di Filippo Pavone
Leggendo qui e là mi sono persuaso che la speranza è un concetto troppo vasto per essere racchiuso in una sola parola.
Si affida alla speranza il giocatore che vede nella prossima partita la svolta della sua vita, così come il malato terminale in attesa di un miracolo o il Jiadista che si immola sperando raggiungere il paradiso … Si sono occupati di speranza da Aristotele a Sant’Agostino, da Cartesio a Papa Francesco, ognuno con la sua personale declinazione che non sta a noi giudicare.
Speranza, da dizionario, è l’attesa fiduciosa, più o meno giustificata, di un evento gradito o favorevole. E mi sono domandato quando la speranza è giustificata, quando smette di essere un azzardo, una vana aspettativa ?
Nell’iconografia taoista l’uomo è posto tra cielo e terra (tra yin e yang), guarda il cielo radicato nella terra. La speranza di cui io parlo è un atto di rispetto, comprensione e accettazione dell’imprevedibile forza della natura che tutto governa. E’ la speranza del contadino o del pescatore che vivono nella natura, con la natura e della natura, loro hanno imparato con l’esperienza che per ottenere un buon raccolto o una pesca abbondante, il sudore è condizione necessaria ma non sufficiente, deve intervenire anche la benevola intercessione di madre natura.
Le circostanze che stiamo vivendo in questo periodo di quarantena ci mettono di fronte ai nostri limiti, ci costringono a riconsiderare il delirio di onnipotenza che ha caratterizzato la storia del genere umano in quest’ultimo secolo.
Speranza è essere capaci di riportare i nostri nudi piedi sulla nuda terra, si lavorare duramente nella fiduciosa attesa che l’evento gradito diventi realta’, ma senza piu’ dimenticare che nulla, su questa terra, è garantito; nulla e’ gratuito. Non a caso, il concetto di Duro Lavoro, in cinese, si rappresenta con l’ideogramma Kung-Fu.