LIBERATE NAPOLI DAI NAPOL-AND !!

Più approfondisci i dettagli, più appare paradossale e maggiore è la consapevolezza che è tutto tristemente vero. Persino l’ambizione di presentare il gioco – sarebbe meglio dire il giogo – alla presenza di qualche autorità, sia essa il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi o di un’altra personalità “a tema” tipo Francesco Emilio Borrelli. Alla faccia dell’ambizione!
Stiamo parlando di Napoland, il nuovo gioco sviluppato da Giuseppe Tattoli che punta a lanciare la prima versione, almeno per Windows, entro la fine dell’anno corrente (sarebbe un azzardo considerarlo il regalo di Natale?), in cui un supereroe napoletano – Napuel – viene chiamato a liberare l’immagine di Napoli da tutti coloro che la rovinano, quali parcheggiatori abusivi e incivili in genere. Così a Fanpage descrive l’idea Tattoli in persona: “Napuland è una città bellissima, che viene però invasa dai Lutam” che la rendono invivibile. E quando arrivano a rapire Pulcinella, il simbolo della città, gli abitanti si rivolgono ad una maga che vive sul Vesuvio. La fattucchiera con un incantesimo racchiude tutte le speranze del popolo napulandese in un corno magico, lanciandolo nel vulcano: nasce così Napuel, il supereroe azzurro, chiamato per liberare Napuland dai Lutam e ovviamente Pulcinella, rinchiuso in un Castel dell’Ovo diventato la prigione cittadina”.
E pensare che c’era chi era pronto a giurare che il traffico era un problema tipico e topico di Palermo! Pulecenella presa a simbolo della città – il che già dice tanto, se non tutto – e non Partenope né Megaride e solo perché il Tattoli ambienta tutto a Castel dell’Ovo, da dove pare sia passata gente del calibro di Lucio Licinio Lucullo, Romolo Augusto, Virgilio, Giambattista Vico, Curzio Malaparte, giusto per citarne qualcuno che pare non sia solo transitato all’ombra del Vesuvio, ma l’abbia principalmente apprezzata e amata. Come Giacomo Leopardi che a Napoli riposa eternamente pur senza aver sentito necessariamente il bisogno di dedicare un solo verso a Pulecenella che aveva stancato anche Pino Daniele che ammetteva che era solo un “Suonno d’ajere”, o alla pizza o al mandolino.
E menomale che il “giogo” si svolge tutto sul lungomare altrimenti c’era la concreta possibilità che ci si prendesse “gioco” anche di tutto il tesoro artistico, letterario, monumentale, paesaggistico, architettonico che tutto il mondo ci invidia e che fa registrare il pienone di turisti ad ogni occasione utile prendendo letteralmente d’assalto cardi e decumani.
Niente pizza e niente mandolino che, forse, tanto danno non hanno prodotto come l’ennesimo cuzzetiello inzuppato nel brodo dello Sputtanapoli da questi che sono i figli di Saviano e niente più. Ma tanto basta.
Promozione migliore non esiste per questa città dalle mille risorse (autoctone e naturali) e che se fa secca ma nun more ridotta, senza il più elementare rigurgito di orgoglio e di identità, di amore e di riconoscenza, a piatto in cui sputare per poterne farne un enorme mangiatoia.
Sporchiamo Napoli, ancora e ancora oltre, con qualcosa nemmeno poi di tanto identitario, come può esserlo una macchia di pomodoro della pizza a portafoglio purché il portafogli abboffi! E pazienza se si consuma in diretta mondiale l’ennesimo cortocircuito interessato di chi per “salvare” Napoli la deve solamente affossare. Cca, però, nisciuno è fesso e Napoli non ha avuto bisogno di essere salvata da nessuno in 2500 anni di storia, figuriamoci se necessita di essere salvata “virtualmente” da un pazziariello utile soltanto a chi è avvezzo sulo a pazzia’. Non scherziamo, con Napoli innanzitutto. Che non necessita di essere riscattata, salvata o sputtanata ulteriormente. Napoli è città d’amore e va amata da uomini d’amore e uomini di libertà, non certo da miezze uomene, ominicchi e quaquaraquà, sottoprodotti costruiti artificialmente alla scuola dei vari (e avariati) Saviano e dei De Giovanni, solo per rimanere nella stretta attualità che nemmeno le peggiori prefiche defilippiane. Se non la si sa amare Napoli, se non la si sa apprezzare, se non si capisce che è il miglior prodotto artigianale le cui imperfezioni sono il vero valore aggiunto dell’autenticità e dell’inimitabilità, lasciate stare! Non rifugiatevi nella creazione artificiale che è quanto di più scollato dalla realtà che esista: restate a casa e imparate ad apprezzare ciò che vi è stato dato gratis là fuori.
Non rifuggite la realtà perché tra caffè sospeso e panaro solidale, tra la struttura medievale di quei vicoli addò ‘o sole nun se vede pure se sei nella città del sole, conservata intatta mentre ci scorrazzi con motorini e i veri geni laureatisi all’Università non della strada, ma stradale come Polone, Napuland, il gioco che nessun beneficio apporterà alla città, “a me me pare proprio ‘na strunzata!”.

“Faccetta nera” sia l’inno del 25 aprile: la scena comica di Ariano Irpino

Faccetta nera Ariano irpino

Roma, 25 apr – La battaglia tra paradossi e cortocircuiti imbastiti ad hoc in occasione del 25 aprile aveva da tempo superato il limite dell’imbarazzo e l’ultima – solo in ordine cronologico, ne siamo certi – pagliacciata, arriva nientemeno che da Ariano (è proprio il nome del paese e non un buffo scherzo del destino) Irpino.

Il Faccetta nera di Ariano Irpino, uno spettacolo comico

Sul Tricolle avellinese, e più precisamente alla scuola media don Milani, è andato in scena un comico spettacolo che ha per co-protagonista un insegnante di educazione musicale, il quale, in occasione della Festa della liberazione, pare abbia chiesto ai suoi alunni di studiare (che brutta parola!) nientemeno che Giovinezza. Testo e musica. La “bomba” che è scoppiata, manco a dirlo, è stata peggio di quelle numerose “alleate” cadute anche sull’Irpinia, con il Preside protagonista della vicenda, che, alla stessa velocità di quelli che col fazzoletto rosso al collo montarono sul carro del vincitore l’indomani del 25 aprile, si erge a pasdaran e si spertica tra comunicati, ammonimenti e rassicurazioni ai genitori.
Innanzitutto uno scappellamento a sinistra in ossequio a quella Costituzione antifascista che proprio antifascista non è: i padri costituenti, che fessi non erano per essersi formati in tutt’altra scuola, si guardarono bene dal cancellare le innovazioni (mai apportate grazie ai sindacati) fasciste riguardanti le politiche del lavoro e quelle economiche. Segue, poi, un ammonimento con tanto di provvedimento disciplinare al professore incriminato, il quale, a detta del Preside raggiunto da Fanpage, è antifascista (per prima cosa) ed è un docente sui generis (solo poi) al quale piace farsi notare per le sue bizzarrie che presto finiranno perché è prossimo al pensionamento. E speriamo non sia un altro elemento costitutivo dell’essere un nostalgico. Come dire, meglio la patente di antifascista che la demenza senile!

Che poi proprio tale non è in quanto il brano è quantomeno contestualizzato e pertinente. Infine, la rassicurazione ai genitori sulla garanzia dell’antifascistitàhhh dell’istituto – così come dell’insegnante, ribadiamolo – con tanto di invito “urbi e stordi” al teatro comunale, dove verranno ricordati i valori antifascisti. Un’occasione persa per questo Preside che anziché intavolare un dibattito, un confronto preferisce “identitarissimi” censure e monologhi, senza contraddittorio, ovviamente. E che rinuncia persino a capire: sarebbe bastata, infatti, una semplicissima analisi del testo per comprendere che, paradossalmente rispetto al comune pensiero, Faccetta nera, in cui la politica è del tutto assente al pari di Bella ciao, è un mero inno all’integrazione.

Il significato del brano

Se si avesse una non media, ma elementare onestà intellettuale di leggere, si rischierebbe di capirebbe che nel brano ci si rivolge ad una “Moretta”, che dovrebbe essere anche un gran bel pezzo di ragazza (bell’abissina), alla quale si dà la possibilità di diventare italiana di colpo (altro che sòla dello ius soli!) dopo averla liberata (eh…) dalla schiavitù retrograda del negus, sarà condotta a Roma e, nella sua nuova condizione di cittadina libera, sfilerà al cospetto del Duce.
Se ci si aggrappasse a quella stessa onestà intellettuale anche nello studio, si correrebbe il rischio di apprende che Sua Eccellenza mal digeriva questo motivetto e che, nel corso degli anni, il MinCulPop tentò di limitarne la diffusione fino a eliminarlo completamente. Anzi, si creò persino un alter ego con Faccetta bianca in cui le mogli richiamavano “all’ordine” i mariti conquistadores, ma non ebbe la stessa fortuna della versione “di colore”. Chissà perché.
Quella stessa onestà intellettuale che non faticherebbe a far ammettere lo stato di conservazione di strade, palazzi, condotte idriche, ponti e infrastrutture in genere ancora oggi funzionanti in quel posto al sole, dove ci si recò per fare la guerra alle democrazie coloniali e si finì per portare la civilità.

Basti pensare che alle genti locali era in uso salutare romanamente proprio perché avevano acquisito la condizione di cittadini liberi e non più con il servile inchino verso terra. Che occasione mancata per questo Preside sempre più manager e sempre meno insegnante, formatore, questa volta nemmeno con la maschera di avvocato, ma con quella di un azzeccagarbugli di basso rango per dimostrare (almeno) la corretta interpretazione delle fonti, la ricerca retta e veritiera, l’essere veramente un uomo libero, dal pensiero all’azione. Per riflettere sull’accanimento dei festeggiamenti per la fine di una guerra che si protrarrà almeno fino al 2 di maggio, su un armistizio che in realtà fu una essa incondizionata e per una liberazione che ha sancito nient’altro che le chiavi di casa nostra ad una potenza straniera. Perché per dignità personale e professionale e affinché lo spettacolo continui la sola azione (e la soluzione) che andrebbe intrapresa sarebbe quella di intonare, con tanto di mani nei fianchi e con fiero petto in fuori, un bel coro di “Faccetta nera” vero inno all’integrazione. Scolastica e no. Magari anche insieme ai genitori presenti in platea.

https://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/faccetta-nera-sia-linno-del-25-aprile-la-scena-comica-di-ariano-irpino-278362/

NASCE PRIMA L’OVULO O LA GALLINA?

“Milano gambe aperte, Milano che ride, si diverte” cantava Dalla che non è certo un imperativo categorico volitivo rivolto alla donna. Donna come Milano, che, però, fa ridere di sé e delle donne. È la Milano woke, tutta agenda della cancellazione della cultura; la Milano inclusiva dei petalosi arcobaleni e degli unicorni colorati dell’unico colore del pensiero unico. È la Milano Ztl e contributi generosamente elargiti ad ogni sorta di pride LGBT+-X:@#69asterisco. È la Milano con il Rolex sul polso che abbandona il caviale nel piatto per mozzicare l’involtino primavera e che apre ai ristornati “children free”, dove i bambini non sono ammessi che registra l’ennesimo cortocircuito, tanto evidente che, per salvare l’orgoglio meneghino, persino il primo cittadino Beppe Sala è costretto a fare marcia indietro. A dire che è troppo persino per quelli come loro.
Oggetto del discorrere è la collocazione, o meglio, il rifiuto della collocazione della statua denominata “Dal latte materno veniamo” in piazza Eleonora Duse – al cui proposito ci saremmo aspettati la vuota crociata in nome della difesa della “donna Duse” che prevedeva, come da protocollo, l’imbrattamento delle statue di d’Annunzio con vernice rigorosamente rosa, ma evidentemente stavolta non era in agenda – e non, poi, per chissà quale impedimento di sorta, per un soggettivo gusto estetico o chissà quale cavillo come la Napoli di Manfredi insegna.  No, la statua non s’ha da collocare perché “la maternità non è un elemento condivisibile da tutti”. La maternità è da cancellare per la commissione di esperti. La maternità offende a detta dei dotti soloni ambrosiani. Chissà se la vita si sia offesa ad essere stata donata a personaggi come questi. Chissà se i periti, se non sono periti per davvero, o, forse, solo “pìriti”, nell’accezione napoletana del termine, siano in grado di concepire, al di là dell’agenda che debbono seguire, che negare la maternità equivale a negare la vita. La maternità è un concetto universalmente fondante. Per un religioso e per un ateo, per un nordico e per un “sudicio”, per gli umani e pure per le bestie. Ogni essere vivente è tale perché nasce, cresce, si riproduce e muore.
La commissione inclusiva, buona buonissima buonista, addirittura suggerisce ai familiari dell’artista Vera Omodeo, che hanno donato l’opera, di regalarla ad un istituto religioso, dove la maternità può essere maggiormente valorizzata. Il che è un chiaro sintomo di un’intelligenza e di una preparazione totalmente asintomatica, nella misura in cui “maggiormente valorizzata” sta per “anche minimamente valorizzata”. Pure la commissione – femminile almeno nel genere grammaticale – è costituita da membri (sic!) che sono il prodotto di una maternità! Naturale, surrogata, in provetta, a pagamento, in affitto, che, per come bizzarramente la si concepisca, sempre maternità è. Senza maternità non ci può essere vita, molto semplicemente. È un fatto genetico. Ereditario. Originario.
Dire di no alla vita: forse è questo il vero messaggio da fare passare. In un momento in cui l’Italia, ma anche l’Europa e l’America vivono il peggior calo demografico di sempre, per giunta. Cancellare (anche) la maternità in nome dell’offesa, o fessi, del politicamente corretto, da parte dei prodi in ogni pride perché alla donna siano riservati gli stessi diritti degli uomini e sia dato anche all’uomo il “diritto” di partorire, di allattare, di giocare a fare la donna, anzi la mamma, che farciscono tutto in nome delle quote rosa e non delle reali capacità dell’essere umano, cui appartiene anche la donna – è il culmine dell’idiozia di questi sterili esecutori di obiettivi che non sono più nemmeno in grado di ragionare, di discernere il finto dal vero, di essere persino il valore aggiunto alla loro battaglia.
Insomma, una donna da cancellare, da nascondere e che offende secondo quei “donnafondai” con la mimosa nella pochette cui basterebbe capire che la donna ha l’inestimabile valore di “generare” vita. Ed è unica nel suo genere!
Partorire eroi, geni, artisti, generare vita è un dono che non potrà mai fare vergognare nessuno e per chi si sente offeso da tale esclusivo dono, come da notare il coordinamento Daria, è di esempio direttamente Caterina Sforza che, nell’assedio della sua città, vedendo minacciato il figlio, rispose mostrando il proprio sesso e gridando al nemico: “Ho lo stampo per farne altri!”.