Salvini e L’ Abbé Pierre

Tirando giu dallo scaffale la mia copia di Mythologies ( Roland Barthes), sinceramente non ricordavo che il libro risaliva al lontano 1957, l’anno della mia nascita. Dunque RB ci parla dal cuore della modernità, quasi dagli  albori del suo percorso di ricerca.

Eppure, fors’anche perchè la mitopoiesi -come vedremo-  è di fatto  inarrestabile -almeno nella accezione che B attribuiva ad un fenomeno ad un tempo interno al linguaggio e storico-sociologico, quelle riflessioni non hanno  -quanto meno per me- per nulla  perduto di validità.

Il mito è una parola

Un mito, nella accezione  del Barthes  di Mythologies,  è un oggetto di linguaggio,  una aggregazione di significazioni seconde che  -di per sè vuote- si caricano di indicatori direzionali verso altre zone di significato:

“Ogni oggetto del mondo può passare da una esistenza chiusa, muta, ad uno stadio orale, aperto all’approvazione della società , perché non c’è alcuna legge, naturale o non, ad impedire che si parli delle cose (corsivo mio). Un albero è un albero. Sì certo, Ma un albero detto da Minou Drouet [poetessa bambina degli anni cinquanta, autrice della raccolta di poesie Arbre mon ami] è già più propriamente un albero abbellito, adattato ad una certa consumazione, investito di compiacimento letterario, di rivolte di  immagini, insomma di un sociale che si aggiunge alla pura materia”.

Siamo di fronte ad oggetti di linguaggio, interi sistemi significanti, che pur essendo di per sé vuoti, aggiungono insiemi costituentisi integralmente all’interno del complesso del linguaggio stesso.  Il segno base  è ad un un tempo come cancellato nel suo stato neutro,  e  vi si  accampa all’interno,  una esistenza seconda  e parassitaria, che paralizza in maniera unidimensionale  il segno  che ne costituisce la base. Il mito, quindi,  prende vita  da questa esistenza seconda.

E’ ovvio, come dicevamo, che si tratta di un fenomeno inarrestabile, che continuamente congela, nell’uso sociale, interi segmenti vuoti, un intero strumentario di aggregazioni di linguaggio, paragonabile -sempre per riprendere un esempio di Barthes- alla differenza che intercorre fra una spiaggia vuota ed una popolata di cartelli pubblicitari, bandiere,  vestiti, colori” …  .- soltanto che qui siamo interamente all’interno del sistema di comunicazione!

“Alla superficie del linguaggio qualcosa non si muove più”.

Barthes fornisce un campionario di esempi: “Il Cervello di Einstein”, “la nuova Citroen” i “Marziani”, la “pasta Panzani”, “lo strip tease”, “il vino e il latte” ,  “il viso della Garbo” …

E’ evidente che ci riferiamo ad oggetti degli anni cinquanta, e a Barthes non possono sfuggire le implicazioni sociali e politiche del meccanismo semiologico sopra descritto:

“Statisticamente il mito è a destra. Qui esso è essenziale: ben nutrito, lucente, espansivo loquace, s’inventa  senza tregua. S’impadronisce di tutto: le giustizie, le morali, le estetiche, le diplomazie, le arti domestiche. …  … La borghesia vuol conservare l’essenza senza l’apparenza: perciò la negatività stessa dell’apparenza borghese, infinita come ogni negatività, sollecita infinitamente il mito. … … la sua parola è plenaria intransitiva, gestuale teatrale: è Il Mito: … il linguaggio [della borghesia] che tende ad eternare”.

vi ricorda qualcosa?

Iconografia dell’ Abbé Pierre

Nelle pagine dedicate alla  iconografia dell’Abbé Pierre, Barthes -intendiamoci si riferisce all’iconografica pubblicata dai quotidiani popolari (Match in primis).

La capigliatura, la barba …  divengono  segni, che stanno semplicemente ad indicare -e a sintetizzare- l’apostolato, che diviene categoria spendibile e direttamente identificabile dalle caratteristiche dell’iconografia.

Il taglio dei capelli (cortissimo)  diviene segno di neutralità, ma  per questo appunto “attributo superlativo di francescanesimo”.

La barba,  al contrario, ha una sua propria mitologia. Il sacerdote non porta a caso la barba. Barthes individua una curiosa e divertente opposizione fra clero secolare -dunque maggiormente legato alla catena gerarchica- puntualmente rasato e clero missionario, che invece richiama  la “rude franchezza dei fondatori del monachesimo”.

Insomma una foresta di segni, tutti congelati e direttamente trasportabili si aggrega sull’immagine e fornisce -integro- un “sistema santità” direttamente spendibile e utilizzabile in una società “che consuma avidamente l’ostentazione della carità” per poterla comodamente sostituire, come dice il giovane Barthes “alla realtà della giustizia”.

Iconografia di Salvini

Non ho alcuna pretesa di porre in atto le strategie semiologiche su questo soggetto, e lascio a voi la individuazione dei meccanismi e dinamiche descritte attraverso gli elementi Barthesiani, che,  a tutta evidenza,  mantengono oggi  la loro validità.

Sarebbe semplice e vieto,  compilare qui un elenco degli elementi mitologici e mitopoietici di  Salvini,  Di Maio e Fico, sia dal punto di vista iconografico, sia da molti altri punti di vista.

Quello che mi premeva era  semplicemente rammentare la caratteristica di “blocco di linguaggio” di interruzione  e deviazione del circuito di senso, che pone in atto la attività mitopoietica stessa.

Rammento che per il primo Barthes (ma anche e di più per il successivo) la dischiusura sulla dimensione non neutrale degli elementi del linguaggio, e la rivendicazione della dimensione etica della demistificazione linguistica è costitutivo della sua ricerca.

Dalla produzione artigianale alla produzione automatica

Guardo ora un giornale del 1960 (periodo al quale si riferiscono le mythologies idividuate da Barthes.

I caratteri sono incerti, si individuano chiaramente nel corpo 8 delle righe, le sbavature di inchiostro del flan, a loro volta segno della battitura sulla linotype., che richiama il lavoro manuale, la stenografia, la dettatura, la battitura a piombo, il cartone pressato, le rotative.

allo stesso modo la produzione di miti nel sistema di comunicazione di massa di quell’assetto sociale, è  per così dire artigianale, figlia di un sistema economico dominato dalla produzione di beni e dalla pregnanza della produzione industriale nel suo complesso.

I sistemi informativi, oggi si affiancano anche  funzionalmente,  all’economia finanziarizzata. Gli algoritmi, permettono la produzione mitopoietica, in forma automatica, curandone la distribuzione e la replica.

Badate bene NON sto parlando delle falsità e delle fandonie, che sono un’altra cosa, sto parlando della immersione in aggregazioni vuote che soltanto apparentemente sono dotate di senso e che vengono comunemente utilizzate all’interno della comunicanzione nel corpo sociale, ma ora in forma automatica, indicizzati e ottimizzati da funzioni algoritimiche e centralizzate nei big data.

E questo ci porta a Simondon e Stiegler.

A presto.

 

La giacca magica.

Avevo promesso,  cari amici, di scrivere qualcosa sul primo Roland Barthes,  in apparenza fuori moda e inattuale, senza pretesa di aggiungere cose particolarmente originali. Ho deciso di procrastinare un po’ e di dedicare qualche riga alla Giacca Magica.

La giacca magica (faccio spoiling)

Qualcuno di voi ricorderà il bel racconto di Dino Buzzati.

Bene. Ne faccio un brevissimo riassunto per quelli che non lo rammentano o non l’hanno mai letto. Debbo purtroppo andare a memoria perché non sono riuscito a trovare nella mia libreria, la mia copia della Boutique del mistero, dove il racconto è raccolto.

Comunque:  Un tizio, abbastanza ordinario, un poveraccio, nota una piccola bottega di sartoria e si fa confezionare dal vecchio sarto che la conduce, una giacca nuova.   Portata a casa la giacca, mentre la sta provando di nuovo di fronte allo specchio, gli capita di infilare casualmente  la mano in tasca, traendone fuori con sua grande sorpresa, una banconota da diecimilalire (sarebbero -a spanne- una cinquantina di euro). Compiaciuto del fatto, si affretta a cambiare la banconota e a spenderla.  Il giorno successivo, il tipo viene raggiunto dalla notizia che un suo conoscente è morto in un incidente. Di questa cosa è costernato …  ma sorpresa! infilando di nuovo la mano in tasca, trova una nuova banconota. e così il giorno succassivo. La giacca produce banconote! Ben presto si rende conto che ogniqualvolta lui estrae dalla tasca una banconota, qualcuno muore. Più banconote la giacca gli fornisce, più lutti cagiona. Terrorizzato, vuole riportare la giacca al sarto che gliela ha venduta… ma la bottega non esiste più da anni.

Era per me necessario fare in questo modo pessimo  spoiler del bellissimo racconto di Buzzati.

La nostra giacca magica l’abbiamo in tasca.

L’utensilità innocente

Dimentichiamo infatti, nel nostro mondo di utensilità, che gli oggetti che abitualmente utilizziamo per comunicare, sono in sostanza trasformazioni successive di elementi naturali.

Non siamo abituati a pensare che in sostanza, questi oggetti sono fatti di terra.

E’ un fenomeno comune. Il mondo del consumo tende  sempre e comunque -per sua natura-  ad occultare il mondo della produzione.

Un po’ capita anche con l’alimentazione, dove il gioco pubblicitario ci fa vedere mani amorose, contadini felici con le gerle sulle spalle, fattorie “di una volta”, realtà ben diversa dalla produzione massificata e basata sull’uso massivo di fertilizzanti derivati dal petrolio e da pesticidi.

Le merci debbono essere per loro natura attrattive.

Ebbene la nostra “giacca magica” è nel centrafrica, dove ad esempio,  quarantamila bambini, non giocano, non vanno a scuola, non mangiano nutella. Scavano. Ininterrottamente. Scavano per estrarre cobalto, fino a morire di fatica. Scavano per estrarre terre rare necessarie ad alimentare l’industria dei semiconduttori, quelli che finiranno nei nostri apparati multimediali, che oramai utilizziamo come nostra “naturale”  appendice comunicativa.

terre rare

Il problema delle terre rare, utili appunto per la estrema miniaturizzazione degli apparecchi multimediali (altrimenti dovremmo andre in giro con una cassetta da campo di una ventina di chili, come nei film di guerra) , è che sono “rare”. Serve manodopera a buon mercato per scavare e triturare, estrarre questi preziosi elementi.

Si fa un buco in terra. In pratica il nostro cellulare nasce con pesantissime devastazioni ambientali, deforestazioni, sfruttamento della manodopera, riduzione delle aree coltivabili,  guerre per il controllo del territorio e, di conseguenza,   commercio di armi.

 

In pratica molti dei conflitti del continente africano sono alimentati dalla necessità di controllo delle fonti estrattive e del commercio “informale” delle materie prime.

“Stay hungry”

E’ la bulimia del consumo, in pratica che alimenta questo meccanismo. Ed il mercato -scusate il termine- “innocentizza” gli oggetti e l’atto dell’acquisto.

Gli oggetti ci si pongono davanti innocenti e disponibili per il nostro atto di appropriazione. Anche il loro uso, anche esso presentificato  da atti di linguaggio,  tende  ad essere innocente “neutro”,  nella totalità dei  casi,  magico. Quanti oggetti del nostro mondo si mostrano utili per noi e familiari, facenti parte della natura del mondo, come la nostra mano o il nostro occhio. Non ci chiediamo chi li abbia disegnati, in qual modo sono elementi del nostro mondo esperienziale, in quale modo ci si presentino o ci siano pervenuti. Essi sono là disponibili per essere consumati, nel ciclo di consumo che li ridurrà a rifiuto, con la stessa naturalità escrementizia del processo del cibo, la cui origine  -a noi incognito- nasce nella maggior parte dei casi-  dal connubio di sementi ibridate e derivati del petrolio.

Dietro a tutto c’è l’orribile frase, il testamento morale di Steve Jobs. “Stay Hungry”, che effettivamente si trasforma, denudato di ogni velleità metaforica nel consumo di oggetti, territorio, aria acqua , stretti nella solitudine incosciente del consumo individuale.

Insomma la nostra giacca porge ogni giorno a milioni di persone nella tasca una bella diecimilalire.

Per chi voglia leggere sull’argomento:
https://www.legambiente.it/contenuti/comunicati/copertina-dedicata-all-africa-la-nuova-ecologia-di-settembre

Convogli di rabbia

Forni e Stazioni

Iniziamo con un caveat: I poveri disgraziati che sono rimasti bloccati in stazione, in varie città d’Italia con attese lunghissime, a causa di un pesante guasto alla rete elettrica ferroviaria, non sono direttamente l’oggetto di questo articolo. Ripeto non lo sono. E questo per sterilizzare in anticipo tutte le eventuali polemiche che potrebbero sorgere in merito.

L’ggetto, la cosa di cui si parla qui,  non  è  stata quindi la reazione  delle persone,  in sé giusta e prevedibile, bensì  la sua teatralizzazione,  ossia la  sua rappresentazione amplificata, ad opera dei media nel loro complesso, che diviene epifenomeno delle molte rabbie e proteste  teatralizzate che  ci vengono vendute ogni giorno sui social.

Cosa c’è  in comune e  di radicalmente differente fra l’assalto al forno descritto al capitolo dodici dei Promessi e gli episodi di oggi?

Di simile certamente c’è l’attacco ai bisogni primari, sensibile e presente, accompagnato dalla percezione -con indubbi elementi di realtà- che ceti sociali, individui, intere fette di società,  traggano ingiusto vantaggio  proprio dall’attacco a quei bisogni sempre più compressi, oltre che, in analogia con la crisi cittadina descritta da Manzoni, fattori oggettivi ne siano alla base, di difficile analisi, quando la fame stringe  il ventre della gente.

Innanzitutto, a  differenza delle dinamiche tanto bene descritte da Manzoni, oggi sembra proprio  che il Viceré anziché   cercare di scantonare ed evitare l’ira delle folle (“adelante Pedro con giudicio”), si ponga sul tetto della carrozza ad indicare alle folle stesse -vero o sbagliato che sia-  l’obbiettivo della rivolta, indicando la porta del forno, o ancor  meglio qualche altro luogo dove la folla possa fare meno danni.

L’elemento secondo ma che  nei fatti diviene elemento primo, dato l’uso aplissimo che oggi ne fa la Vicarìa, è   la rappresentazione della protesta e la avocazione a se dei meriti. Insomma è l’apparenza della protesta, che si scambia con la sostanza della protesta, una meta-protesta che ne prende il posto e le sembianze,  aderendo alla realtà come le penne del pavone aderiscono al suo didietro.

Il Convoglio e la rabbia convogliata

Le drammatiche proteste individuali, quindi, trovano appunto un veicolo che le trasporti, e le possa dirigere su binari classici della costruzione del consenso. Vero o falso che sia, costruito o reale,  ci troviamo di fronte proprio ad una funzione di “conduttore”, nel duplice senso del mezzo di trasporto (condurre verso) e della direzione,  dell’indicare la via.

Rimangono proteste individuali e trovano sintesi appunto nel “conduttore”.

Certo, ci si può trovare, come è accaduto a Di Maio, di dover alla prova dei fatti, scontentare qualcuno, ma il veicolo perdona qualche sterzata brusca.

Africa e nuvole

Un esemplare utilizzo di questi strumenti è l’attacco al sistema dell’accoglienza, durante l’intervento di Di Battista alla festa del Fatto Quotidiano.  Ricorderete  si  crea una opposizione, un bersaglio e si fornisce una alternativa: “L’Africa non ha bisogno di accoglienza, ha bisogno di interventi”.

Ecco una falsa opposizione, per la soddisfazione di chi in quartieri degradati (dove peraltro questo governo  non farà affluire fondi per la riqualificazione) vede  scadere ancora di più la qualità della vita con l’arrivo degli immigrati.

Attraverso la finta alternativa si crea una contrapposizione che non esiste nei fatti.. E’  possibile infatti sia  accogliere correttamente  e aiutare -ove possibile- i paesi di origine dei flussi migratori, non vi è alcuna dialettica contrapposizione fra le due cosa e la contrapposizione  stessa è appunto mistificante.

Vi è inoltre un secondo strato mistificatorio. L’aiuto, il “Piano Marshall per l’Africa” non ha alcuna possibilità di essere posto in atto, solo che l’Africa, questo misterioso oggetto simbolico, venga  suddiviso nei cinquataquattro stati che la compongono e che si ponga attenzione alle differenze etniche sociali culturali  storiche e politiche che nella realtà li costituiscono.

Di Battista sembra avere in  mente il pozzo scavato dal buon missionario, o le siringhe di chinino della sua bisaccia, mentre glissa su come fare qualcosa nelle zone di conflitto del continente.

Come fare -a solo titolo di esempio- con la feroce dittatura eritrea, con il fondamentalismo islamico in Somalia, con la situazione di conflitto permanente nel Kivu (Congo), con il nord Nigeria controllato da Boko Haram, con gli episodi di guerriglia in Mali Mauritania,  con le zone costiere orientali devastate dai cambiamenti climatici.

Chi dovrebbe realizzare il fantomatico aiuto? dittatori e bande terroriste?

Ma la parola magica è stata pronunciata, e può essere avallato il campo di concentramento in Libia, così come l’approdo denegato alle navi che salvano vite in mare, e la coscienza è a posto, l’odio ben convogliato, specialmente se costruito nel tempo.

L’intervento di Di Battista pochi giorni dopo l’infausto approdo della nave della Guardia Costiera italiana, ha precedenti nel tempo. Ricordate infatti i “taxi del mare” ? Frase irresponsabilmente pronunciata da Di Maio qualche mese fa? Eppure su Youtube , potete trovare se volete, le audizioni parlamentari, con gli interventi delle ONG. Sono lunghi, argomentati, assai più complessi delle foto false di donne con le unghie rosse con cinquanta milioni di “mi piace”.

Nave Diciotti: tutto normale (anche gli escrementi)

Non so se qualcuno ricorda le condizioni di un traghetto (grande e attrezzato e progettato con lo scopo di trasportare persone) dopo un giorno di navigazione. Poniamo Civitavecchia-Olbia. Ecco alla vista del porto di Olbia il ponte è invaso da sporcizia e salsedine. Le latrine mandano cattivo odore. Le mense e i bar debbono essere ripuliti da cima a fondo. C’è sporcizia dappertutto. Ora immaginate questo su di una nave NON attrezzata, con una attesa si protrae in ambienti ristretti per più giorni  e comprenderete perché un magistrato, dopo una ispezione, ipotizza un reato di sequestro, giustificato dall’aiutiamoli a casa loro del diba.

Immaginiamo che a suo tempo Del Rio avesse fatto la cosa giusta

Coi se e i ma la storia non viene fatta. Quale sarebbe stata la cosa giusta? Che il precedente governo avesse avuto il fegato di bloccare il traffico sul Morandi. Genova paralizzata, ma quarantatre persone sarebbero ancora in vita.

Ma Genova avrebbe vissuto lo stesso disagio di oggi, con la complicazione di vedere il ponte (apparentemente sano) chiuso al traffico che guardi mentre sei imbottigliato durante l’attraversamento della città.

Immaginate le grida, le manifestazioni, le proteste,  l’ipotesi di complotti per favorire grandi opere alternative, Sindaci leghisti e cinquestelle in piazza con la fascia tricolore a protestare, tutti i comitati a chiedere l’immediata riapertura al traffico…

Odio e rabbia ben convogliata.

Ma la cosa giusta non fu fatta

E oggi l’odio convogliato (anche qui vale il caveat, lo stesso all’inizio dell’articolo: i fatti mi servono a titolo di esempio per le dinamiche in atto).

Crea il nemico, il bersaglio.

La Fornero (che fantastico indirizzo del convoglio!)

Potremmo scriverlo tutto attaccato: tanto è simbolica e proverbiale: potremme scrivere Lafornero e tutti capirebbero.

Il meccanismo semiotico è qui esibito in tutta la sua potenza. A nulla vale dire che quelle scelte furono il risultato di anni di finanza creativa,  prese in emergenza DOPO l’avvento di un ciclo economico ferocemente negativo del tutto mal gestito, con l’aggravante che  negli anni precedenti non erano state poste in atto le misure necessarie a prevenire lo stato di cose imposto dalla peggiore crisi dal 1929.

A nulla vale dire che quelle politiche emergenziali , furono infatti risposta e conseguenza  e rimedio a quanto accaduto durante gli anni precedenti.

La finanza creativa ha un  nome e cognome: Giulio Tremonti (all’epoca dei fatti ministro in quota Lega Nord, partito oggi al governo).

Il primo Barthes, la Fornero e l’Abbé Pierre.

Il Barthes di Mythologies, parlo del primo Barthes, che scriveva in un’altra epoca , aveva individuato il meccanismo attraverso il quale una cristallizzazione linguistica , una metastruttura, diviene un piano secondo, una sintesi che è metasegno, segno di segni, un indicatore apparente di realtà quando ci riferiamo a oggetti nuovi, del tutto interni al linguaggio.

Un esempio classico è appunto l’Abbé Pierre, icona, segno di segno cristallizzato della santità.

Dedicherò il prossimo raglio all’usurato vecchio Barthes, quello che oggi viene ritenuto troppo ovvio, troppo poco chic,  per essere preso in considerazione, ma che funziona perfettamente nei moderni sistemi di comunicazione.

Buona notte cari