Spesso nei miei trafiletti cerco di ispirarmi a “Gli spiccioli di Montale” di Nico Orengo, compianto autore dalla grande scrittura creativa.
Sarà perché il racconto del libro appena citato si apre in una casa storica, ormai massacrata, in riva al mare, in Frazione Latte di Ventimiglia (IM), dimora che ho avuto la ventura di frequentare?
Le mie odierne trame, invero, prendono sovente le mosse a Bordighera (IM) in un’altra residenza più modesta, non lungi da dove abito adesso, ormai abbandonata in attesa della furia delle ruspe per il compimento dell’ennesima speculazione edilizia. Solo la nonna materna ci ha vissuto per più di sessant’anni. Lo zio più di settanta.
Il mare è vicino, ma non visibile. Si scorgevano (si scorgerebbero) dagli usci verdi colline ormai massacrate dal cemento ed una torre d’avvistamento contro i pirati turcheschi, che si é scoperto da poco insistere su rari reperti archeologici dell’Alto Medio Evo, ma destinata ad essere circondata dagli ennesimi residences. Ed ancora – basterebbe spostarsi un po’! – il Sasso, Seborga, Monte Caggio. Più o meno di fronte, non rammento ora se di colà ben visibili, Borghetto San Nicolò e Vallebona. In mezzo il torrente Borghetto che, quasi tutto tombinato e destinato ad accogliere acque furiose non più trattenute da rilievi modesti, ma ormai spelacchiati o ricoperti da manufatti agricoli e non, in otto anni ha più volte esondato, con conseguenze particolarmente pesanti a metà settembre 2006: non più luogo di giochi durante la siccità estiva per bambini che amavano l”intrepido“, dunque, non più sito di raccolta di erbe odorose per i conigli ed altri animali da cortile, non più terreno di ricerca delle more più dolci mai mangiate.
D’altronde da tanti anni ormai avevano cessato di defluirvi le acque della grande antica lavanderia di Guido, omaccione generoso dalla voce tonante che non spaventava nessuno.
Leggendo qualche anno fa la recensione di un nuovo libro di Mario Vargas Llosa su ” la Repubblica” in un articolo nientemeno intitolato “Perché Conrad aveva torto” mi erano venute in mente alcune riflessioni, che torno ad esprimere qui di seguito.
La prima riguarda il Premio Nobel, le cui opere, invero, conosco poco, ma reputo che solo dal brano da “Il sogno del Celta” selezionato dal giornale per l’occasione, si evinca, a mio modesto parere, già la statura di un autore capace di una prosa maestosa per stile, contenuti, erudizione ed autentica, ancorché doverosamente rattenuta, passione.
Non è, pero, di questo che intendo precisamente parlare, perché è ben lungi da me l’idea di cimentarmi in critiche letterarie.
Trovo affascinante e degno di considerazione – su questo vorrei dilungarmi un po’ – l’intreccio della trama del romanzo, per come si percepisce da una presentazione siffatta, con suggestioni e richiami che ne possono derivare.
Intanto, ho rinvenuto indiretta conferma di una presenza attiva di Joseph Conrad nel cuore dell’Africa Nera, del Congo storicamente inteso, per essere più precisi, in un’avventura, bruscamente interrotta per non essere complice di barbarie inaudite, determinante per la successiva composizione di “Cuore di tenebra”. Avevo già letto di quella sua esperienza in un libro, robusto per notizie e sensazioni, “Tenebre sul Congo”, di un autore italiano, Luigi Guarnieri, che in quel suo lavoro seppe armoniosamente fondere diversi elementi, spaziando, oltretutto, per diversi decenni di storia coloniale e per una cospicua fascia territoriale dell’Africa dall’Atlantico all’Oceano Indiano.
Arrivando per lo meno al dunque del personaggio di Vargas Llosa, specifico che si tratta di un diplomatico britannico, Roger Casement. Casement, tuttavia, era soprattutto un irlandese che, terminati i suoi impegni all’estero, si trovò coinvolto nelle lotte irredentiste della sua patria, di cui, per ovvii motivi, non dico di più, come per il resto della sua attività. Di qui il “Celta” del titolo in parola, di qui, per lo meno nella ricostruzione di Vargas Llosa, sue considerazioni verso Conrad, di cui auspica ad un certo punto una presa di posizione favorevole, se non alla sua scarcerazione, alla salvezza della propria vita minacciata (1916) in Inghilterra di pena capitale.
Solo questi aspetti, appena da me riassunti, valgono, credo, il massimo di attenzione da parte di un lettore moderno che ami la storia.
Casement, che aveva fondato l’Associazione per la riforma del Congo, dopo che erano cadute nel vuoto le denunce della missione britannica di cui aveva fatto parte circa le vessazioni compiute laggiù contro i nativi dai belgi, in Vargas Llosa – non so nella realtà – introduce in un dialogo a distanza con Conrad elementi di responsabilità anche di esponenti africani, un tema che ho visto riprendere a distanza di decenni nell’attuale temperie di quel tormentato Continente. Il romanziere anglo-polacco batteva, invece, di più il tasto sull’imbarbarimento provocato dai conquistatori europei.
Ci sono stati, dunque, nel pieno delle conquiste coloniali, europei coscienziosi, che pur poco poterono fare: a questo novero penso vada ascritto il Brazzà, che operò per la Francia con i cui governanti dovette presto scontrarsi con conseguente abbandono degli incarichi in Africa Equatoriale. Alla luce del volume del Guarnieri dovrei aggiungere tra le persone che almeno qualcosa di positivo cercarono di fare in quei frangenti anche i Comboniani ed un altro nostro connazionale, Gaetano Casati, che spero sul serio abbia scontato, scontrandosi, come già Brazzà, con Stanley e cercando di “redimere” Emin Pascià, la pecca di avere partecipato in gioventù alla repressione del brigantaggio meridionale.
Tutti personaggi, quelli che ho citato, che non solo, magari sporadicamente, incrociarono i loro destini, ma che nel bene e nel male hanno vissuto vite degne di essere immortalate in romanzi. E si può aggiungere tra gli italiani che ebbero un forte ruolo in quelle vicende ormai consegnate agli annali, più ancora che Vittorio Bòttego, Romolo Gessi.