L A S E C O N D A N O B I L E V E R I T A’
Qual’è la Nobile Verità dell’Origine della Sofferenza? E’ la brama che dà luogo ad una nuova rinascita e, legata alla voluttà e al desiderio, trova nuovi piaceri ora qui ora là, ossia: brama del piacere dei sensi, brama di esistenza, brama di non-esistenza. Da dove questa brama sorge e prende vigore? Ovunque vi siano delle cose che sembrano dilettevoli e gratificanti, da lì questa brama sorge e prende vigore. C’è la Nobile Verità dell’Originedella Sofferenza. Questa fu la visione, l’intuizione, la sapienza, la conoscenza, la chiarezza che sorsero in me su cose mai udite prima. Questa Nobile Verità deve essere compresa a fondo abbandonando l’origine stessa della sofferenza… Questa Nobile Verità è stata compresa a fondo abbandonando l’origine stessa della sofferenza: questa fu la visione, l’intuizione, la sapienza, la conoscenza, la chiarezza che sorsero in me su cose mai udite prima. [Samyutta Nikaya LVI, 11]
La Seconda Nobile Verità, dal punto di vista dottrinale, individua l’origine della sofferenza nell’attaccamento ai tre tipi di desiderio: desiderio per il piacere dei sensi (kama tanha), desiderio di essere o divenire (bhava tanha) e desiderio di non essere, ossia di liberarci di qualcosa (vibhava tanha).
La Seconda Nobile Verità ci chiede di non identificarci con i desideri ma di riconoscerli, comprenderli per poi lasciarli andare. Pratica del Dhamma non significa odiare se stessi perché la mente produce continuamente desideri. Essi non sono altro che condizionamenti, sono impermanenti. I desideri non sono noi, ma sono la via attraverso cui noi tendiamo a reagire. Il desiderio ha potere su di noi e ci trascina se ci attacchiamo ad esso, se gli crediamo o se vi reagiamo contro. E’ fondamentale poi, distinguere ciò che è naturale ed importante per la sopravvivenza e ciò che non lo è. Una volta raggiunta questa chiarezza, non ci sarà più sofferenza. Continuerete a sentire fame, ad avere bisogno di cibo, senza che ciò diventi un desiderio. Ascoltatelo, osservatelo soltanto, senza dire se è bello o brutto, semplicemente riconoscendolo per ciò che è.
La capacità di lasciare andare l’origine della sofferenza, ossia il suo attaccamento, si impara attraverso la pratica, perché è un intuizione. Non è qualcosa che è possibile immaginare, progettare o esprimere a parole, è un qualcosa che di fa e basta.
L’eccessiva analisi rende tale processo più complicato, proviamo “semplice-mente” a praticare l’atteggiamento di lasciare in pace le cose, di lasciarle essere ciò che sono. All’inizio l’abitudine all’attaccamento è ancora forte, riprendere le idee appena lasciate è un processo naturale, tuttavia più sperimenteremo questo stato di non attaccamento, più a lungo riusciremo a mantenerlo.
E’ sofferenza, soprattutto, quella che nasce dall’attaccamento che abbiamo verso gli ideali e dalle complicazioni che creiamo intorno alle cose. Non siamo mai all’altezza dei nostri più alti ideali. Niente sembra esserne all’altezza: né il mondo in cui viviamo, né la vita o gli altri. Così diventiamo estremamente critici verso il prossimo e noi stessi.
Prendiamoci il tempo per ascoltare quel diavolo di un brontolone che continua a criticare me, gli altri, il mondo intero: “Voglio questo e non voglio quell’altro, quella persona dovrebbe essere così e non così, le cose non dovrebbero stare così”. Poi, consapevolmente, proviamo a sostituire il condizionamento cambiano punto di vista: “Voglio felicità e sicurezza; voglio certezze; voglio essere amato!” ossia portiamo tutte le speranze, i desideri e le critiche a livello mentale, coscientemente. Allora conoscerete il desiderio e saprete come non dargli importanza.
Uscendo dalla visione strettamente dottrinale, questa presa di coscienza diventa fondamentale per evitare di alimentare quello che Echart Tolle chiama il CORPO DI DOLORE. Ossia l’accumolo di dolore irrisolto, cioè non chiarito profondamente (es. traumi infantili), che genera strascichi emotivi di sofferenza. Il corpo di dolore si nutre di dolore ed presente in tutti noi.
Mentre coscientemente rifiutiamo la sofferenza, una parte di noi la cerca, ha bisogno di vedere gente stare male. Questo è un meccanismo estremamente semplice ed estremamente potente. Il dolore che non ho reso consapevole in me, mi possiede. La dinamica di sofferenza si attacca agli altri e fa in modo che io attiri persone che hanno bisogno di soffrire in modo da incastrarsi con me. Per esempio se io sono una persona tendente al carnefice (quella che tratta male gli altri, quello che freddamente dice le parole giuste) troverò sempre persone adatte a questo che si fanno colpire che si arrabbiano che si lasciano massacrare da me come uno zebrino. Quante volte voi lasciate un persona, o una persona vi lascia, e voi trovate un’altra storia d’amore in cui dopo dopo poco si riattivano le stesse dinamiche di prima. Se ho bisogno di essere trattato male, troverò compagni che mi trattano male, perché non ho reso cosciente in me uno strascico di dolore nel passato che si riaccende e si nutre dall’essere trattato male. Bisogna andare a vedere le prorpie dinamiche ripetitive del dolore, per poi vedere come queste si riverberano negli altri autoalimentandosi. Più un persona è sofferente e più tenderà ad innescare il bisogno di soffrire negli altri.