Il sempreverde ricordo di Francesco Cecchin

Francesco Cecchin

Roma, 16 giu – Era il 1979. O forse il 2024. Francesco Cecchin era un giovanissimo ragazzo dalla faccia pulita, occhi azzurri e capelli biondi. Non riuscirà a diplomarsi, a causa dei giorni di assenza da quella scuola, dove spesso gli era impedito entrare. Come Ramelli. Roma come Milano. Altri, giovani come lui, futuri insegnanti non erano ancora nati quando Francesco moriva. Ammazzato.

Francesco Cecchin trova la morte

Il 16 giugno Francesco lasciava per sempre quel coma in cui era sprofondato 19 giorni prima e da cui non si riprese mai. Probabilmente avrebbe fatto i nomi dei suoi aggressori che riconobbe a bordo di quella Fiat 850 bianca intestata a Stefano Marozza che, per aver fornito versioni diverse – contrastanti tra loro – fino a quella definitiva secondo cui era stato al cinema Aryel a vedere la proiezione de Il Vizietto che quella stessa sala non aveva in programma, si guadagnò il premio dell’assoluzione per non aver commesso il fatto. Avrebbe fornito i nomi di quella gente che non gli disdegnò la visita in ospedale per assicurarsi che la morte avrebbe colto Francesco. Un omicidio, ma non si sa con chi. Ancora oggi che pure Moretti, uno dei quattro occupanti della 850, forse quello che avrebbe dato l’ordine – “È lui, prendetelo!” – è morto. Morto libero. Libero di vivere quella vita che a Francesco è stata tolta. Libero come quel diritto che ti consente persino di mandare a morte chi sta dalla parte sbagliata. Che non è quella di chi ammazza. Libero come quella concessione che ti permette di ammazzare un fascista, tanto non è reato. Francesco non era fascista, ma credeva in un’idea, anche se non credeva di diventare un eroe e di vivere per sempre.

Una giornata tranquilla divenuta infernale

Quella sera di maggio voleva solo andare a mangiare un gelato insieme a sua sorella, che pensò di preservare attirando a sé i suoi aggressori. I suoi assassini che festeggiavano nel ’79 allo stesso modo di come festeggiano nel 2024 la fine del fascismo, il 25 aprile e che, nonostante si dicono liberatori e liberati – senza il minimo rigurgito di cortocircuito – vedono ancora fascismo ovunque. Vedono coloro che hanno ancora una identità quali obiettivi da combattere ed eliminare. Sono loro che, come negli anni di piombo, ancora odiano. E l’odio si traduce inevitabilmente in omicidio. Stessa forma mentis di allora, identico modus operandi oggi. Che ti chiami Cecchin, Ramelli, Ciavatta, Recchioni non conta. Conta di essere in numero superiore, spropositatamente superiore rispetto a quell’uno individuato. Conta di sorprendere da solo il loro obiettivo. Conta di sorprenderlo da dietro. Conta di fracassargli il cranio. Ieri con una Hazaret 36, oggi con martelli e manganelli retrattili. Conta poi scappare e conta non contare mai gli anni di carcere a cui mai nessuno li condannerà. Conta non pagare mai. Conta poter contare su Soccorso Rosso ieri e sul soccorso rosso oggi. Non contano le 4 condanne e le 29 denunce, Ungheria esclusa: puoi ugualmente essere chiamato “onorevole” e rappresentare una parte degli italiani.

Francesco, e non fu il solo, fu ammazzato volontariamente allora e hanno continuato ad ammazzarlo ancora. Con il divieto di interrogarlo da parte del suo avvocato, nonostante il coma indotto, tanto si sarebbe ripreso da lì a pochi giorni, secondo il personale medico. Cosa che non avverrà mai; ammazzato con i risultati dell’autopsia prima alterati e poi ignorati. Autopsia eseguirà senza togliere nemmeno i tutti i vestiti; ammazzato con le indagini fumose e superficiali da parte degli inquirenti; con la mancata consultazione del corposo dossier redatto da parte dei ragazzi del FdG; con il diniego da parte del Viminale di inserire il nome di Cecchin tra le vittime del terrorismo; occultando la verità.

Magari, con il disincanto degli anni, con i cori isterici dei figli di papà, con il “partecipato” perché interessato silenzio istituzionale si riuscirà davvero a fare credere che Cecchin sia accidentalmente caduto da un parapetto di 5 metri e che sia caduto di testa. Che l’atterraggio di testa spiega il fatto che braccia e gambe non rechino lesioni, mentre sul corpo siano stati rinvenuti i segni compatibili di una sprangatura. Di uno stordimento. Di una esecuzione. Milza spappolata in primis. Magari non saranno nemmeno necessari 7000€ al mese per pagarsi gli avvocati quando ci si potrà avvalere dell’immunità parlamentare per non pagare. Pur di aggirare la legge, ma non l’infamia. Strano modo di vivere questo, non di morire. Seppur con un pacchetto di sigarette gettato vicino a quel corpo esanime, col cranio fracassato, ma ancora vivo. Seppur in una pozza di sangue con un mazzo di chiavi in mano, nel ’79. Nel 2024 Francesco vive ancora. Perché Francesco è primavera, Francesco è libertà. Adesso porta in mano una rosa e nell’altra la verità!

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QUANDO LITIGANO I MUGNAI FATE ATTENZIONE ALLA FARINA.

Che Vincenzo De Luca sia ormai un fenomeno da baraccone alla Vannacci è cosa nota, ma che anche Giorgia Meloni inizi a gigionare è sinceramente molto preoccupante. Potrebbe essere delirio di onnipotenza, crisi di potere, il potere che logora chi rischia di non averlo più, quasi una demenza senile per lo sceriffo. La st**”za (cit. di quell’insultocratico di Vicienzo) che risponde per le rime fa ridere, rodere e godere, ma se da qua si parte per ingaggiare una battaglia ad personam la cosa inizia seriamente a preoccupare. Per fatti e personaggi.
È notizia fresca che da Palazzo Chigi sia partita una informativa destinata all’Antimafia volta a fare chiarezza su presunte irregolarità di alcune – a leggere, la maggior parte – domande (e relative assunzioni) da parte di immigrati per motivi lavorativi – la locuzione fa ridere in un Paese che ha scambiato il reddito di cittadinanza per occupazione- e in una zona specifica dello Stivale – la Campania – dove l’atavica mancanza di lavoro va a braccetto col Vesuvio, la pizza e il mandolino a comporre una “interessata” cartolina. Nel linguaggio perennemente elettorale, che ha tristemente sostituito quello politico, significa Meloni contro De Luca. Atto terzo, ma non ultimo. “Significa che i flussi regolari di immigrati per ragioni di lavoro vengono utilizzati come canale ulteriore di immigrazione irregolare. Significa che, ragionevolmente, la criminalità organizzata si è infiltrata nella gestione delle domande e i “decreti flussi” sono stati utilizzati come meccanismo per consentire l’accesso in Italia, per una via formalmente legale e priva di rischi, a persone che non ne avrebbero avuto diritto, verosimilmente dietro pagamento di somme di denaro (secondo alcune fonti, fino a 15.000 euro per “pratica”).
L’ipotesi di infiltrazioni criminali sembra avvalorata dal fatto che la stragrande maggioranza degli stranieri entrati in Italia negli ultimi anni avvalendosi del “Decreto Flussi” proviene da un unico Stato, il Bangladesh, dove le autorità diplomatiche parlano di fenomeni di compravendita dei visti per motivi di lavoro. I bengalesi, ricordo, sono anche la prima nazionalità di immigrazione illegale nei primi cinque mesi di quest’anno, e questo presuppone un collegamento forte tra organizzazioni criminali che operano nel paese di partenza e organizzazioni criminali che operano nel paese di arrivo” si legge sul sito istituzionale del Governo.
Al netto dei dati snocciolati a proprio uso e consumo, quanto appare è proprio la “guerra dei fessi” con conseguenziale vittoria di Pirro, per l’uno e per l’altra: l’una non vede l’ora di mettere in relazione De Luca che fa la “pastetta” con clandestini e persino con la malavita che fa affari d’oro, mentre l’altro gongola perché se subiamo l’immigrazione, aggiungiamo pure clandestina, incontrollata e incontrastata è colpa (degli amici) del governo, visto che la responsabilità è di Ministro dell’Interno, Prefetto e Questore. Insomma, il classico ping-pong di responsabilità istituzionali all’Italiana. Solo che tra (poca) diplomazia, risposte al vetriolo, rilanci in politichese e arzigogoli vari, buoni solo se fossimo stati in un teatrino di basso rango e per la prima e l’ultima volta, le città e le province ormai sono invase da falangi di giovani, perlopiù di sesso maschile, in età militare che bivaccano ovunque, annoiati, nullafacenti, dimenticati e che devono pur mangiare, oltre che sollazzarsi. Sintetizzando, delinquono per mangiare, per svago, per necessità, per spasso. Parliamo di facile manovalanza per la malavita in quanto a spaccio – quindi, vendita di morte – o di delinquenza quali furti, rapina, omicidi. Parliamo dello strapotere che la Camorra riesce ad incamerare. Parliamo di un antistato che riesce a crescere e a impossessarsi di intere in zone di territorio grazie all’assenza dello Stato e delle istituzioni. Cioè degli stessi Meloni e De Luca. Parliamo delle periferie da San Giovanni, Barra, Ponticelli a Scampia e Secondigliano. Parliamo del centro storico come dei quartieri “alti”, quelli tutti Rolex e Ztl. Parliamo di Caivano, dove addirittura c’è un altro stato. Un terzo. Per conto terzi: la Chiesa. Che dà fastidio a De Luca che ha abbandonato quel territorio, dove Meloni cerca consensi. Con senso.
In mezzo a tutta questa commedia, nel senso napoletano di “litigio”, a subire tutte queste tarantelle c’è il popolo, ci sono i contribuenti ridotti a tristi spettatori del più pessimo spettacolo, ci sono gli elettori che dovrebbero sentirsi rappresentati da costoro e che, se va bene – per loro – si trasformano in acefali tifosi. Se dovesse andar male… saranno in netta minoranza e, quindi, non contano. Proprio come quelli che alle elezioni sono i primi a smettere di contare i consensi.
Intanto, non c’è una scuola politica che formi i nuovi De Luca. Non c’è un partito, ancor più grave se di governo, che riesca a contrapporre qualcuno a De Luca. O almeno creare un anti-De Luca. Presto, ovvero subito dopo le elezioni, il sipario calerà, i toni si smorzeranno, la guerra conoscerà una tregua, mentre abitanti e territori continueranno a subire. Persino il loro silenzio. Complice. Complici.

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Tutta l’ipoCRISIa del concertone DEL PRIMO MAGGIO. (E che ipocrisia sia!)

Il concerto del Primo maggio ci ha “smantellato” gli zebedei !!
” E Diciamocelo”, come duceva ‘gnazio che di La Russia ha poco o niente.
Il concertone è niente di meglio che la vera data simbolo del cortocircuito che quest’asinistra ormai rosso sbiadita, manco più fucsia e conciata con tutti i petalosi colori dell’arcobaleno, riesce a mettere in campo. Campo Largo ovviamente.
Cosa resta oggi, che persino profumo Fassino è diventato l’uomo che non deve chiedere mai, di quello sciopero generale del 1 maggio 1886 con cui si lottava per ottenere la giornata lavorativa di 8 ore (vittoria fascistissima!), partita, come anche la festa de (a) l’otto m’arzo e il 25 aprile, nientepopodimeno che dall’America?
Il tradizionale concertone di piazza San Giovanni non si fa manco più a piazza San Giovanni, ma al Circo Massimo dove, anche quest’anno, come sempre, si grideranno (al vento) slogan di ogni genere – non sessuale, non sia mai, dicono quelli che poi si scapicollano per i femminicidi – senza capirci nulla come sempre. In fondo si va per cantare. Al ritmo scandito di ogni cantante paladino del fluo che più fluo non si può. Anche perché, se così non fosse, non canterebbero.
Ad aprire la kermesse, BigMama una che fa la cantante grazie al bodyscemi che però è anche un po’ fru fru che non guasta ed è salita sul palco di Sanremo per mostr(u)are la sua pinguedine, mica la sua voce. In fondo, all’Ariston va in scena – e oscena – il ciccia-pride, mica il festival della canzone italiana! E, poi, a ruota – ma non a rota, o forse sì – tutto il cucuzzaro partorito – e cresciuto – dall’ambiente no-strano progressista radical chic ormai sul caviale del tramonto. Ci saranno tutti, ma proprio tutti: d’altronde la sinistra è inclusiva, ma così inklusiva che in piazza, pardon, al circo per festeggiare la festa del lavoro ci saranno pure e soprattutto i disoccupati. Come potrebbero mancare all’evento che celebra lavoro che non c’è organizzato da chi il lavoro negli ultimi trent’anni l’ha distrutto? Che si chiami PCI, PDS, PD senza la esse di Schlein, “Shine” o come cavolo si chiama lei che almeno ci ha messo la faccia per non metterci il nome sul simbolo per le europee, dove stanno facendo una mega pubblicità involontaria al candidato generale opposto Vannacci al grido di “Ignoriamolo!”. Non l’hanno capito con Berlusconi quando si proposero di non nominarlo e lui stravinse. Non lo hanno capito nemmeno adesso. (Poi vedremo il risultato delle urne per il PD…..) Oggi e sempre, resistenti! De coccio, tanto per tenere la posizione.
Come avrebbero potuto mai capire, allora, che con la distruzione dell’industria pubblica italiana, con l’abolizione dei fondamentali diritti dei lavoratori, con la cancellazione dell’articolo 18, con il Jobs act, con il precariato, con i voucher, con l’emarginazione dei disoccupati italiani a favore della selvaggia immigrazione irregolare, finanche nelle graduatorie per l’assegnazione degli alloggi popolari il lavoro lo avrebbero distrutto? Sia chiaro, con la complice collaborazione di quelli che si buttano “a destra” e che concorrono in minima parte, in parte trasversale, ad incancrenire ulteriormente l’ambiente. Come la scuola, ormai officina atta a forgiare nuovi schiavi, che lavora a fare accettare già con l’alternanza scuola-lavoro condizioni lavorative senza se e senza ma. Senza insegnare a rendersi conto che esiste qualcos’altro e qualcosa di più alto.
Dopo questa festa dell’ipocrisia, questo inno all’imbecillità, questa conta di astanti analfabeti funzionali e ” fatti” – e qui libertà di scelta sull’accezione e, purtroppo, non sull’eccezione del termine – cosa resterà della musica non stop? Bottiglie non battaglie! Di birra vuote, piscio e cicchetti ovunque, filtri mezzi fumati, cartine per rivoluzionati di cartone. Magari qualche operaio sfruttato e sottopagato come la collaboratrice di madama la BoldrinA o addirittura in nero come la colf di compagno Fiko a ripiegare fili e a smontare la struttura di tubi innocenti. Non innocenti come tutti quelli che da anni affollano questa maratona di musica che francamente ha davvero rotto un po’ tutto quello che poteva.
P.S.: una buona notizia c’è: a Roma piove. Governo ladro!

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LIBERATE NAPOLI DAI NAPOL-AND !!

Più approfondisci i dettagli, più appare paradossale e maggiore è la consapevolezza che è tutto tristemente vero. Persino l’ambizione di presentare il gioco – sarebbe meglio dire il giogo – alla presenza di qualche autorità, sia essa il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi o di un’altra personalità “a tema” tipo Francesco Emilio Borrelli. Alla faccia dell’ambizione!
Stiamo parlando di Napoland, il nuovo gioco sviluppato da Giuseppe Tattoli che punta a lanciare la prima versione, almeno per Windows, entro la fine dell’anno corrente (sarebbe un azzardo considerarlo il regalo di Natale?), in cui un supereroe napoletano – Napuel – viene chiamato a liberare l’immagine di Napoli da tutti coloro che la rovinano, quali parcheggiatori abusivi e incivili in genere. Così a Fanpage descrive l’idea Tattoli in persona: “Napuland è una città bellissima, che viene però invasa dai Lutam” che la rendono invivibile. E quando arrivano a rapire Pulcinella, il simbolo della città, gli abitanti si rivolgono ad una maga che vive sul Vesuvio. La fattucchiera con un incantesimo racchiude tutte le speranze del popolo napulandese in un corno magico, lanciandolo nel vulcano: nasce così Napuel, il supereroe azzurro, chiamato per liberare Napuland dai Lutam e ovviamente Pulcinella, rinchiuso in un Castel dell’Ovo diventato la prigione cittadina”.
E pensare che c’era chi era pronto a giurare che il traffico era un problema tipico e topico di Palermo! Pulecenella presa a simbolo della città – il che già dice tanto, se non tutto – e non Partenope né Megaride e solo perché il Tattoli ambienta tutto a Castel dell’Ovo, da dove pare sia passata gente del calibro di Lucio Licinio Lucullo, Romolo Augusto, Virgilio, Giambattista Vico, Curzio Malaparte, giusto per citarne qualcuno che pare non sia solo transitato all’ombra del Vesuvio, ma l’abbia principalmente apprezzata e amata. Come Giacomo Leopardi che a Napoli riposa eternamente pur senza aver sentito necessariamente il bisogno di dedicare un solo verso a Pulecenella che aveva stancato anche Pino Daniele che ammetteva che era solo un “Suonno d’ajere”, o alla pizza o al mandolino.
E menomale che il “giogo” si svolge tutto sul lungomare altrimenti c’era la concreta possibilità che ci si prendesse “gioco” anche di tutto il tesoro artistico, letterario, monumentale, paesaggistico, architettonico che tutto il mondo ci invidia e che fa registrare il pienone di turisti ad ogni occasione utile prendendo letteralmente d’assalto cardi e decumani.
Niente pizza e niente mandolino che, forse, tanto danno non hanno prodotto come l’ennesimo cuzzetiello inzuppato nel brodo dello Sputtanapoli da questi che sono i figli di Saviano e niente più. Ma tanto basta.
Promozione migliore non esiste per questa città dalle mille risorse (autoctone e naturali) e che se fa secca ma nun more ridotta, senza il più elementare rigurgito di orgoglio e di identità, di amore e di riconoscenza, a piatto in cui sputare per poterne farne un enorme mangiatoia.
Sporchiamo Napoli, ancora e ancora oltre, con qualcosa nemmeno poi di tanto identitario, come può esserlo una macchia di pomodoro della pizza a portafoglio purché il portafogli abboffi! E pazienza se si consuma in diretta mondiale l’ennesimo cortocircuito interessato di chi per “salvare” Napoli la deve solamente affossare. Cca, però, nisciuno è fesso e Napoli non ha avuto bisogno di essere salvata da nessuno in 2500 anni di storia, figuriamoci se necessita di essere salvata “virtualmente” da un pazziariello utile soltanto a chi è avvezzo sulo a pazzia’. Non scherziamo, con Napoli innanzitutto. Che non necessita di essere riscattata, salvata o sputtanata ulteriormente. Napoli è città d’amore e va amata da uomini d’amore e uomini di libertà, non certo da miezze uomene, ominicchi e quaquaraquà, sottoprodotti costruiti artificialmente alla scuola dei vari (e avariati) Saviano e dei De Giovanni, solo per rimanere nella stretta attualità che nemmeno le peggiori prefiche defilippiane. Se non la si sa amare Napoli, se non la si sa apprezzare, se non si capisce che è il miglior prodotto artigianale le cui imperfezioni sono il vero valore aggiunto dell’autenticità e dell’inimitabilità, lasciate stare! Non rifugiatevi nella creazione artificiale che è quanto di più scollato dalla realtà che esista: restate a casa e imparate ad apprezzare ciò che vi è stato dato gratis là fuori.
Non rifuggite la realtà perché tra caffè sospeso e panaro solidale, tra la struttura medievale di quei vicoli addò ‘o sole nun se vede pure se sei nella città del sole, conservata intatta mentre ci scorrazzi con motorini e i veri geni laureatisi all’Università non della strada, ma stradale come Polone, Napuland, il gioco che nessun beneficio apporterà alla città, “a me me pare proprio ‘na strunzata!”.

“Faccetta nera” sia l’inno del 25 aprile: la scena comica di Ariano Irpino

Faccetta nera Ariano irpino

Roma, 25 apr – La battaglia tra paradossi e cortocircuiti imbastiti ad hoc in occasione del 25 aprile aveva da tempo superato il limite dell’imbarazzo e l’ultima – solo in ordine cronologico, ne siamo certi – pagliacciata, arriva nientemeno che da Ariano (è proprio il nome del paese e non un buffo scherzo del destino) Irpino.

Il Faccetta nera di Ariano Irpino, uno spettacolo comico

Sul Tricolle avellinese, e più precisamente alla scuola media don Milani, è andato in scena un comico spettacolo che ha per co-protagonista un insegnante di educazione musicale, il quale, in occasione della Festa della liberazione, pare abbia chiesto ai suoi alunni di studiare (che brutta parola!) nientemeno che Giovinezza. Testo e musica. La “bomba” che è scoppiata, manco a dirlo, è stata peggio di quelle numerose “alleate” cadute anche sull’Irpinia, con il Preside protagonista della vicenda, che, alla stessa velocità di quelli che col fazzoletto rosso al collo montarono sul carro del vincitore l’indomani del 25 aprile, si erge a pasdaran e si spertica tra comunicati, ammonimenti e rassicurazioni ai genitori.
Innanzitutto uno scappellamento a sinistra in ossequio a quella Costituzione antifascista che proprio antifascista non è: i padri costituenti, che fessi non erano per essersi formati in tutt’altra scuola, si guardarono bene dal cancellare le innovazioni (mai apportate grazie ai sindacati) fasciste riguardanti le politiche del lavoro e quelle economiche. Segue, poi, un ammonimento con tanto di provvedimento disciplinare al professore incriminato, il quale, a detta del Preside raggiunto da Fanpage, è antifascista (per prima cosa) ed è un docente sui generis (solo poi) al quale piace farsi notare per le sue bizzarrie che presto finiranno perché è prossimo al pensionamento. E speriamo non sia un altro elemento costitutivo dell’essere un nostalgico. Come dire, meglio la patente di antifascista che la demenza senile!

Che poi proprio tale non è in quanto il brano è quantomeno contestualizzato e pertinente. Infine, la rassicurazione ai genitori sulla garanzia dell’antifascistitàhhh dell’istituto – così come dell’insegnante, ribadiamolo – con tanto di invito “urbi e stordi” al teatro comunale, dove verranno ricordati i valori antifascisti. Un’occasione persa per questo Preside che anziché intavolare un dibattito, un confronto preferisce “identitarissimi” censure e monologhi, senza contraddittorio, ovviamente. E che rinuncia persino a capire: sarebbe bastata, infatti, una semplicissima analisi del testo per comprendere che, paradossalmente rispetto al comune pensiero, Faccetta nera, in cui la politica è del tutto assente al pari di Bella ciao, è un mero inno all’integrazione.

Il significato del brano

Se si avesse una non media, ma elementare onestà intellettuale di leggere, si rischierebbe di capirebbe che nel brano ci si rivolge ad una “Moretta”, che dovrebbe essere anche un gran bel pezzo di ragazza (bell’abissina), alla quale si dà la possibilità di diventare italiana di colpo (altro che sòla dello ius soli!) dopo averla liberata (eh…) dalla schiavitù retrograda del negus, sarà condotta a Roma e, nella sua nuova condizione di cittadina libera, sfilerà al cospetto del Duce.
Se ci si aggrappasse a quella stessa onestà intellettuale anche nello studio, si correrebbe il rischio di apprende che Sua Eccellenza mal digeriva questo motivetto e che, nel corso degli anni, il MinCulPop tentò di limitarne la diffusione fino a eliminarlo completamente. Anzi, si creò persino un alter ego con Faccetta bianca in cui le mogli richiamavano “all’ordine” i mariti conquistadores, ma non ebbe la stessa fortuna della versione “di colore”. Chissà perché.
Quella stessa onestà intellettuale che non faticherebbe a far ammettere lo stato di conservazione di strade, palazzi, condotte idriche, ponti e infrastrutture in genere ancora oggi funzionanti in quel posto al sole, dove ci si recò per fare la guerra alle democrazie coloniali e si finì per portare la civilità.

Basti pensare che alle genti locali era in uso salutare romanamente proprio perché avevano acquisito la condizione di cittadini liberi e non più con il servile inchino verso terra. Che occasione mancata per questo Preside sempre più manager e sempre meno insegnante, formatore, questa volta nemmeno con la maschera di avvocato, ma con quella di un azzeccagarbugli di basso rango per dimostrare (almeno) la corretta interpretazione delle fonti, la ricerca retta e veritiera, l’essere veramente un uomo libero, dal pensiero all’azione. Per riflettere sull’accanimento dei festeggiamenti per la fine di una guerra che si protrarrà almeno fino al 2 di maggio, su un armistizio che in realtà fu una essa incondizionata e per una liberazione che ha sancito nient’altro che le chiavi di casa nostra ad una potenza straniera. Perché per dignità personale e professionale e affinché lo spettacolo continui la sola azione (e la soluzione) che andrebbe intrapresa sarebbe quella di intonare, con tanto di mani nei fianchi e con fiero petto in fuori, un bel coro di “Faccetta nera” vero inno all’integrazione. Scolastica e no. Magari anche insieme ai genitori presenti in platea.

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NASCE PRIMA L’OVULO O LA GALLINA?

“Milano gambe aperte, Milano che ride, si diverte” cantava Dalla che non è certo un imperativo categorico volitivo rivolto alla donna. Donna come Milano, che, però, fa ridere di sé e delle donne. È la Milano woke, tutta agenda della cancellazione della cultura; la Milano inclusiva dei petalosi arcobaleni e degli unicorni colorati dell’unico colore del pensiero unico. È la Milano Ztl e contributi generosamente elargiti ad ogni sorta di pride LGBT+-X:@#69asterisco. È la Milano con il Rolex sul polso che abbandona il caviale nel piatto per mozzicare l’involtino primavera e che apre ai ristornati “children free”, dove i bambini non sono ammessi che registra l’ennesimo cortocircuito, tanto evidente che, per salvare l’orgoglio meneghino, persino il primo cittadino Beppe Sala è costretto a fare marcia indietro. A dire che è troppo persino per quelli come loro.
Oggetto del discorrere è la collocazione, o meglio, il rifiuto della collocazione della statua denominata “Dal latte materno veniamo” in piazza Eleonora Duse – al cui proposito ci saremmo aspettati la vuota crociata in nome della difesa della “donna Duse” che prevedeva, come da protocollo, l’imbrattamento delle statue di d’Annunzio con vernice rigorosamente rosa, ma evidentemente stavolta non era in agenda – e non, poi, per chissà quale impedimento di sorta, per un soggettivo gusto estetico o chissà quale cavillo come la Napoli di Manfredi insegna.  No, la statua non s’ha da collocare perché “la maternità non è un elemento condivisibile da tutti”. La maternità è da cancellare per la commissione di esperti. La maternità offende a detta dei dotti soloni ambrosiani. Chissà se la vita si sia offesa ad essere stata donata a personaggi come questi. Chissà se i periti, se non sono periti per davvero, o, forse, solo “pìriti”, nell’accezione napoletana del termine, siano in grado di concepire, al di là dell’agenda che debbono seguire, che negare la maternità equivale a negare la vita. La maternità è un concetto universalmente fondante. Per un religioso e per un ateo, per un nordico e per un “sudicio”, per gli umani e pure per le bestie. Ogni essere vivente è tale perché nasce, cresce, si riproduce e muore.
La commissione inclusiva, buona buonissima buonista, addirittura suggerisce ai familiari dell’artista Vera Omodeo, che hanno donato l’opera, di regalarla ad un istituto religioso, dove la maternità può essere maggiormente valorizzata. Il che è un chiaro sintomo di un’intelligenza e di una preparazione totalmente asintomatica, nella misura in cui “maggiormente valorizzata” sta per “anche minimamente valorizzata”. Pure la commissione – femminile almeno nel genere grammaticale – è costituita da membri (sic!) che sono il prodotto di una maternità! Naturale, surrogata, in provetta, a pagamento, in affitto, che, per come bizzarramente la si concepisca, sempre maternità è. Senza maternità non ci può essere vita, molto semplicemente. È un fatto genetico. Ereditario. Originario.
Dire di no alla vita: forse è questo il vero messaggio da fare passare. In un momento in cui l’Italia, ma anche l’Europa e l’America vivono il peggior calo demografico di sempre, per giunta. Cancellare (anche) la maternità in nome dell’offesa, o fessi, del politicamente corretto, da parte dei prodi in ogni pride perché alla donna siano riservati gli stessi diritti degli uomini e sia dato anche all’uomo il “diritto” di partorire, di allattare, di giocare a fare la donna, anzi la mamma, che farciscono tutto in nome delle quote rosa e non delle reali capacità dell’essere umano, cui appartiene anche la donna – è il culmine dell’idiozia di questi sterili esecutori di obiettivi che non sono più nemmeno in grado di ragionare, di discernere il finto dal vero, di essere persino il valore aggiunto alla loro battaglia.
Insomma, una donna da cancellare, da nascondere e che offende secondo quei “donnafondai” con la mimosa nella pochette cui basterebbe capire che la donna ha l’inestimabile valore di “generare” vita. Ed è unica nel suo genere!
Partorire eroi, geni, artisti, generare vita è un dono che non potrà mai fare vergognare nessuno e per chi si sente offeso da tale esclusivo dono, come da notare il coordinamento Daria, è di esempio direttamente Caterina Sforza che, nell’assedio della sua città, vedendo minacciato il figlio, rispose mostrando il proprio sesso e gridando al nemico: “Ho lo stampo per farne altri!”.

 

LA CAMPANIA DIVINA, De Luca “DI VINO” E…….BASTA !!

Se c’è un attore che da un po’ di anni a questa parte mette tutti d’accordo nel detestarlo, che ha finito per essere il vicino delatore, il sostenitore delle idiozie più strambe in epoca Covid, questi è Alessandro Gassman e lui, manco a dirlo, diventa il “prescelto” dal presidente Vincenzo De Luca. E non poteva essere diversamente, visto che in quanto a idiozie pandemiche, il Presidente della Regione Campania non ha conosciuto vergogna. Se, poi, l’attore è romano e pure mezzo francese, allora Vincenzo De Luca lo sceglie addirittura per “dare voce alla Campania”. Lo sceglie nel senso che lo paga – con i soldi dei contribuenti, ovviamente – per interpretare – leggi pure “fingere” – uno spot sulla regione Campania, “Campania divina”, che tale non è.
Siamo ben consapevoli che in un paio di minuti non si può regalare la celebrità a tanti posti e a tanti monumenti che la notorietà ce l’hanno già da sé (appunto!), ma a ben vedere la pubblicità, altro che Campania divina: sembra più una valorizzazione di Napoli e Salerno, di Salerno & Napoli. La costiera amalfitana, il mare, il sole, ‘o Vesuvio… tutte cose che ha giustamente inventato Vincenzo De Luca. Quel De Luca che non incanta e che non stupisce, ma è sempre quello del famigerato “Patto di Marano”, ovvero l’accordo con il fu De Mita che ha dato il colpo di grazia ai già martoriati territori interni. Nel nanosecondo dedicato nello spot, non si riesce nemmeno a capire (bene) se lo scorcio paesaggistico che ritrae le topiche case colorate, addossate una sull’altra, si riferiscono a Positano, a Procida o addirittura a Calitri. Non una boccata di ossigeno della verde Irpinia con i suoi boschi, le sue montagne, la flora e la fauna, i prodotti DOC e IGP rinomati nel mondo. Come se l’Irpinia fosse solo Montevergine. Altro che Campania divina: nemmeno di vino se si ignora Taurasi e Tufo ad esempio, ma non ci si dimentica dei pomodori e il mare!
E cosa dovrebbero dire Benevento e l’intero Sannio (già quasi, a giusta ragione, Molisannio!) cui non è stato dedicato un frazione di secondo? Eppure Benevento pullula di storia e di edifici (l’Arco di epoca traianea e la Chiesa di Santa Sofia, patrimonio dell’UNESCO su tutti), vanta il secondo museo egizio più grande d’Italia, dopo quello di Torino.
Il Vesuvio, la costiera (ma non quella cilentana!), il pesce (c’è il mare, guarda un po’!) sono attrattive arcinote al turista e non hanno certo bisogno di essere pubblicizzate! Così come Pompei, Ercolano e Paestum. Eppure, a quattro passi da Paestum, si trova il Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano e Alburni: chi sa, nel caso specifico, che quest’area riservata è stata iscritta nella rete dei Geoparchi UNESCO dal 2010 e già dal 1997 fa parte della Biosfera NAB dell’Unesco? Non è forse da pubblicizzare? O i borghi e i paesini dell’entroterra dove si mangia… “da Dio”, per dirla con De Luca.
Però un merito a Vicienzo ‘o sceriffo va riconosciuto, ovvero quello di aver avuto l’onestà di pubblicizzare solo le bellezze naturali campane e non ciò che egli ha realizzato nel “decennato” a Palazzo Santa Lucia: il disastro della Sanità che nemmeno la pandemia ha fermato, anzi: con gli ospedali COVID è stata imbastita una vera e propria truffa, il trasporto pubblico locale azzerato, il “Sistema Salerno” e, per brevità di articolo, non citiamo le innumerevoli sciagure di cui egli è l’unico artefice, il principale responsabile, il vero colpevole.
Acqua e solo acqua la Campania di De Luca. O, forse, una Campania che fa acqua da tutte le parti. Eppure i tratturi, la via Appia, l’acquedotto Carolingio, quello irpino, Aeclanum, la valle telesina sono solo pochissimi tesori che andrebbero fatti conoscere, le ricchezze che sono state “maranamente” dimenticate e che andrebbero valorizzate: queste andrebbero pubblicizzate! D’altro canto, Cristo si fermò ad Eboli, il “divino” De Luca, a quanto pare, molto, ma molto prima.

 

NON E’ TUTTO PUTIN QUELLO CHE LUCCICA………!!

Al di là di come la si pensi su Vladimir Putin, la sua plebiscitaria riconferma dovrebbe essere occasione di numerosi spunti di riflessione che sarebbe un vero peccato non cogliere. Primo su tutti la libertà di stampa dell’intero Occidente, o meglio, il grado di asservimento da cui la stampa nostrana è affetta: lo ricordiamo che l’Italia, la democraticissima Italia si attesta al 41° posto secondo Reporter senza Frontiere? Nel 2002 eravamo precipitati addirittura al 58esimo posto: Covid batte guerra in Ucraina 1-0.
Opinione pubblica da in-formare persino sulla sorpresa della (auto)vittoria nella corsa per il Cremlino con avversari imprigionati, esiliati, morti.
Anche da solo , anche con le urne trasparenti dove inserire la scheda (aperta) una volta votata – come nel caso del referendum sull’Ucraina ad “operazione speciale” iniziata – l’ex membro del KGB ha ottenuto un consenso elettorale altissimo, con pochissimi precedenti in Patria a cui, forse, solo la cancelliera tedesca Angela Merkel può avvicinarsi.
È innegabile che la Federazione russa dell’era Putin abbia registrato un miglioramento delle condizioni di vita, ma va ricordato che il Paese aveva appena vissuto il crollo dell’URSS, quindi, il fondo era stato già toccato. Questo è un dato che hanno stesso valore di quando in Italia ci si fa belli con la disoccupazione che scende o con lo stipendio che aumenta a cui, però, non corrisponde l’ effettivo potenziamento del potere d’acquisto. Il PIL russo è quello di un Paese medio, inferiore non solo a quello dell’Europa, ma addirittura a quello di singoli stati come la Germania o la Francia, ad esempio. Dunque, se è vero come è vero che la situazione non è così florida, da dove deriva quest’alta percentuale di gradimento? In un momento di guerra, per giunta! Proprio dalla guerra. È evidente che i Russi approvino la guerra all’Ucraina che Putin ha iniziato. A torto o a ragione. Vecchie reminiscenze di quell’identità espansionistica tanto cara agli zar? Che vadano a quel paese tutte le cartine che recitano l’espansione NATO ad Est, proprio la stessa Nato di cui proprio Putin avrebbe voluto fare parte e alle cui esercitazioni ha partecipato da “membro esterno”. Se la Russia di Putin non ha velleità espansionistiche, Putin ha saputo ben interpretare il volere del suo popolo. Chissà se lo stesso popolo è a conoscenza dei frequenti viaggi compiuti dall’americano Kissinger tra Washington e Mosca, anche ad operazione speciale in pieno svolgimento. Lo stesso Kissinger che ha (ri)armato la Russia dopo il crollo dell’Urss. E che, questa guerra, non sia stata l’occasione giusta, il favore ricambiato per riportare in vita un vecchio catorcio come la NATO che senza un nemico non aveva più ragione di esistere? Con buona pace dei due nemici in guerra che, a quasi tre anni dal conflitto, non si sono scambiati uno sputo direttamente. D’altronde, così come riportano il Corsera ( ) ed altri fonti, pare che la Russia attacchi postazioni ucraine dopo che gli Usa abbiano fornito l’esatta posizione degli obiettivi a seguito di sofisticati studi di droni satellitari. D’altronde nello spazio Usa e Russia ci vanno insieme perché non stare insieme pure con i piedi per terra, magari con i piedi ancora sotto lo stesso tavolo, ancora a Yalta? E se questo è un vero affare, perché mai non può esserlo la verità di uranio russo agli Usa, quando gli Usa stanno commerciando gas con l’Europa al posto di Mosca? Perché l’obiettivo, non solo commerciale, è l’Europa, dove si interrogano, soprattutto in Italia, sulla possibilità di una terza guerra mondiale, mentre una escalation nucleare paralizza le meningi. Non di Macron, per fortuna che – sarà pure odiato all’ombra della Torre Eiffel, ma in quanto a politica estera non è certo Gigino Di Maio – ha rimesso le cose al loro posto, snocciolando, dati alla mano, la vera valenza di Mosca e tranquillizzando sul pericolo della minaccia nucleare.
Se così stanno davvero le cose, allora perché la Russia è così potente tanto da essere calamita per tanti italiani? Semplice: non è la Russia ad essere forte, ma l’Europa ad essere debole. Se Usa e Russia ci stanno facendo la guerra – in Ucraina, ma la stanno facendo a noi Europa -, se ancora fatichiamo a sentire nostro questo attacco è perché l’Europa è divisa e manca di una identità propria. Questo porta persino al pericolo di sentirsi “liberi” illudendosi di scegliere il nostro nuovo padrone: non più Washington, ma sì a Mosca. Mai Roma, ma perché no la terza Roma. Cioè loro che vogliono essere noi. Finché non avremo coscienza unitaria e non saremo in grado di riconoscere che siamo LA Civiltà per antonomasia, la nostra debolezza sarà il loro punto di forza. E non rendercene conto sarà persino peggio.
“Liberi non sarem se non siamo uno” scriveva Manzoni. Il Canto degli italiani recita “Noi fummo da secoli calpesti, derisi perché non siam popolo, perché siam divisi”: è questa la “ricetta” dell’altrui forza, questa la soluzione affinché noi ritorniamo potenza.
Questa è una lettura degli eventi “interessata” per ciò che a noi interessa, deve interessare: non ci interessa capire se davvero la Russia stia combattendo con una mano dietro la schiena e cosa giovi perdere tempo per una vittoria finale, ma non si può non apprezzare chi non è rimasto sordo, persino ad una battaglia impari, al richiamo del suolo natio, a come stanno dividendosi le nostre vesti, alla sorte che stanno gettando sul nostro vestito.
Allora, fu vera gloria?

 

IL DIRITTO ALL’ABORTO E’ LA NEGAZIONE DELLA VITA. Il pericolo subdolo della scelta francese.

TLungi da ogni moralismo e da ogni lettura “etica”, cerchiamo di capire quale significato ha l’introduzione del diritto di aborto nella Costituzione francese.
Innanzitutto diciamo che in Francia il diritto all’aborto esiste già ed è stato introdotto nel 1975, grazie alla Legge Veil che consente di potere interrompere volontariamente la gravidanza sino alla quattordicesima settimana di gestazione. Come in Italia. Ciò da cui partire è il binomio “diritto ed aborto”, dove aborto sta per sopprimere una vita che è in noi, ma che è altro da noi. D’altronde, questa è la società dei mille diritti e dei pochissimi doveri. Altra cultura. Cultura di questo tempi. Se anche l’Ansa, la principale agenzia di stampa italiana che dovrebbe essere per sua natura neutrale, parla di “diritto all’aborto”, capiamo subito che è inutile discorrere sul tifo e la dietrologia.
Se, dunque, esiste da ormai mezzo secolo qual è la portata di questa novità? Essenzialmente una portata storica, perché la decisione, passata con larga maggioranza, fa sì che il diritto all’aborto – ripetiamo, al di là di come la si pensi in merito – entra in Costituzione, ovvero diventa un asse portate delle istituzioni statali.
Colpisce, dunque, il fatto che la Francia, così come l’Italia, è affetta da un preoccupante calo demografico e, nel peggior momento di “vita” del calo delle nascite, i cuginetti d’oltralpe aprono la Costituzione ad una legge che non verte alla crescita della popolazione e alla proliferazione di nuove leve, ma al suo esatto contrario. Se è vero che non è un mistero che potrebbero attingere dalle loro colonie i “nuovi francesi”, è innegabile che sotto la Torre Eiffel hanno uno strano concetto di Costituzione.
La notizia ha fatto clamore, ma a favore (cfr. la posizione dell’Ansa di cui sopra) ed è arrivata in concomitanza con la festa della donna, quando le donne potranno festeggiare la libertà di ammazzare, tanto “il corpo è mio e lo gestisco io”, persino se non sono state capaci di gestire quel corpo che ricorre – poi – al diritto all’aborto (dell’altrui vita), quale mezzo anticoncezionale, anche se la concezione è già avvenuta. Un metodo riparatore postumo spacciato come diritto, libertà, emancipazione.
Avrebbe dovuto far clamore perché persino Marine Le Pen, a capo del movimento Rassemblement National, ha lasciato “libertà di coscienza” ai suoi in merito al voto e lei stessa, a voto avvenuto, si è detta “soddisfatta” della decisione presa.
Ciò vuol dire che, quando arriverà da noi la stessa questione – e già, perché è ormai almeno mezzo secolo (di cui sopra…) che se un membro (sic!) dell’Unione europea di Bruxelles partorisce qualche idiozia, presto o tardi la stessa idiozia arriva come un domino nelle altre “regioni” di Bruxelles, senza che sia necessariamente colpa di Bruxelles – non vi sarà, non ci potrà e non ci dovrà essere opposizione alcuna da parte di Salvini e similari cugini della Le Pen. Anzi, toccherà persino dirsi contenti. Con tanti saluti alle nuove vite.
Avrebbe dovuto fare clamore la posizione almeno del Papa che, però, si è espresso solo attraverso la Facoltà pontificia, ma stavolta non ha avuto il favore della stampa che non ha sponsorizzato e fatto megafono, come in merito alle recenti dichiarazioni di pace, seppur fuori tempo massimo, sulla guerra in Ucraina – le sole cose (scontate) che un Papa avrebbe dovuto dire.
La direzione di morte e non più di vita è data: presto arriverà anche il “diritto” di chiedere di morire e non la necessità, la volontà, una soluzione estrema.
Non ci resta, dunque, che attendere l’ennesimo piano inclinato. Dagli altri. Quelli del “pensiero progressista”.

https://www.camposud.it/il-diritto-allaborto-e-la-negazione-della-vita-il-pericolo-subdolo-della-scelta-francese/tony-fabrizio/

LA VENERE DEGLI STRACCI 2: OVVERO LA VENDETTA DEL “PISTOLOTTO” DI PISTOLETTO

A volte ritornano… (purtroppo). Errare è umano, perseverare è diabolico. Chi la dura la “vice”. Così deve aver parlato il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi che il prossimo 6 marzo inaugurerà la Venere degli stracci di Pistoletto. ‘N’ata vota? Ebbene sì! Cioè, inaugura una seconda volta la stessa statua che non è mai stata inaugurata prima perché, l’opera, è sempre la stessa, che però ne è un’altra ex novo, una copia, perché la prima andò al rogo. Insomma, né più e né meno di un De Luca che, in epoca di pandemia, inaugurava più volte gli stessi reparti ospedalieri mai entrati in funzione, però in versione metropolitano. Con la variante che la statua esiste davvero. Di nuovo. Di nuovo di resina e di nuovo ignifuga. Come quella andata a fuoco. Con gli stracci donati dai napoletani che, però, hanno versato oltre ventimila euro nel crowdfunding (una sottoscrizione/una questua) per la realizzazione della nuova opera e che oggi si sentono dire pure che l’autore, Michelangelo Pistoletto, l’ha addirittura donata! E allora quei soldi? E quella statua nuova uguale sé stessa che è già copia di un’altra realizzazione uguale? Più che realizzazioni artigianali, l’artista piemontese deve aver aperto un opificio di riproduzioni in serie. Oppure ne sta sfornando talmente tante che ormai… ha preso la mano!
Insomma, insistono: la Venere degli stracci deve stare a Napoli, laddove è stata incendiata, per una seconda volta e per tre mesi. Dopo dovrà essere collocata non si sa dove, ma siamo certi che l’amministrazione Manfredi saprà certamente trovare una degna collocazione al manufatto, così come non ha saputo – leggi voluto – fare per la statua di Maradona dell’artista autoctono Domenico Sepe.
Più che il triste destino di una statua, sembra essere un vero e proprio accanimento artistico, proprio il pistolotto del Pistoletto che Napoli è costretta a subire. Almeno la stagione stavolta sarà quella giusta? Non il caldo eccessivo che potrebbe dare vita ad un rogo spontaneo, ma fine inverno – inizio primavera, in modo da verificare la capacità di assorbimento dell’acqua da parte delle pezze. Ops, stracci.
Insomma, chi raggiunge Napoli dalla stazione marittima dovrà necessariamente imbattersi in questa rappresentazione artistica che, se non tanti consensi ha trovato nell’opinione pubblica, sicuramente da pochissimi è stata apprezzata. A dire il vero, prescindendo dai gusti del singolo individuo, in tanti non l’hanno proprio capita. È pur vero che l’arte va interpretata, ma se un’opera deve essere addirittura spiegata per essere compresa, possiamo parlare di arte? Ma sì, per collocazione: la Venere, infatti, sarà ospitata ancora una volta su quella immensa e sterile colata di cemento senza verde che avrebbe dovuto collegare idealmente la terraferma col suo mare, Palazzo San Giacomo e il porto prospiciente, ormai adibita a “galleria d’artista”: una sorta di spazio temporaneo di allestimenti “artistici” che vanno dall’incredibile omaggio a Giambattista Vico tramite quella discutibilissima statua in cartapesta che avrebbe dovuto rappresentare il San Carlone di Arona fino ai Lupi di Liu Rouwang. Dopo la chiave di Milot, opera rifiutata da tante città e, manco a dirlo, accolta dalla Napoli inclusiva che ha trasformato in obbrobrio un punto strategicamente identitario della città, ora è il momento della Venere degli Stracci 2. La vendetta. Quella del Pistoletto che si accanisce affinché la sua fatica sia permanentemente ospitata a Napoli. Una sorta di rifugio per il “divino straccione”: la Venere rifugiata. Non è che niente niente questo Pistoletto ci sta proprio cuffianno? Non è che questo suo accanimento d’artista vuole comunicarci qualche cosa specifica? Magari che Napoli, la Napoli istituzionale, quella di Palazzo Sangiacomo, dal cui balcone si annunciavano rivoluzioni arancioni, ha visto avvicendarsi gente che le pezze dalla fronte (ce) le ha messe al c…? Chi ha orecchie…
https://www.camposud.it/la-venere-degli-stracci-2-ovvero-la-vendetta-del-pistolotto-di-pistoletto/tony-fabrizio/