Fondi di Sviluppo e Coesione: si scrive Meloni, si legge De Luca!

Roma, 27 set – Vincenzo De Luca era morto prima del Covid e il Covid l’ha resuscitato. Morto e risorto politicamente, s’intende. Ma lui tutto può. È come una gatto che ha sette vite e, quando cade, cade sempre in piedi.

L’involontario assist del governo Meloni a De Luca

L’ultimo episodio della serie del governator campano s’intitola “Si scrive Meloni, si legge De Luca”. Ebbene sì, lo stesso personaggio che non è medico né infermiere e nemmeno portantino, che critica la Nato per l’impegno in Ucraina e che, illo tempore, prorogò l’uso della mascherina quando tutta Italia l’aveva abolita, che inaugurò più volte gli stessi ospedali rimasti sempre chiusi, che riuscì nell’impossibile compito di delirare molto più dei deliri partoriti dal duo Conte-Draghi, dal CTS e dai Figliuoli vari può vantarsi, anzi intestarsi, un successo clamoroso ai danni di quella “rompico***ni della Meloni” (cit.). Il motivo è sempre quello: i soldi. Che in politica si chiamano “fondi” e che, invece, in politichese significano potere, comando, poltrona. Bis e pure terSempiter. Per sé e per i suoi. In saecula saeculorum.

È ufficialmente partita la campagna elettorale del terzo mandato – che in deluchesko sta per “in eterno” (semicit.) – e lo Sceriffo lo ha fatto con una conferenza avente quale oggetto i fondi di Sviluppo e Coesione. Quelli che per ottenerli hanno portato De Luca persino a marciare su Roma alla testa di una folla di Sindaci.

Sette giorni dopo aver portato a casa (leggi a Palazzo Santa Lucia) la firma del presidente Meloni, il presidentissimo De Luca, sempre da Palazzo Santa Lucia, annuncia l’istituzione di una task force – nel senso che i beneficiati li caccerà dalla propria tasca – con competenze esterne anche alla struttura regionale, per rivoluzionare la Campania. Per operare il miracolo vi saranno tripli turni di lavoro come accade a Berlino, dunque tutti, Regione (cioè lui), Province, Comuni, Area Metropolitana sono avvisati. Per adeguarsi. Chi comanda fa legge. E qua comanda Vicienzo. La Campania verrà così stravolta stavolta al punto che non si riconoscerà più: ospedali (per davvero?), impianti sportivi, opifici per la trasformazione completa dei rifiuti, non meglio precisate “opere strategiche fondamentali disseminate nelle cinque province” che De Luca sé medesimo controllerà con piglio tedesco affinché si concludano con puntualità svizzera. E non mancheranno – dice lui – opere della Regione – che è sempre lui – finanziate con risorse (si tratta sempre di soldi, non di migranti: De Luca è un pdino-non-pdino) provenienti dalla Regione che un governo nemico ha provveduto a congelare e che, però, ha dovuto cedere contro la resistenza della Regione-De Luca-Campania. No pasarán!

https://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/fondi-di-sviluppo-e-coesione-si-scrive-meloni-si-legge-de-luca-283139/

FONDI DI SVILUPPO E COESIONE : SI SCRIVE MELONI, SI LEGGE DE LUCA!

Vincenzo De Luca era morto prima del Covid e il Covid l’ha resuscitato. Morto e risorto politicamente, s’intende. Ma lui tutto può. È come un gatto che ha sette vite e quando cade, cade sempre in piedi.
L’ultimo episodio della serie del Governatore campano s’intitola: “Si scrive Meloni, si legge De Luca”.
Ebbene sì, lo stesso personaggio che non è medico né infermiere e nemmeno portantino, che critica la Nato per l’impegno in Ucraina e che, illo tempore, prorogò l’uso della mascherina quando tutta Italia l’aveva abolita, che inaugurò più volte gli stessi ospedali rimasti sempre chiusi, che riuscì nell’impossibile compito di delirare molto più dei deliri partoriti dal duo Conte-Draghi, dal CTS e dai Figliuoli vari può vantarsi, anzi intestarsi, un successo clamoroso ai danni di quella “rompico***ni della Meloni” (cit.). Il motivo è sempre quello: i soldi. Che in politica si chiamano “fondi” e che, invece, in politichese significano potere, comando, poltrona. Bis e pure ter. Sempiter. Per sé e per i suoi. In saecula saeculorum.
È ufficialmente partita la campagna elettorale del terzo mandato – che in deluchesko sta per “in eterno” (semicit.) – e lo Sceriffo lo ha fatto con una conferenza stampa (senza giornalisti) avente quale oggetto i fondi di Sviluppo e Coesione. Quelli che per ottenerli hanno portato De Luca persino a marciare su Roma alla testa di una folla di Sindaci.
Sette giorni dopo aver portato a casa (leggi a Palazzo Santa Lucia) la firma del Presidente Meloni, il presidentissimo De Luca, sempre da Palazzo Santa Lucia, annuncia l’istituzione di una task force – nel senso che i beneficiati li caccerà dalla propria tasca – con competenze esterne anche alla struttura regionale, per rivoluzionare la Campania. Per operare il miracolo vi saranno tripli turni di lavoro come accade a Berlino. Pertanto tutti, Regione (cioè lui), Province, Comuni, Area Metropolitana sono avvisati. Per adeguarsi. Chi comanda fa legge. E qua comanda Vicienzo. La Campania verrà così stravolta al punto che non si riconoscerà più: ospedali (per davvero?), impianti sportivi, opifici per la trasformazione completa dei rifiuti, non meglio precisate “opere strategiche fondamentali disseminate nelle cinque province” che De Luca sé medesimo controllerà con piglio tedesco affinché si concludano con puntualità svizzera. E non mancheranno – dice lui – opere della Regione – che è sempre lui – finanziate con risorse (si tratta sempre di soldi, non di migranti: De Luca è un pdino atipico) provenienti dalla Regione che un “governo nemico” aveva provveduto a congelare perché non spese le risorse entro i termini o peggio ancora mai iniziati. Governo che poi ha sbloccato queste risorse rimettendoli a disposizione di De Luca nel calderone dei Fondi di Coesione, perché fossero correttamente utilizzati.
È lapalissiano considerare che per pilotare questa pioggia di denaro, tanto invocata e che tanto farà ballare, saranno precettati tutti, ad ogni livello. Anzitutto occorrerà commissariare i territori che, tradotto, significa che verranno “assoldati” (eh già!) Sindaci e amministratori locali per gestire il lavoro che ci sarà per un considerevole numero di lavoratori campani. Non è forse la descrizione di quella furbata geni(t)ale che i giudici ebbero l’ardire di battezzare quale “Sistema De Luca”? A loro l’ardua sentenza.
Nel delirio di onnipotenza del Governatore con il lanciafiamme che ha salvato la “sua” regione dalla pandemia, il “semplice” Sindaco  che ha saputo trasformare Salerno in una Napoli che ancora non ce l’ha fatta, ma resiste e ci riprova, ha saputo fare di necessità virtù anche stavolta: i fondi di Sviluppo e Coesione – che spettavano alla Campania e che la Campania aspettava,  sono stati prima reclamati e poi riconquistati da De Luca stesso che, cacchio cacchio e tomo tomo, può rivendere la conquista di ciò che era suo addirittura come una “battaglia di popolo”. Collettiva, per non scontentare i compagni. In campagna elettorale…
Quale Presidente del Consiglio, quale Ministro, quale leader di partito (e pure dipartito, stando all’opposizione) potrà contrastare e candidarsi ad essere l’anti-Vicienzo? Il fratacchione si presenterà come il candidato naturale a completare l’operato in Campania. Tutti avranno dimenticato le mille opere già demagogicamente promesse e mai realizzate – dopo essersi reinventato come il più fiero e credibile oppositore del Governo di Roma. Vinto e sconfitto. Come quella parte dell’area di governo che, a meno di un anno dalla corsa in Regione assiste all’indecoroso spettacolo immobile e silente. Anonima e inesistente. Chi è causa del suo male….
https://www.camposud.it/fondi-di-sviluppo-e-coesione-si-scrive-meloni-si-legge-de-luca/tony-fabrizio/

Spremete più uva e meno i lavoratori: l’azione ad Avellino contro la crisi di manodopera

 

Roma, 22 set – È allarme cronico in Irpinia circa il reperimento di manodopera da impiegare nella vendemmia. La tragica situazione ha raggiunto livelli così allarmanti che nemmeno la Confagricoltura di Avellino ha potuto più tacere: “[…] il grosso problema che si ripresenta anche quest’anno in termini ancora più pressanti, in considerazione dei quantitativi previsti, è il reperimento della manodopera per la raccolta. Un problema che peserà molto nel salvaguardare la quantità e la qualità”.

L’allarme manodopera e il problema delle condizioni dei lavoratori nel settore vinicolo

Al di là dei proclami, le conseguenze di questa sciagurata gestione sono due, antitetiche e, forse, addirittura paradossali: si fatica a reperire manodopera da impiegare in vigna perché la si vuole impiegare a costi bassi, sempre più bassi, umilianti e che rasentano la fame. A questo va aggiunto la precarietà del lavoratore che si tende a occupare solo in maniera stagionale. Quindi, le aziende locali sono “costrette”, non senza vantaggi, a ricorrere alle cosiddette “cooperative senza terra” che reclutano “migranti economici” – senza formazione e spesso senza comprendere nemmeno la lingua italiana – che contribuiscono ad abbassare la paga giornaliera (se non a sdoganare proprio il lavoro nero) e che può facilmente essere abbandonata (per le nostre strade) a stagione conclusa.

Oltre alla cosiddetta fuga dei cervelli, stiamo vivendo anche la “fuga delle braccia”: gente competente, formatasi in Italia e che per lavorare è costretta, invece, a raggiungere la Germania, la Svizzera, l’Ungheria, la Croazia, dove viene stabilizzata trovando nel settore occupazione per l’intero l’anno con garanzie ad hoc e che concorrono ad alzare il livello qualitativo del prodotto di altri Paesi.

L’azione di CasaPound Avellino e il silenzio della stampa

“Spremete più uva e meno i lavoratori” è il grido che con un’azione mirata la comunità avellinese di CasaPound ha rivolto alle istituzioni per un fattivo e concreto studio di politiche fiscali adeguate, come l’uscita dalla spirale dei tassi d’interesse costantemente al rialzo e chiede a gran voce l’individuazione di misure a sostegno della manodopera affinché questa resti nelle nostre terre onde scongiurare un ulteriore, irreparabile danno alle imprese, alle famiglie e allo Stato, senza dimenticare di occuparsi anche delle condizioni lavorative, garantendo maggior tutela agli impiegati nel settore vitivinicolo oggi ridotto a uno sterile rapporto tra domanda e offerta, quando invece è cultura, identità, investimento, sviluppo del territorio, turismo, vita. Che deve morire, visto che l’appello della Confagricoltura non è stato raccolto da nessuno e all’azione in difesa dei lavoratori del settore nessuna testata locale ha dato voce. Ma noi siamo venneriani e di certo non accetteremo fatalisticamente questo stato di cose che ci hanno propinato. Non senza combattere. Non senza vincere. Per i lavoratori. Per l’eccellenza del prodotto. Per il made in Italy.

https://www.ilprimatonazionale.it/primo-piano/spremete-piu-uva-e-meno-i-lavoratori-lazione-ad-avellino-contro-la-crisi-di-manodopera-283028/

Ma quale razzismo, la protesta degli immigrati a Napoli dimostra un fallimento epocale

Roma, 7 set – Razzismo, sempre razzismo. La notizia è una di quelle che va cavalcata subito, da poter rivendere a proprio uso e consumo, soprattutto sotto elezione, ma dopo averla colorata – che è già sufficientemente colorata di per sé – e camuffata perché rappresenta il fallimento di certe convinzioni strenuamente e infruttuosamente difese. In una domenica di fine estate, a Napoli la temperatura si alza ulteriormente a causa di una protesta inscenata da decine e decine, forse pure qualche centinaio, di immigrati che hanno dato via ad un corteo conclusosi con un sit-in nei pressi della caserma dei Carabinieri di Grumo Nevano, comune della città metropolitana.

La protesta degli immigrati a Napoli ben oltre la propaganda sul razzismo

Motivo della protesta il ribellarsi da parte degli immigrati – pakistani, bengalesi, indiani ma pare nelle retrovie ci fossero pure nigeriani, marocchini e tunisini – all’ennesima aggressione subita da quattro loro connazionali da parte di non meglio identificati “ragazzi a bordo di scooter”. Rifiutando la solita lettura preconfezionata del singolo (e, dicono, non sparuto) episodio, quanto avvenuto nell’hinterland napoletano offre, deve offrire, qualche spunto di riflessione che vada un pochino oltre.

Innanzitutto, deve fare pensare che è bastata “qualche decina” di immigrati per mettere in difficoltà l’ordine pubblico tenuto a forza – o per miracolo – da qualche unità dei Carabinieri in collaborazione con la Polizia. Plauso da parte di tutti e tutti lieti perché tutto è bene ciò che finisce bene, ma se così non fosse stato? Si può rischiare tanto? È giusto e possiamo permetterci di ringraziare i dimostranti perché la protesta è stata contenuta e pacifica? Per loro nessuno che invochi il TULPS, autorizzazioni, concessioni e ogni burocraticità possibile, immaginabile e inventabile che si tira fuori quando certe manifestazioni, ogni altra manifestazione di ogni altro colore, s’ha da vietarsi.

La solita propaganda

Manco a dirlo, pullulano quanto basta i titoloni delle prime pagine amiche che gridano al razzismo. Quel razzismo utile da sciorinare e che è usato come capo d’accusa contro gente che al momento nemmeno è stata identificata e da parte di coloro i quali a gran voce si ergono a onorevoli sponsor dell’immigrazione selvaggia e incontrollata. Gli stessi che poi dimenticano di dare agli “accolti” divenuti tutti indistintamente profughi una dignità non appena sbarcati perché, è evidente dai fatti occorsi, sono considerati solo “merce di consumo” su cui lucrare.

Il sindaco napoletano sminuisce l’accaduto parlando di una generica violenza, ma né il primo cittadino né il parlamentare pdino che ha strombazzato i noti fatti in Parlamento domenica si sono degnati di recarsi sul luogo della protesta.
Ciò che si vede è solo un apparato statale di ogni livello interessatamente disinteressato che ha portato a superare le tremila presenze allogene contro le diciassettemila dei locali che, in una eventuale escalation di tensione, o peggio, di violenza, darebbero non pochi problemi in quanto a ordine pubblico e vivere civile.

Un esercito di lavoratori – azzarderemo pure nuovi schiavi – che, loro malgrado, contribuiscono all’abbassamento della paga in un ambiente in cui il lavoro è quasi una caratteristica topica. Costo della manodopera che garantisce da vivere a questi “fantasmi” che, tra l’illecito, il non corrisposto e il dovuto, consente loro di sbarcare il lunario, ma questo non è possibile per la popolazione locale. Difficile, a condizioni inique, parlare di integrazione. Nessuno di quelli che nelle ore immediatamente successive alla protesta si sono palesati ha forse notato e fatto notare che la stragrande maggioranza degli insorti non pronunciava una sola parola nella nostra lingua, che tanti di loro vestivano pure con tradizionali abiti lunghi e copricapo tipici del loro paese d’origine e che pressoché tutti vivono in ristretti gruppi avulsi dalla realtà cittadina, come in un modo a parte. Alla faccia non dell’integrazione, ma della volontà di integrazione!

Nulla giustifica di certo la violenza, né da una parte né dall’altra, ma quanto accaduto (e poi sapientemente, interessatamente in tutta fretta nascosto sotto al tappeto) è la rappresentazione plastica del fallimento delle gestioni delle politiche migratorie. Tutti insieme indiscriminatamente. Abbandonati dai loro “protettori” una volta che non sono più sfruttabili per guadagnare. La violenza, quella vera, quella “onorevole” e con la cravatta, è iniziata molto prima, prima ancora che questa gente iniziasse la traversata.

https://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/ma-quale-razzismo-la-protesta-degli-immigrati-a-napoli-dimostra-un-fallimento-epocale-282660/

Il matrimonio da Mc Donald’s e la retorica del “povero” in un luogo che affama i lavoratori

matrimonio Mc Donald's

Roma, 23 ago – Siamo arrivati anche al matrimonio da Mc Donald’s. Non è il primo caso e non sarà certo l’ultimo, ma questo è il caso “fortunato” perché è diventato un tormentone social. Siamo ad Avellino, loro si chiamano Michele e Ilary, molto patronimico lui, nome molto poco topico lei, e sono i due giovani che hanno deciso di festeggiare il banchetto nuziale al Mc Donald’s del capoluogo irpino. Al grido di “siamo poveri” hanno conquistato il loro quarto d’ora di celebrità social e… nulla più.

Il matrimonio al Mc Donald’s e l’ingenuità del “siamo poveri”

Scelta liberissima, legittima e su cui nessuno può obiettare nulla, ci mancherebbe, ma la povertà oggetto della scelta – che scelta non è – è riferita (ahinoi solo) alla situazione economica che auguriamo loro essere temporanea.

Mentre i social si scatenano (solo) in auguri e complimenti, forse sarebbe cosa buona e giusta “ottimizzare” l’accaduto e insorgere contro questa povertà “fatalistica”.

Innanzitutto, festeggiare presso la catena di fast food americana non è affatto una scelta. Tutt’altro. La coppia di giovani sposini ha dovuto rinunciare al matrimonio da favola e ripiegare su una location che ha imposto il loro “essere poveri”.

Se, però, la povertà non avesse interessato solo il portafogli, si sarebbe potuto ottimizzare – ma non si esclude che lo si possa fare in futuro, anzi lo auspichiamo – l’attuale condizione economica e scegliere la nota catena americana per una protesta… con i fiocchi. Non è un mistero che proprio il colosso americano del cosiddetto “cibo spazzatura” tratti male i propri dipendenti: stipendi da fame, precariato, contratti part-time e non rinnovati, estrema flessibilità, condizioni lavorative al limite della dignità umana sono i motivi che hanno già portato nel passato allo stato di agitazione dei lavoratori proclamato dalle associazioni di categoria, ma soprattutto alla “povertà” che oggi viene “festeggiata” proprio nel luogo per eccellenza – si fa per dire! – della globalizzazione occidentale stars and stripes.

Come ogni evento che si rispetti, non potevano di certo mancare le bomboniere che, manco a dirlo, sono state sostituite da gadget logati, con inconfondibile sacchetto e immancabile foto di rito che si traduce in pubblicità gratis. A danno dei poveri che avevano la possibilità di essere “assoldati” per far girare il marchio.

Ostentare la “povertà” in un luogo che rende i lavoratori poveri

L’“Happy M… arriage” potrebbe essere l’ultima trovata della multinazionale simbolo della globalizzazione e dello sfruttamento visto che, il caso irpino non è il primo, lo hanno già sdoganato i figli di quel meccanismo psicologico che già in passato li ha portati a mettersi in coda per ore per mangiare un panino al costo (attenzione: non al valore!) di 3 euro o a prendere cornetto e caffè ad un euro. Code apocalittiche che sono durate anche un’intera giornata, scene da follia collettiva. Anzi, da mito del consumismo esasperato obbediente al grido “non posso vivere senza”.

Eppure, qualcuno che ha tentato di insorgere e di ribellarsi c’è stato, vincendo contro ogni previsione la propria battaglia. Qualche anno fa, il marchio americano dalla gigantesca M gialla aprì un suo punto vendita anche ad Altamura, in provincia di Bari. Proprio nella cittadina che è la “capitale del pane”. Un locale fornaio pensò (bene) di inaugurare il suo negozio proprio accanto al Mc Donald’s. Non incredibilmente i clienti all’hamburger e alle patatine preferirono le più autoctone focacce, insaporite dai locali pomodorini che con l’identitario olio ci vanno a nozze.

Risultato: identità e tradizione batterono le più innovative tecniche di marketing internazionale “a tavolino”.

Il caso, però, puzza di bruciato perché pare che i novelli sposini abbiano salutato parenti e amici presso un noto ristorante locale. Trovata pubblicitaria per il nuovo punto vendita di Via Pini o solo un po’ di notorietà per la giovane coppia? Al filosofo Ludwig Feuerbach l’ardua sentenza: “L’uomo è ciò che mangia”. Quindi…

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I danni (anche morali) della festa di Madonna a Pompei

Roma, 19 ago – Rieccoci qua, ci risiamo. In principio furono Elon Musk e Mark Zuckerberg che per darsi due sberle volevano farlo al Colosseo. Ne seguì uno scappellamento istituzionale, da nord a sud dello Stivale, nel senso che ogni amministratore – Sindaci, Presidenti di Regione et simlia (dimostrando di essere tutti tristemente uguali!) – con tanto di cappello in mano tentò di accaparrarsi il triste spettacolo mettendo loro a disposizione l’Arena di Verona, il Teatro Romano di Benevento, gli scavi di Pompei. Tutto si risolse in nulla di fatto, come le sberle che volevano scambiarsi i due multimiliardari yankee, eccetto per gli amministratori nostrani che diedero prova di valere né più né meno della “X” con cui qualcuno li aveva scelti. Stavolta però il miracolo s’è compiuto per davvero ad opera nientemeno di Madonna in carne e ossa, la popstar americana con una memoria italiana.

Madonna a Pompei

Maria Louise Veronica Ciccone – Madonna, per l’appunto – aveva espresso il desiderio – leggi capriccio – di festeggiare il suo sessantaseiesimo compleanno nientepopodimeno che tra le rovine di Pompei, contornata da un mezzo migliaio di eletti. La polemica, ma nemmeno poi tanta, aveva fatto storcere il naso di qualcuno, ma nemmeno poi di tanti, e chiuso tante bocche istituzionali in un silenzio assenso (complice e partecipato) che vedeva la scappatoia burocratica in una “visita cul-turale notturna” per la star. Visita cul-turale notturna che ha previsto l’accompagnamento eccezionale del direttore del Parco Archeologico Gabriel Johannes Zuchtriege e che ha costretto a lavori straordinari notturni tanti custodi ai quali è stato chiesto di rispettare il massimo riserbo sulla questione, a quanto riferiscono i soliti bene informati.

Tutti bene informati, anche i suoi fans che già dal pomeriggio avevano preso d’assalto i vari ingressi del Parco Archeologico con ogni tipo di gadget – il perché non si capisce ancora – dai tatuaggi alle bamboline, in attesa dell’arrivo della star. Alla “visita” ha partecipato una cinquantina – lo zero in questo caso conta – di prescelti arrivati a bordo di una trentina di minivan dai vetri rigorosamente oscurati, partiti dall’aeroporto nuovo di “zecca” di Salerno “Costa d’Amalfi” – orgasmo di De Luca, forse, perciò finora muto! – per poi raggiungere il porto turistico e da lì far parte della carovana alla volta della città di lava con tanto di casse per un concerto acustico. Strano modo di” visitare”!

Detta “visita” pare abbia previsto anche del cibo consumato tra le rovine, fortunatamente non ivi cucinato, ma che ben ha allietato la serata: che non siano state trasformate le pietre in pesci? Il vero miracolo sarebbe stato portare quella folla all’interno del Parco a vedere ciò che lì è conservato e non arrivare fuori le mura per vedere Madonna che, entrando da un ingresso secondario, nemmeno si è manifestata. Dunque: musica, cena, commensali, occasione, una location come il Teatro Grande… il tutto in Italia si traduce in festa di compleanno. Americanissimo mos maiorum: ccà nisciuno è fesso!

L’organizzazione per la “visita” è stata impeccabile, visto che è dovuta intervenire finanche la Prefettura di Napoli, considerato che la chiusura del Teatro Grande proprio nella ricorrenza del genetliaco della cantante e il personale impegnato per tirare a lucido la Casa del Menandro, così come avvenuto il giorno prima la Casa dei Ceii, non sono passati per nulla inosservati e tanti curiosi, fans – eccetto i veri visitatori – hanno attirato. Dunque, massiccio è stato il dispiegamento della forza pubblica per garantire l’ordine e la sicurezza con tanto di rassicurazione dai Palazzi sull’utilizzo dei luoghi. Da ciò che scrive il principale quotidiano di Napoli Il Mattino, ma anche Il Fatto Quotidiano intorno alla visita, pare che la sola notizia certa sia quella relativa alla cifra elargita per la “visita”: il Fatto riporta la somma di 250 mila euro donata per la ristrutturazione del Parco, il Mattino quella di 200 mila euro destinate (tramite chi?) alle scuole locali.

Basterà qualche centinaio di migliaia di euro (a mo’ di elemosina) per proteggere le delicatissime vestigia dai danni provocati dalle vibrazioni della musica sparata per una festa di compleanno?

I danni

È sufficiente stabilire una cifra per dare il costo a ciò che non ha e non può avere un valore? È possibile che si possa affittare un sito patrimonio dell’umanità per una festa di compleanno per qualche dollaro in più, a proprio (ab)uso e consumo? È questo ciò che si intende dire quando ci si appella a quella frase irritante quanto odiosa “L’Italia potrebbe vivere di turismo”? L’Italia deve (poter) vivere di altro: energia, cultura, alimentazione, automobile, moda, eccellenza. In ogni campo. In una sola parola “made in Italy”. Già lungamente riconosciuto e apprezzato. Perché, se questo è il modo di tutelare l’immenso patrimonio artistico-culturale che abbiamo ereditato e che va tramandato, non abbiamo fatto altro che perdere l’occasione di valorizzare, nello specifico, il parco trasformandolo in un “porco” archeologico.

Un’altra occasione persa per tenere la schiena dritta e far respirare al mondo dignità, per insegnare ancora una volta che noi siamo tutto ciò che gli altri vorrebbero essere. Invece, ancora una volta abbiamo obbedito alla voce del padrone che sa cianciare solo di vile denaro e usura. To be continued… speriamo vivamente di no!

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UNA TRAGEDIA (ANNUNCIATA) FUORI DEL COMUNE !!

Sì, Scampia è la piazza di spaccio più grande d’Europa e sotto le famose – ormai famigerate – vele si va in tre sul motorino e tutti e tre senza casco. E questa, sì, si chiama illegalità. Ciò che è successo ieri, però, non ha nulla a che vedere con l’illegalità tantum decantata, con l’abusivismo – gli alloggi sono stati regolarmente assegnati “illo tempore” – con la mancanza di civiltà e con la solita “zizzinella” di “non pagare le tasse” da parte di quelli che dal divano hanno ottenuto la posizione catastale e contributiva. Gente che per lo Stato non esiste semplicemente. E non per colpa di questi ultimi.
Scampia non è altro che un quartiere ghetto scientemente e (in)coscientemente costituito e costruito e la causa dei suoi atavici e irrisolti problemi inizia proprio da qui.
Scampia non è altro che il nome partenopeo del Corviale di Roma, del Serpentone per i più, di Quarto Oggiaro meneghino, dello Zen di Palermo o di Bari Vecchia di Bari.
Il crollo, immantinentemente ribattezzato “tragedia”, non certo per le proporzioni (men che meno quella umana), ma per mettere più luce mediatica possibile sul buio creato ad hoc negli anni, non è diverso da quello accaduto pochi mesi orsono nei gagà vomerese, alla Camilluccia o al Bosco Verticale di Milano.
Il crollo ha interessato un ballatoio al terzo piano che ha coinvolto anche il secondo e poi il primo della Vela Celeste. Poco, troppo poco eppure già abbastanza e del tutto inutile la notizia. Quello che interessa è che, se è crollato un ballatoio e non un muro portante interno non autorizzato dalla SCIA del Comune, è perché probabilmente quel Comune che non ha provveduto alla manutenzione, non ha condotto nemmeno gli accertamenti necessari affinché si prevedessero simili “tragedie”. Non è solo un fatto di delega, di colpa o di puntare il dito, ma un “accidente” di verifica sull’unica Vela esistente, (re)sistente se può piacere di più, e su cui, così come disposto, insisteva un piano di recupero e rilancio poteva pure essere messa in campo! Largo.
Un vero peccato che i soccorsi siano arrivati in tempo, che più ambulanze siano convenute precipitevolissimevolmente, che la popolazione abbia mostrato grande prova di solidarietà e abbia iniziato ad attivarsi ben prima che arrivassero i Vigili del Fuoco; nessun parente, nemmeno quelli dei bambini cui va il nostro augurio di una immediata guarigione, dei tanti feriti o dei due morti ha sfasciato i Pronto Soccorso. Una tragedia anche questa non poter continuare a far parlare (per far mangiare) i professionisti dello Sputtanapoli.
Tutto l’iter è stato seguito come da protocollo: la Magistratura ha aperto un’indagine, il sindaco Gaetano Manfredi ha fatto sapere che questo è il “momento del dolore e della speranza”, in Prefettura è stato convocata una riunione urgente, il presidente De Luca è andato direttamente al Santobono perché nelle tragedie donne e bambini “tirano” di più, la Meloni ha fatto sapere che è “addolorata”, è stato disposto il servizio antisciacallaggio – a mo’ di cartolina che ha rimpiazzato il sempiterno Vesuvio -. Si noti l’uso dell’impersonale in riferimento alle dichiarazioni rilasciate dalle istituzioni locali, declinazione tipica e topica della responsabilità.
Il boato è stato così fragoroso tanto e tale da essere sentito persino a Bruxelles, da dove la neotera Metsòla – e non la leggiamo alla napoletana maniera – ha fatto sapere che sono (chi?) “con voi”. Che, a giudicare da chi già c’era, non pare essere tutta ‘sta gran bella notizia.
Chi non c’è sono i tanti medici e aspiranti tali che, magno gaudio, erano stati annunciati da tutti i pulpiti della politica. Scampia, infatti, almeno nelle intenzioni della politica – leggi negli onanismi della demagogia elettorale – avrebbe dovuto ospitare il nuovo polo di Medicina e Chirurgia. Fuffa. Buona solo per passerelle e foto di rito. Come quando in diretta tivvù si assistette all’abbattimento delle altre vele, senza nessuna vergogna da parte di nessuno nell’ammettere che lo sgretolamento di quella irrazionale cementificazione altro non era che la rappresentazione plastica del fallimento dell’opera di politica e istituzioni.
Appena ripulite le strade da ferraglia e calcinacci, sullo stesso asfalto intriso di sangue, sarà nuovamente steso il red carpet per la prossima onorevole passeggiata. Intanto, lì ci sono le tende per gli sfollati di cui al momento nessuno sembra interessarsi. Come quando a gran voce avevano segnalato, denunciato, chiesto di verificare. Nessuno sa dove andranno, ma loro sanno dove sono stati mandate almeno le loro paure. Restano le due vittime, resta la speranza che le condizioni dei 7 bambini non peggiorino. Resta l’illusione che qualcuno possa fare qualcosa. “Chi” e “cosa” fa parte del gioco. E del giogo.
Una delle due vittime era un macellaio trentacinquenne, padre di una bimba di due anni ormai orfana, non un pregiudicato, non uno spacciatore, non un marijuolo; assenza di notizie “interessanti” anche per l’altra vittima, dunque una persona perbene. Anche questa è la gente che anima le Vele, questo il degrado di Napoli. Loro, i morti, saranno le vittime e i sicuramente colpevoli per aver avuto troppo caldo in quella casa della Vela Celeste. Che è solo un modo in napoletano per dire azzurro. Comm’ ‘o cielo, comm’ ‘o mare, come Napoli. Armocromia perfettamente sbiadita di questa Napoli delle istituzioni, della politica, della cultura.

 

 

…….. “LA MADONNA” DI POMPEI

 e rieccoci qua, ci risiamo. In principio furono Elon Musk e Mark Zuckerberg che per darsi due sberle volevano farlo al Colosseo. Ne seguì uno scappellamento istituzionale, da nord a sud dello Stivale, nel senso che ogni amministratore – Sindaci, Presidenti di Regione et simlia (dimostrando di essere tutti tristemente uguali!) – con tanto di cappello in mano tentò di accaparrarsi il triste spettacolo mettendo loro a disposizione l’Arena di Verona, il Teatro Romano di Benevento, gli scavi di Pompei. Tutto si risolse in nulla di fatto, come le sberle che volevano scambiarsi i due multimiliardari yankee, eccetto per gli amministratori nostrani che diedero prova di valere né più né meno della “X” con cui qualcuno li aveva scelti.
Stavolta però il miracolo s’è compiuto per davvero ad opera nientemeno di Madonna in carne e ossa, la popstar americana con una memoria italiana.
Maria Louise Veronica Ciccone aveva espresso il desiderio – leggi capriccio – di festeggiare il suo sessantaseiesimo compleanno nientepopodimeno che tra le rovine di Pompei, contornata da un mezzo migliaio di eletti.
La polemica, ma nemmeno poi tanta, aveva fatto storcere il naso di qualcuno, ma nemmeno poi di tanti, e chiuso tante bocche istituzionali in un silenzio assenso (complice e partecipato) che vedeva la scappatoia burocratica in una “visita cul-turale notturna” per la star. Visita cul-turale notturna che ha previsto l’accompagnamento eccezionale del direttore del Parco Archeologico Gabriel Johannes Zuchtriege e che ha costretto a lavori straordinari notturni tanti custodi ai quali è stato chiesto di rispettare il massimo riserbo sulla questione, a quanto riferiscono i soliti bene informati.
Tutti bene informati, anche i suoi fans che già dal pomeriggio avevano preso d’assalto i vari ingressi del Parco Archeologico con ogni tipo di gadget – il perché non si capisce ancora – dai tatuaggi alle bamboline, in attesa dell’arrivo della star.
Alla “visita” ha partecipato una cinquantina – lo zero in questo caso conta – di prescelti arrivati a bordo di una trentina di minivan dai vetri rigorosamente oscurati, partiti dall’aeroporto nuovo di “zecca” di Salerno “Costa d’Amalfi” – orgasmo di De Luca, forse, perciò finora muto! – per poi raggiungere il porto turistico e da lì far parte della carovana alla volta della città di lava con tanto di casse per un concerto acustico. Strano modo di” visitare”!
Detta “visita” pare abbia previsto anche del cibo consumato tra le rovine, fortunatamente non ivi cucinato, ma che ben ha allietato la serata: che non siano state trasformate le pietre in pesci? Il vero miracolo sarebbe stato portare quella folla all’interno del Parco a vedere ciò che lì è conservato e non arrivare fuori le mura per vedere Madonna che, entrando da un ingresso secondario, nemmeno si è manifestata.
Dunque: musica, cena, commensali, occasione, una location come il Teatro Grande… il tutto in Italia si traduce in festa di compleanno. Americanissimo mos maiorum: ccà nisciuno è fesso!
L’organizzazione per la “visita” è stata impeccabile, visto che è dovuta intervenire finanche la Prefettura di Napoli, considerato che la chiusura del Teatro Grande proprio nella ricorrenza del genetliaco della cantante e il personale impegnato per tirare a lucido la Casa del Menandro, così come avvenuto il giorno prima la Casa dei Ceii, non sono passati per nulla inosservati e tanti curiosi, fans – eccetto i veri visitatori – hanno attirato. Dunque, massiccio è stato il dispiegamento della forza pubblica per garantire l’ordine e la sicurezza con tanto di rassicurazione dai Palazzi sull’utilizzo dei luoghi.
Da ciò che scrive il principale quotidiano di Napoli Il Mattino, ma anche Il Fatto Quotidiano intorno alla visita, pare che la sola notizia certa sia quella relativa alla cifra elargita per la “visita”: il Fatto riporta la somma di 250 mila euro donata per la ristrutturazione del Parco, il Mattino quella di 200 mila euro destinate (tramite chi?) alle scuole locali.
Basterà qualche centinaio di migliaia di euro (a mo’ di elemosina) per proteggere le delicatissime vestigia dai danni provocati dalle vibrazioni della musica sparata per una festa di compleanno?
È sufficiente stabilire una cifra per dare il costo a ciò che non ha e non può avere un valore? È possibile che si possa affittare un sito patrimonio dell’umanità per una festa di compleanno per qualche dollaro in più, a proprio (ab)uso e consumo? È questo ciò che si intende dire quando ci si appella a quella frase irritante quanto odiosa “L’Italia potrebbe vivere di turismo”? L’Italia deve (poter) vivere di altro: energia, cultura, alimentazione, automobile, moda, eccellenza. In ogni campo. In una sola parola “made in Italy”. Già lungamente riconosciuto e apprezzato. Perché, se questo è il modo di tutelare l’immenso patrimonio artistico-culturale che abbiamo ereditato e che va tramandato, non abbiamo fatto altro che perdere l’occasione di valorizzare, nello specifico, il parco trasformandolo in un “porco” archeologico.
Un’altra occasione persa per tenere la schiena dritta e far respirare al mondo dignità, per insegnare ancora una volta che noi siamo tutto ciò che gli altri vorrebbero essere. Invece, ancora una volta abbiamo obbedito alla voce del padrone che sa cianciare solo di vile denaro e usura.
To be continued… speriamo vivamente di no!
 https://www.camposud.it/la-madonna-di-pompei/tony-fabrizio/

LO SCERIFFO DE LUCA E LA SETTIMANA DI FESTEGGIAMENTI DEL GAY PRIDE!

Stutate sunt lampioncelle. Finalmente! Dopo sette giorni – perché Napoli è esagerata anche in questo – fasti e feste dall’united colors arcobalenati vanno mandati in soffitta, ma con essi, purtroppo, non i fantasmi e non le maschere di questa carnevalata consumate all’ombra del Maschio – nessuno si offende, vero?- Angioino. A proposito di esagerazioni, stavolta in strada sono scesi proprio tutti. Tutti quelli che non si sono mai visti in corteo con i disoccupati della Whirlpool o della Jabil, né  con i cittadini dei borghi vittime dello scellerato Patto di Marano, dove hanno chiuso ospedali e posti di Pronto Soccorso. Immancabile, dopo le “prove capitali,” il “capopopolo” Vincenzo De Luca e il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi.  Ma Vicienzo ha voluto davvero strafare: contrariamente alla Regione Lombardia, lo sceriffo non solo ha sfilato tra tette al sole, tutti senza tatto, ma ha addirittura concesso il patrocinio. Cioè, ha dato loro i soldi nostri, mica i suoi!
Tutti sono contenti (per i contanti) e tutti rilasciano dichiarazioni “pisellov” in salsa di pomodoro, mozzarella e basilico. È vero che Napoli è la città del sole, ma arrivare a dire “Napoli è una città che resiste, è la città della Resistenza, delle Quattro Giornate e anche il nostro pride resiste” è davvero troppo, persino se ti chiami Antonello Sannino e sei il presidente dell’Arcigay, dell’Antinoo e del Comitato Pride Napoli. Al netto della presunta veridicità e della quasi certa riscrittura – vizietto tipico sinistro – quello di riscrivere la storia, sembra che per essere omosessuali si debba essere necessariamente di sinistra. La quale detiene (pure) il monopolio dell’appartenenza “omo”, uguale per dire diverso, una sorta di egemonia. Eppure, Gramsci, per chi l’ha letto, sa che intendeva dire ben altro. Chissà che città vedono e vivono questi qua quando descrivono Napoli come “una città moderna, una città che guarda al futuro” e che “deve essere una città aperta”??. E Napoli lo è per la sua storia e per la sua tradizione”. Città moderna che guarda al futuro intesa come città che guida il progresso, non perché Napoli è così tradizionale, ma piuttosto, così tradizionale che ha conservato persino la struttura “storica” e tradizionale dei vicoli dei cardi e dei decumani. È così tradizionale e tradizionalista che Natale non solo dura trecentosessantacinque giorni all’anno, ma addirittura c’è una strada dedicata completamente e solamente al Natale napoletano. La festa dello scudetto è durata oltre tre mesi ed è iniziata nientedimeno che a gennaio; il problema della mancanza di occupazione è così “tradizionale” da divenire quasi una peculiarità atavica. Altro che i miseri sette giorni di pride! Ma le deliranti farneticazioni continuano con programmi del tipo “dobbiamo riaffermare il valore della difesa di tutti”. E se dici difesa di tutti e soprattutto se dici farneticazioni e delirio non può non fare capolino lui: Vincenzo De Luca, che parla di libertà quale conquista da parte di tutti di “organizzare la propria vita secondo i propri valori e propri sentimenti. Offendere in un consultorio una donna che deve fare un’interruzione volontaria di gravidanza è un atto di violenza intollerabile”. E già qua basterebbe far capire, laddove fosse possibile capire, che una donna che si reca in un consultorio per abortire – leggi sopprimere un feto – innanzitutto ha avuto rapporti con un uomo – perché, pure se sei presidente dei gay della Campania, saprai che le donne non bastano né a loro stesse né alle donne come loro, per concepire – e, in secundis, va ella stessa a compiere un atto di violenza. Che poi vengano anche offese, probabilmente questo accade nei consultori della disastrata Sanità campana che ha persino un delegato speciale che si chiama sempre Vincenzo De Luca. Che, a sua volta, si appella ai giovani e al loro coraggio affinché non pieghino mai la testa e blà blà blà, che significa solo puro elettoralismo senza scrupoli.
Veramente credete di aver portato la modernità a Napoli con quattro svestiti quando Napoli ha la tradizione del femminiello? E non c’è integrazione da insegnare a questa città, tanto che tale figura è presente da sempre, dalla tombola scostumata di Natale fino ai giorni nostri, da La Pelle di Malaparte fino alla Napoli velata di Ozpetek, ove viene attribuita al femminiello, persino la buona fortuna. Tanto che si è soliti mettere in braccio ai femminielli i bambini appena nati.
Smontati gli arcobaleni, le bandierine, tolto il cerone, i tacchi a spillo e rimessi i vestiti, il pride, la modernità, la dignità, il coraggio, la lotta, i diritti e tutto il caravanserraglio di cui si è cianciato nella settimana appena trascorsa, non avranno risolto un solo problema di Napoli: la Sanità, i “balletti” della zona flegrea, il lavoro, la delinquenza, i trasporti e chi più ne ha più ne metta. Anzi, forse ne abbiamo aggiunto uno: il caravanserraglio partenopeo vede la sua incarnazione in Palazzo Fuga, altrimenti detto Real Albergo dei Poveri, su cui insiste un progetto – un altro – stratosferico di valorizzazione e di rilancio di Napoli. Speriamo solo non faccia la fine – che non ha visto nemmeno l’inizio – dell’area dell’ex Italsider di Bagnoli.
Si pensa di creare nel mega complesso di piazza Carlo III una biblioteca, con annesso cinema, sale conferenze, un teatro, locali, ristoranti, un Museo archeologico, biblioteche, aule studio, studentato che darà a Napoli il polo culturale più grande d’Europa. Ma per ora tutto è stato subappaltato alla sinistra per farne il quartier generale di questo pride 2024. Effimero. Precario. Come il jobs act, i voucher e tutto ciò che “instabile” e transitorio ha partorito il progressismo puntuale come un Rolex gauche & caviale. Come il Napoli pride. Altro che prodi: prude! Come quella libertà di essere liberi armocromisticamente rivendicata per poi trovarsi a capo (e menomale!) padroni e “padrini. Tutti tengono famiglia e questo s’ha da fa’ pe’ campa’ !!

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Il sempreverde ricordo di Francesco Cecchin

Francesco Cecchin

Roma, 16 giu – Era il 1979. O forse il 2024. Francesco Cecchin era un giovanissimo ragazzo dalla faccia pulita, occhi azzurri e capelli biondi. Non riuscirà a diplomarsi, a causa dei giorni di assenza da quella scuola, dove spesso gli era impedito entrare. Come Ramelli. Roma come Milano. Altri, giovani come lui, futuri insegnanti non erano ancora nati quando Francesco moriva. Ammazzato.

Francesco Cecchin trova la morte

Il 16 giugno Francesco lasciava per sempre quel coma in cui era sprofondato 19 giorni prima e da cui non si riprese mai. Probabilmente avrebbe fatto i nomi dei suoi aggressori che riconobbe a bordo di quella Fiat 850 bianca intestata a Stefano Marozza che, per aver fornito versioni diverse – contrastanti tra loro – fino a quella definitiva secondo cui era stato al cinema Aryel a vedere la proiezione de Il Vizietto che quella stessa sala non aveva in programma, si guadagnò il premio dell’assoluzione per non aver commesso il fatto. Avrebbe fornito i nomi di quella gente che non gli disdegnò la visita in ospedale per assicurarsi che la morte avrebbe colto Francesco. Un omicidio, ma non si sa con chi. Ancora oggi che pure Moretti, uno dei quattro occupanti della 850, forse quello che avrebbe dato l’ordine – “È lui, prendetelo!” – è morto. Morto libero. Libero di vivere quella vita che a Francesco è stata tolta. Libero come quel diritto che ti consente persino di mandare a morte chi sta dalla parte sbagliata. Che non è quella di chi ammazza. Libero come quella concessione che ti permette di ammazzare un fascista, tanto non è reato. Francesco non era fascista, ma credeva in un’idea, anche se non credeva di diventare un eroe e di vivere per sempre.

Una giornata tranquilla divenuta infernale

Quella sera di maggio voleva solo andare a mangiare un gelato insieme a sua sorella, che pensò di preservare attirando a sé i suoi aggressori. I suoi assassini che festeggiavano nel ’79 allo stesso modo di come festeggiano nel 2024 la fine del fascismo, il 25 aprile e che, nonostante si dicono liberatori e liberati – senza il minimo rigurgito di cortocircuito – vedono ancora fascismo ovunque. Vedono coloro che hanno ancora una identità quali obiettivi da combattere ed eliminare. Sono loro che, come negli anni di piombo, ancora odiano. E l’odio si traduce inevitabilmente in omicidio. Stessa forma mentis di allora, identico modus operandi oggi. Che ti chiami Cecchin, Ramelli, Ciavatta, Recchioni non conta. Conta di essere in numero superiore, spropositatamente superiore rispetto a quell’uno individuato. Conta di sorprendere da solo il loro obiettivo. Conta di sorprenderlo da dietro. Conta di fracassargli il cranio. Ieri con una Hazaret 36, oggi con martelli e manganelli retrattili. Conta poi scappare e conta non contare mai gli anni di carcere a cui mai nessuno li condannerà. Conta non pagare mai. Conta poter contare su Soccorso Rosso ieri e sul soccorso rosso oggi. Non contano le 4 condanne e le 29 denunce, Ungheria esclusa: puoi ugualmente essere chiamato “onorevole” e rappresentare una parte degli italiani.

Francesco, e non fu il solo, fu ammazzato volontariamente allora e hanno continuato ad ammazzarlo ancora. Con il divieto di interrogarlo da parte del suo avvocato, nonostante il coma indotto, tanto si sarebbe ripreso da lì a pochi giorni, secondo il personale medico. Cosa che non avverrà mai; ammazzato con i risultati dell’autopsia prima alterati e poi ignorati. Autopsia eseguirà senza togliere nemmeno i tutti i vestiti; ammazzato con le indagini fumose e superficiali da parte degli inquirenti; con la mancata consultazione del corposo dossier redatto da parte dei ragazzi del FdG; con il diniego da parte del Viminale di inserire il nome di Cecchin tra le vittime del terrorismo; occultando la verità.

Magari, con il disincanto degli anni, con i cori isterici dei figli di papà, con il “partecipato” perché interessato silenzio istituzionale si riuscirà davvero a fare credere che Cecchin sia accidentalmente caduto da un parapetto di 5 metri e che sia caduto di testa. Che l’atterraggio di testa spiega il fatto che braccia e gambe non rechino lesioni, mentre sul corpo siano stati rinvenuti i segni compatibili di una sprangatura. Di uno stordimento. Di una esecuzione. Milza spappolata in primis. Magari non saranno nemmeno necessari 7000€ al mese per pagarsi gli avvocati quando ci si potrà avvalere dell’immunità parlamentare per non pagare. Pur di aggirare la legge, ma non l’infamia. Strano modo di vivere questo, non di morire. Seppur con un pacchetto di sigarette gettato vicino a quel corpo esanime, col cranio fracassato, ma ancora vivo. Seppur in una pozza di sangue con un mazzo di chiavi in mano, nel ’79. Nel 2024 Francesco vive ancora. Perché Francesco è primavera, Francesco è libertà. Adesso porta in mano una rosa e nell’altra la verità!

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