La ricerca in casa di vecchie fotografie e di vecchie cartoline mi porta talora a delle curiose scoperte.
Non ricordavo, ad esempio, né di esserci stato in quell’anno, né una cartolina spedita da me nel settembre 1970 da Vallauris, cittadina del dipartimento francese delle Alpi Marittime non lontana da Cannes, dunque, in Costa Azzurra, cittadina amata da Picasso al punto da dedicarle una Cappella della Pace e da donare ai suoi ceramisti spunti notevoli di design.
Tra questi artigiani molti erano di origine italiana. Alcuni li ho conosciuti qualche anno dopo quell’autunno.
Leggendo qualche anno fa la recensione di un nuovo libro di Mario Vargas Llosa su ” la Repubblica” in un articolo nientemeno intitolato “Perché Conrad aveva torto” mi erano venute in mente alcune riflessioni, che torno ad esprimere qui di seguito.
La prima riguarda il Premio Nobel, le cui opere, invero, conosco poco, ma reputo che solo dal brano da “Il sogno del Celta” selezionato dal giornale per l’occasione, si evinca, a mio modesto parere, già la statura di un autore capace di una prosa maestosa per stile, contenuti, erudizione ed autentica, ancorché doverosamente rattenuta, passione.
Non è, pero, di questo che intendo precisamente parlare, perché è ben lungi da me l’idea di cimentarmi in critiche letterarie.
Trovo affascinante e degno di considerazione – su questo vorrei dilungarmi un po’ – l’intreccio della trama del romanzo, per come si percepisce da una presentazione siffatta, con suggestioni e richiami che ne possono derivare.
Intanto, ho rinvenuto indiretta conferma di una presenza attiva di Joseph Conrad nel cuore dell’Africa Nera, del Congo storicamente inteso, per essere più precisi, in un’avventura, bruscamente interrotta per non essere complice di barbarie inaudite, determinante per la successiva composizione di “Cuore di tenebra”. Avevo già letto di quella sua esperienza in un libro, robusto per notizie e sensazioni, “Tenebre sul Congo”, di un autore italiano, Luigi Guarnieri, che in quel suo lavoro seppe armoniosamente fondere diversi elementi, spaziando, oltretutto, per diversi decenni di storia coloniale e per una cospicua fascia territoriale dell’Africa dall’Atlantico all’Oceano Indiano.
Arrivando per lo meno al dunque del personaggio di Vargas Llosa, specifico che si tratta di un diplomatico britannico, Roger Casement. Casement, tuttavia, era soprattutto un irlandese che, terminati i suoi impegni all’estero, si trovò coinvolto nelle lotte irredentiste della sua patria, di cui, per ovvii motivi, non dico di più, come per il resto della sua attività. Di qui il “Celta” del titolo in parola, di qui, per lo meno nella ricostruzione di Vargas Llosa, sue considerazioni verso Conrad, di cui auspica ad un certo punto una presa di posizione favorevole, se non alla sua scarcerazione, alla salvezza della propria vita minacciata (1916) in Inghilterra di pena capitale.
Solo questi aspetti, appena da me riassunti, valgono, credo, il massimo di attenzione da parte di un lettore moderno che ami la storia.
Casement, che aveva fondato l’Associazione per la riforma del Congo, dopo che erano cadute nel vuoto le denunce della missione britannica di cui aveva fatto parte circa le vessazioni compiute laggiù contro i nativi dai belgi, in Vargas Llosa – non so nella realtà – introduce in un dialogo a distanza con Conrad elementi di responsabilità anche di esponenti africani, un tema che ho visto riprendere a distanza di decenni nell’attuale temperie di quel tormentato Continente. Il romanziere anglo-polacco batteva, invece, di più il tasto sull’imbarbarimento provocato dai conquistatori europei.
Ci sono stati, dunque, nel pieno delle conquiste coloniali, europei coscienziosi, che pur poco poterono fare: a questo novero penso vada ascritto il Brazzà, che operò per la Francia con i cui governanti dovette presto scontrarsi con conseguente abbandono degli incarichi in Africa Equatoriale. Alla luce del volume del Guarnieri dovrei aggiungere tra le persone che almeno qualcosa di positivo cercarono di fare in quei frangenti anche i Comboniani ed un altro nostro connazionale, Gaetano Casati, che spero sul serio abbia scontato, scontrandosi, come già Brazzà, con Stanley e cercando di “redimere” Emin Pascià, la pecca di avere partecipato in gioventù alla repressione del brigantaggio meridionale.
Tutti personaggi, quelli che ho citato, che non solo, magari sporadicamente, incrociarono i loro destini, ma che nel bene e nel male hanno vissuto vite degne di essere immortalate in romanzi. E si può aggiungere tra gli italiani che ebbero un forte ruolo in quelle vicende ormai consegnate agli annali, più ancora che Vittorio Bòttego, Romolo Gessi.
Faccio inizio da questa battaglia navale, detta dei Santi, sviluppatasi nelle Antille dal 9 al 12 aprile 1782 durante la Guerra di Indipendenza degli Stati Uniti, per procedere a qualche accenno su La Pérouse. E, in parallelo, ad altri navigatori della seconda metà del Settecento. Perché tanti esploratori di quel periodo, francesi e britannici, si erano ritrovati su quei mari a combattere in quel conflitto, come già prima nella Guerra dei Sette Anni.
Di La Pérouse Jules Verne scrisse anche: “Durante l’ultima guerra egli era stato incaricato della delicatissima questione di distruggere gli stabilimenti della compagnia inglese nella baia di Hudson, ed egli si era disimpegnato dell’incarico da militare consumato, da abile marinaio, da uomo che sa conciliare i sentimenti dell’umanità con le esigenze del dovere professionale.”
Nella riproduzione del dipinto, di cui sopra, viene fissato il momento dell’incarico ufficiale conferito a questo navigatore da Luigi XVI per la sua ultima missione per i mari del mondo, particolarmente voluta come risposta alle grandi avventure di James Cook.
La Pérouse fece levare le ancore da Brest il 1° agosto 1785.
Come in tanti viaggi per oceani dell’epoca i rischi erano all’ordine del giorno. La precedente stampa attesta un sinistro occorso a un gruppo della spedizione sulla costa nord-americana – tra attuali Alaska e Canada – che si affaccia sul Pacifico. La Pérouse – scrisse ancora Verne – aveva eretto un monumento su cui si leggeva la seguente iscrizione, di evidente imitazione classica: “All’ingresso del porto sono periti ventun coraggiosi marinai. Chiunque voi siate, unite le vostre lagrime alle nostre.”
A Mauna, nelle Isole Samoa, fu massacrata la piccola squadra sbarcata in cerca di rifornimenti alimentari e soprattutto di acqua, squadra condotta dal secondo di quella spedizione, il capitano Paul Fleuriot de Langle, che era anche uno scienziato. De Langle volle scendere a terra, nonostante il parere contrario di La Pérouse, il quale aveva acconsentito malvolentieri, e provocò gratuitamente la reazione esiziale degli indigeni. Allo stesso modo di quanto aveva fatto, nel determinare la propria uccisione, Cook, che almeno aveva l’alibi morale di un pessimo stato di salute.
Nell’ultima lettera, spedita da Botany Bay, Australia, a febbraio 1788, La Pérouse asseriva: “Risalirò alle Isole degli Amici e farò assolutamente tutto ciò che mi é ordinato dalle mie istruzioni relativamente alla parte meridionale della Nuova Caledonia, all’isola Santa Cruz di Mendana, alla costa del sud della terra degli Arsacidi di Surville e alla terra della Luisiade di Boungaville …”.
Jean François de Galaup, Conte de La Pérouse, nato presso Albi nel 1741, e le sue due navi del periplo intorno al mondo, l’Astrolabe e la Boussole, sembrarono di lì a poco svanite nel nulla. Ormai scoppiata in Francia la Rivoluzione, fu proprio l’Assemblea Nazionale nel febbraio 1791 a ingiungere al re di armare una spedizione di soccorso, che fallì lo scopo: durante la medesima perirono addirittura i due comandanti, Entrecasteaux e Kermadec. Solo trent’anni dopo si giunse alla conclusione, perché vi si trovarono effetti personali dei marinai, che La Pérouse e i suoi uomini fossero periti a Vanikoro, nelle Salomone.
Aggiungo che dell’itinerario noto di La Pérouse sussistono tracce documentarie sul Web, così come vi si ribadisce che fu di sensibilità illuministica. Sono rimaste copie dei suoi giornali di bordo, rimandati per tempo in Francia, molto interessanti. Li lesse Jules Verne, che ne trascrisse importanti notizie e affermazioni. Ne produco, in conclusione, almeno due: nella Kamciatka La Pérouse fece porre sulla tomba di Delisle de la Croyère, che era morto nel 1741 di ritorno da una spedizione condotta per conto dello zar, una lastra di rame incisa e rese il medesimo omaggio al capitano Clerke, il secondo di Cook, cui, alla morte, succedette nel comando.
Fu un lord Halifax, a quanto pare, che propose allo scozzese James Bruce (1730-1794) di andare alla scoperta delle sorgenti del Nilo. Lo sbarco a Massaua in Mar Rosso avvenne il 19 settembre 1769. Ma Bruce sarebbe stato trattenuto in territorio arabo se non avesse avuto l’accortezza di farsi rilasciare un firmano del sultano e lettere del bey del Cairo e dello sceriffo della Mecca. Ad Adua Bruce vide i resti di un convento di gesuiti, che sembrava piuttosto un forte. Ammirò ad Axum quelli che oggi sono obelischi famosi in tutto il mondo. Reputò di aver notato in alture tutte di marmo rosso più di un centinaio di tracce lasciate dagli scavi di colossali statue dell’Antico Egitto. Giunto a febbraio 1770 a Gondar, allora capitale dell’Etiopia, le sue prestazioni di medico contro il dilagare di una febbre tifoidea gli furono di grande aiuto per perfezionare il conseguimento del massimo appoggio del Negus e della corte per la sua spedizione. Nei mesi trascorsi a Gondar (anche dopo aver raggiunto la meta tanto agognata) raccolse informazioni preziose sul paese, anche circa la storia, pressoché uniche al momento della pubblicazione del resoconto di viaggio di Bruce. Il 4 novembre 1770 pensò di avere scoperto, con l’aiuto di guide locali, ma con sua decisione per il rilevamento del sito preciso, le sorgenti del Nilo, nelle vicinanze della chiesa di San Michele Geesh. Scrisse in proposito Bruce: “Certamente é più facile immaginare che descrivere ciò che provai allora. Rimasi ritto davanti a quelle sorgenti dove da 3000 anni il genio e il coraggio degli uomini più celebri avevano tentato invano di giungere“.
Tornato in patria, dopo un itinerario avventuroso, su cui é opportuno poi soffermarsi brevemente, l’esito delle sue ricerche venne accolto con molta incredulità.
Ai nostri giorni gli si accredita in genere la mera scoperta di un affluente del Nilo Azzurro. Accennavo poc’anzi al viaggio di ritorno, iniziato nel dicembre 1771: arrestato in un Sultanato dell’attuale Sudan, riuscì ad avere salva la vita e a riottenere la libertà combinando le sue doti diplomatiche con i buoni uffici – all’insegna degli ottimi rapporti maturati da lui in quelle contrade – di un governatore etiope; e arrivare al Cairo nel gennaio 1773, a Londra nel 1774, dopo un soggiorno in Francia.
Questa mappa dell’Abissinia (nome a lungo usato, per lo meno in Europa, per definire l’Etiopia), stesa nel 1809-1810 da Henry Salt, altro grande esploratore, sulla base di osservazioni dirette sul terreno, ma anche di informazioni raccolte sul posto, certifica in una dicitura di essere tributaria per il Nilo e zone circostanti (ad ovest del Samen) delle mappe di Bruce.
Di recente le esperienze di Bruce, a lungo dimenticato anche in Inghilterra, sono state narrate da Miles Bredin in un libro – non mi risulta ancora tradotto in Italia – dal titolo evocativo, “The Pale Abyssinian”, che spero si possa tradurre adeguatamente in italiano come “il pallido abissino”. Bredin sottolinea opportunamente che David Livingstone riteneva Bruce “un viaggiatore più grande di ciascuno di noi”. E che Bruce aveva vissute avventure così grandi – tra queste, accoglienze favolose da parte di principi africani ignoti in Europa, le scalate delle tremende montagne dell’Abissinia, la traversata del terribile deserto della Nubia -, avventure tali da farlo ritenere un bugiardo negli ambienti ufficiali britannici. Bredin, se ho capito bene una recensione del suo libro, si spinge sino ad insinuare una ricerca… dell’Arca Perduta, che in effetti una tradizione della Chiesa Ortodossa Etiopica reputa tuttora conservata ad Axum.
Credo che la grandezza di Bruce risieda soprattutto nell’avere osservato, e tramandato, con grande attenzione quanto il suo coraggio temerario lo portò ad esplorare. Forse ancora adesso si insinua talvolta che il vero scopritore, europeo, delle sorgenti del Nilo Azzurro verso il 1604 sia stato Pedro Páez Jaramillo, gesuita e missionario spagnolo, che scrisse anche una Historia de Etiopia (1622) e, a quanto pare, primo europeo ad assaggiare il caffè. Affermazione che, vedo su Google Libri, faceva sua nel 1850 anche l’italiano l’italiano Giulio Ferrario in una sua corposa opera. Páez cui si attribuisce la frase “Confesso che mi rallegra vedere quello che avrebbero voluto vedere il re Ciro, Alessandro il Grande e Giulio Cesare“. Ma questa scoperta da molti, compreso a suo tempo lo stesso Bruce, viene ritenuta un’invenzione di Athanasius Kircher (1602–1680), noto gesuita, filosofo e storico tedesco, che invero molto sentiva il senso di appartenenza.
A prescindere dal fatto che le scoperte sono tali, quando ne derivano effetti concreti, credo che a Bruce la sorte abbia riservato diverse beffe: avendo lui descritto molte bene il Lago Tana, la più grossa é quella che oggi si ritiene – aspetto a lui ignoto! – che il Nilo Azzurro sia un emissario del Lago in questione.
Sono ricorso per l’immagine, di cui all’inizio, ad una stampa, di tutta evidenza, italiana (del 1820, disegno di Bramati, incisione di Rados; e la voce di catalogo attribuisce la scoperta delle sorgenti del Nilo a Bruce) per una sorta di omaggio a questo affascinante viaggiatore, che anche per sue pregresse esperienze nel Mediterraneo, specie in Algeria, non mancò, inoltre, di tramandare – altro capitolo importante! – le sue acute osservazioni sui resti materiali delle antiche civiltà egizia e romana.
Quando mi sono imbattuto in questa carta francese del 1720 di Biloxi (nome che mi pare ricorra spesso nella contemporanea letteratura statunitense), oggi Mississippi, dove gli esploratori del Re Sole non erano arrivati da molto, non ho potuto fare a meno, al di là dell’orrore per la crudeltà spesa in ogni avventura coloniale, di pensare alla bellezza di certa antica iconografia. In proposito, rinvengo ancora che, dopo Mobile, Biloxi fu capitale della Louisiana dal 1720 al 1723, per poi cedere l’onore a La Nouvelle-Orléans, cioé l’odierna New Orleans.
Mobile nel 1725.
New Orleans nel 1720.
Già nel 1612 Samuel de Champlain aveva steso questa mappa che indicava la Nuova Francia, vale a dire una parte del Canada allora conosciuto dagli europei. E non poteva fare a meno di riportarvi i nativi. Mentre su quelle terre veniva imposto un regime signorile.
In questo quadro più tardo (1869), di Wilhelm Lamprech, si vede invece il padre gesuita Marquette mentre esplora il Mississippi, alla vigilia dell’imminente stabilizzazione transalpina. Altre ricerche di pellicce, altri fortini sparsi, perché, come ben noto, la Francia non pensò mai a forti insediamenti di uomini.
Alle missioni, invece, la potenza borbone aveva già pensato da tempo, come si vede in questa icona del 1632, riferita agli Huroni. E in genere affidate ai Gesuiti, che in quelle lande dimostrarono tutt’altro che la comprensione manifestata dai loro confratelli in Sud America. Erano ben pochi, ma invadenti. Di qui, come ricordo anche da Enciclopedia Britannica, tanti scontri con i nativi. Ne derivarono, logicamente, anche tanti caduti tra i religiosi, i martiri canadesi, come ufficialmente definiti e canonizzati.
La sconfitta degli Acadiani francesi, una delle ultime tappe della perdita dell’impero francese in Nord America. Tante guerre contro gli inglesi, già a partire dal terzo quarto del 1600 e sempre, da tutte le parti, il coinvolgimento delle popolazioni locali. Cui poi addebitare ogni ignominia, compiuta, invece, dagli europei.
Il teatro che ho sommariamente descritto, anche perché le vicende almeno a grandi linee sono conosciute, in una carta del 1681.
Pedemontanae vicinorumque regionum auctore Iacobo Castaldo descript. Anversa, 1598 ca., vale a dire Carta geografica della riviera di ponente da Portofino a Monaco, che comprende la parte del Piemonte fino alla Valle d´Aosta, tratta dal “Theatrum Orbis Terrarum” di Abraham Ortelius, disegnata da Jacopo Gastaldi (incisione in rame. 374×497 mm.), come l’ho desunta da qui.
Ero alla ricerca sul Web di icone antiche o antiquarie relative alla Liguria, quando, una volta rinvenuta la mappa, che già conoscevo, di cui qui sopra, mi si é aperto un percorso affascinante, che qui di seguito riproduco in modo parziale.
Una mappa con scene di animali dell’Asia da “Cosmographia” di Sebastian Münster (cartografo) pubblicata a Basilea da Henricus Petri nel 1628.
Isola Cocos in Oceania. Del 1719 da una descrizione del mondo curata da Allain Manesson Mallet, pubblicata a Francoforte.
Non ho potuto fare a meno di pensare, a quel punto, a La Pérouse, di cui ho parlato in un mio vecchio post, e agli altri coraggiosi navigatori dell’epoca, non solo francesi.
Infatti, a mio modesto avviso, non poteva che essere opera di un transalpino una mappa del 1780 di Tahiti: per la precisione di M. Bonne, ingegnere e idrografo.
Sin qui le immagini, eccezione fatta, come ho già sottolineato, per la prima, sono state tratte da questo interessante sito.
Ho cercato Bonne su Wikipedia. Ho notato un altro ingegnere e idrografo, Rigobert Bonne (1727–1795), che ha disegnato questa mappa (fonte, va da sé, Wikipedia), che rammenta gli interessi francesi dell’epoca in Asia.
Volendo rinvenire una carta dell’Africa, che segnasse le basi usate nel 1700 dai transalpini, ho trovato, invece, sempre su questo sito, questa icona più antica, al cui fascino non ho saputo resistere: si tratta di Africae Tabula Nova di Abraham Ortelius – cui, pertanto, si torna ancora una volta -, pubblicata ad Antwerp nel 1592, come parte del già mentovato, famoso atlante, con testo latino, “Theatrum Orbis Terrarum”.
Il 13 settembre 2010 si svolsero a Bordighera (IM) i funerali del partigiano Renzo Biancheri (Rensu u Longu), che aveva fatto parte durante la Resistenza dei “Partigiani del Mare” o “Gruppo Sbarchi Vallecrosia”. Giuseppe “Mac” Fiorucci aveva nell’occasione mandato ad una mailing-list locale una testimonianza della persona defunta, raccolta per una pubblicazione che all’epoca non conoscevo ancora, benché fossi stato in precedenza messo al corrente della sua preparazione.
Come feci allora con l’approvazione dell’estensore della raccolta, riporto qui di seguito (ma adesso in forma parziale) il testo richiamato.
La mia storia nella Resistenza è legata a filo doppio con Renzo Rossi.
Nell’agosto del 1944 mi aggregai al gruppo partigiano di Girò [Pietro Gerolamo Marcenaro, “Gireu”], che operava nella zona di Negi [Frazione di Perinaldo (IM)], dove godevamo anche dell’appoggio di Umberto Sequi a Vallebona e di Giuseppe Bisso a Seborga; tutti e due membri del CLN di Bordighera. Negi era il punto di contatto tra le varie formazioni partigiane che operavano nella zona: Cekoff [Mario Alborno di Bordighera (IM)], Gino Napolitano ecc.
Facevo da staffetta tra Negi e Vallebona.
In settembre insieme a Renzo Rossi partecipai all’incontro con Vittò [Giuseppe Vittorio Guglielmo, in quel momento comandante della V^ Brigata , da dicembre 1944 comandante della II^ Divisione Garibaldi “Felice Cascione”]. Ci accompagnò Confino, maresciallo dei Carabinieri che aveva aderito alla Resistenza. Vittò investì formalmente Renzo Rossi del compito di organizzare, per la nostra zona, il SIM (Servizio Informazioni Militare) e i SAP (Squadre d’Assalto Partigiane), e io fui nominato suo agente e collaboratore.
In novembre mi aggregai al battaglione di Gino Napolitano a Vignai, ma dopo alcune operazioni di collegamento tra Vallebona e il comando di Vignai, il comando mi richiamò ad operare nel Gruppo Sbarchi.
Nell’estate, i servizi segreti americani avevano inviato sulla costa una rete di informatori, capeggiati da Gino Punzi. Dovendosi recare in Francia, per passare le linee, Gino si avvalse della collaborazione di un passeur, che però era passato dalla parte dei tedeschi e durante il viaggio lo uccise. Il comandante tedesco si infuriò perché avrebbe voluto catturare vivo il Gino. Sul suo cadavere furono rinvenuti dei documenti, dai quali i tedeschi vennero a conoscenza che sarebbero stati inviati altri agenti e telegrafisti alleati.
I tedeschi predisposero una trappola e quando arrivò il telegrafista “Eros” lo catturarono ferendolo. Si avvalsero di lui per trasmettere falsi messaggi al comando alleato di Nizza.
Con questi falsi messaggi fu richiesto l’invio di un’altra missione: la missione “Leo”…
Oggi posso, dunque, sottolineare al meglio che si tratta del racconto di Renzo Biancheri (Rensu u Longu), raccolto da Giuseppe “Mac” Fiorucci per il suo “Gruppo Sbarchi Vallecrosia” < ed. Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, Comune di Vallecrosia (IM), Provincia di Imperia, Associazione Culturale “Il Ponte” di Vallecrosia (IM) >.
Alla mia richiesta di autorizzazione a pubblicare sul mio blog l’emozionante scritto di cui sopra, Fiorucci rispose mandandomi un altro “articolo”.
Questo, di Renato Dorgia, “Plancia”, sempre per “Gruppo Sbarchi Vallecrosia”:
La base alleata in Francia era a Saint Jean Cap Ferrat, nella baia di Villafranca, nella Villa Le Petit Rocher [ma la Villa risulta in effetti nel comune di Beaulieu-sur-Mer]. Da Vallecrosia si partiva, naturalmente di notte, e si raggiungeva il porto di Montecarlo, facilmente individuabile perché l’unico illuminato. All’ingresso del porto, una vedetta intimava l’alt e accompagnava il natante all’approdo sotto stretta sorveglianza. Qui l’equipaggio forniva alle sentinelle alleate del porto di Monaco solo un numero di telefono o di codice e il nome dell’ufficiale dell’Intelligence Service. In meno di un’ora erano presi in consegna dai servizi segreti alleati.
Anche io fui condotto a Montecarlo, con Renzo Rossi, Giròe Renzo Biancheri, già allora sordo come una campana. Per me era la prima volta, mentre per gli altri si trattava dell’ennesima traversata.
Fummo accolti dal capitano Lamb, che ci condusse a Le Petit Rocher. Ci diede qualche istruzione, tra le quali ricordo che, alla mia richiesta di una qualche sorta di documento, ci disse che a eventuali controlli dovevamo solo rispondere che eravamo maltesi e di riferire il suo nome, Cap. Lamb con il numero di riconoscimento.
Mettendo mano al portafoglio, Lamb cominciò a distribuire una banconota da 500 franchi. La sua intenzione era di consegnarne una per ognuno di noi, ma Renzo Rossi, intascata la prima banconota ringraziò dicendo che 500 franchi bastavano per tutti.
Il capitano, sorpreso, ci fissò negli occhi uno per uno e domandò:
“Ma voi siete proprio Italiani?”.
Scoppiò poi a ridere, ma, per un attimo, vidi nel suo sguardo il sospetto che fossimo sabotatori. Renzo Biancheri chiese di poter usare il telefono, compose il numero e ottenuta la comunicazione tra lo stupore generale iniziò a cantare Polvere di Stelle [Stardust].
Renzo era sordo e come tutti i duri d’orecchio cantava bene.
Sussurrava la melodia d’amore di “Polvere di Stelle”, alle orecchie di una interlocutrice, evidentemente conosciuta in qualche precedente missione e con la quale di certo non scambiava lunghe conversazioni:
Sometimes I wonder why I spend
The lonely night dreaming of a song
In seguito, forse memore del fatto che nei nostri pregressi incontri gli parlavo dell’opportunità di pubblicare sul Web i suoi materiali di ricerca, Fiorucci mi inviò, a mia piena disposizione, documenti e scritti, sia pubblicati (ma, ripeto, allora, per mia disattenzione, non lo sapevo ancora) su “Gruppo Sbarchi Vallecrosia”, sia, per come mi risulta, inediti.
Per il momento aggiungo solo che in quel settembre 2010 una nipote di Renzo Biancheri mi ringraziò via email per il mio pensiero, che la citazione della morte di [il capitano] Gino Punzi ha suscitato in seguito molta interessante corrispondenza, che, purtroppo, il 19 marzo 2012 Fiorucci ci ha lasciati.
Vedrò in seguito di tornare e di approfondire alcuni di questi temi.