Alcuni effetti della tecnologia sul nostro cervello

Ormai da anni la tecnologia ha preso piede e fa parte del nostro quotidiano. Ha certamente degli aspetti positivi ma non solo. Oggi andremo a vedere alcuni dei suoi effetti sulla mente umana.

POCA MEMORIA

Possiamo paragonare le cellule cerebrali, ovvero i neuroni, a dei muscoli, i quali comunicano tra loro grazie alle sinapsi. Le sinapsi mutano sempre, sia in caso di utilizzo che non. Quando noi utilizziamo questi collegamenti tra neuroni miglioreremo il sistema nervoso, al contrario, non usandoli, le sinapsi si atrofizzeranno.

Esperienze, emozioni , riflessioni e azioni lasciano nel nostro cervello della tracce dette tracce mnemoniche. Gli impulsi trasmessi dalle sinapsi modificano le sinapsi stesse migliorandole. A lungo andare si formano veri e propri percorsi che gli impulsi seguono, chiamati tracce strutturali. Come detto in precedenza i neuroni non utilizzati muoiono. Nel cervello gli impulsi vengono elaborati da determinate aree del cervello, una delle quali, molto importante, è l’ippocampo, il quale è fondamentale per la memoria. L’ippocampo ha una particolarità: è una delle poche zone del cervello che riforma i neuroni. C’è una differenza tra crescita del cervello e nascita di neuroni. Quando alleniamo il cervello non nascono nuovi neuroni bensì si moltiplicano le sinapsi. Nell’ippocampo, invece, le cellule nervose lavorano sempre al massimo e muoiono facilmente quando vengono colpite da uno stimolo ulteriore come lo stress; tuttavia vengono sostituite da nuove cellule. Per svolgere un ruolo le nuove cellule devono essere integrate nelle reti esistenti. Questo può avvenire in un solo modo: tramite l’apprendimento, la ragione per cui esistono e non muoiono. Semplici compiti di apprendimento come la ripetizione di meccanismi vecchi portano alla morte delle cellule; serve un compito più complicato dal quale apprendere nuovi meccanismi e, in seguito, perfezionare quelli vecchi. La tecnologia toglie questa prova complicata, questa possibilità di apprendere andando così a far morire cellule che servono alla memoria. Questo processo, insieme alla quantità e alla velocità con cui vengono recepite le informazioni, porta alla non memorizzazione delle cose. Insomma più si utilizzano i neuroni maggiormente si ricorderà qualcosa.

La scrittura a mano, inoltre, svilupperà le tracce mnemoniche motorie e faciliterà il riconoscimento delle lettere, al contrario di quella tramite oggetti tecnologici.

INSONNIA

Un recente studio sull’utilizzo dello smartphone ha dimostrato come anche quest’ultimo possa costituire un fattore di rischio ben definito. Gli schermi illuminati di smartphonetablet e computer emettono le cosiddette onde blu, ovvero luci a breve lunghezza d’onda che hanno un forte impatto sulla sonnolenza diurna, poiché ritardano il rilascio della melatonina, rendendo così più difficile prendere sonno di notte; la melatonina infatti è l’ormone prodotto dalla ghiandola pineale che regola i ritmi circadiani. Quando andiamo a dormire dovremmo abituarci al buio attraverso un lento processo graduale ed è chiaro come uno schermo illuminato nella totale oscurità non possa che influenzare questo ingresso nel sonno in maniera brusca e forzata. Così facendo, lo schermo luminoso va a danneggiare i nostri ritmi circadiani, influenzando dunque la successiva fase REM (Rapid Eye Movement), fase del sonno fondamentale per l’apprendimento e la memoria: se andiamo a dormire più tardi del solito, ma continuiamo a svegliarci alla stessa ora, la nostra fase REM ne risulta fortemente accorciata e non dobbiamo dunque stupirci se le nostre capacità mnemoniche e cognitive il giorno dopo non siano adeguate. La fase REM consiste in una fase del sonno nella quale il cervello è attivo come durante la veglia ma si isola dal mondo esterno.

DIPENDENZA

Nella regione più interna del cervello si trova un gruppo di neuroni responsabili delle emozioni positive. Queste cellule vengono attivate quando accade inaspettatamente qualcosa di bello grazie al neurotrasmettitore dopamina. Dopo l’attivazione di queste cellule vengono inviati i cosiddetti oppioidi endogeni (o endorfine) al lobo frontale, provocando una soggettiva sensazione di piacere. Già da tempo si sa che le sostanze che creano dipendenza (alcol, fumo e droghe) attivano questo centro, chiamato anche nucleo di dipendenza. Questo centro però, non viene attivato solo con quelle sostanze bensì anche con la tecnologia. Si prova una gratificazione soggettiva che attiva il centro portando, a lungo andare, alla dipendenza. La dipendenza dalla tecnologia si basa fondamentalmente sull’imprevedibilità. La tecnologia inoltre, non porta solo alla dipendenza bensì aumenta i comportamenti compulsivi attraverso l’abbassamento della soglia dell’autocontrollo.

 

Déjà-vu

Chi non ha mai avuto un déjà-vu? Quella strana sensazione di aver già vissuto in precedenza un certo episodio che in realtà non si era mai verificato prima. Il termine deriva dal francese: déjà significa “già”, vu “visto”. L’espressione déjà-vu è apparsa per la prima volta ne L’Avenir des sciences psychiques dello psicologo Boirac all’inizio del XX secolo. Il déjà-vu è un fenomeno psichico riconosciuto tra le alterazioni dei ricordi, dette anche paramnesie.

Esistono vari tipi di déjà-vu in base alla sensazione provata: il déjà visité, che in italiano si può tradurre come “già visitato”, ovvero una reazione psicologica che fa sì che il cervello trasmetta alla persona la sensazione di essere già stata nel posto in cui si trova ora; il déjà senti, in italiano “già sentito”, che si tratta dell’esperienza di credere di aver già stato sentito quello che ascoltiamo; infine il déjà vécu, in italiano “già vissuto”, ossia la sensazione di aver vissuto la stessa situazione precedentemente (quest’ultimo è il più comune dei tre tipi di esperienza).

Vi sono delle teorie esoteriche senza fondamento scientifico legate al fenomeno del déjà-vu: quella degli universi paralleli e quella della reincarnazione sono le più famose. La prima consiste nel sostenere che in un altro universo viva un’altra me che ha effettivamente già vissuto l’episodio che noi consideriamo un déjà-vu; la seconda teoria si basa sulla credenza di avere vissuto altre vite e quindi credere che il déjà-vu sia un ricordo di una delle nostre esistenze precedenti.

Molti scienziati hanno cercato di studiare questo fenomeno, impresa alquanto ardua in realtà perché questi “finti ricordi” sono imprevedibili e difficilmente riproducibili in laboratorio. Ora ad offrire una teoria è un team dell’università scozzese di Sant’Andrews, guidato da Akira O’Connor, secondo cui non si tratta di un falso ricordo o di un errore del cervello, ma di una sorta di verifica dei ricordi che abbiamo già immagazzinato. La ricerca è stata basata su un metodo per riprodurre la sensazione del déjà-vu in laboratorio tramite l’elencazione di una lista di parole collegate tra loro da un concetto chiave tenuto nascosto. Alla fine dell’esperimento si chiedeva ai volontari coinvolti di dire se avessero sentito il termine che accomunava tutti i lemmi letti in precedenza, la risposta fu negativa ma le persone aggiunsero che il concetto chiave risultava loro familiare, ricreando una specie di déjà-vu. Utilizzando la risonanza magnetica funzionale (RMF) si è scoperto che durante l’esperimento erano attive le zone cerebrali legate al processo decisionale e non quelle coinvolte nella memoria, come l’ippocampo. La conclusione del team di ricerca è stata la seguente: le regioni frontali del cervello stavano verificando i ricordi in memoria inviando un segnale proprio per effettuare un controllo, a causa di una sorta di divergenza tra quello che si è realmente vissuto e il ricordo invece presente. Il déjà-vupotrebbe quindi rappresentare un’indicazione di salute da parte del cervello che controlla tutto funzioni correttamente. Quest’ipotesi inoltre va a braccetto con ciò che già sappiamo: il fenomeno è meno frequente tra le persone anziane, la cui memoria è in fase calante. L’unica perplessità riguarda gli individui che non sperimentano déjà-vu. Magari il loro sistema di memorizzazione è più efficiente e non commettendo errori il cervello non ritiene necessario controllare?

Anche in America una psicologa si è occupata di questo fenomeno alla Colorado State University. Ella, grazie a una ricerca sperimentale pubblicata su Psychological Science, ha dimostrato che la premonizione degli eventi che stanno per accadere, spesso associata al déjà-vu, non è nient’altro che una sensazione: la capacità di previsione dei soggetti non è diversa da quella basata sul lancio di una monetina. La domanda a questo punto è: se il déjà-vu è un fenomeno di memoria, lo è anche la sensazione di premonizione? Qualche indizio per poter rispondere lo forniscono studi recenti secondo cui nel corso dell’evoluzione, la memoria umana si sia sviluppata in modo non solo da raccogliere ricordi del passato, ma da fornire anche qualche indizio sul futuro. “Non siamo in grado di ricordare coscientemente una scena precedente, ma il nostro cervello riconosce la somiglianza” ha spiegato Cleary “Questa informazione passa attraverso l’inquietante sensazione che siamo stati lì prima, ma non possiamo stabilire quando o perché”.

Spiegato tutto in parole semplici: il déjà-vu si verifica a causa di un “problema tecnico” nel cervello, un’anomalia della memoria: gli eventi che stanno accadendo sono memorizzati direttamente nella memoria a lungo o breve termine, dando così l’impressione che l’evento sia successo prima quando il processo corretto sarebbe quella di andare nella memoria immediata.