana. Che l’uno vale uno può andar bene nel MoVimento che non è il Governo dove ci si è bullonati alla cadrega per cui non è valso più nemmeno l’uno vale l’altro. E che le dimissioni di un Ministro evanescente e pertanto inutile, oltre che dannoso, sono la cosa minima che ci si aspetta. Perché  stavolta l’uno vale proprio niente!
https://www.camposud.it/2021/03/quando-uno-vale-uno-si-finisce-per-non-valere-nulla/

UN ENORME BUCO NERO: MA LA KYENGE?

Tra i tanti che immediatamente si sono imperticati la sera in tivvù a cui demandano la politica, ridotta ad una disonorevole ricerca del consenso per il voto – sarà per questo che non aprono cinema e teatro, perché sono aperte Camera e Senato? – manca lei, la Cecilie anti-Salvini, l’ex ministro per l’integrazione, la pdina dell’afroitalian power initiative che voleva accogliere tutti, la parlamentare della Repubblica italiana dello ius soli.
Lei africana della Repubblica Democratica del Congo non parla, nessuno la invita, forse tutti la tutelano. Eppure, sarebbe la vera ricchezza in questo momento, almeno per quelli che vorrebbero cercare di capire di più sulla tragica fine dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio e della sua scorta, il carabiniere scelto Vittorio Iacovacci, tragedia dai tanti interrogativi, molti dei quali di difficile risposta.
A partire dall’ONU: Nazione Unite da che cosa? Vi sembrano organizzate? Forse, solo nell’etichettare subito come “tentativo di rapina” il vile attacco. Un’imboscata. Sapete quale prezzo – perché l’Italia paga – avrebbe pagato l’Italia di Greta&Vanessa e di Silvia Romano? Forse non erano i soldi che gli servivano.
Soldi che, forse, ha preso il locale Governatore che non sapeva del convoglio (tre macchine? Meno di un Di Maio qualunque che andò solo a Mendrisio) e che le Nazione Unite dicono di aver comunicato. Ma se l’organizzazione ha dato conoscenza del tragitto visto la strada a rischio, perché non erano scortati?
Il viaggio che si snodava per duecento chilometri sarebbe durato due ore, ma l’attacco è avvenuto dopo un quarto d’ora di viaggio, a quindici chilometri. Praticamente vicino a casa.                         Non una forza di polizia a soccorrere il diplomatico e la sua scorta, ma solo delle buonanime di guardie di un locale parco chiuso per Covid. Non un colpo sulla carrozzeria della vettura, fuori bersaglio. Quasi una esecuzione. Da distanza ravvicinata.
L’ambasciatore non stava andando a conquistare, né a depredare oro e diamanti, ricchezze del sottosuolo che non vanno mai al popolo indigeno, l’ambasciatore stava andando ad assicurare mezzi di refezione scolastica, a fare del bene. Cibo. Acqua. Vita.
Banditi, ladri che non ti portano via nulla, se non la vita che ha un valore inestimabile, ma adesso non più un prezzo.
O forse un messaggio, uno schiaffo ottimale in quella faccia dell’Occidente mentre mostra il suo volto più pulito da parte dei suoi antagonisti: soldati dell’ISIS, che, seppur in numero esiguo, si difende bene, attaccando, in un Paese cattolico: la Repubblica democratica del Congo. Soldati dell’Isis, quelli “defecati” dalla democratica kHillary Clinton e foraggiati dal democratico Barack Hussein Obama e oggi, forse, as-soldati da un altro democratico come loro: Biden. Come già successo nel nord della Siria.
Altro che imboscata o incidente: questo è un vero e proprio attacco terroristico al mondo occidentale e all’Italia in particolare. Forse nello specifico. E sul quale piomberà il “solido” religioso silenzio. A partire da Ciccio sul trono di Pietro che ormai nemmeno parla più del Padreterno, ma solo di vaccini, di immigrati, di tutto tranne che di Dio, per finire al governo Draghi che esprime la sua prima nomina con il cambio al vertice dello Stato Maggiore dell’Esercito: in arrivo il generale bykers, ex addetto per l’Esercito presso l’ambasciata d’Italia a Washington dal 2007 al 2010, capo ufficio pianificazione, programmazione e bilancio dello Stato maggiore della Difesa, uno specialista, nel gergo militare definito “un finanziario” e che avrà, manco a dirlo, così come impartito dal ministro Guerini, un ruolo strategico nel piano nazionale vaccini, massima priorità per la Difesa. Mica la difesa dei confini, valicati da mezzo migliaio di migranti economici e risorse solo mentre Attanasio e Iacovacci venivano trucidati, mica la difesa della Patria, mica il bene per i figli che oggi in Congo sono liberi di essere scannati, mica una parola con l’ambasciatore congolese che indisturbato continua a condurre la sua bella vita nel Belpaese… non ultima proprio la Kyenge, usata, esaltata, osannata, intronata e rintronata, ma oggi non riciclabile nemmeno per combattere in casa propria. Per casa propria.

CHI È ALFREDO COVELLI?

Alfredo Covelli è un bonitese di 107 anni che da 23 anni riposa definitivamente a Bonito.
Non è stato il compaesano che ha portato in alto il nome di Bonito nelle Istituzioni, dalla Camera dei Deputati sino all’Europarlamento, ma il bonitese che da Bonito è partito e a Bonito è sempre ritornato.
Non è stato il bonitese che è arrivato ad affascinare addirittura re Umberto, ma l’Onorevole la cui porta dello studio di Bonito era aperta a tutti.
Non è stato il politico, il Padre Costituente, l’inventore del Partito monarchico Stella e Corona, l’Europarlamantare stimato persino dai suoi avversari politici, ma il compaesano che ha aiutato tanti bonitesi, di qualsiasi estrazione sociale e politica, a garantire il sostentamento alle proprie famiglie.
Non è stato il lavoratore instancabile, forgiatore del copioso archivio politico consultabile presso la Camera dei Deputati, ma quello che ha garantito diritti e giustizia a tanti bonitesi.
Non è stato l’Onorevole chiuso nel suo scranno di Destra Nazionale, ma l’uomo capace di guardare bene al di là di biechi schieramenti politici arrivando a “liberare” persino i suoi “buoni” avversari politici.
Alfredo Covelli non è il più illustre bonitese, quello utile da rispolverare nei comizi dal candidato di turno, ma il concittadino condannato al ripudio e all’oblio, l’uomo da sprofondare nel baratro del dimenticato da ogni primo cittadino che “si rispetti”
È onore e vanto di Bonito e di quei Bonitesi che, ancora dopo un quarto di secolo dalla sua scomparsa, sono stati capaci di non intitolargli una piazza, il corso, una via, un vico, uno spiazzo, il Concittadino che vivrà in eterno nel ricordo di quelli che hanno radici profonde che non gelano mai!

 

“Campo Sud” celebra con questo toccante articolo di apertura di Tony Fabrizio, la “Giornata del Ricordo” dei martiri delle foibe e dell’esodo italiano dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia.

Un volto e una testimonianza dell’esodo Istriano: Il Professor Claudio Antonelli.

Esistono degli “inghiottitoi” carsici (caverne con caratteristiche di pozzi profondi verticali), capaci di fagocitare migliaia di persone: sono le foibe. E ne esistono altri, capaci di nascondere la verità di ciò che avvenne durante la pulizia etnica compiuta dagli Slavo-comunisti nelle terre italiane del Nord-Est divenute poi jugoslave, durante e subito dopo l’ultima guerra mondiale. Questi ultimi inghiottitoi sono sempre in attività e raddoppiano di zelo in occasione del 10 febbraio, consacrato al Ricordo di quei giorni infami.
Ma essa smentisce la fiaba del lieto fine dell’ultima guerra mondiale con la Liberazione e la Democrazia e il “da allora vivemmo felici e contenti”. In realtà noi perdemmo una piccola ma preziosa parte dell’Italia, popolata di veri Italiani. Ma cosa volete, nonostante il “rompete le righe” che il crollo del Muro lanciò ai militanti dell’ideologia marxista e alle nutrite schiere dei suoi utili idioti, il conformismo e lo spirito antinazionale continuano a dominare nel Bel Paese.
Io ho potuto rivolgermi al prof. Claudio Antonelli (in origine il cognome era Antonaz), istriano di Pisino, dal profondo amor patrio, che oggi vive in Canada. Figlio di genitori rimasti per sempre fedeli alle terre perdute, i suoi  gli hanno trasmesso – mi ha detto – un esempio prezioso d’italianità vissuta nei fatti e non nelle parole. Ossia un esempio di patriottismo nobile, alieno da ogni retorica e che rispetta i patriottismi altrui – come l’amore per la  propria mamma dovrebbe far capire che anche gli altri amano la loro madre – ed è fonte di civismo, di responsabilità sociale, di autodisciplina e, quando necessario, di abnegazione. Questo paragone gli viene ogni volta spontaneo, mi ha detto Claudio Antonelli, per spiegare le cose ai mammisti italiani. L’estero ha messo alla prova, confermandoli però pienamente, questi suoi valori di partenza. Il dott. (PhD) Antonelli, sia pur giovanissimo a quei tempi, ha vissuto in prima persona la condizione di esule.
Osservatore attento e appassionato dei legami che intercorrono tra la terra di appartenenza e l’identità dell’individuo e dei gruppi e che ha scritto articoli e svariati libri su questo tema, purtroppo ancor oggi divisivo. Il dottor Antonelli è stato insignito nel 2003 dal Presidente della Repubblica del titolo di “Cavaliere dell’Ordine della Stella della solidarietà italiana”, per aver “svolto negli anni una costante azione di sostegno alla lingua e alla cultura italiana nel Québec”. Nel 2010 ha ottenuto il premio “Histria-Terra” con la seguente motivazione: “Noto divulgatore della cultura e della storia delle terre e delle genti d’Istria, per l’impegno costante ed indefesso, profuso nel difendere la verità storica anche in terre lontane, risiedendo egli stesso in Canada”.
La sua condizione prima di profugo poi di emigrato ha forgiato il suo carattere, la sua personalità, il suo essere, tanto quanto ha influito l’esempio dei suoi genitori, l’esempio della loro coerenza, del loro coraggio e della profondità dei loro sentimenti per l’amor patrio, alla cui base ci sono le foibe, l’odio tribale slavo, la sconfitta dell’Italia, la tragedia dell’esodo, lo sradicamento, i campi profughi, la dispersione di questa gente, della “nostra” gente, l’eterno rimpianto dell’Istria, il lutto per l’onore perduto e il senso di nausea per il conformismo antipatriottico e il filocomunismo come le cause dirette dei sentimenti di tutta una vita.
Essere profugo giuliano era essere “fascista”, era essere traditore, era sufficiente per essere condannato come colpevole in quella Italia buona e giusta che espresse il terrorismo delle Brigate Rosse e il diffusissimo fenomeno radical chic che esaltava la Jugoslavia di Tito, la Cina di Mao e la Cambogia di Pol Pot.
“Fascisti, ossia esseri subumani meritevoli di morte, di una morte inflitta dopo terrore e torture è l’etichetta giustificatrice della logica della raccolta differenziata, invalsa per tanti anni negli ambienti che contano in Italia e che surrettiziamente continua, con i morti italiani delle terre del confine orientale. Automaticamente e criminosamente considerati fascisti e sversati nella discarica dell’oblio e addirittura dell’odio. Per oltre mezzo secolo, scarsi o addirittura nulli i segni di simpatia verso questa gente etichettata fascista dalla sinistra e considerata mezza slava dagli Italiani, i quali, governo in testa, da buoni “sconfitti” e, da diligenti esterofili, hanno adottato i nomi slavi per località la cui toponomastica per secoli è stata italiana”.
Sono gli anni del bacio da parte di Sandro Pertini, il presidente più amato dagli Italiani, al catafalco di Tito avvolto nella bandiera jugoslava, lo stesso che non si degnò di deporre un fiore sulla foiba di Basovizza. Ma che anni prima commemorò con accenti commossi il suo Stalin: «Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto. Siamo costernati dinanzi a questa morte per il vuoto che Giuseppe Stalin lascia nel suo popolo e nella umanità intera».
Sono gli anni in cui l’Unità scriveva “Ancora si parla di profughi: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o che coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori”. Sono le stesse belve che oggi predicano accoglienza urbi et orbi fornendo spazio, vitto, alloggio e trasporto ai nuovi profughi, anche a quelli così chiamati, ma che non fuggono da nessuna guerra. Una libertà incomprensibile per quasi mezzo milione di persone, una libertà che ha il sapore del sangue e della carne viva bucata dal filo spinato, dello scherno e dello stupro, della morte con un colpo alla nuca o dell’inghiottimento da vivo nella foiba trascinati dal parente o dall’amico ancora caldo di morte, della fuga infinita e dal dolore, della paura dello scoppio del cuore in petto che impedisce di tornare, anche decenni dopo, nella propria terra, in Patria, laddove c’era la propria casa, oggi occupata da stranieri.
“Casa”, però, trovata a Napoli dalla famiglia Antonelli, al campo profughi di Capodimonte: “Mia madre, il giorno dopo che la mia famiglia vi si fu installata, si recò in un mercatino, all’esterno del muro di cinta, a fare qualche spesetta. Non ricordo più se il luogo fosse “Porta Piccola” o invece fosse “Porta Grande”. Comprò qualcosa a una bancarella – penso fosse della farina o forse era qualcos’altro – e al momento di pagare tirò fuori il denaro che aveva: una banconota. Era di mattina presto e la donna della bancarella non aveva il resto. Mia madre subito ripose il pacchetto, convinta di dover fare così. Noi eravamo reduci dal centro di raccolta Foscarini di Venezia, dove i veneziani – i miei genitori lo ripetevano con fastidio e amarezza – avevano la tendenza a trattarci come indesiderabili. Ma la donna chiese dove mia madre abitasse e seppe che era una profuga. Del resto, l’accento glielo aveva già fatto capire. Nel bosco di Capodimonte, lì accanto, lei sapeva che vi era una nutrita colonia di profughi giuliano-dalmati.  Nel vedere che mia madre, contrita, riponeva il pacchetto, la venditrice disse sorpresa: “Che fate signora? Prendete, prendete! Non ci pensate! Pagherete quando ripasserete!”
Mia madre raccontò l’episodio innumerevoli volte. E sempre con animo riconoscente. Ed è anche per questo piccolo avvenimento, che significò tanto per noi, come anche per altri episodi simili da me vissuti a Napoli, che io sono rimasto sempre fedele nel cuore a questa città, dove noi profughi fummo in genere accolti con umanità e simpatia”.
Umanità sconosciuta nei confronti di una ricorrenza ormai fissata: “io, originario dell’Istria, non provo più il senso di speranza che il Giorno del Ricordo aveva suscitato in me agli inizi. Mi appare ormai chiaro
che l’Italia non farà mai sua la tragedia della sconfitta e della guerra civile e della perdita delle nostre amate terre. Provo anche fastidio e disagio per le polemiche che questa ricorrenza rinfocolerà, con gli immancabili gesti di protesta e anche di vandalismo a danno di targhe e iscrizioni commemoranti il martirio della nostra gente. Inoltre, in un Paese dove ciò che conta è “portare avanti il discorso”, il Giorno del Ricordo sfiora ogni volta il pericolo di trasformare la nostra passata tragedia in un tema da talk show. E oltre a riattizzare nella penisola gli abituali odi civili antitaliani, le nostre commemorazioni suscitano ringhi e latrati oltreconfine: in Slovenia e in Croazia, dove – incredibile a dirsi – credono che gli Italiani siano capaci di nutrire sentimenti di riconquista e di rivincita. In realtà “il passato è passato” e noi esuli non sogneremmo riconquiste territoriali neppure con la mente obnubilata dall’alcol. Dove sono gli estremisti giuliano-dalmati? Quali episodi di violenza abbiamo noi espresso? Il bilancio è zero. Nonostante ciò, noi, esuli o figli di esuli, dobbiamo difenderci da accuse, tacite e talvolta urlate. Cari italiani, continuate ad essere voi stessi, con le vostre beghe, la vostra rissosità permanente, i vostri odi civili… Nessuno vi chiederà l’impossibile: smentire per più di un solo giorno il vostro DNA.  Ma qualcosa, dopotutto, è cambiato dopo il lungo silenzio, grazie anche alla medaglia d’oro alla memoria per i nostri morti istituita da Menia, e grazie ai libri, film e testimonianze. Il dramma del nostro popolo e delle sue foibe non è più un tema tabu. Ma il “Giorno del Ricordo” dà ogni volta, purtroppo, anche la stura alla canea dei negazionisti e dei giustificazionisti che monteranno in cattedra con i loro “Sì, però, anche noi…”, “Sì, però bisogna capire…” e presenteranno la contabilità dei morti, con le due colonne “dare” e “avere” ben in evidenza, e con il giudizio finale: “Tutto va ricondotto al fascismo…”. Invece di dover rispondere delle atroci nefandezze del comunismo e dei suoi gulag, inclusa la croata “Isola Calva” (Goli Otok), negazionisti e giustificazionisti continueranno ad accusare i nostri morti dall’alto di una cattedra che spetta loro di diritto in un’Italia dove, tra le élite della nostra Nazione, orfane di Stalin, di Togliatti, di Tito e di Pertini, trionfa e trionferà sempre un certo spirito antitaliano”.
Lo spirito antitaliano mai guarito e mai domo dove si vede Fascismo ovunque e dove non si capisce come mai un insulto come quello titolato da Eric Gobetti finisce addirittura in stampa: “E allora le Foibe?” è l’ultima “fatica letteraria” edita da La Terza, in uscita (non) casualmente in concomitanza con il Giorno del Ricordo e che stando alla lettura della sinossi e alla foto del Gobetti con tanto di pugno chiuso, fazzoletto rosso e bandiera titina alle spalle non offrirà certo una narrazione (?) obiettiva e scevra da direzioni a senso unico.
Sui resti delle sventurate vittime di una delle tante foibe, si trova una testimonianza nel fresco di stampa «Terronia Felix» dell’amica saggista Marina Salvadore, napoletana figlia di esuli, la quale racconta il viaggio compiuto da bambina insieme con la madre nel cimitero di Pola e l’orripilante scoperta dei «morti senza croce». Marina ci dice nel suo libro che in cima agli orrendi paletti la stella rossa aveva preso il posto delle croci, degli angeli, e di qualsiasi altro simbolo, con “fosse rubate” ed occupate da altri morti. Esuli persino del riposo eterno, restituito in qualche modo dal tratto umano, cristiano, del custode del cimitero, il buon Dussan, amico di famiglia, della cara Marina.
D’altronde questo è ancora il paese della Liliana Segrè incensata ed osannata, innalzata ai troni di senatrice a vita e di Egea Haffner, la bambina con valigia numero 30001 che non vuole essere strumentalizzata, nonostante sia autentica e inestimabile fonte diretta della sciagura nazionale, come il nostro Antonelli, un accademico che ha solo “ben ha rappresentato l’Italia all’estero”.
Chissà quando avremo un Presidente della Repubblica “normale” da potersi ricordare anche di questi “figliastri” d’Italia.
Voglio concludere con queste parole di Claudio Antonelli:
«Con il disfacimento nel sangue della Jugoslavia (1991), i nostri vicini dell’Est hanno avuto modo di riproporre alle platee mondiali le specialità balcaniche delle carneficine e delle fosse comuni. Con i riflettori dei mass media puntati questa volta su di loro, e non nel silenzio e nell’indifferenza come fu invece per noi. Ma nella patria degli odi civili, la logica binaria del campo di calcio è incisa nel Dna nazionale. E i custodi della verità ufficiale dell’“Italia nata dalla Resistenza” scendono ogni volta in campo contro la squadra avversaria, composta di gente che non prova altro che un normale sentimento di amor patrio e vuole ricordare i propri morti e onorare i padri. Gente pacifica, che non ha mai espresso atti di violenza e che non nutre sogni di riconquista, e rispetta la dignità dei suoi avversari ex Jugoslavi e sa che nelle foibe di Tito finì un numero tragicamente alto di Slavi anticomunisti (vedi: “Slovenia. Anche noi siamo morti per la Patria”). Ascoltiamo i testimoni rimasti, il cui numero si assottiglia… Immaginate cosa si racconterebbe di noi in Italia se non ci fossero state le testimonianze di personaggi celebri come Benvenuti, Endrigo, Andretti, Luxardo, Pamich, Missoni… e se non ci fosse un gran numero di scritti di altri testimoni diretti di quei giorni infami. Vorrei infine rivolgere ai tanti nostri morti, uccisi perché Italiani, le struggenti parole finali dell’elegia che Biagio Marin, cantore dell’Istria e delle terre perdute, dedicò a Pola:
“E Pola gera sola/co’ case svode in pianto;/la sova zente intanto/xe sénere che svola. = E Pola era sola/con le case vuote in pianto;/la sua gente intanto / è cenere che vola.

BRUNO CONTRADA: PUNTATA N DI UNA SAGA INFINITA

Mezzo milione di euro può essere il prezzo della condanna di una vita. 500 mila euro è il taglio alla sanità nella finanziaria “pandemica” dell’attuale governo, 667 mila euro la condanna per l’annullamento di una condanna ad un servitore dello stato. Uno strano caso di giustizia (s)Contrada o, meglio, di una ingiustizia contratta che arriva come una bomba ad orologeria… tanto attesa.
In una Italia che nella stessa giornata ci consegna l’ennesimo (presunto?) caso di “correlazione” tra mafia e politica, in questa Italia dove se tradisci il mandato elettorale da parte di chi ha ritenuto darti fiducia passi per “responsabile”, per “costruttore” e non per traditore, come può trovare giustizia il giuramento di un Servitore dello stato che conta meno, niente, rispetto a quello dell’antistato, del deep-state di questa re-pub(bl)ica dei collaboratori di giustizia, dala giustizia lontani anni luce e che la in-seguiranno solo per interesse. Assicurato. Garantito. Promesso. Per legge.
Quell’Italia condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per aver ingiustamente perseguito, condannato e imprigionato un Uomo che ha fatto solo il proprio dovere, il proprio lavoro e che non si è prestato a fare quello che non gli apparteneva.
L’Italia dove ha perso la giustizia e dove oggi l’ennesima “procura feudale”, già servita ma ormai serva, chiede di riesaminare un processo che già aveva avuto una soluzione. Un’assoluzione. Anzi, un annullamento. Ebbene sì, perché il casellario giudiziale del dr. Bruno Contrada ex dirigente generale della Polizia di Stato, numero tre del Sisde, capo della Mobile di Palermo, capo della sezione siciliana della Criminalpol, medaglia d’oro al merito di servizio (20 anni), croce di anzianità di servizio della Polizia di stato (35 anni), è immacolato. Candido. Pulito. Ma la croce più grande gli è stata consegnata – sperando possa essere l’ultima e non per un mero fatto di età anagrafica – da quello stato che ha servito fedelmente per una vita, da quando era bersagliere fino ad ufficiale di Polizia, e che oggi lo ripaga impedendogli di prendere quanto altri hanno deciso gli spettasse per l’ingiusta condanna subita, patita e, tuttavia, onorata. Come se una cifra in danaro, qualunque essa sia, possa ripagarlo dell’onore macchiato, dell’onta affibiatagli, della carriera annientata, della salute persa, degli affetti rovinati, della vita distrutta.
Un accanimento che ormai ha il sapore della storia infinita, del gusto amaro e velenoso del male, della soddisfazione di chi può solo prendere tempo per perdere tempo, della crudeltà di non vedere Bruno Contrada finalmente riabilitato nella sua Italia, dove le sentenze vanno rispettate proprio come Egli ne è stato esempio arrivando ad essere l’unico “ospite” di una patria galera aperta appositamente per lui, ma non quando queste assolvono.
La Patria Italia per la quale ha pure sofferto nel vederla condannata da un Tribunale superiore, forse supremo, che pure gli rendeva finalmente giustizia a danno della sua Nazione che ormai sforna figli irrispettosi, capaci di avallare persino chi esegue meccanicamente una selezione naturale di persone, meglio se anziane, nei luoghi di cura (di)mostrando palesemente che la vecchiaia, una volta saggezza e valore, conta poco, perciò nulla.
Bruno Contrada è un giovanotto quasi novantenne, un quasi cieco che ancora ci vede benissimo, una mente lucidissima imprigionata in un corpo che rende giustizia solo alle pene inflittegli, un nonno-esempio di un’umiltà semplice e disarmante che, evidentemente, continua a far paura a chi ancora deve avere paura. Che nessuna cifra in denaro potrà mai rendere paga.

SINFONIA DELLA FELICITÀ: MA MARADONA NE SAREBBE FELICE?

E basta! Diego Armando Maradona è morto e va lasciato riposare in pace. Il D10S del calcio, immortale per ogni tifoso e per i napoletani in particolar modo, ormai appartiene alla morte e – per dirla con un altro napoletano doc – in quanto tale, appartiene alla “categoria” delle persone serie.
Chi non è serio sono i viventi, gli speculatori che riescono a rendersi protagonisti di un (dis)livello vergognoso – evidentemente non per costoro – e che non disdegnano uno sfruttamento fino all’osso. Persino post mortem.
Il silenzio interessato del presidente De Luca sui festeggiamenti per la vittoria della Coppa Italia in piena pandemia, replicato e seguito a ruota dal sindaco de Magistris in occasione degli assembramenti per commemorare la dipartita del campione argentino in ogni dove in città, da Forcella ai Quartieri Spagnoli, dal Bronx allo stadio a lui immediatamente intitolato, sono stati il banco di prova, la prova del nove per accaparrarsi un poco di consensi, per cui, assodato che il calcio è un ottimo cavallo – ciuccio nella specificità topica – di battaglia, perché non (continuare a) cavalcare il “ciuccio” per essere un poco più “popolari”? E pure per farsi un poco di pubblicità in vista delle imminenti elezioni.
Dunque, se Giggino si inventa la dedica allo stadio, Vicienzo gli intitola la fermata dell’EAV con tanto di murales su cui è meglio non soffermarci.
Ma siccome ‘o Sinneco ha deciso di cambiare incarico e pure regione, quale migliore ereditiera dell’assessore alla cultura Eleonora De Majo per la “politica della bandana”?
L’assessora ex (?) centro sociale Insurgencia, paladina della Napoli violenta (da qui anche il titolo del libro del Sindaco-magistrato: sarà un caso?) che non disdegna di partecipare ai cortei contro la Polizia di Stato unitamente al compagno, assessore alla III Municipalità, seguiti alle aggressioni a danno delle Forze dell’Ordine in piazza Bellini la scorsa estate, “riesuma” ancora il Pibe de Oro e partorisce la “geni(t)alissima” pro-posta: chiamalo pure “crowdfunding per il monumento al D10S”, ma alla fine è la colletta per la statua!
Sul sito istituzionale del Comune di Napoli è già stata lanciata la ricerca di proposta per la realizzazione di un’opera artistica in memoria di Diego Armando Maradona da collocare all’esterno dello stadio, un’altra – sempre a detta della De Majo – dovrebbe essere collocata a piazzale Tecchio che dovrebbe addirittura riconvertire il nome proprio in favore del campione argentino.
La statua “vincitrice” sarà scelta da una commissione giudicatrice composta da personalità dello sport e della cultura e sarà finanziata attraverso un crowdfunding, “affinché si rispetti la proprietà collettiva, cioè del popolo napoletano”.
Che è dire che il popolo napoletano mette i soldi e lei/loro sceglierà/sceglieranno la statua. Per loro.
Senza pensare, poi – o prima – a come si sentirebbe l’artista ad essere pagato con la colletta!
A volerla dire tutta, una statua, dal pregevole valore artistico ed estetico, è già esistente e l’ha creata l’artista napoletano Domenico Sepe che ha immaginato Dieguito come un dio greco, ma… evidentemente non basta.
Così come, a conoscere il bilancio comunale, forse non bastano i soldi, nemmeno per una statua! Ma de Magistris e i suoi, quali dei 41 rimpasti e quali di quelli rimasti non si sa, sarà ricordato (anche) per i suoi eventi “magistrali”: uno su tutto i concerti in streaming costati ben 300 mila euro. Eventi che hanno prodotto molta visibilità e niente più.
Davvero Napoli, lo sport e la cultura hanno bisogno di tutto questo o la statua è il segno più evidente del loro immobilismo? La colletta, ops crowdfunding, non è forse l’immagine di questa amministrazione che non ha i soldi nemmeno per onorare la memoria storica? Che è un po’ come il messaggio politichese diffuso dall’”impanicato” presidente De Luca, contagiato dalle sue stesse fobie riversate nella gestione della cosa pubblica: correre a vaccinarsi per poi dare l’esempio. Eppure, Napoli è la città addò nisciuno è fesso!
Questa trovata fa parte addirittura di un progetto opportun(istic)amente orchestrato e che risponde all’esplicativo nome di “Sinfonia di felicità” che porta a puntare – e a rimpinguare – il rilancio del turismo facendo leva proprio sul tema “Napoli e Diego”.
Ma Diego sarebbe felice di tutto questo teatrino? Chissà cosa direbbe il numero 10 di tutto questo mercimonio sulle sue spalle. Proprio lui che era abituato a dare non a ricevere, che è rimasto povero e umile seppur milionario, che continua ad essere amato dalla gente semplice perché rispecchiava uno di loro.
Napoli e soprattutto i napoletani hanno davvero bisogno di pagarsi una statua per onorarlo? Per ricordarsi di lui? Per raccontare ciò che qui ha significato? Qui che prima che altrove la gente è scesa per strada per rivendicare pane e lavoro? Nella Napoli che in questo triste momenti i cinesi vogliono comprare a pezzi? Quella Napoli capace di amare e di accogliere i profughi istriano-dalmati già ai tempi dei campi IRO e che questa amministrazione sente la necessità di sottolinearlo con un’altra installazione “Nessuno escluso”. Quella Napoli che proprio i “primi” riescono a non amare. Questo è il loro modo di essere napoletani?
Diego, perdonali, se puoi!

https://www.camposud.it/2021/01/sinfonia-della-felicita-ma-maradona-ne-sarebbe-felice/

De Magistris: quale eredità?

Cosa resterà di questi dieci anni di de Magistris? Il bilancio “pezzotto” e “salva-poltrone” approvato con l’ausilio di quella parte che è stata mandata in Consiglio per opporsi alla gestione del DeMa? Gli undici rimpasti o i pochi rimasti? I trentasei assessori cambiati? I quattro vice che si sono avvicendati? I quaranta collaboratori che sono stati sostituiti? I silenzi sulle aggressioni alle Forze dell’Ordine perpetrati da appartenenti al consiglio comunale o le beghe in mondovisione con l’inquilino di palazzo Santa Lucia? Forse lo schierarsi con i centri sociali quando questi tentarono di impedire al senatore Matteo Salvini l’ingresso alla sede del quotidiano Il Mattino? Le camminate in notturna nella monnezza o la fallimentare gestione dell’ANM, partecipata dal Comune? Una gestione “immobile” del “trasporto settembrino” che ha acuito la situazione già tragica del Covid e che ha anticipato solo di qualche mese le continue chiusure delle scuole per allerta meteo: vento che abbate gli alberi, pioggia che si abbatte su Napoli trasformandola in una “sudicia” Venezia, delinquenza e illegalità diffusa, anche tra i giovanissimi che diventano, a torto a ragione, vittime ingiuste; multinazionali, relativi indotti e semplici piccole attività che chiudono, spesso per sempre,  e se non chiudono delocalizzano lasciando ai locali impiegati un pugno di mosche in mano. Qualche volta, anche una canzone e… tutti belli ciao, ciao ciao.
Solo qualche giorno fa in città è andata in scena l’ennesima doppia protesta di lavoratori ormai ridotti sul lastrico: da una parte i ristoratori che hanno aderito all’iniziativa di protesta “ioapro”, costretti a star chiusi dagli ormai famigerati DPCM da quasi un anno e dall’altra i disoccupati che si sono riuniti in corteo in piazza Matteotti per passare davanti alla Città Metropolitana, fino ad arrivare al Comune dove è stato esposto lo striscione “Recovery Clan”, evidente segno di protesta della “guerra” scatenatasi tra i governanti per spartirsi i miliardi del recovery fund stanziati per l’epidemia da Covid, mentre a nessuno dei litiganti sembra minimamente interessare degli ottantamila e più morti, dei milioni di uomini e donne disperati per mancanza di lavoro.
Chissà se questa gente è stata notata dal Primo Cittadino, magari quando si affaccia al balcone di Palazzo per volgere lo sguardo ovunque, eccetto che a Napoli, oppure la sua vista è orientata – e appannata – dal sostenere l’Azerbaigian con mozioni in Consiglio – nella stessa seduta anche una per l’udinese Giulio Regeni – mentre si dimenticano lavoratori come quelli della Whirlpool di Napoli Est, a danno dei quali si è consumata una doppia sciagura, locale e nazionale i cui “autori” sono anche e soprattutto i politici del posto.
Alla lista degli “invisibili” si aggiungono gli ex occupati presso la MeridBulloni di Castellammare di Stabia che rischiano di rimanere a casa con le loro ottanta famiglie. Né pare ci siano state mosse da parte dei locali amministratori nei confronti del gruppo Visconti che sembrerebbe essere un possibile acquirente dell’industria stabiese.
Eppure il DeMa in questo decennio ha ampiamente dimostrato di saper togliere i giovani dalla strada e aprire loro nientemeno che le porte di Palazzo San Giacomo: dopo la nomina della pasionaria del centro sociale Insurgencia Eleonora De Majo ad assessore alla Cultura, dopo aver precettato l’attivista (e arrivista) di Libera Alessandra Clemente, tanto da essere il delfino del primo cittadino, colei che dovrà continuare la rivoluzione arancione a palazzo, a sei mesi dalla scadenza del secondo mandato targato DeMa, un nuovo innesto strizza l’occhio al mondo dei centri sociali, degli antagonisti, quelli che erano “fieri di non votare”: dentro anche il duro e puro Giovanni Piscopo, “scissionista” dell’ala più moderata e del centro sociale “zero81” e disposta al dialogo con il Sindaco arancione, recentemente nominato assessore alle politiche del Lavoro, delega buona ormai solo per fare i pacchi (nel senso che l’imminente trasloco per fine mandato non garantisce di potersi esprimere al meglio) e malvista nel mondo del lavoro vero, quello dei sindacati -CGIL, CISL e UIL su tutti – a cui non è piaciuta la sostituzione del navigato Enrico Panini in cui proprio le maggiori sigle del settore avevano trovato il vero e unico interlocutore col fatato mondo di de Magistris.
D’altronde il Sindaco con la bandana lo aveva già detto che lui “sta con i centri sociali” e il percorso tracciato porta in quella direzione, come ha fatto notare anche il politologo dell’Università Federico II Mauro Calise “Napoli è una città dove l’opposizione è scomparsa: il Pd non conta più nulla, la destra non è maggioranza da quasi trent’anni, il M5S è stato completamente assorbito da de Magistris. Ecco perché la sua base elettorale, che non è numerosissima, gli consente in ogni caso di vincere le elezioni”.
Dieci anni dopo, quale eredità? Passare dalla bandana in fronte alle pezze al c…https://www.camposud.it/2021/01/de-magistris-quale-eredita/

Il Sindaco “pasionario” di una città in ginocchio che si occupa della crisi tra Armenia e Azerbaigian!!

Anno nuovo, politici vecchi. E politica ancor più vecchia che trova elementi “dissuasivi” e fuorvianti, per nascondere le proprie magagne e i fallimenti.
Palazzo San Giacomo si tinge sempre più di vergogna. Pur essendo, la vergogna, un sentimento per troppi motivi sconosciuto agli attuali occupanti del Palazzo.
Il primo Consiglio comunale del nuovo anno della città metropolitana vede presentata dal consigliere Solombrino e, (manco a dirlo!) approvata, una mozione con la quale si chiede alle autorità italiane di attivarsi per chiedere rispetto dell’integrità territoriale dell’Azerbaijan, fortemente “minacciata” dalla confinante Armenia.
Forse dimentichi – e speriamo non ignoranti – che i motivi del conflitto azero-armeno hanno più di un secolo e affondano le radici nella Russia di Stalin quando, il buon “Baffone”, allora Commissario delle Nazionalità, insieme al Partito Bolscevico del Caucaso, prese l’importante (per l’Unione Sovietica) decisione di annetterla all’Azerbaigian sulla base del fatto che sarebbe stato economicamente vantaggioso per la regione. Ma questo era in realtà solo un meschino pretesto. La vera ragione, piuttosto, era tenere Yerevan e Baku (rispettivamente le capitali dell’Armenia e dell’Azerbaigian) sotto il diretto di controllo di Mosca.
Chissà se gli attuali amministratori cittadini ignorano ugualmente che la Napoli che loro “amminestrano” è conosciuta nel mondo intero anche per una stradina dedicata proprio all’Armeno San Gregorio.
Un conflitto, quello azero-armeno, che è stato anche teatro dei genocidi. Il prezzo della solidarietà allo stato del Karabak che, come l’Armenia, ha respinto l’offensiva dell’Azerbaijan che, ostinatamente, tenta di recuperare la propria integrità territoriale risalente ai tempi pre-sovietici.
Di fatto una guerra “istigata” da altre due superpotenze, la Turchia – attivissima nel conflitto – che sostiene l’Azerbaijan e la Russia – più neutrale – schierata a favore dell’Armenia.
Tutte le più importanti personalità politiche mondiali (e qui ci spieghiamo il silenzio dell’Italia) hanno espresso una voce e una posizione politica chiara in merito. Dal presidente Macron che ha redarguito le offensive militari dell’Azerbaijan, al Ministro degli Esteri tedesco che ha chiaramente annunciato che la Germania, nel caso in cui il fuoco sull’Armenia non dovesse cessare, potrebbe rivedere la propria posizione di neutralità.

Un vero intrigo internazionale, con attori politici di primo piano che si fronteggiano su uno scacchiere spinoso e fin troppo caldo. Uno scenario inquietante che può esplodere all’improvviso, come spesso accade in quell’area geopolitica sempre in fermento e che mette ragionevolmente in apprensione gli osservatori. Ma non il nostro Gigino, il “Sindaco arancione”, il “pasionario” della rivoluzione napoletana. Il rappresentante dei poveri e degli emarginati, il liberatore dei deboli e degli oppressi, quello che tiene viva la memoria della Napoli delle Quattro Giornate, delle Medaglie (non sue) puntualmente appuntate sul petto e che non perde occasione per gridare, quando gli conviene, allo spauracchio del Fascismo e condannarlo (ormai sono da tribunale, o forse da teatro comico, anche le Abissine rigate e le Tripoline della Pasta Molisana). Colui che non disdegna di sostenere e schierarsi con il peggiore dei dittatori, a favore di un regime repressivo e autoritario e sostenerne la prevaricazione ai limiti della legittimità.
Nella mozione si accenna anche che il Nagorno-Karabakh, riconosciuto come parte dell’Azerbaijan, agli inizi degli anni ’90 sia stato occupato militarmente dall’Armenia e che il 27 settembre dello scorso anno l’Armenia abbia aggredito con le armi ancora una volta il malcapitato l’Azerbaijan.
Ci piacerebbe leggere sulla stessa mozione o conoscere dai suoi autori se le notizie sono state verificate e – magari – spiegarci anche come è possibile che uno Stato con soli tre milioni di abitanti come l’Armenia entri in guerra, se non previa costrizione. Magari per difendersi.
Ma sarà colpa di questo stramaledetto Covid se le notizie arrivano “mutevoli” o se non arrivano proprio come nel triste caso della Siria.
Stando sempre alla mozione e a quanto sostiene l’”Associazione Napoli – Baku”, l’antico gemellaggio tra la città di Napoli e la capitale dell’Azerbaigian risalente agli inizi degli anni 70, ha prodotto risultati concreti in termini di amicizia, scambi culturali, commerciali e istituzionali.
Che Napoli sia gemellata con Baku, forse a qualcuno in città risulta. Ma a leggere il documento sembra si parli degli Stati Uniti o di qualche altro paese industrializzato. Se é vero come é vero che in quella mozione del Consigliere Solombrino si fa esplicito cenno alla cooperazione nel campo degli approvvigionamenti energetici, in quanto principale fornitore di petrolio per il nostro Paese. E chissà cosa accadrà quando entrerà in funzione il gasdotto TAP. Senza parlare degli attuali scambi commerciali che riconoscono l’Azerbaigian quale principale acquirente del made in Italy e primo rivenditore di prodotti italiani nell’area caucasica, per una percentuale che si aggira intorno al 92%.

Qui l’affare puzza. E non è solo il gas…

https://www.camposud.it/2021/01/il-sindaco-pasionario-di-una-citta-in-ginocchio-che-si-occupa-della-crisi-tra-armenia-e-azerbaigian/