Concezione dell’amore nell’Antica Grecia

Nella Grecia Antica c’erano non poche parole per designare l’amore, questo perché ogni lemma aveva una propria sfumatura. Oggi andremo a vedere nel dettaglio questi termini e il loro significato preciso.
SOSTANTIVI PER INDICARE L’AMORE
αγάπη (“agape”) è amore di ragione, incondizionato, oblativo, anche non ricambiato, spesso con riferimenti religiosi: per esempio è il termine per indicare amore più usato nei Vangeli. Il verbo associato è ἀγαπάω (“agapao”) che significa “apprezzare”.
φιλία (“philia”) è l’amore di affetto e piacere, di cui ci si aspetta un ritorno, ad esempio tra amici. Il verbo associato è φιλέω ed esprime “amore” in forma più generica; può significare anche “baciare”.
έρως (“eros”) definisce l’amore fisico, ma non solo. Deriva da έραμαι (“eramai”) che vuol dire “amare ardentemente”, “bramare”. Il termine έρος non si riferisce necessariamente a una persona, infatti il verbo da cui deriva può anche riferirsi a enti astratti, come per esempio la brama di conoscere. Nel Simposio di Platone è usato spesso per indicare il dio Amore. Il verbo corrispondente è ἐράω (“erao”).
αντέρως (“anteros”) è l’amore corrisposto, il legame.
ιμερος (“imeros”), letteralmente “desiderio irrefrenabile”: la passione del momento, il desiderio fisico presente e immediato che chiede di essere soddisfatto.
πόθος (“pothos”), termine che indica ciò che sogniamo.
στοργή (“stοrgé”): l’amore parentale-familiare, viene dal verbo στέργω (“stergo”) che significa “amare teneramente” e viene usato soprattutto in riferimento all’amore filiale. È l’amore d’appartenenza, ad esempio tra parenti e consanguinei. Il verbo associato è στέργω (“stergo”) ed esprime un’attenzione interiore come quella tra genitori e figli, o verso la patria.
θέλημα (“thélema”) indica l’amore per ciò che si fa, è il piacere di fare, il desiderio di voler fare.
CONCEZIONE DELL’AMORE
Il Simposio di Platone è un testo che ci dà molte informazioni circa questo tema, infatti è un saggio filosofico incentrato proprio sull’amore. Quando parla Diotima di Mantinea possiamo trovare la celebrazione di un amore spirituale che non contempla solo la relazione uomo-donna bensì anche altri tipi, tra i quali quello per la conoscenza. Nel discorso di Aristofane invece possiamo notare una visione di un amore ancora più spirituale in quanto neanche più legato alla procreazione vista come desiderio di immortalità. Aristofane sostiene ci sia bisogno di una persona che ci completi e che ristabilisca la nostra vera natura- facendo riferimento al mito di persone originarie “doppie” in cui si diceva Zeus avesse tagliato a metà ogni persona e quindi si tornasse a questa forma originale tramite l’amore vero che poteva esistere con una sola anima.
Nella Grecia Antica l’amore omosessuale era comune tra le persone aristocratiche ma biasimato, se non condannato, tra i ceti più umili. Poiché l’uomo era visto come ideale di bellezza l’unione tra due uomini era vista come la tendenza a una bellezza superiore. L’amore platonico, famoso ma non sempre definito in modo preciso, consiste nell’amore tra un adulto sapiente e un fanciullo. È inteso come trasmissione di conoscenza e quindi assenti divengono i rapporti fisici.
Leggendo invece le poesie liriche di Saffo, le quali si concentrano molto su questo tema, possiamo notare l’amore visto nella sua componente più istintiva e passionale, infatti la persona amata viene divinizzata e sembra irraggiungibile e perfetta. I vocaboli utilizzati indicano una dimensione materiale però lo spazio riservato alla parte fisica non è presente in quanto ci si concentra sulle due persone innamorate.
Mi sembra doveroso aggiungere comunque che anche il tempo ha contribuito alla diversificazione dei vari concetti. Esempio lampante è la differenza tra la visione omerica e quella polis di Atene: nel primo caso l’amore è spontaneo, nel secondo si punta alla repressione del suo carattere fisico, dell’eros.
Insomma la visione dell’amore era molto articolata e complessa nell’Antica Grecia: dalla condanna all’esaltazione dell’amore omosessuale, dalla preferenza per un amore eterosessuale, alla paura e biasimo per il matrimonio.

Citazioni errate

Tante sono le citazioni errate ovvero aforismi attribuiti a persone sbagliate o frasi storpiate. Oggi ne andremo a vedere qualcuna, ho cercato di scegliere quelle circa le quali si commettono più errori.

AFORISMI ATTRIBUITI A PERSONE SBAGLIATE

“È meglio tacere ed essere considerati imbecilli piuttosto che aprire bocca e togliere ogni dubbio”

Questa frase viene attribuita a molte persone tra le quali Lincoln, Confucio, Oscar Wilde ma la verità è solo una. Questo aforisma storicamente fu pronunciato dallo scrittore Maurice Switzer, autore del libro Mrs. Goose, her book.

“Follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi ogni volta un risultato diverso”

Questa frase probabilmente non è famosa quanto le precedenti ma deve ottenere un posto in questo articolo perché molti sono gli aforismi attribuiti ad Einstein senza fonti scritte. Questa citazione è una di quelle, infatti la maternità va a la scrittrice americana Rita MaeBrown. Possiamo leggerla nel suo libro Morte improvvisa, risalente al 1983.

“Il paradiso per il clima, l’inferno per la compagnia”

Anche questa frase è molto famosa e negli anni è stata attribuita a moltissimi autori tra i quali anche Oscar Wilde e Mark Twain ad esempio. L’autore vero è in realtà un politico, Benjamin Wade, che disse: “Penso, da tutto quello che posso sapere, che il paradiso ha il miglior clima, ma l’inferno ha la miglior compagnia”.

“L’importante non è vincere ma partecipare”

Ormai divenuta motto ufficiale dei Giochi Olimpici, questa citazione in realtà non è di Pierre de Coubertin. Egli in persona infatti confessò che la paternità della frase non era sua bensì di un vescovo della Pennsylvania, Ethelbert Talbot.

“Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”

Questa citazione è per molti dell’illustre scrittore e filosofo Voltaire (pseudonimo di François-Marie Arouet). In realtà è solo in uno scritto del 1906 della saggista britannica Evelyn Beatrice Hall che questa frase viene attribuita al filosofo francese, il quale in realtà non l’ha mai né pronunciata né scritta.

“Se non hanno pane mangino brioches”

Non poteva mancare questa famosissima citazione che ha fatto il giro del mondo e ha contribuito a far passare Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena, moglie di Luigi XVI, come una spietata governatrice. In realtà alla regina non si possono affibbiare queste odiose parole in quanto le riporta l’illuminista Jean-Jacques Rousseau nelle sue Confessioni, citando una principessa non ben definita. A questo punto vi starete chiedendo come io allora possa sfatare questo mito se il nome della regnante citata dallo scrittore non è specificato… È molto semplice: l’episodio riportato da Rousseau risale all’anno 1741 quando Maria Antonietta non era ancora nata! La nostra regina francese infatti venne alla luce solo quattordici anni dopo l’avvenimento ed è per questo impossibile che sia stata lei a pronunciare queste parole.

πάντα ῥεῖ (“panta rei”)

La traduzione sarebbe “tutto scorre” ed è una massima attribuita ad Eraclito da Platone. Nella sua opera Cratilo, infatti il filosofo greco scrive: «Dice Eraclito “che tutto si muove e nulla sta fermo” e confrontando gli esseri alla corrente di un fiume, dice che “non potresti entrare due volte nello stesso fiume”». Il riferimento è al frammento 91 del trattato Sulla natura, nel quale però l’espressione “panta rei” non risulta essere presente.

FRASI STORPIATE

“Elementare, Watson”

Sì, sfatiamo questo mito, la succitata frase, così celebre e famosa, non è mai stata pronunciata dal vero Sherlock Holmes in quanto Sir Arthur Conan Doyle non l’ha mai scritta. Questa citazione è stata inventata a causa dei riarrangiamenti cinematografici e teatrali. Una battuta simile si può trovare in un passaggio del libro in cui Watson esclama: “Semplice” e Holmes replica: “Elementare”.

“Eppur si muove” (oppure “e pur si muove” o ancora “e pur si move”)

Questa sentenza non fu realmente pronunciata da Galileo Galilei davanti al tribunale dell’Inquisizione. Queste parole infatti sono state scritte da Giuseppe Baretti che le mise in bocca allo scienziato probabilmente per difenderne l’onore in quanto Galileo fu costretto ad abiurare pur essendo consapevole della fondatezza delle sue idee.

“Houston, abbiamo un problema”

Questa modifica della battuta originale fu resa celebre grazie al film Apollo 13. In realtà nessuno degli astronauti dello Space Shuttle pronunciò quelle parole, il messaggio preciso era infatti: “Okay, Houston, we’ve had a problem here”, ovvero “Okay, Houston, abbiamo avuto un problema”.

“Ho visto cose che voi umani non potete neppure immaginare”

Anche questa frase è stata storpiata, infatti nel film Blade Runner la battuta vera è “Io ne ho viste cose, che voi umani non potreste immaginarvi”.

“Il fine giustifica i mezzi”

Questa sentenza è diventata molto famosa ed è associata al carattere utilitaristico di Macchiavelli. Peccato che in realtà sia un’eccessiva semplificazione del passo contenuto nel Principe di Niccolò Macchiavelli. Egli infatti scrive: “Nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de’ Principi […] si guarda al fine […] I mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno lodati”.

“Lazzaro, alzati e cammina”

Ebbene sì, anche questa citazione in realtà non è una frase pronunciata da Gesù. Andando a leggere la Bibbia infatti potremo notare che nell’episodio di Lazzaro il Redentore dice solo: “Lazzaro, vieni fuori!” (Vangelo di Giovanni). Probabilmente questo episodio è stato mescolato con quello in cui Gesù dice ad un uomo malato: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina”.

“Non ti curar di loro, ma guarda e passa”

Tutti noi conosciamo la Divina Commedia (anche questo titolo è modificato, non è di Dante) e il succitato verso fatto pronunciare da Virgilio nel III Canto dell’Inferno in realtà è stato modificato. Nell’opera originale, quando i due autori passano davanti agli ignavi, è scritto “Non ragioniam di loro, ma guarda e passa”.

“Tu quoque, Brute, fili mi!”

Per finire in bellezza non poteva mancare questa citazione attribuita a Giulio Cesare, il quale l’avrebbe pronunciata prima di morire assassinato dal figlio adottivo Bruto. In realtà è solo una resa poetica della frase dello storico Cassio Dione “kai sü, teknon?” ovvero “anche tu, figlio?”. Lo storico greco in realtà aveva ripreso il racconto da Svetonio, il quale a sua volta aveva raccolto le testimonianze di altri storici che in realtà non avevano assistito alla scena. Leggendo attentamente Svetonio ci si accorgerà però che egli scrive che Cesare prima di essere ucciso emise “un solo gemito, senza una parola”.

Alice Nel Paese Delle Meraviglie

Alice nel paese delle Meraviglie è uno dei libri più famosi che esistano. Pensate che si trova al quarto posto nella classifica dei testi più tradotti vantando edizioni in ben 174 lingue differenti. Iniziamo parlando della sua origine ovvero un pomeriggio d’estate del giorno 4 luglio 1862 in cui Lewis Carroll (di cui tra poco parleremo) si trovava ad Oxford in barca con le tre sorelle Liddell: Lorina, Edith e Alice. Queste bambine chiesero al nostro autore di raccontare una storia ed è lì che nacque Alice in Wonderland proprio dal nome di una delle piccole. In alcune occasioni successive Carroll disse anche che Alice Liddell fu solamente una fonte di ispirazione per la protagonista della sua storia e a prova di ciò troviamo nel dodicesimo e ultimo capitolo di Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò un riferimento ad Alice Liddell, ovvero un acrostico, un gioco di parole in cui le prime lettere di ogni riga compongono una parola di senso compiuto, che forma i termini “Alice Pleasance Liddell” (il nome completo della bambina conosciuta da Carroll). Purtroppo Carroll perse i contatti con la ragazza quand’ella partì per viaggiare in Europa.

Il libro racconta la storia di una bambina la quale si addormenta e sogna di seguire un coniglio bianco nel Paese delle Meraviglie, un universo fantastico e paradossale popolato da strani animali antropomorfi. Carroll regalò alla piccola Alice Liddell il manoscritto di Le avventure di Alice sotto terra con la dedica “Come regalo di Natale a una cara bambina in memoria di un giorno d’estatenel Natale dell’anno 1864. Nell’opera erano riproposte, nell’episodio della pausa tè del Cappellaio Matto, alcune delle conversazioni che lo scrittore aveva avuto con la piccola. Solo il 26 Novembre 1865 lo scrittore decise di pubblicare Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie. La prima edizione conteneva 10 mila parole in più rispetto al manoscritto originale. A quel punto Carroll, non soddisfatto della qualità della stampa, ordinò il ritiro dei testi pubblicati e ne fece uscire una seconda edizione nel Dicembre 1865. Fin dalla prima edizione il libro è stato accompagnato da illustrazioni a opera del vignettista satirico John Tenniel. Nel manoscritto originale i disegni erano stati prodotti dalla mano di Carroll.

Concentriamoci un attimo sull’autore di questo capolavoro apprezzato sia da bambini che da adulti. Lewis Carroll è lo pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson, reverendo, matematico, fotografo, studioso di logica e scrittore inglese vissuto tra il 1832 e il 1898. Il suo nome d’arte non è altro che un gioco di parole fra i suoi due nomi di battesimo: Charles è diventato Carroll, Lutwidge Lewis. Si racconta che Charles soffrisse di una malattia neurologica la quale provocava allucinazioni e distorsioni nella forma degli oggetti rendendoli nella mente di Carroll più piccoli o più grandi, come accade all’inizio del libro ad Alice. Questa patologia fu scoperta nel 1955 dallo psichiatra inglese Todd che la battezzò “Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie (AIWS)”, “sindrome di Todd” o “allucinazioni lillipuziane”.

Nel 1871 il reverendo scrisse il seguito de Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie intitolato Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò. La storia è ambientata sei mesi dopo la fine del primo libro ed inizia con Alice che incuriosita da uno specchio nel suo salotto scopre di poterci passare attraverso. La seconda opera è più malinconica rispetto alla prima in quanto pare che Carroll la scrisse in un periodo di tensione con la famiglia Liddell. Un’altra piccola differenza è la seguente: in Alice in Wonderland regna il gioco delle carte mentre nel secondo libro è più presente il tema del gioco degli scacchi.

Ogni passaggio delle due opere fantasiose di Charles ha un significato simbolico in stretto contatto con il clima conservatore dell’Età Vittoriana. Il mondo sottosopra rappresenta l’inevitabile conflitto tra età infantile e adulta. Dal Paese delle Meraviglie Alice non apprende nulla di utile per accedere al mondo degli adulti, questo perché il romanzo di Carroll non segue le regole del normale romanzo di formazione. Tutte le conversazioni che Alice farà non hanno un vero e proprio senso logico poiché Alice è una bambina che fugge dall’obbedienza a imposizioni e regole. La caduta nella tana del Bianconiglio è stata interpretata da molti studiosi come l’ingresso nell’inconscio e ricorda la sensazione di cadere tipica di alcuni sogni. La storia di Alice nel Paese delle Meraviglie infatti è racchiusa in una dimensione onirica, come scopriamo nel finale, spiegando così molte tecniche narrative quali fughe in brutte situazioni e la presenza di elementi topici, intesi come invenzione di mezzi dialettici per condurre un’argomentazione.

Per quanto riguarda i personaggi, anch’essi rappresentano un certo aspetto. Il Brucaliffo è associato alla razionalità degli adulti. Pur rappresentando anche la saggezza, questo personaggio si mostra insofferente nei confronti di Alice la quale, a quel punto, dovrà trovare da sola il modo per crescere. Un’altra interpretazione suggerisce però che il Brucaliffo rappresenti il cambiamento in quanto alla fine del dialogo con Alice si trasformerà in farfalla.

Anche il Bianconiglio simboleggia un aspetto del mondo adulto; egli infatti è noto per andar sempre di fretta ed essere quasi inafferrabile, ragion per cui è stato detto simboleggiare il genitore che carica d’ansia e stress il proprio figlio. Interessante anche il fatto che sovente non comprenda ciò che la piccola Alice gli dice. Nella lingua inglese contemporanea, il Bianconiglio è divenuto sinonimo di un evento inaspettato e particolarmente rivelatore.

Agli antipodi, Alice, questa bambina capace di rapportarsi col mondo senza perdere una dote tipica dei bambini quale la fantasia, è l’emblema dell’infanzia libera e spensierata.

Uno dei personaggi più controversi e strani è lo Stregatto o Gatto del Cheshire che nella traduzione italiana della favola a cura di Silvio Spaventa Filippi del 1913, viene chiamato Ghignagatto, mentre in altre traduzioni italiane viene chiamato “Gatto Cesare” a causa dell’assonanza con “Gatto del Chesire”. Egli non si schiera dalla parte di nessuno, inizialmente compare nella casa della Duchessa come un personaggio privo di funzione precisa, intento a scaldarsi presso il focolare. In seguito diventa soggetto di una conversazione importante con Alice, in cui rivela alla protagonista la legge fondamentale del “mondo alla rovescia” in cui la ragazzina si è ritrovata: poiché son tutti pazzi, occorre comportarsi al contrario di come è opportuno fare nel mondo reale. Lo Stregatto potrebbe simboleggiare anche il senso della vita se si leggesse attentamente il suo dialogo con Alice sulla direzione da prendere. Certo è che lo Stregatto rappresenta l’elemento di disordine all’interno dell’ordine costituito. Spesso viene individuato lo stesso Carroll in questo personaggio. Non si comprende bene da dove sia venuta a Charles l’ispirazione ma potrebbe essere da una favola inglese molto diffusa all’epoca. Piccola curiosità: nella fisica quantistica, il nome di “gatto del Chesire quantistico” è stato dato come soprannome al famoso “gatto di Schroedinger”, animale preso in prestito per spiegare alcuni paradossi della meccanica quantistica.

La Regina di cuori rappresenta innanzitutto la giustizia cieca poiché Alice si trova a rischiare la vita senza in realtà aver fatto nulla di male. Questo personaggio governa il suo regno arbitrariamente, mandando alla pena capitale chiunque rappresenti il minimo elemento di fastidio o di noia (come nel caso dei giardinieri), o per puro capriccio (come per il Fante di Cuori). Sebbene nei normali racconti fiabeschi/favolistici l’antagonista venga sempre sconfitto, invece in questo racconto Alice si salva solo perché riacquista le sue dimensioni consuete riconoscendo che i personaggi davanti a lei sono semplici carte da gioco.

Infine i due personaggi che meglio incarnano la stranezza del Paese delle Meraviglie sono la Lepre Marzolina e il Cappellaio Matto, coloro che vengono considerati esplicitamente pazzi da tutti gli abitanti del Paese delle Meraviglie. L’episodio del tè è quello in cui viene messa in evidenza la follia di questi due personaggi, ad esempio quando la Lepre Marzolina offre del vino sapendo già di non averlo. Sempre in questo punto della storia troviamo però un aspetto interessante ovvero la battaglia dell’uomo contro il Tempo. A questo tea party infatti gli invitati sono costretti a cambiare sempre posto ma c’è da dire che sembra realizzarsi proprio il desiderio del Cappellaio che riesce a prolungare all’infinito l’ora del tè con il tavolo sempre apparecchiato e la bevanda sempre versata che però non verrà mai bevuta.

C’è da dire che in Alice nel Paese della Meraviglie Carroll si riferisce anche a persone reali; l’esempio più famoso è quello del Ghiro in cui viene reso omaggio alle tre bambine, i nomi delle tre piccole infatti sono Elsie, che deriva dalle iniziali di Lorina Charlotte (LC), Lacie ovvero l’anagramma di Alice, e Tillie che sarebbe il diminutivo di Matilda, soprannome di Edith. Anche altri personaggi del libro accennano a figure di persone famose: il primo Ministro inglese Benjamin Disraeli (1804-1881) sarebbe raffigurato nella lucertola Bill, mentre il Cappellaio matto sarebbe un mercante di mobili conosciuto personalmente dall’autore; la Finta Tartaruga sembra essere un’allusione a John Ruskin (1819-1900), celebre critico d’arte e maestro di disegno delle Liddell. Alice nel Paese delle Meraviglie infatti ha anche una vena satirica, evidenziata soprattutto dai poemetti sparsi per il testo che sarebbero parodie di testi di autori contemporanei a Carroll.

ALCUNE CURIOSITA’

Nell’anno 1928 Alice Liddell mise all’asta il manoscritto di Le avventure di Alice sotto terra vendendolo per 15 400 sterline, una cifra esorbitante all’epoca.

Nel 1931 Alice nel Paese delle Meraviglie è stato censurato in Cina poiché rendere intelligenti degli animali antropomorfi fu considerato un insulto all’intelletto dell’uomo dalla Commissione Censura.

La Royal Mail ha inventato una serie di francobolli ispirati ai personaggi più strani e alle scene più curiose di Alice nel Paese delle Meraviglie.

All’incirca 1200 disegnatori hanno illustrato Alice in Wonderland, tra questi anche Salvador Dalì.

Dopo aver letto Alice nel Paese delle Meraviglie, la Regina Vittoria chiese a Charles di dedicarle il suo prossimo libro; allora Carroll si presentò con un trattato sui Determinanti. In matematica un determinante è il valore che si associa a una matrice quadrata secondo una precisa regola.

La vera Alice non era bionda come nel cartone della Disney, bensì castana.

Nel libro Alice pronuncia per ben 21 volte la parola curious/curiouser; questo lemma fu attribuito dall’Oxford English Dictionary proprio a Carroll.

In Alice nel Paese delle Meraviglie troviamo 25 riferimenti al tè.

Carroll è uno degli autori più citati nei testi di programmazione.

Il primo film in assoluto ispirato ad Alice nel paese delle Meraviglie venne girato nel 1903 in Gran Bretagna e durava solo 10 minuti.

La frase Non posso tornare a ieri perché ero una persona diversa alloradetta da Alice, riferendosi ai continui mutamenti del suo corpo nel Paese delle Meraviglie, è divenuta nel tempo emblema delle costante mutabilità della natura umana.

In una lettera dell’Aprile 1887 Carroll scrive Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo specchio sono costituiti quasi per intero da frammenti e piccoli brani, idee singole scaturite da sole. Nello scrivere Le avventure di Alice nel sottosuolo aggiunsi molte idee nuove che sembravano crescere da sole attorno al nucleo originario. Molte altre ne aggiunsi quando, anni dopo, riscrissi il libro per pubblicarlo, anche se (e questo può interessare i lettori di Alice), ogni idea e quasi ogni parola del dialogo venivano da sé. Capitava che un’idea mi venisse di notte, e allora m’alzavo e accendevo il lume per appuntarmela; talora durante una gelida passeggiata d’inverno, per cui dovevo fermarmi e, con le dita intirizzite dal freddo, scarabocchiavo poche parole per evitare che quell’idea appena nata dovesse perire; ma dovunque e comunque venissero, ciascuna idea veniva da sé. Non sono come un orologio che, per farlo funzionare, basta caricarlo quando si vuole.”

 

 

 

Origine di alcuni proverbi italiani

Tutti noi abbiamo usato o sentito proverbi, modi di dire, sentenze popolari, ma vi siete mai chiesti quale fosse l’origine di queste perle di saggezza volgari? Scopriamolo…

Piccola curiosità: lo studio dei proverbi viene definito “paremiologia”, dal greco παροιμία ossia “proverbio” e “logia”.

A CAVAL DONATO NON SI GUARDA IN BOCCA (consiglio: accettate tutto ciò che viene regalato senza essere troppo pretenziosi)

L’originale citazione “Noli equi dentes inspicere donati” deriva da San Girolamo e si riferisce alla stima dell’età di un cavallo (in passato fonte di ricchezza per chi ne possedeva uno) che avviene tramite il controllo della sua dentatura.

AVERE FEGATO (essere coraggioso)

Presso gli antichi, per esempio tra Etruschi e Greci, il fegato era considerato sede di ogni sentimento e qualità interiore.

CHI SEMINA VENTO RACCOGLIE TEMPESTA (Significa che chi diffonde la discordia ottiene gravi conseguenze)

Si tratta di un proverbio di derivazione religiosa, infatti lo si può leggere in un passo dell’Antico Testamento nella Bibbia: «E poiché hanno seminato vento / raccoglieranno tempesta».

CHI TROPPO VUOLE NULLA STRINGE (accontentati di ciò che hai perché se si pretende troppo si rischia di rimanere a mani vuote)

L’uso frequente di questo proverbio è attestato dalla letteratura e viene fatto risalire alla morale della favola di Esopo “La gallina dalle uova d’oro” nella quale un uomo che aveva una gallina che produceva uova d’oro, uccise questo animale credendo di trovare molto materiale aureo all’interno del suo corpo rimanendo invece a mani vuote.

COMBATTERE CONTRO I MULINI A VENTO (combattere senza poter vincere)

L’espressione deriva dal libro di Cervantes dove il protagonista (che dà il nome all’opera) Don Chisciotte in un episodio combatte appunto contro i mulini a vento credendoli giganti.

DARE A CESARE QUEL CHE È DI CESARE (riconoscere i meriti a chi li ha)

La sua origine? Religiosa. “Rendete dunque ciò che è di Cesare a Cesare, e ciò che è di Dio a Dio” (Vangelo Luca, 20, 25) frase detta da Gesù in risposta agli emissari dei sacerdoti, i quali gli domandavano se fosse lecito pagare il tributo a Cesare da parte di un buon ebreo.

DARE L’OSTRACISMO (osteggiare qualcuno)

Torniamo nella Grecia Antica, ad Atene quando i membri dell’assemblea popolare scrivevano il nome di un cittadino su un pezzo di vaso di terracotta rotto (“òstraka”) al fine di esiliare la persona citata. La persona esiliata era ostracizzata.

IL GIOCO NON VALE LA CANDELA (si riferisce a un risultato che per essere ottenuto implica troppi sforzi e sacrifici)

Alcuni secoli fa, quando non c’era ancora la corrente elettrica, nelle taverne si usavano le candele e si giocava d’azzardo. Allora c’era l’usanza secondo la quale chi vinceva al gioco dovesse pagare almeno la candela usata per fare luce durante la partita; talvolta però il premio vinto era così basso che non bastava nemmeno per pagare la candela utilizzata.

L’ABITO NON FA IL MONACO (non fidarsi delle apparenze)

Questo proverbio deriva da un passo del capitolo XIX de “I Promessi Sposi”. In quel frangente il Conte zio fa riferimento a Fra Cristoforo che pur vestendo in quel momento l’abito da monaco, prima aveva commesso un omicidio.

NON DIRE GATTO SE NON CE L’HAI NEL SACCO (un’esortazione a non cantare vittoria troppo presto)

Questo proverbio in origine aveva un’altra forma ossia “Non dire quattro se non ce l’hai nel sacco“ in quanto risale al tragicomico episodio di un monaco che, dopo aver ricevuto in elemosina quattro pani, si mise ad esultare così rumorosamente da attirare l’attenzione di un cane affamato che gliene rubò uno prima che l’uomo potesse metterlo al sicuro nel sacco.

PIANTARE IN ASSO (ovvero abbandonare qualcuno da un momento all’altro, senza preavviso)

Ricordate il mito di Teseo e il Minotauro? Ricordate la bella Arianna? L’eroe greco in questo mito la abbandonò su un’isola chiamata Nasso. Originariamente infatti il proverbio era “piantare in Nasso” ma col tempo la N è stata omessa.

PRENDERE UN GRANCHIO (ovvero commettere un errore grossolano)

Il proverbio trae la sua origine dalla pesca infatti quando il crostaceo si attaccava all’amo i pescatori si illudevano avesse abboccato un grosso pesce mentre in realtà non era affatto così.

PRIMA PENSA, POI PARLA, PERCHÉ PAROLE POCO PENSATE PORTANO PENA (rifletti prima di parlare per evitare brutte conseguenze).

Questo proverbio è detto “la regola delle 10 P” e deriva da un episodio verificatosi nell’Antica Grecia quando un ateniese offese un guerriero e per questo fu ucciso.

SE SON ROSE FIORIRANNO, SE SON SPINE PUNGERANNO (serve per incentivare il proseguimento di un progetto indipendentemente dalla sua riuscita)

Questa citazione, divenuta poi proverbiale, si può attribuire all’ingegnere e matematico Michele Besso che lavorava con Albert Einstein; quando infatti il fisico esponeva i suoi continui dubbi l’italiano avrebbe risposto con quella sentenza.

VITTORIA DI PIRRO (vittoria che arreca più danni che vantaggi)

Questo proverbio appartiene all’Antica Roma. Pirro, re dell’Epiro, riuscì a battere i Romani a Eraclea e ad Ascoli Satriano, nel 280 e 279 a.C., ma le perdite superarono persino i vantaggi che ne trasse.

 

Arabismi nella lingua italiana

La lingua italiana è considerata una lingua neolatina ma molte parole hanno un’origine straniera, a cominciare da quella greca. Oggi approfondiremo alcuni dei lemmi derivanti dalla lingua araba e che tutt’ora sono utilizzati quando si parla o scrive in italiano.

ALCOL

Questo lemma ha sicuramente un’etimologia particolare: il termine deriva dall’arabo kuḥl, una particolare polvere che, mescolata con acqua, si utilizzava in Oriente per tingere di nero sopracciglia, ciglia e palpebre. Gli alchimisti in seguito utilizzarono questa parola per indicare ogni tipo di sostanza impalpabile. Il vero “autore” del vocabolo “alcol” fu però Teofrasto Paracelso, che per primo associò il termine allo spirito di vino, la parte essenziale e più nobile della bevanda, chiamandolo alcohol vini.

ALGEBRA

Deriva dal termine al-ǧabr e significa “rimettere a posto”, “ricostruire”.

AMMIRAGLIO

Gli Arabi eccellevano nella navigazione come nella matematica. Questo termine ha un’etimologia poetica ed evocativa: deriva dall’arabo amīr al-baḥr che letteralmente significa “comandante del mare” o “principe del mare”.

ASSASSINO (omicida)

Deriva dalla parola araba hashishiyya o anche hashshashiyya, letteralmente “fumatore di hashish”. Il termine fu usato per indicare gli adepti del gruppo ismailita dei Nizariti di Alamut in Persia, i quali obbedivano al loro capo noto come “il Veglio della Montagna”. Gli aderenti alla setta avevano costituito una sorta di organizzazione terroristica per realizzare azioni violente e assassini politici in vari paesi del Vicino Oriente. Si dice che, prima di andare a compiere simili crimini, i membri del gruppo fumassero una gran quantità di hashish.

BALDACCHINO

Deriva da bagdādī che letteralmente significa “di Baghdad”. Già in Levante però aveva assunto due significati specifici ovvero “stoffa preziosa proveniente da Baghdad” e “ornamento a forma di cupolare che sovrasta qualcosa”.

BIZZEFFE (in gran quantità)

Deriva dalla parola araba bizzaf che significa “molto, in abbondanza”.

FARDELLO

Dal termine arabo fard usato per indicare il carico trasportato dal cammello.

LACCA

Non è nata per cotonarsi i capelli, bensì al fine di rivestire e proteggere oggetti dipinti di vario tipo, da quelli ornamentali alle imbarcazioni. Il termine arabo da cui deriva è lakk.

LIMONE

Deriva dal termine arabo-persiano laymūn. Le prime piante di limone erano raffigurate già in dipinti di epoca romana, ma è solo con l’avvento degli Arabi che, dal X secolo, abbiamo traccia delle prime descrizioni letterarie di questo frutto.

MATERASSO

Questo termine nacque per indicare il tappeto su cui ci si “buttava” ovvero il Matrah che deriva dal termine “gettare” taraha.

MESCHINO (crudele)

Deriva dal termine arabo miskīn ovvero “povero, misero”.

RAGAZZO

Questo vocabolo deriva dalla parola araba raqqâs che designava il facchino, il garzone o anche il messaggero.

TAMARRO (zotico)

Sorprendentemente questo termine deriva dall’arabo tammar usato per riferirsi inizialmente ai venditori di datteri, in seguito ai mercanti di strada vestiti in modo eccentrico.

TRIPPA

Quanti piatti regionali vi vengono in mente? Ebbene codesta parola deriva dall’arabo tarb ovvero “omento”, ciò che comunemente chiamiamo trippa.

ZERO

Questo termine deriva dalla latinizzazione zephirum della parola araba aṣ-ṣifr ovvero “nulla”.

 

Oscar Wilde

Oscar Wilde è uno scrittore immortale che ha composto un romanzo, ovvero Il ritratto di Dorian Gray, numerose opere teatrali, saggi, poesie e addirittura due raccolte di storie per ragazzi che furono pubblicate nel 1888 con il titolo Il principe felice e altre storie e nel 1891 con il titolo La casa dei melograni. Personaggio molto particolare non fu accettato dalla società vittoriana per due motivi: tramite i suoi testi metteva in risalto i difetti del sistema di quell’epoca; era omosessuale. Wilde nacque a Dublino il 16 Ottobre 1854 da Sir William Wilde e Jane Francesca Elgee. I genitori dello scrittore furono anch’essi particolari: il padre fu un celebre oftalmologo irlandese, autore di importanti trattati medici e oculista personale della Regina Vittoria d’Inghilterra e del Re Oscar I di Svezia, venne accusato di violenza dalla diciannovenne Mary Travers a cui dovette pagare un risarcimento; la madre fu una celebre poetessa e accesa nazionalista irlandese che si faceva chiamare Speranza, che si vantava di nobili origini toscane in realtà inesistenti e che fondò un salone letterario sia a Dublino che a Londra. Da lei Oscar ereditò l’odio verso la rivelazione della propria età.

Wilde ebbe una vita “avventurosa”. Dopo aver frequentato il prestigioso Trinity College a Dublino e il Magdalen College, divenne presto popolare per la sua lingua sferzante, i suoi modi stravaganti e la versatile intelligenza. Tra le sue stranezze si può ricordare quella di vestirsi di nero il giorno del suo compleanno sostenendo di essere in lutto per la morte di uno dei propri anni. Ad Oxford fu iniziato alla Massoneria divenendo anche Maestro finché non venne espulso a causa del mancato pagamento delle rette annuali. Sempre all’Apollo University Lodge, dove vinse il premio Newdigate con il suo poema “Ravenna”, conobbe due fra i maggiori intellettuali del tempo, Pater e Ruskin, i quali lo introdussero alle più avanzate teorie estetiche, quale Arte per Amore dell’Arte, e affinarono il suo gusto artistico. Wilde infatti fu uno dei più famosi dandy inglesi, colui fece rinascere il Dandismo in Inghilterra: indossava solitamente calze di seta, pantaloni lunghi fino al ginocchio, una vistosa cravatta, una giacca di velluto con ampio colletto ripiegato e un fiore all’occhiello che cambiava ogni giorno. Del suo illustre romanzo, Il ritratto di Dorian Gray, la prefazione viene considerata il manifesto dell’Estetismo la cui prima regola è: “L’artista è il creatore di cose belle”.

Oscar viaggiò molto e imparò tante lingue: francese, tedesco, greco e italiano. Fu durante una visita a Londra nel 1897 che iniziò la sua carriera da scrittore componendo alcuni saggi e alcune poesie che successivamente furono pubblicate nella raccolta Poems. Nel 1882 Wilde fece un tour negli Stati Uniti tenendo discorsi su moltissimi argomenti come il Rinascimento inglese e l’arte contemporanea. Andò anche in Italia, Grecia e Francia. Nel 1884 incontrò la sua “anima gemella”, Costance Lloyd, che divenne subito sua moglie e con la quale ebbe anche due figli, Cyryl e Vyvyan. In realtà fu un matrimonio solo d’apparenza che non durò a lungo; infatti dopo la nascita dei figli lui e Costance si separarono proprio a causa della relazione omosessuale di Wilde con Robert Ross.

Oscar fu denunciato dal padre di Lord Alfred Douglas di “gross public indecency” (una forma più arzigogolata con cui veniva definita l’omosessualità davanti alla legge), inoltre subì due ulteriori processi per sodomia e per la bancarotta, causata dal ragazzo. Fu condannato a due anni di carcere e si racconta che Wilde in tribunale rispondesse alle domande in modo tanto ironico che a un certo punto la stanza fu svuotata perché la gente rideva senza sosta. Dopo la condanna del padre, il figlio Cyril cambiò cognome. Durante la prigionia lo scrittore compose il De profundis, una lettera autobiografica indirizzata “all’amico Bosie”, ovvero Douglas che ormai aveva abbandonato Wilde, nella quale non mancano le riflessioni amare di Oscar.

La sua fama raggiunse l’apice nel 1891 (che venne definito il suo “annus mirabilis” per la quantità di opere pubblicate) con Il ritratto di Dorian Gray. I critici del tempo identificarono Wilde con il protagonista del suo romanzo definendolo “emblema del degrado morale”. Ovviamente Wilde divenne famoso anche grazie alle sue opere teatrali: sempre nel 1891 uscì Salomé, un’opera drammatica incentrata sulla passione che venne censurata in Britannia. Nonostante quest’azione contro la sua arte, Wilde continuò a scrivere a mano mantenendo la nota sarcastica, difatti lo stesso anno pubblicò Intenzioni ovvero una collezione di saggi; l’anno seguente uscì Il ventaglio di Lady Windermere, commedia che cela giudizi negativi circa la società vittoriana. Nel 1893 scrisse Una donna senza importanza, anch’essa commedia che contiene aspre critiche in merito allo sfruttamento delle donne sia in ambito sociale che sessuale; nel 1895 Un marito ideale, incentrato sulla corruzione politica. L’opera che tutti ricorderanno però diverrà L’importanza di chiamarsi Ernesto nella quale viene presa di mira l’ipocrisia della morale della comunità di quell’epoca. Quest’ultime opere possono essere definite “commedy of manners” poiché rappresentano perfettamente le maniere e la morale della società del tempo, frivola e intrigante. L’ultimo testo di Wilde fu Ballata del carcere di Reading, un componimento poetico esistenziale terminato nel 1898 dopo essere uscito di prigione. Ad attenderlo fuori ci fu solo il suo vecchio amico Ross.

Uscito dal carcere lo scrittore ebbe da affrontare una grave perdita: la morte della madre. In seguito, tornando a Parigi, verrà informato anche della morte della moglie e si ammalerà di meningite.

Wilde in realtà aveva numerosi nomi, era registrato all’anagrafe come Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde e non erano rari i momenti in cui prediligeva farsi chiamare Wills, soprattutto all’Università; addirittura il nostro Fingal usò talvolta pseudonimi, tra cui Sebastian Melmoth e Sant’Oscar di Oxford.

Prima di contrarre la meningite Wilde ebbe la sifilide. Controllando infatti le numerosi immagini che ci sono pervenute dello scrittore, possiamo notare che in nessuna o quasi Oscar abbozza un sorriso. Questo particolare è dovuto alla sua dentatura rovinatasi proprio a causa della cura per la sifilide.

Il nostro scrittore irlandese, sostenitore del socialismo, morì il 30 Novembre del 1900 a Parigi. Curioso un aneddoto diffuso circa la sua dipartita, si racconta che prima di morire Wilde abbia detto “O se ne va quella carta da parati o me ne vado io” facendo riferimento alle pareti dello squallido hotel in cui alloggiava. Fu seppellito nel cimitero di Père-Lachaise. Si possono ancora vedere i baci che numerose persone lasciarono sulla tomba di Wilde, opera di Sir Jacob Epstein. Nel 1950 le ceneri di Robert Ross furono poste vicino a quelle del suo amante.