Jeanne Baré

Jeanne Baré (o Baret o Barret) è un personaggio molto particolare vissuto tra il 1740 e il 1807. Lei è considerata la prima donna ad aver circumnavigato il globo.

Nacque a La Comelle, un villaggio nei pressi di Autun, in Borgogna, da una famiglia umile, infatti il padre Jean fu un bracciante. Non si sa molto dei primi anni di vita della nostra esploratrice: imparò da bambina l’arte delle erbe e, forse grazie a un sacerdote, a un nobile locale o alla madre che probabilmente aveva origini ugonotte ed era quindi istruita, anche a leggere e scrivere.

La reincontriamo citata dal naturalista Philibert Commerson, il quale la assunse come governante nel paese di Toulon-sur-Arroux. Jeanne intrecciò probabilmente una relazione con Commerson tant’è che nel 1764 affidò un bambino all’Ospedale dei Trovatelli di Parigi. Dopo un anno che la coppia si era trasferita nella capitale francese e Jeanne aveva assunto il nome di Jeanne de Bonnefoy, Commerson fu invitato a far parte della spedizione di Louis Antoine de Bougainville, il quale aveva ricevuto il compito di esplorare le terre tra le Indie e le coste occidentali dell’America rivendicando le nuove scoperte sotto la bandiera di Francia. Il naturalista, dapprima titubante per le sue condizioni precarie di salute, decise di accettare e di portare Jeanne con sé. L’unico ostacolo era la legge che a quel tempo non ammetteva la presenza di donne sulla nave. I due architettarono un piano: poiché per Commerson era previsto il servizio di un servo, Jeanne si travestì da uomo nascondendo il seno sotto strette bende di lino e assunse la parte di un valletto chiamato Jean Baret .

La spedizione ebbe inizio nel dicembre del 1766 quando le due navi La Boudeuse e l’Étoile salparono dal porto di Rochefort. Su quest’ultima, una nave-magazzino di supporto alla prima, soggiornarono i due amanti. Grazie alla gran quantità di attrezzatura scientifica che Commerson portò con sé, il capitano concesse a Jeanne la propria cabina, involontariamente facilitando così alla donna di nascondere la sua vera identità. Il naturalista soffriva di mal di mare e di ulcere alle gambe e Jeanne si prese cura di lui. È solo quando la nave raggiunse Montevideo che si la nostra avventuriera diede inizio alle sue esplorazioni a terra. Jeanne si impegnò molto trasportando provviste e casse di attrezzatura, raccogliendo campioni di piante e catalogandoli con cura. A causa dei problemi di salute di Commerson spesso fu proprio lei a occuparsi di tutto ed fu sempre lei che in Brasile scoprì una pianta rampicante denominata Bougainvillea in onore del capitano della spedizione. In Patagonia fu Jeanne a sobbarcarsi la maggior parte degli sforzi accompagnando l’infermo Commerson in tutte le escursioni. Lui aveva bisogno di lei per muoversi ma ne apprezzava anche la competenza botanica. Insieme collezionarono piante, minerali, conchiglie. Alla fine della spedizione destinarono oltre 6000 esemplari raccolti al Muséum National d’Histoire Naturelle di Parigi.

Non fu facile nascondersi. A bordo si vociferava ci fosse una ragazza e la superstizione dei marinai dilagava. A insinuare il dubbio fu il medico di bordo Vivès che nel suo diario non risparmiò commenti cattivi su Commerson, con cui litigava spesso. Quando la situazione sembrava precipitare, Jeanne tacitò le voci confessando di essere un eunuco evirato da crudeli pirati Ottomani. Molte sono le versioni sullo svelamento dell’identità della donna: Pierre Duclos-Guyot e Nassau-Siegen scrissero di un incidente in Nuova Irlanda quando Jeanne, sorpresa nuda, sarebbe stata costretta da alcuni membri dell’equipaggio a rivelare il suo sesso; la maggior parte dei racconti però fa risalire l’incidente all’Aprile del 1768 a Tahiti. Si racconta infatti che nel momento in cui Commerson e Jeanne sbarcarono per le loro esplorazioni gli indigeni si accorsero il servo non era un maschio e lo definirono una mahu, una donna nel corpo di un uomo. Jeanne fu costretta a rientrare immantinente sulla nave e, interrogata dal capitano, confessò di essere una ragazza aggiungendo che Commerson non era a conoscenza dell’inganno.

Quando le navi arrivarono a Mauritius, poiché l’identità di Jeanne era ormai nota a tutti, la coppia si trasferì a terra da un amico di Commerson. A quel punto i due decisero di rimanere a Mauritius, ufficialmente per proseguire le ricerche botaniche sull’isola. Jeanne infatti continuò ad accompagnare il suo amante nei suoi viaggi tra il 1770 e il 1772, anche in Madagascar e sull’isola di Bourbon.

Nel 1773 Commerson morì e l’amico che ospitava la coppia venne richiamato in Francia. La donna allora trovò lavoro in una locanda di Port Louis e l’anno dopo sposò un ufficiale dell’esercito francese di passaggio. Insieme a Jean Dubemat tornò in Francia nel 1775 completando il giro del mondo.

Solo dopo molte traversie legali riuscì a ottenere l’eredità che Commerson le aveva destinato poco prima di partire. Con il marito si stabilì nel villaggio di Saint-Aulaye e della sua vita da allora in poi si sa ben poco. Nel 1785 la marina francese le concesse una pensione di 200 livree l’anno per i servizi resi alla ricerca scientifica. Morì, dimenticata, il 5 Agosto del 1807.

Il suo enorme lavoro di ricerca non è stato mai riconosciuto ma Jeanne è stata una donna capace di infrangere gli schemi dell’epoca: ha amato un uomo sposato, ha dato alla luce un figlio illegittimo, si è avventurata per mare travestita da uomo, ha esplorato terre remote senza paura e ha compiuto il giro del mondo. Di lei rimane un ritratto apparso nel 1816 nell’edizione italiana dei viaggi di James Cook. Vi compare bizzarramente abbigliata con un berretto rosso dei rivoluzionari francesi e abiti a righe che i marinai presero a indossare solo dopo il 1790. In mano stringe un mazzo di erbe e fiori, un riconoscimento alle sue abilità botaniche. Ora una pianta ha il suo nome: la Solanum baretiae.

Per finire questa piccola biografia di Jeanne Baré, vi lascio una pagina del diario di bordo di questa avventuriera.

Diario di bordo. Nave Étoile, Rio de Janeiro, 26 luglio 1768

Da qualche giorno il comandante Bougainville mi rivolge domande insistenti, i membri dell’equipaggio sono passati da sguardi sospettosi a battute pronunciate a mezza voce e strizzatine d’occhi tra di loro mentre passo sul ponte. Ho sempre più timore di venire scoperta ma dobbiamo tenere i nervi saldi, le conseguenze potrebbero essere gravissime, sopratutto per Philibert.

L’arrivo a Rio de Janeiro non è stato facile, allo sbarco alcuni marinai sono stati assassinati in una rissa, ma dopo qualche giorno ci hanno assicurato che non eravamo più in pericolo e siamo riusciti a scendere. In realtà sono scesa solo io, con alcuni uomini, perché Philibert è confinato sulla nave da settimane, sta male, soffre il mare e ha un serio problema alla gamba, un’ulcera che non guarisce.

Ad ogni modo sono riuscita a perlustrare la zona molto dettagliatamente e a raccogliere numerosi campioni.

In particolare molti esemplari della fioritura di una pianta che ha esaltato Philibert, non avevamo mai visto nulla di simile, abbiamo deciso di chiamarla bougainvillea in onore del nostro comandante.

Philibert ogni giorno ha parole di grande affetto per me, è fiero della mia resistenza e del mio coraggio. La sera ci mettiamo a catalogare e classificare tutti i ritrovamenti ed è il momento più bello, quello che mi ripaga di tutta la fatica. Tutti dormono, la nave è attraccata e si muove dolcemente, le nostre teste si sfiorano chine sul grande libro, sento il suo respiro mentre intinge il pennino e per qualche secondo rimane incerto, poi verga sulla carta ruvida il nome che ha scelto.

Da bambina andavo con mio padre alla ricerca di erbe officinali, lui aveva ereditato da suo padre la capacità di riconoscerle e la sapienza nel miscelarle e dosarle come medicine. Tante persone venivano da noi quando i loro figli avevano una brutta tosse, mal di stomaco, mal di testa. E lui aveva sempre una pozione, un piccolo cartoccio che consegnava nelle mani del genitore preoccupato. Ogni mattina quello era il nostro momento, ci infilano degli stivali e andavamo alla ricerca, camminando in silenzio e appoggiando le erbe delicatamente in un cestino, quando ero incerta sul ritrovamento gli porgevo la pianta, lui la esaminava e poi a volte annuiva, a volte dissentiva e la buttava a terra. Quando aveva cominciato a stare male andavo io, ormai esperta, da sola, a raccogliere le erbe. Poi all’improvviso era morto, le sue pozioni non aveva funzionato con lui, e io avevo continuato ad andare per prati la mattina presto perché era un modo per sentire meno il dolore e ritrovarlo nel silenzio dei mie passi.

Ieri Philibert ha vergato il mio nome sotto un fiore molto bello che ho trovato qualche giorno fa. L’ha chiamato Solanum baretiae, in mio onore. Io ho ringraziato ed ero onorata, ma in cuor mio l’ho dedicato a mio padre quel bellissimo fiore che a volte è viola, altre volte giallo. A tutte le mattine che abbiamo camminato insieme, nel freddo dell’inverno, nei primi tepori dell’estate.

 

La Seconda Rivoluzione Industriale

Lo sviluppo industriale ebbe inizio nella seconda metà del Settecento e proseguì fino agli inizi del Novecento (1914, inizio della Prima Guerra Mondiale). Tuttavia le innovazioni della seconda metà dell’Ottocento (1870) furono molto più complesse, e la fase che va dal 1870 al 1914 è chiamata Seconda Industrializzazione o Seconda Rivoluzione Industriale. Mentre durante la Prima Rivoluzione Industriale lo sviluppo si concentrò soprattutto nell’Europa occidentale e in America, durante la Seconda Rivoluzione Industriale esso si diffuse anche nei paesi più periferici come il Giappone e la Russia. Un’altra differenza fondamentale tra la Prima e la Seconda Industrializzazione fu che mentre nel corso della prima le regioni più avvantaggiate furono quelle più ricche di carbone e ferro, nel corso della seconda furono quelle sprovviste di materie prime ma ricche di capacità tecniche culturali che permisero le innovazioni tecnologiche.

Grazie alla sempre maggiore richiesta di energia elettrica da parte delle industrie nascenti negli anni Ottanta dell’Ottocento, si affermarono le industrie produttrici dell’energia elettrica che andò a sostituire il vapore. Dapprima i prodotti come i cereali importati da altri stati erano molto costosi a causa dell’alto prezzo dei trasporti, poi, durante la Seconda Rivoluzione Industriale, i costi calarono moltissimo, perché con l’affermazione della ferrovia e della macchina a vapore i trasporti costavano meno. Così le aziende del continente europeo che prima erano protette dai prodotti industriali d’oltreoceano a causa dell’alto prezzo che veniva imposto per i trasporti, si videro investiti dai prodotti americani (in particolare cereali) che ora potevano esseri commerciati a prezzo basso. Il costo basso dei prodotti d’oltreoceano era dovuto alla grande disponibilità di terreni coltivabili e di manodopera in paesi come gli Stati Uniti, il Canada, l’Argentina, l’Australia, l’India e la Nuova Zelanda che vennero battezzati “i nuovi granai del mondo”. Questo processo costrinse molte fabbriche europee a chiudere così questa crisi di sovrapproduzione venne chiamata “Grande Depressione”.

Fra il 1870 e il 1900 fecero la loro prima apparizione una seria di strumenti, di macchine, di oggetti d’uso domestico che sarebbero poi divenuti parte integrante della nostra vita quotidiana: la lampadina e l’ascensore elettrico, il motore a scoppio e i pneumatici, il telefono e il grammofono, la macchina per scrivere e la bicicletta, il tram elettrico e l’automobile… Nel 1873 apparve il frigorifero, un anno dopo il ferro da stiro elettrico, la penna stilografica, la gomma per cancellare. Nel 1876 lo scozzese Alexander Graham Bell costruì il telefono (già ideato dall’italiano Antonio Meucci); nel 1877 Edison brevettò il fonografo, che qualche anno più tardi fu trasformato in grammofono da Hans Berliner. Nel 1895 ci furono altri due avvenimenti fondamentali nella storia moderna delle invenzioni: l’italiano Guglielmo Marconi effettuò il primo esperimento di telegrafo senza fili e i fratelli francesi Lumière inventarono il cinema. La fabbricazione della cellulosa permise di compiere i primi passi nella produzione di materie plastiche. Non tutte le invenzioni trovarono un impiego pacifico però: la dinamite, inventata dallo svedese Nobel, fu usata principalmente a scopo bellico, poiché in quegli anni erano necessari esplosivi più potenti per perforare le corazze delle navi che cominciavano ad essere costruite con l’acciaio. Il Novecento si aprì con un’invenzione che avrebbe trasformato il mondo: nel 1903 due americani, i fratelli Wright, fecero sollevare da terra un mezzo più pesante dell’aria (fino ad allora avevano volato solo aerostati e palloni gonfiati con aria calda o gas più leggeri dell’aria) ma soltanto nel 1911 fu costruito il primo aereo con una struttura coperta totalmente da una tela verniciata che permetteva di vincere la resistenza dell’aria.

La vera novità della Seconda Rivoluzione Industriale però non fu tanto nelle conquiste della scienza, quanto nell’applicazione su sempre più larga scala delle scoperte nei vari rami dell’industria. Il legame che si veniva a creare tra scienza e tecnologia e tra tecnologia e mondo della produzione diventava sempre più stretto: scienziati di grande prestigio misero i loro studi a disposizione dell’industria, ingegneri, biologi, chimici e fisici divennero titolari o contitolari di imprese. Gli sviluppi più interessanti si concentrarono in industrie “giovani”, come quella chimica o metallurgica dedita alla produzione dell’acciaio. L’impiego su vasta scala dell’acciaio fu uno dei tratti distintivi della nuova epoca; i pregi del solido e malleabile metallo erano conosciuti da tempo, ma gli elevati costi di produzione ne avevano limitato l’uso alle armi da fuoco, alle lame e agli strumenti di precisione. Con l’impiego di nuove tecniche di fabbricazione dal 1879 fu possibile realizzare acciaio in grandi quantità e a costi modesti, da allora la produzione di questo metallo crebbe a ritmi rapidissimi. L’acciaio venne usato per le rotaie delle ferrovie, per le corazze delle navi da guerra, per gli utensili domestici e per le macchine industriali che divennero più precise, potenti e leggere; inoltre fornì anche le strutture per costruire grandi edifici e grandi ponti, come il Tower Building di New York, il primo palazzo in acciaio costruito nel 1889, e la Torre Eiffel, realizzata nello stesso anno in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi destinata a diventare il simbolo più celebre dell’età dell’acciaio.

L’industria chimica era un’industria multiforme, essa abbracciava una grande varietà di produzioni: dalla carta al vetro, dai medicinali ai concimi, dai saponi ai coloranti, dagli esplosivi alla ceramica. La crescita delle nuove industrie fece aumentare la domanda di prodotti destinati ad essere impiegati come reagenti chimici in altre lavorazioni. I più diffusi di questi prodotti erano l’acido solforico e la soda. Queste furono produzioni che costituirono la base per lo sviluppo dell’industria chimica, che allargò e diversificò l’area delle sue specializzazioni.

Nella Prima Rivoluzione Industriale era stata inventata la macchina a vapore, e nella Seconda questa stava per essere inglobata dalla macchina con il motore a scoppio, inventato dai tedeschi Gottlieb Daimler e Carl Benz. Successivamente nel 1897 Rudolf Diesel, inventò il motore a nafta. L’automobile si diffuse a poco a poco e il petrolio divenne sempre più importante per l’uomo, non solo per i motori ma anche per illuminare o riscaldare. Col passare del tempo “l’oro nero” venne sostituito dalla dinamo e da generatori, in grado di trasformare il movimento di un corpo in corrente elettrica, batterie capaci di immagazzinarla e motori elettrici che permettevano di trasmettere corrente elettrica a grandi distanze e di utilizzarla per l’illuminazione e il riscaldamento. A partire dalla fine dell’Ottocento, l’energia elettrica cominciò ad essere usata anche per i mezzi di trasporto e per gli usi industriali. Di fronte alla richiesta sempre crescente di energia elettrica, si faceva strada l’idea di ricorrere per la produzione di corrente, anziché alle macchine a vapore, all’energia idraulica. Tra il 1850 e il 1870 si costruirono in Europa circa 75000 chilometri di strade ferrate, parallelamente si potenziarono anche le comunicazioni via mare. Lo sviluppo delle ferrovie permise di raggiungere nuovi mercati per la vendita dei prodotti industriali e agricoli, alimentò una continua domanda di ferro e carbone, che erano le materie prime necessarie per costruire binari, locomotive e vagoni e per far funzionare le macchine a vapore.

Con il prezzo calante dei prodotti e il conseguente aumento del reddito procapite, si allargò il mercato e si ebbe sempre più bisogno di prodotti. Per venire incontro ai cittadini James Taylor inventò la catena di montaggio per la produzione di massa. La prima catena di montaggio fu introdotta nel 1913 nelle officine automobilistiche Ford di Detroit. Fu un’innovazione rivoluzionaria che consentì di ridurre i tempi di lavoro, ma frammentando il processo produttivo in una serie di piccole operazioni, ciascuna affidata a un singolo operaio, il lavoro risultava ripetitivo e spersonalizzato. Le tecniche del Taylorismo permisero alta produttività e alti salari, ma i lavoratori si lamentarono di essere privati di autonomia dalle macchine e quindi del proprio orgoglio professionale.

Fortezze

Fotografie di montagna

Concezione dell’amore nell’Antica Grecia

Nella Grecia Antica c’erano non poche parole per designare l’amore, questo perché ogni lemma aveva una propria sfumatura. Oggi andremo a vedere nel dettaglio questi termini e il loro significato preciso.
SOSTANTIVI PER INDICARE L’AMORE
αγάπη (“agape”) è amore di ragione, incondizionato, oblativo, anche non ricambiato, spesso con riferimenti religiosi: per esempio è il termine per indicare amore più usato nei Vangeli. Il verbo associato è ἀγαπάω (“agapao”) che significa “apprezzare”.
φιλία (“philia”) è l’amore di affetto e piacere, di cui ci si aspetta un ritorno, ad esempio tra amici. Il verbo associato è φιλέω ed esprime “amore” in forma più generica; può significare anche “baciare”.
έρως (“eros”) definisce l’amore fisico, ma non solo. Deriva da έραμαι (“eramai”) che vuol dire “amare ardentemente”, “bramare”. Il termine έρος non si riferisce necessariamente a una persona, infatti il verbo da cui deriva può anche riferirsi a enti astratti, come per esempio la brama di conoscere. Nel Simposio di Platone è usato spesso per indicare il dio Amore. Il verbo corrispondente è ἐράω (“erao”).
αντέρως (“anteros”) è l’amore corrisposto, il legame.
ιμερος (“imeros”), letteralmente “desiderio irrefrenabile”: la passione del momento, il desiderio fisico presente e immediato che chiede di essere soddisfatto.
πόθος (“pothos”), termine che indica ciò che sogniamo.
στοργή (“stοrgé”): l’amore parentale-familiare, viene dal verbo στέργω (“stergo”) che significa “amare teneramente” e viene usato soprattutto in riferimento all’amore filiale. È l’amore d’appartenenza, ad esempio tra parenti e consanguinei. Il verbo associato è στέργω (“stergo”) ed esprime un’attenzione interiore come quella tra genitori e figli, o verso la patria.
θέλημα (“thélema”) indica l’amore per ciò che si fa, è il piacere di fare, il desiderio di voler fare.
CONCEZIONE DELL’AMORE
Il Simposio di Platone è un testo che ci dà molte informazioni circa questo tema, infatti è un saggio filosofico incentrato proprio sull’amore. Quando parla Diotima di Mantinea possiamo trovare la celebrazione di un amore spirituale che non contempla solo la relazione uomo-donna bensì anche altri tipi, tra i quali quello per la conoscenza. Nel discorso di Aristofane invece possiamo notare una visione di un amore ancora più spirituale in quanto neanche più legato alla procreazione vista come desiderio di immortalità. Aristofane sostiene ci sia bisogno di una persona che ci completi e che ristabilisca la nostra vera natura- facendo riferimento al mito di persone originarie “doppie” in cui si diceva Zeus avesse tagliato a metà ogni persona e quindi si tornasse a questa forma originale tramite l’amore vero che poteva esistere con una sola anima.
Nella Grecia Antica l’amore omosessuale era comune tra le persone aristocratiche ma biasimato, se non condannato, tra i ceti più umili. Poiché l’uomo era visto come ideale di bellezza l’unione tra due uomini era vista come la tendenza a una bellezza superiore. L’amore platonico, famoso ma non sempre definito in modo preciso, consiste nell’amore tra un adulto sapiente e un fanciullo. È inteso come trasmissione di conoscenza e quindi assenti divengono i rapporti fisici.
Leggendo invece le poesie liriche di Saffo, le quali si concentrano molto su questo tema, possiamo notare l’amore visto nella sua componente più istintiva e passionale, infatti la persona amata viene divinizzata e sembra irraggiungibile e perfetta. I vocaboli utilizzati indicano una dimensione materiale però lo spazio riservato alla parte fisica non è presente in quanto ci si concentra sulle due persone innamorate.
Mi sembra doveroso aggiungere comunque che anche il tempo ha contribuito alla diversificazione dei vari concetti. Esempio lampante è la differenza tra la visione omerica e quella polis di Atene: nel primo caso l’amore è spontaneo, nel secondo si punta alla repressione del suo carattere fisico, dell’eros.
Insomma la visione dell’amore era molto articolata e complessa nell’Antica Grecia: dalla condanna all’esaltazione dell’amore omosessuale, dalla preferenza per un amore eterosessuale, alla paura e biasimo per il matrimonio.

Alcuni effetti della tecnologia sul nostro cervello

Ormai da anni la tecnologia ha preso piede e fa parte del nostro quotidiano. Ha certamente degli aspetti positivi ma non solo. Oggi andremo a vedere alcuni dei suoi effetti sulla mente umana.

POCA MEMORIA

Possiamo paragonare le cellule cerebrali, ovvero i neuroni, a dei muscoli, i quali comunicano tra loro grazie alle sinapsi. Le sinapsi mutano sempre, sia in caso di utilizzo che non. Quando noi utilizziamo questi collegamenti tra neuroni miglioreremo il sistema nervoso, al contrario, non usandoli, le sinapsi si atrofizzeranno.

Esperienze, emozioni , riflessioni e azioni lasciano nel nostro cervello della tracce dette tracce mnemoniche. Gli impulsi trasmessi dalle sinapsi modificano le sinapsi stesse migliorandole. A lungo andare si formano veri e propri percorsi che gli impulsi seguono, chiamati tracce strutturali. Come detto in precedenza i neuroni non utilizzati muoiono. Nel cervello gli impulsi vengono elaborati da determinate aree del cervello, una delle quali, molto importante, è l’ippocampo, il quale è fondamentale per la memoria. L’ippocampo ha una particolarità: è una delle poche zone del cervello che riforma i neuroni. C’è una differenza tra crescita del cervello e nascita di neuroni. Quando alleniamo il cervello non nascono nuovi neuroni bensì si moltiplicano le sinapsi. Nell’ippocampo, invece, le cellule nervose lavorano sempre al massimo e muoiono facilmente quando vengono colpite da uno stimolo ulteriore come lo stress; tuttavia vengono sostituite da nuove cellule. Per svolgere un ruolo le nuove cellule devono essere integrate nelle reti esistenti. Questo può avvenire in un solo modo: tramite l’apprendimento, la ragione per cui esistono e non muoiono. Semplici compiti di apprendimento come la ripetizione di meccanismi vecchi portano alla morte delle cellule; serve un compito più complicato dal quale apprendere nuovi meccanismi e, in seguito, perfezionare quelli vecchi. La tecnologia toglie questa prova complicata, questa possibilità di apprendere andando così a far morire cellule che servono alla memoria. Questo processo, insieme alla quantità e alla velocità con cui vengono recepite le informazioni, porta alla non memorizzazione delle cose. Insomma più si utilizzano i neuroni maggiormente si ricorderà qualcosa.

La scrittura a mano, inoltre, svilupperà le tracce mnemoniche motorie e faciliterà il riconoscimento delle lettere, al contrario di quella tramite oggetti tecnologici.

INSONNIA

Un recente studio sull’utilizzo dello smartphone ha dimostrato come anche quest’ultimo possa costituire un fattore di rischio ben definito. Gli schermi illuminati di smartphonetablet e computer emettono le cosiddette onde blu, ovvero luci a breve lunghezza d’onda che hanno un forte impatto sulla sonnolenza diurna, poiché ritardano il rilascio della melatonina, rendendo così più difficile prendere sonno di notte; la melatonina infatti è l’ormone prodotto dalla ghiandola pineale che regola i ritmi circadiani. Quando andiamo a dormire dovremmo abituarci al buio attraverso un lento processo graduale ed è chiaro come uno schermo illuminato nella totale oscurità non possa che influenzare questo ingresso nel sonno in maniera brusca e forzata. Così facendo, lo schermo luminoso va a danneggiare i nostri ritmi circadiani, influenzando dunque la successiva fase REM (Rapid Eye Movement), fase del sonno fondamentale per l’apprendimento e la memoria: se andiamo a dormire più tardi del solito, ma continuiamo a svegliarci alla stessa ora, la nostra fase REM ne risulta fortemente accorciata e non dobbiamo dunque stupirci se le nostre capacità mnemoniche e cognitive il giorno dopo non siano adeguate. La fase REM consiste in una fase del sonno nella quale il cervello è attivo come durante la veglia ma si isola dal mondo esterno.

DIPENDENZA

Nella regione più interna del cervello si trova un gruppo di neuroni responsabili delle emozioni positive. Queste cellule vengono attivate quando accade inaspettatamente qualcosa di bello grazie al neurotrasmettitore dopamina. Dopo l’attivazione di queste cellule vengono inviati i cosiddetti oppioidi endogeni (o endorfine) al lobo frontale, provocando una soggettiva sensazione di piacere. Già da tempo si sa che le sostanze che creano dipendenza (alcol, fumo e droghe) attivano questo centro, chiamato anche nucleo di dipendenza. Questo centro però, non viene attivato solo con quelle sostanze bensì anche con la tecnologia. Si prova una gratificazione soggettiva che attiva il centro portando, a lungo andare, alla dipendenza. La dipendenza dalla tecnologia si basa fondamentalmente sull’imprevedibilità. La tecnologia inoltre, non porta solo alla dipendenza bensì aumenta i comportamenti compulsivi attraverso l’abbassamento della soglia dell’autocontrollo.

 

Il teorema del pappagallo

RECENSIONE DEL LIBRO “IL TEOREMA DEL PAPPAGALLO”

Autore: Denis Guedji

Genere: Romanzo giallo

Versione in mio possesso: casa editrice TEA, anno di pubblicazione 2018

Trama: Max porta a casa un pappagallo dopo averlo salvato da due brutti ceffi, il signor Ruche riceve una strana lettera da un vecchio amico e degli antichi libri matematici… Dove saranno finite le dimostrazioni tanto cercate di due congetture matematiche famosissime? Questo è il mistero di Montmartre.

Recensione: Questo libro è sicuramente particolare poiché unisce due mondi molto lontani: quello del racconto giallo e quello della matematica. All’interno di quest’opera infatti troviamo tre filoni narrativi che danzano insieme: il mistero del pappagallo, le dimostrazioni nascoste e le tappe fondamentali della storia della matematica. L’autore riesce a spiegare in modo divertente e semplice alcune delle scoperte più importanti della matematica usando come espediente narrativo le lettere di un vecchio amico. Lo scrittore usa anche una nota di humour in questo testo che rende il tutto più leggero e scorrevole. In quanto appassionata di matematica, posso dire che questo libro mi è piaciuto, sia nella sua parte più seria che in quella più leggera. Se dovessimo giudicare solo la componente di racconto giallo potremmo dire che pecca un po’ di banalità nella parte iniziale ma il finale è sorprendente. Trovo l’idea dell’autore sia stata geniale e molto ben sviluppata attraverso questo romanzo. Lo stile di Guedji è leggero e coinvolgente, molto appassionante. Certo, è un testo un po’ lunghetto ma se qualcuno smettesse di leggerlo per un po’ per la mancanza di tempo e dopo lo riprendesse in mano, sicuramente non dovrebbe ricominciarlo da capo, un aspetto molto positivo dal momento che parecchi testi soffrono di questa pecca.

Tramite la tecnica del narratore onnisciente, l’autore riesce a farti immergere completamente nel testo e a farti anche affezionare ai personaggi, una delle cose più belle che possa succedere quando si parla di libri.

Si dice che un libro sia ben scritto se ti lascia un’impronta nella mente tale per cui tu non lo dimenticherai subito come, ahimè, succede con molti testi. Posso dire, almeno a parer mio, che è un’opera ben scritta.

Mi sento di consigliarlo?

Assolutamente sì, in quanto è comunque un testo leggero, divertente e appassionante che sicuramente ti fa staccare dallo stress quando ti concedi una pausa per leggerlo. Trovo sia adatto sia agli amanti della matematica sia a chiunque cerchi una lettura leggera ma comunque che si rispetti. Facendo anche un piccolo sondaggio ho scoperto che anche molte persone per cui la matematica rappresentava un incubo hanno adorato questo libro.

Impari qualcosa di nuovo sulla matematica?

Senza ombra di dubbio. Ovvio che vengono spiegati argomenti non troppo complessi ma anche la storia serve per capire ciò che viene dopo. C’è da dire comunque che oltre ai fondamenti della matematica vengono introdotti anche argomenti meno basilari.

Citazioni errate

Tante sono le citazioni errate ovvero aforismi attribuiti a persone sbagliate o frasi storpiate. Oggi ne andremo a vedere qualcuna, ho cercato di scegliere quelle circa le quali si commettono più errori.

AFORISMI ATTRIBUITI A PERSONE SBAGLIATE

“È meglio tacere ed essere considerati imbecilli piuttosto che aprire bocca e togliere ogni dubbio”

Questa frase viene attribuita a molte persone tra le quali Lincoln, Confucio, Oscar Wilde ma la verità è solo una. Questo aforisma storicamente fu pronunciato dallo scrittore Maurice Switzer, autore del libro Mrs. Goose, her book.

“Follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi ogni volta un risultato diverso”

Questa frase probabilmente non è famosa quanto le precedenti ma deve ottenere un posto in questo articolo perché molti sono gli aforismi attribuiti ad Einstein senza fonti scritte. Questa citazione è una di quelle, infatti la maternità va a la scrittrice americana Rita MaeBrown. Possiamo leggerla nel suo libro Morte improvvisa, risalente al 1983.

“Il paradiso per il clima, l’inferno per la compagnia”

Anche questa frase è molto famosa e negli anni è stata attribuita a moltissimi autori tra i quali anche Oscar Wilde e Mark Twain ad esempio. L’autore vero è in realtà un politico, Benjamin Wade, che disse: “Penso, da tutto quello che posso sapere, che il paradiso ha il miglior clima, ma l’inferno ha la miglior compagnia”.

“L’importante non è vincere ma partecipare”

Ormai divenuta motto ufficiale dei Giochi Olimpici, questa citazione in realtà non è di Pierre de Coubertin. Egli in persona infatti confessò che la paternità della frase non era sua bensì di un vescovo della Pennsylvania, Ethelbert Talbot.

“Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”

Questa citazione è per molti dell’illustre scrittore e filosofo Voltaire (pseudonimo di François-Marie Arouet). In realtà è solo in uno scritto del 1906 della saggista britannica Evelyn Beatrice Hall che questa frase viene attribuita al filosofo francese, il quale in realtà non l’ha mai né pronunciata né scritta.

“Se non hanno pane mangino brioches”

Non poteva mancare questa famosissima citazione che ha fatto il giro del mondo e ha contribuito a far passare Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena, moglie di Luigi XVI, come una spietata governatrice. In realtà alla regina non si possono affibbiare queste odiose parole in quanto le riporta l’illuminista Jean-Jacques Rousseau nelle sue Confessioni, citando una principessa non ben definita. A questo punto vi starete chiedendo come io allora possa sfatare questo mito se il nome della regnante citata dallo scrittore non è specificato… È molto semplice: l’episodio riportato da Rousseau risale all’anno 1741 quando Maria Antonietta non era ancora nata! La nostra regina francese infatti venne alla luce solo quattordici anni dopo l’avvenimento ed è per questo impossibile che sia stata lei a pronunciare queste parole.

πάντα ῥεῖ (“panta rei”)

La traduzione sarebbe “tutto scorre” ed è una massima attribuita ad Eraclito da Platone. Nella sua opera Cratilo, infatti il filosofo greco scrive: «Dice Eraclito “che tutto si muove e nulla sta fermo” e confrontando gli esseri alla corrente di un fiume, dice che “non potresti entrare due volte nello stesso fiume”». Il riferimento è al frammento 91 del trattato Sulla natura, nel quale però l’espressione “panta rei” non risulta essere presente.

FRASI STORPIATE

“Elementare, Watson”

Sì, sfatiamo questo mito, la succitata frase, così celebre e famosa, non è mai stata pronunciata dal vero Sherlock Holmes in quanto Sir Arthur Conan Doyle non l’ha mai scritta. Questa citazione è stata inventata a causa dei riarrangiamenti cinematografici e teatrali. Una battuta simile si può trovare in un passaggio del libro in cui Watson esclama: “Semplice” e Holmes replica: “Elementare”.

“Eppur si muove” (oppure “e pur si muove” o ancora “e pur si move”)

Questa sentenza non fu realmente pronunciata da Galileo Galilei davanti al tribunale dell’Inquisizione. Queste parole infatti sono state scritte da Giuseppe Baretti che le mise in bocca allo scienziato probabilmente per difenderne l’onore in quanto Galileo fu costretto ad abiurare pur essendo consapevole della fondatezza delle sue idee.

“Houston, abbiamo un problema”

Questa modifica della battuta originale fu resa celebre grazie al film Apollo 13. In realtà nessuno degli astronauti dello Space Shuttle pronunciò quelle parole, il messaggio preciso era infatti: “Okay, Houston, we’ve had a problem here”, ovvero “Okay, Houston, abbiamo avuto un problema”.

“Ho visto cose che voi umani non potete neppure immaginare”

Anche questa frase è stata storpiata, infatti nel film Blade Runner la battuta vera è “Io ne ho viste cose, che voi umani non potreste immaginarvi”.

“Il fine giustifica i mezzi”

Questa sentenza è diventata molto famosa ed è associata al carattere utilitaristico di Macchiavelli. Peccato che in realtà sia un’eccessiva semplificazione del passo contenuto nel Principe di Niccolò Macchiavelli. Egli infatti scrive: “Nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de’ Principi […] si guarda al fine […] I mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno lodati”.

“Lazzaro, alzati e cammina”

Ebbene sì, anche questa citazione in realtà non è una frase pronunciata da Gesù. Andando a leggere la Bibbia infatti potremo notare che nell’episodio di Lazzaro il Redentore dice solo: “Lazzaro, vieni fuori!” (Vangelo di Giovanni). Probabilmente questo episodio è stato mescolato con quello in cui Gesù dice ad un uomo malato: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina”.

“Non ti curar di loro, ma guarda e passa”

Tutti noi conosciamo la Divina Commedia (anche questo titolo è modificato, non è di Dante) e il succitato verso fatto pronunciare da Virgilio nel III Canto dell’Inferno in realtà è stato modificato. Nell’opera originale, quando i due autori passano davanti agli ignavi, è scritto “Non ragioniam di loro, ma guarda e passa”.

“Tu quoque, Brute, fili mi!”

Per finire in bellezza non poteva mancare questa citazione attribuita a Giulio Cesare, il quale l’avrebbe pronunciata prima di morire assassinato dal figlio adottivo Bruto. In realtà è solo una resa poetica della frase dello storico Cassio Dione “kai sü, teknon?” ovvero “anche tu, figlio?”. Lo storico greco in realtà aveva ripreso il racconto da Svetonio, il quale a sua volta aveva raccolto le testimonianze di altri storici che in realtà non avevano assistito alla scena. Leggendo attentamente Svetonio ci si accorgerà però che egli scrive che Cesare prima di essere ucciso emise “un solo gemito, senza una parola”.

Il teorema di Sheldon

Questo è sicuramente uno dei teoremi più strani della matematica. In uno degli episodi di The Big Bang Theory il fisico Sheldon e i suoi amici discutono su quale sia il numero migliore. Sheldon espone il suo parere: il numero migliore è il 73. Scopriamo perché… Il 73 è il 21esimo numero primo mentre il suo speculare, il 37, è il 12esimo numero primo, ovvero la posizione speculare a quella del 73 nell’elenco dei numeri primi; inoltre il prodotto delle due cifre di 73 è 21 come la sua posizione tra i numeri primi. Non è finita qui! Il 73 infatti in codice binario corrisponde a 1001001, ovvero un numero palindromo (si può leggere da sinistra a destra o viceversa ottenendo sempre lo stesso numero).

Spiegato in termini generali un numero primo – ossia divisibile solo per uno e per se stesso – che abbia il prodotto delle sue cifre coincidente con la posizione che occupa nell’elenco dei numeri primi, e le cifre invertibili per ottenere un altro numero primo, la cui posizione coincide con quella iniziale a cifre invertite, è un “numero di Sheldon”.

Dopo aver visto questo episodio di The Big Bang Theory un Professore universitario, Christopher Spicer, ha cercato di comprendere se la congettura di Sheldon potesse anche divenire un teorema. Ricapitolando un “numero di Sheldon” deve avere due proprietà: Product property”, “Mirror property”. Proviamo a descriverla brevemente matematicamente.

Per ogni intero positivo n tramite pn  indichiamo la posizione del numero n in questione nell’elenco dei numeri primi.

Esempio:    pn = 17 perché il 17 è il settimo numero primo

Successivamente per ogni intero positivo n indichiamo tramite rev(n) lo speculare di n

Esempio:       rev(17) = 71

La “product property” consisterebbe nel seguente fenomeno:

p= prodotte delle cifre di n

La “mirror property” consisterebbe nel seguente fenomeno:

pn= rev (prev(n))

A questo punto risulta che p36=71 perciò il 17 rispetta la prima proprietà ma non la seconda purtroppo.

Senza entrare nei dettagli della dimostrazione poiché complicata e lunga, posso semplicemente dire che Spicer insieme a Carl Pomerance ha utilizzato il teorema dei numeri primi per dimostrare questo teorema.

La conclusione è stata… esiste solo il 73 come “numero di Sheldon”. Alcuni numeri rispettavano una delle proprietà ma non entrambe purtroppo.

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