Questa immagine compare anche nell’edizione particolare de “Il Corsaro Nero” uscita tanti anni fa. Si tratta, infatti, di una edizione integrale annotata.
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C’è anche questa.
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C’è inoltre il famoso Morgan.
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Le stampe originali sono parte integrante di “De Americaensche Zee-Roovers“, uscita ad Amsterdam nel 1678. Di Alexandre Olivier Exquemelin (scritto anche Esquemeling, Exquemeling, o Oexmelin). Credo si tratti di pagine dell’opera originale custodita alla Libreria del Congresso Americano. Che riporta la dicitura abituale di questo lavoro in “The Buccaneers of America“, una delle due traduzioni in inglese uscite nel 1684. E’ un libro molto imitato e ispiratore di tanta narrativa. A quella derivata, più precisamente all'”Histoirie illustrée des pirates, corsaires, flibustiers, boucaniers, forbans, négriers et ecumeurs dans tous les temps e dan tous le pays” di Jules Trousset, tradotta in Italia da Sonzogno tra il 1879 e il 1881, ha attinto il nostro Emilio Salgari per il già citato romanzo che ha segnato uno dei suoi cicli più famosi. Altre notizie sui filibustieri – e sulle Americhe – Salgari trovò anche sul “Costume antico e moderno” di Giulio Ferrario (1817-1834) e nella “Storia dell’America” di Giuseppe Compagnoni del 1822.
Fotografia: www.aemma.org
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L’edizione, da cui sono partito per stendere questi brevi appunti, é anche dotata di illustrazioni riprese da “L’Arte di ben Maneggiare La Spada“, di Francesco Alfieri, del 1653.
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Ma anche dalla “Storia generale delle Antille abitate dai francesi” (1667-1671. 4 tomi) di Jean-Baptiste Du Tertre.
Sulla flora, sulla fauna, gli usi e i costumi indigeni dell’America tropicale, Salgari raccolse, invece, molte informazioni nelle edizioni italiane dei due principali periodici di viaggio dell’Ottocento, “Il giro del mondo” e il “Giornale illustrato dei viaggi e delle avventure“, dove venivano pubblicati a puntate vari reportage. Si avvalse, in più, di due volumi di Louis-Guillaume Figuier pubblicati da Treves rispettivamente nel 1873 e nel 1880, l'”‘Histoire des plantes” e “La vie et les moeurs des animaux“.
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Questa é la copertina della prima edizione in 16° (del 1901) de “Il Corsaro Nero“, uscito in precedenza in dispense a Genova a partire dall’ottobre 1898.
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Non potevo concludere senza riportare almeno un’immagine che compare sia nell’originale che nella ristampa particolare di cui alla mia premessa, immagine dovuta al bravo Pipein Gamba.
Certo che su Salgàri, a ben guardare, c’è ancora molto da dire.
C. otto anni fa mi aveva mandato da Parma un discreto numero di fotografie, anche improvvisandosi operatore. Ma io avevo parlato con lui più per scherzo … Non è uno scherzo, purtroppo, da qualche tempo a questa parte il suo stato di salute: il modo qusi irriverente con cui ripubblico queste datate note vuole essere un modo di augurargli ogni bene.
Ne pubblico ancora qualcuna. A parte il ponte romano di zona Ghiaia, il Battistero, come già prima il Duomo, é riconoscibile.
Sussisteva un precedente del mese di marzo di quell’anno. Era stato da quelle parti F., comune amico, che é di Ventimiglia e che in quell’occasione si era incaricato lui di scattare immagini, anche di tipo goliardico. Sono passati insieme anche nella zona di Monte Cimone.
C., quando abitava a Ventimiglia, é stato a lungo nella zona di Via Dante, ritratta qui sopra, che, anche grazie a lui, merita un racconto a parte. Insomma, da Parma C. mi ha fatto riprendere o perfezionare contatti con tanti conoscenti, in genere “ex-ragazzi” di quella strada, che in tanti si ostinano ancora oggi a chiamare con metà del nome di anteguerra, vale a dire Via Regina. Per dire, con una sua telefonata C. mi aveva spiegato che B. é collezionista di fumetti. Diversamente non sarei riuscito ad illustrare la vicenda del vecchio “intrepido”.
Concludo con ancora due fotografie di Parma. Però, … siccome ho qualche ascendenza parmense, sottolineo che C. mi chiama Il Maio, soprannome cui anche altri della già detta cerchia hanno iniziato a fare riferimento …
La ricerca in casa di vecchie fotografie e di vecchie cartoline mi porta talora a delle curiose scoperte.
Non ricordavo, ad esempio, né di esserci stato in quell’anno, né una cartolina spedita da me nel settembre 1970 da Vallauris, cittadina del dipartimento francese delle Alpi Marittime non lontana da Cannes, dunque, in Costa Azzurra, cittadina amata da Picasso al punto da dedicarle una Cappella della Pace e da donare ai suoi ceramisti spunti notevoli di design.
Tra questi artigiani molti erano di origine italiana. Alcuni li ho conosciuti qualche anno dopo quell’autunno.
Per chi non é di Bordighera (IM) il nome di questa strada della città delle palme, comunque V. Veneto, non ha di certo importanza. Solo che, questa immagine datata, donatami, al pari di quella analoga che segue, dall’amico Giulio Rigotti, mi consente di effettuare qualche cenno e qualche considerazione del tutto personali. In questa fotografia d’antan si possono notare già in secondo piano la ex Chiesa Anglicana, oggi Centro Polivalente, e più ancora in fondo la torretta di Villa Etelinda, immortalata a suo tempo da Claude Monet. Una parte dei grandi alberghi della Via Romana, oggi tutti residences, che connotarono l’epoca d’oro del turismo di elite di Bordighera, non hanno, credo, necessità di specifiche indicazioni.
Questo scatto, che riguarda in modo molto approssimativo la stessa strada, mi fornisce il destro per una piccola nota: in molti casi sarebbe opportuno, per fare comparazioni adeguate, salire su qualche edificio, cosa che, nonostante le mie conoscenze, non mi pare ancora il caso di fare.
Via Vittorio Veneto ripresa a suo tempo dall’angolazione opposta. Nell’angolo a sinistra in alto, il campanile e la Chiesa di Terrasanta, progettata e finanziata da Charles Garnier, che non fece in tempo a vedere finita questa sua opera, dovuta al suo grande e testimoniato amore per Bordighera. Trascurando altri particolari, indico inoltre al centro gli storici campi da tennis e sulla destra, circondata da alberi, ancora la Chiesa Anglicana.
Questa fotografia, che confronta in maniera molto parziale lo stato attuale con quella precedente d’epoca, la metto quasi per provocazione, a significare che, per fare una sovrapposizione accurata, sarebbe necessario entrare nella stessa struttura – già Hotel progettato da Charles Garnier – da cui venne scattata quella in bianco e nero. Ho cercato l’inquadratura ottimale, girando in collina, ma non ci sono riuscito. Intanto a sinistra si può notare, di colore bianco, il teatro, “Victoria Hall” – la cui destinazione d’uso, va da sé, è stata cambiata da tempo -, fatto costruire, al pari di altri significativi edifici, da ricchi turisti inglesi d’epoca. In fondo a questa strada a sinistra sussiste – anche in questo caso non più tale – il primo albergo che a fine XIX secolo accolse i primi sudditi della Regina Vittoria, attirati in Riviera dalle romantiche vicende de “Il dottor Antonio” di Giovanni Ruffini.
Qualche riga su Dashiell Hammett (al secolo Samuel Dashiell Hammett) può risultare, spero, significativa per diversi aspetti.
Hammett é soprattutto noto per il romanzo “Il falcone maltese”, da cui venne tratto un film, in italiano “Il mistero del falco”, del 1941, diretto da John Huston e interpretato come attori principali da Humphrey Bogart e Mary Astor, ma del cast a me personalmente é gradito ricordare Peter Lorre, già attore prediletto in Germania dal grande Fritz Lang.
Si intende comunemente che da Hammett discenda la Hard-Boileid School, la genia, insomma, dei duri investigatori privati: nel senso di dignità letteraria é senz’altro così, ma sul piano storico le storie violente, prese dalla strada, erano già approdate, benché con stile ancora fumettistico, su riviste già molto diffuse negli anni ’20 in America, destinate ad essere ben presto definite pulp magazine, riviste sulle quali Hammett fece congruo esercizio una volta lasciata (anche perché ne vedeva tante azioni criminose) la Pinkerton, storica agenzia di investigazioni.
Hammett scriveva bene. E lo dimostrò in un ristretto numero di opere, tra cui spiccano quelle con protagonista un dipendente, persona di mezza età senza avvenenza fisica, della Continental, sin troppo trasparente riferimento alle sue pregresse esperienze nel ramo. Ma con “L’uomo ombra” (così in italiano) introdusse sulle scene, anche di due film interpretati da Myrna Loy e William Powell, una coppia di brillanti coniugi, investigatori loro malgrado.
Molto ci sarebbe da dire, più ci penso, sull’autore Hammett, cui volle dedicare un preciso omaggio il suo primo degno emulo, quel Raymond Chandler che fu l’inventore di Philip Marlowe, il private eye per antonomasia, ma vorrei fare altre osservazioni.
Anticipo che mi sembra un degno rappresentante, anche se fu lui stesso giocoforza un self made man, dell’altra America, quell’America che non pratica il culto cieco e fanatico del successo individuale ad ogni costo, così foriero in quel grande paese di ogni più bieco conservatorismo, per non dire peggio. Fu costretto dagli amari casi della vita a lavorare alle dipendenze della Pinkerton, ai suoi tempi specializzata nella prezzolata repressione violenta degli scioperi, in cui probabilmente non fu coinvolto, ma che dovette pur conoscere. Al fronte nella prima guerra mondiale contrasse la tubercolosi, che lo avviò quasi di sicuro all’alcolismo. Andò volontario nel secondo conflitto e gli affidarono la redazione di un giornale dell’esercito. Fu vittima del maccartismo proprio nel momento in cui si era riuscito a liberare da quel vizio. Ironia della sorte é sepolto, in quanto veterano di due guerre, al cimitero nazionale di Arlington.
Fu compagno di vita di Lillian Hellman, l’autrice di “Piccole volpi”, che tornò per gli ultimi anni prima della morte, avvenuta nel 1961, a soccorrerlo ormai povero, perché spogliato per rappresaglia dal fisco, e che credo sia stata l’erede della maggior parte dei suoi diritti letterari. Lego a questa tormentata storia d’amore la sottolineatura di un bel film del 1977 di Fred Zinnemann, “Giulia”, basato sul romanzo “Pentimento”, appunto della Hellman, dove la protagonista (interpretata da Vanessa Redgrave), amica di Lillian (Jane Fonda), é destinata consapevolmente, nonostante il tentativo di dissuasione anche di Hammett (un magnifico Jason Robard, fisicamente molto somigliante), a scomparire nell’inferno nazista.
Gore Vidal ha scritto il romanzo noir “Hammett”, nel quale Dashiell, non ancora autore affermato, vive di stenti e di pericoli. Altri, mi pare, si sono cimentati a scrivere di lui. Un romanziere italiano fa persino incrociare in un breve racconto un Hammett, ancora alle dipendenze della Pinkerton, con quel Roscoe “Fatty” Arbuckle ormai sull’orlo del precipizio del suo tragico destino. Quest’ultimo, grande comico del cinema muto (qualche anno fa su Youtube sono andato a verificare quanto fosse bravo), era stato accusato di uno spaventoso delitto a sfondo sessuale- ma forse la donna del cui oltraggioso assassinio fu incolpato morì invece di peritonite -: nonostante l’assoluzione, venne condannato all’ostracismo, per finire di lì a pochi anni, come sostenne Buster Keaton, unico suo vero amico, a morire di crepacuore.
A rileggere oggi Hammett si avverte talora il trascorrere del tempo per quanto concerne le trame, ma la forza delle sue innovazioni letterarie, per non dire della sua pura classe, rimane a mio avviso intatta. Ci ha lasciato anche, a guardare bene, un vasto affresco storico della vita sociale e della civiltà materiale dell’America degli anni ’20 e ’30: vorrei solo fare l’esempio del proibizionismo e dell’immigrazione clandestina dal Messico, già esistente all’epoca. E’ stato anche un attento osservatore di uomini, quasi un forgiatore di aforismi. E’ appena stato pubblicato in Italia, insieme ad altri, l’ultimo suo racconto, incompiuto, “Tulip”: il narratore, anonimo, ma scrittore affermato prima di finire in galera per un reato non precisato, descrive la difesa della propria libertà creativa da anni di insistenze, inascoltate ed eluse, di questo strano Tulip che pretende di imporgli almeno una certa storia personale.
Non scrisse poi tanto, Hammet, ma non posso circoscrivere la sua attività di romanziere solo ai titoli sin qui citati, per cui aggiungo almeno un semplice riferimento alla figura dell’investigatore privato Continental Op, questa sì molto basata sui trascorsi professionali dell’autore in seno alla Pinkerton.
“Fuori sacco” é un’espressione da me appresa negli anni che furono, in relazione alla trasmissione (allorquando non sussisteva l’attuale tecnologia) di un articolo di giornale all’ultimo istante, fuori del contenitore già predisposto sul carro ferroviario della posta, dunque. Il concetto, per estensione, l’ho sentito spesso usare in seguito per l’aggiunta in extremis di punti all’ordine del giorno di riunioni professionali specializzate od altre similari situazioni
Ho usato spesso scrivere “fuori sacco” in miei tentativi di celia circa le distrazioni e le conseguenti improvvise modifiche, che mi venivano da arrecare alla stesura di vecchi post.
Potrei fare diversi esempi e probabilmente li farò, qui o sui due blog più personali che ho aperto.
Mentre scrivo queste righe, però, mi viene in mente che potrei dire “fuori sacco” anche per altri casi.
Come per le fotografie che mi manda l’amico Alfredo Moreschi, che non sempre so come collocare.
O per quelle di altri amici.
Un caso classico, ad ogni modo, ma non l’unico, in cui sono caduto in pieno nell’utilizzo di “fuori sacco” è stato per la vicenda “Radio Squadra”, per la quale le modifiche da apportare, per quanto a discreti intervalli di tempo l’una dall’altra, sono state diverse. E chi vorrà leggere i trafiletti collegati (anche se l’episodio, ormai pressoché concluso, è riportato anche qui su questo sito) potrà intendere meglio…
L. veniva a scuola in pullman da un paesello e come tanti adolescenti pativa quel tipo di locomozione. Cambiò per l’Istituto di Ragioneria, nel quale conseguì una sorta di borsa di studio per frequentare un anno di scuola (validato) in America ai fini di fare pratica di inglese. E all’epoca un po’ di invidia la provai. Anche perché ai liceali quei percorsi erano forse preclusi. Laureato, era ancora timido in pubblico, sì da chiedermi se poteva venire a presentarmi in qualche comizio nell’entroterra: per farsi le ossa a parlare in pubblico. Di sicuro più tardi, se non prima, frequentò N. e S. Divenne manager, prima in banca (lo incontrai per caso davanti al Duomo di Milano), poi in un’industria. Quando lavoravo ancora lo vidi di sfuggita qui in Riviera. E mi persi in seguito i suoi numeri di telefono. Negli ultimi tempi ci siamo rivisti, ma sempre di fretta…
P. non credo abbia mai conosciuto gli altri di cui accenno. Era creativo ed estroso già da ragazzo. Per lui i viaggi in autostop erano una dimensione esistenziale. Mi lasciai coinvolgere, se non proprio da lui, da altri amici, ma si era tutti assieme a fare squadra, in quello che per me fu un mezzo viaggio, comunque interessante, ma per lui e per B. un giro in mezza Europa. Oggi é un versatile artista affermato. Poeta, anzitutto. Ecco, lui l’ho un po’ recuperato tramite Facebook.
G., anch’egli come P. di immigrazione siciliana, faceva il frontaliere nel Principato, quindi si alzava prima dell’alba, ma non mancava mai alle discussioni ed all’impegno del tormentato inizio anni ’70. Una sua leggera operazione mi fece conoscere, da visitatore, l’Ospedale di Monaco. Protagonista di un memorabile viaggio in auto (cui non potei partecipare perché decisamente impegnato sul campo) in Francia con N. e S., dai cui resoconti ho attinto molti particolari per le mie storie. Conobbe una bella granatiera di norvegese che felicemente sposò. E fece il tranviere ad Oslo. Lui l’ho intravvisto a Ventimiglia già pensionato, con splendidi figlioli e matrona ancora più radiosa. “Ci vediamo.”. “Quando torno, ci sentiamo!”. I saluti ce li scambiamo tramite i suoi fratelli. Quando capita. Ma poi ci siamo rivisti più spesso, si può dire ogni anno. E tante vicende e tanti amici abbiamo rivisitato con i nostri discorsi appassionati. Soprattutto mi ha fatto conoscere buona parte della storia affascinante della famiglia di M.P., la prima moglie di N., venuta ad abitare dopo la pensione nei nostri luoghi, e che G. passa a trovare ogni volta che scende in Riviera.
N., d’immigrazione dal Polesine (e al secondo matrimonio di S. mi raccontò di sue ricerche storiche locali), faceva il bracciante nella campagna epicentro de “La curva del Latte” di Nico Orengo. Alle due di notte teneva testa a Francesco Biamonti in quelle lunghe discussioni nelle quali il romanziere di San Biagio della Cima, che non aveva ancora esordito come tale, dimostrava una sua grande dote, mai appieno oggi rammentata: la sua grande signorilità. N., dalla grande dialettica e dalla grande erudizione da autodidatta, conobbe una graziosa insegnante di Milano, la M.P. cui ho già accennato. Ne conseguirono l’amore e il trasferimento a Milano. In una di queste tappe, forse quella definitiva, lo accompagnammo io e S. Gustoso l’episodio delle strelitzie, da lui portate alla fidanzata, che, dimenticate a mollo, stavano per trasbordare dalla vasca da bagno. N. vinse un concorso pubblico, studiò pur lavorando, conseguendo via via diploma magistrale e laurea. E di conseguenza salì, mediante concorsi, i gradini di una onorata carriera, in diversi comuni dell’hinterland della metropoli lombarda. Ma quel suo amore di gioventù finì già diversi anni fa. Otto anni fa ho rivisto anche lui. Da allora ci siamo rifrequentati ogni volta che è tornato a Ventimiglia (IM). N., che mi ha fatto conoscere parte dei materiali da lui raccolti per la sua poderosa tesi di laurea, dedicata alle lotte dei braccianti del Polesine nel secondo dopoguerra. Ed autore di almeno un intrigante romanzo, di cui mi donò copia, presentato anche a Ventimiglia (IM) da un altro amico di gioventù, B.E., in un incontro pubblico di cui non avevo recepito notizia, perché quando lavoravo ancora mi facevo sfuggire troppi eventuali appuntamenti per me allora di carattere privato. Eppure ero già in pensione da poco quando N. era sceso da Milano per relazionare a sua volta su di un libro. Per me doppia occasione persa in quel caso. Trattandosi di memorie di carattere sociale sulla Ventimiglia di poco precedente la seconda guerra mondiale, su Ventimiglia durante il conflitto (bombardamenti, antifascismo, padre e figlio ebrei tragicamente catturati per i campi di sterminio), su Ventimiglia della ricostruzione e di pochi anni dopo ancora (con tante persone che pur ho conosciuto o di cui ho sentito le vicende, spesso affascinanti, come quella di Libero Alborno, uomo non poi troppo rivisitato da Nico Orengo nel suo “La curva del Latte“, quando lo rende come protagonista principale). Perché autore di questo lavoro è C., quel C. che proprio insieme a N. fu determinante per farmi entrare in politica. N. mi aveva confermato che al secondo matrimonio di S. c’era anche L., che non compare, perché arrivato in ritardo da Milano alla cerimonia, nelle fotografie di quel giorno, in cui, invece, si può notare che facciamo gli spiritosi io, lui e S., con T. tutto serio, ma senza la… sposa. N. mi aveva, inoltre, integrato la vicenda familiare della sua prima moglie, in parte confluita in un bel libro, scritto poco tempo fa da MP. N. mi aveva autorizzato, facoltà di cui mi sono avvalso più volte e mi avvalgo tuttora, a trascrivere suoi pensieri e suoi ricordi. Purtroppo è deceduto l’anno scorso…
Spesso nei miei trafiletti cerco di ispirarmi a “Gli spiccioli di Montale” di Nico Orengo, compianto autore dalla grande scrittura creativa.
Sarà perché il racconto del libro appena citato si apre in una casa storica, ormai massacrata, in riva al mare, in Frazione Latte di Ventimiglia (IM), dimora che ho avuto la ventura di frequentare?
Le mie odierne trame, invero, prendono sovente le mosse a Bordighera (IM) in un’altra residenza più modesta, non lungi da dove abito adesso, ormai abbandonata in attesa della furia delle ruspe per il compimento dell’ennesima speculazione edilizia. Solo la nonna materna ci ha vissuto per più di sessant’anni. Lo zio più di settanta.
Il mare è vicino, ma non visibile. Si scorgevano (si scorgerebbero) dagli usci verdi colline ormai massacrate dal cemento ed una torre d’avvistamento contro i pirati turcheschi, che si é scoperto da poco insistere su rari reperti archeologici dell’Alto Medio Evo, ma destinata ad essere circondata dagli ennesimi residences. Ed ancora – basterebbe spostarsi un po’! – il Sasso, Seborga, Monte Caggio. Più o meno di fronte, non rammento ora se di colà ben visibili, Borghetto San Nicolò e Vallebona. In mezzo il torrente Borghetto che, quasi tutto tombinato e destinato ad accogliere acque furiose non più trattenute da rilievi modesti, ma ormai spelacchiati o ricoperti da manufatti agricoli e non, in otto anni ha più volte esondato, con conseguenze particolarmente pesanti a metà settembre 2006: non più luogo di giochi durante la siccità estiva per bambini che amavano l”intrepido“, dunque, non più sito di raccolta di erbe odorose per i conigli ed altri animali da cortile, non più terreno di ricerca delle more più dolci mai mangiate.
D’altronde da tanti anni ormai avevano cessato di defluirvi le acque della grande antica lavanderia di Guido, omaccione generoso dalla voce tonante che non spaventava nessuno.
Leggendo qualche anno fa la recensione di un nuovo libro di Mario Vargas Llosa su ” la Repubblica” in un articolo nientemeno intitolato “Perché Conrad aveva torto” mi erano venute in mente alcune riflessioni, che torno ad esprimere qui di seguito.
La prima riguarda il Premio Nobel, le cui opere, invero, conosco poco, ma reputo che solo dal brano da “Il sogno del Celta” selezionato dal giornale per l’occasione, si evinca, a mio modesto parere, già la statura di un autore capace di una prosa maestosa per stile, contenuti, erudizione ed autentica, ancorché doverosamente rattenuta, passione.
Non è, pero, di questo che intendo precisamente parlare, perché è ben lungi da me l’idea di cimentarmi in critiche letterarie.
Trovo affascinante e degno di considerazione – su questo vorrei dilungarmi un po’ – l’intreccio della trama del romanzo, per come si percepisce da una presentazione siffatta, con suggestioni e richiami che ne possono derivare.
Intanto, ho rinvenuto indiretta conferma di una presenza attiva di Joseph Conrad nel cuore dell’Africa Nera, del Congo storicamente inteso, per essere più precisi, in un’avventura, bruscamente interrotta per non essere complice di barbarie inaudite, determinante per la successiva composizione di “Cuore di tenebra”. Avevo già letto di quella sua esperienza in un libro, robusto per notizie e sensazioni, “Tenebre sul Congo”, di un autore italiano, Luigi Guarnieri, che in quel suo lavoro seppe armoniosamente fondere diversi elementi, spaziando, oltretutto, per diversi decenni di storia coloniale e per una cospicua fascia territoriale dell’Africa dall’Atlantico all’Oceano Indiano.
Arrivando per lo meno al dunque del personaggio di Vargas Llosa, specifico che si tratta di un diplomatico britannico, Roger Casement. Casement, tuttavia, era soprattutto un irlandese che, terminati i suoi impegni all’estero, si trovò coinvolto nelle lotte irredentiste della sua patria, di cui, per ovvii motivi, non dico di più, come per il resto della sua attività. Di qui il “Celta” del titolo in parola, di qui, per lo meno nella ricostruzione di Vargas Llosa, sue considerazioni verso Conrad, di cui auspica ad un certo punto una presa di posizione favorevole, se non alla sua scarcerazione, alla salvezza della propria vita minacciata (1916) in Inghilterra di pena capitale.
Solo questi aspetti, appena da me riassunti, valgono, credo, il massimo di attenzione da parte di un lettore moderno che ami la storia.
Casement, che aveva fondato l’Associazione per la riforma del Congo, dopo che erano cadute nel vuoto le denunce della missione britannica di cui aveva fatto parte circa le vessazioni compiute laggiù contro i nativi dai belgi, in Vargas Llosa – non so nella realtà – introduce in un dialogo a distanza con Conrad elementi di responsabilità anche di esponenti africani, un tema che ho visto riprendere a distanza di decenni nell’attuale temperie di quel tormentato Continente. Il romanziere anglo-polacco batteva, invece, di più il tasto sull’imbarbarimento provocato dai conquistatori europei.
Ci sono stati, dunque, nel pieno delle conquiste coloniali, europei coscienziosi, che pur poco poterono fare: a questo novero penso vada ascritto il Brazzà, che operò per la Francia con i cui governanti dovette presto scontrarsi con conseguente abbandono degli incarichi in Africa Equatoriale. Alla luce del volume del Guarnieri dovrei aggiungere tra le persone che almeno qualcosa di positivo cercarono di fare in quei frangenti anche i Comboniani ed un altro nostro connazionale, Gaetano Casati, che spero sul serio abbia scontato, scontrandosi, come già Brazzà, con Stanley e cercando di “redimere” Emin Pascià, la pecca di avere partecipato in gioventù alla repressione del brigantaggio meridionale.
Tutti personaggi, quelli che ho citato, che non solo, magari sporadicamente, incrociarono i loro destini, ma che nel bene e nel male hanno vissuto vite degne di essere immortalate in romanzi. E si può aggiungere tra gli italiani che ebbero un forte ruolo in quelle vicende ormai consegnate agli annali, più ancora che Vittorio Bòttego, Romolo Gessi.
Ho rinvenuto questa carta del Regno di Sardegna del 1794, oggi dell’Istituto Geografico Militare, mentre facevo un’esplorazione, dovuta al fatto che, riguardando stampe di inizio 1800, presenti su questo sito nizzardo cui ho già attinto altre volte, ho notato meglio che talora vengono indicate opere o di geografi italiani o riguardanti altre parti del nostro paese, come la “Coreografia d’Italia” di Attilio Zuccagni-Orlandini. Difficile, tuttavia, trovare sul Web altre icone così pregevoli. Probabile che chi le colleziona se le tenga ben strette anche nella forma digitale.
Questa una mappa dal lavoro di Attilio Zuccagni-Orlandini.
Per associazione di idee mi é tornata in mente l’imponente opera di storia e di geografia del Conte Alberto La Marmora, uno dei quattro fratelli generali, realizzata quando era stato mandato in punizione in Sardegna. Qui sopra, ripresa da qui, una carta da lui realizzata.
In effetti, nella prima metà del 1800 in Italia non si pubblicavano solo libri su lontane nazioni, come ho già più volte accennato, ad esempio qui. Argomenti che ho ripreso da Cultura Barocca. Alla quale potrei sempre tornare per ulteriori spunti su come veniva studiata e presentata la geografia italiana in quel periodo: a questo link un piccolo saggio.