Hay-on-Wye, il paese salvato dai libri

Oltre il tappeto di nuvole, le gocce di pioggia sono coriandoli argentati che scivolano lenti lungo il finestrino dell’aereo. Le case, puntini bianchi e marroni disposti in file ordinate che spuntano a macchie da un verde che abbaglia. Sono volata in Galles per vivere la magia della cittadina di Hay-on-Wye, a tre ore di auto da Londra, poco meno di 2.000 abitanti, 26 librerie e un festival letterario di respiro internazionale organizzato due volte all’anno.

La storia narra di Richard Booth, classe 1938 e una laurea a Oxford, che dopo aver terminato gli studi ritorna a casa e decide di aprire un negozio di libri usati in una vecchia sede dei pompieri: è il 1962, e nessuno scommetterebbe neanche mezza sterlina sul successo di un’attività del genere in un posto sperduto nella campagna al confine con l’Inghilterra.

Ma lui non si arrende: è un sognatore e visionario, viaggia alla ricerca di libri che possano arricchire il paese e nel 1977 lo proclama Principato autonomo, autodichiarandosi re. Una trovata geniale: alcuni concittadini lo emulano, aprono nuove librerie, e Hay-on-Wye rinasce Città dei Libri.

È il navigatore a guidarmi verso di lei. In un dedalo di stradine immerse nel verde, l’asfalto è una lingua che brilla e la pioggia è ormai lontana. Gli scoiattoli che sbucano a ogni curva fermandosi in mezzo alla carreggiata per mangiare nocciole mi fanno capire che è ora di rallentare e lasciare alle spalle il caos della città, dando al respiro un ritmo diverso.

Arrivo a destinazione e comincio a esplorare le viuzze di quello che, pur sembrando un luogo fermo a trent’anni fa, ha tutto. Dal take away cinese al ristorantino vegano, passando per i negozietti di antiquariato e le gallerie d’arte, fino all’ufficio postale. E poi, le librerie.
Divieto di parcheggio. Le auto verranno demolite e trasformate in segnalibri, recitano i cartelli proprio davanti all’ingresso della Addyman Books.

Con il racconto di Derek, fondatore e proprietario della Addyman Books, che inizio a scoprire il segreto di questo paese. Lui mi accoglie seduto dietro al bancone, occhiali sul naso e sorriso simpatico, libri usati e nuovi (pochissimi) ovunque.

Ha iniziato a lavorare per Richard Booth negli anni Settanta, e nel 1987 ha deciso di mettersi in proprio assieme alla moglie. «Quando aprimmo avevo solo una stanza, e mi dicevo “Accidenti, non riuscirò mai a vivere di questo”. Ma non mi sono fermato, e oggi le stanze sono dieci».

I suoi spazi sono una continua sorpresa, una rampa di scale ti porta verso un locale e poi un altro e un altro ancora. Mi chiedo da dove arrivino tutti questi libri usati e la risposta è molto semplice: da biblioteche, associazioni, case. Sono le persone a portarli, perché un libro deve essere per sempre, mai buttato né dimenticato: è un capolavoro, e merita più di una vita.

La libreria Murder and Mayhem (Omicidio e Caos), specializzata in gialli, il genere più amato a Hay-on-Wye.

Dice Paula, la libraia, «Capita che i clienti siano alla ricerca di consigli, ma la vuoi sapere una cosa? Sei tu che devi trovare la storia per te. Così li lascio liberi di curiosare, e alla fine quella giusta arriva sempre». L’autrice più amata? Agatha Christie. Non passa giorno in cui una sua opera non sia venduta: i gialli sono il genere più apprezzato nella zona.

Melanie Prince, nella foto,  è proprietaria con il marito Chris di The Poetry Bookshoop, l’unica libreria del Regno Unito dedicata solo a libri di poesia. 

Melanie è di Manchester, è venuta qui in vacanza vent’anni fa per non andarsene più dopo aver conosciuto Chris, suo marito. Assieme hanno “The Poetry Bookshop”, dedicato interamente ai libri di poesia. Fino a poco tempo fa i clienti abituali erano le persone di mezza età, ma ora arrivano anche tanti giovani.

A Hay-on-Wye si vendono soprattutto libri usati per poche sterline ma arrivano da tutto il mondo anche collezionisti alla ricerca di volumi pregiati.
I libri usati occupano almeno il 90 per cento del mercato. Ce ne sono per ogni gusto, dalla letteratura alle scienze, passando per le favole e i manuali. Ogni libreria è attrezzata anche con un negozio online, che spedisce ovunque.

By TravelDeal

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Scalare l’Everest, cosa serve sapere prima di partire

In quanti si può stare sulla vetta della montagna più alta della Terra? Quanto costa una spedizione? Quanto dura? Ecco tutto ciò che occorre conoscere per arrampicarsi sul tetto del mondo

Da quando gli esseri umani raggiunsero per la prima volta la vetta del monte Everest nel 1953, il modo di scalare la montagna più alta al mondo è cambiato radicalmente. Oggi,  ogni anno, centinaia di alpinisti si lanciano nell’impresa grazie a un perfezionamento della preparazione, della tecnologia e dell’equipaggiamento da parte delle spedizioni commerciali che conducono sul tetto del mondo coloro che sono disposti a rischiare e che hanno un’ampia disponibilità economica.

Dove si trova l’Everest?
Il monte Everest – in nepalese Sagarmatha e in tibetano Chomolungma – si trova a cavallo del confine tra Nepal e Tibet, sul punto più alto dell’Himalaya. Sebbene raggiungere la vetta più alta del mondo sia un’impresa ardua e potenzialmente mortale – a causa, per esempio, dell’estrema altitudine, della presenza di valanghe e di cascate di ghiaccio – la montagna si trova piuttosto vicino all’Equatore, a circa 28 gradi di latitudine nord, proprio come Tampa, in Florida.

In continua crescita
Gli studiosi di Scienze della Terra stimano che l’Everest abbia tra i 50 e i 60 milioni di anni: una montagna giovane, per gli standard geologici. La vetta si

è formata a causa della spinta della placca tettonica indiana contro quella euroasiatica. Tale forza agisce ancora oggi e fa sì che l’Everest cresca di circa sei millimetri ogni anno.

Ambiente ostile
A quasi nove chilometri di altitudine, sulla vetta dell’Everest è presente circa un terzo della pressione atmosferica esistente al livello del mare, che riduce in modo significativo la capacità degli alpinisti di respirare una quantità sufficiente di ossigeno. Per tale ragione, gli scienziati hanno stabilito che il corpo umano non è in grado di rimanere a lungo tempo sopra i quasi sei chilometri di altitudine. Man mano che gli alpinisti scalano la montagna e che la quantità di ossigeno si riduce, il loro corpo è esposto a un rischio sempre più alto di incorrere in una serie di problemi, come l’edema polmonare, l’edema cerebrale e l’embolia. A un’altezza simile, aumenta incredibilmente anche il rischio di congelamento, poiché il cuore lavora di più battendo più veloce e aumentando il flusso di ossigeno ai tessuti, che arriva prima agli organi vitali, poi alle zone periferiche del corpo.

La stragrande maggioranza degli alpinisti che scalano l’Everest usano le bombole dell’ossigeno per ridurre gli effetti dell’altitudine estrema. Ma non senza rischi e inconvenienti. Innanzitutto sono costose, pesanti da trasportare, e una volta consumato l’ossigeno, i contenitori vengono spesso abbandonati. Inoltre, l’uso delle bombole provoca un aumento della quantità relativa di ossigeno che equivale al livello di ossigeno che caratterizza l’aria al campo base; tuttavia, se la bombola si esaurisce quando si sta per raggiungere la vetta, il corpo potrebbe non essere capace di adattarsi all’improvvisa mancanza di ossigeno. Infine, le bombole di ossigeno sono notoriamente inaffidabili: lo sanno bene Adrian Ballinger, guida dell’Everest, e il suo team che, nel 2018, mentre stavano tentando la vetta, hanno assistito a un improvviso malfunzionamento del sistema che controlla il passaggio dell’ossigeno dalla bombola alla maschera.

Quante rotte per raggiungere la vetta?
Anche se esistono 17 diverse rotte per raggiungere la vetta dell’Everest, quasi tutti scelgono fra due. Dal Nepal si accede alla Cresta sud-est, attraversata per la prima volta da Tenzing Norgay e Edmund Hilary nel 1953. Dal Tibet, si accede invece alla Cresta nord-est, dove George Mallory scomparve nel 1924, molto tempo prima che una squadra cinese completasse la scalata nel 1960.

Sebbene gli alpinisti esperti sostengano che la difficoltà complessiva delle due rotte sia simile, in realtà le sfide da affrontare sono diverse. Sulla Cresta sud-est, gli scalatori devono attraversare la pericolosa cascata Khumbu, ma la scalata verso la vetta è leggermente più breve ed è più facile scendere rapidamente in caso di emergenza. Sulla Cresta nord-est, è possibile arrivare con un fuoristrada fino al campo base, ma per raggiungere la vetta gli alpinisti devono attraversare diversi chilometri a un’altitudine di più di 8mila metri.

Quanto è affollato l’Everest?
La popolarità dell’Everest è cresciuta negli anni Novanta, quando guide internazionali hanno iniziato a intraprendere spedizioni commerciali sulla cima. Nonostante i rischi, l’Everest attira ogni anno centinaia di alpinisti provenienti da tutto il mondo. Nel 2018, il Ministero del Turismo del Nepal ha emesso 347 permessi di arrampicata individuali per scalatori stranieri e riferisce che di questi, 261 hanno tentato la vetta, insieme a 302 operatori d’alta quota. Il noto cronista Alan Artnette stima inoltre che altre 239 persone abbiano raggiunto la vetta dal versante nord della montagna.

Un grande impegno dietro a un grande business
Per le aziende locali di logistica e il governo del Nepal l’Everest rappresenta un vero e proprio affare. Prendere parte a una spedizione commerciale costa dai 40mila ai 100mila dollari a persona, a seconda del livello del servizio e dell’esperienza del fornitore. Il Ministero del Turismo ha dichiarato di aver raccolto 5,2 milioni di dollari nel 2018 grazie al pagamento delle tasse dei permessi di arrampicata.

Questo settore si basa su un piccolo gruppo di guide professionali nepalesi che ogni primavera lavorano insieme per preparare la rotta con corde fisse e scale di risalita, dotare i campi base con i beni di prima necessità – come tende, stufe, bombole d’ossigeno e cibo – per poi guidare la loro squadra di scalatori amatoriali stranieri fino in cima. Anche se storicamente erano gli sherpa – la tribù tibetana che vive nelle zone più vicine alla montagna – a essere assoldati dalle spedizioni per trasportare rifornimenti sulla montagna, oggi, a occuparsene, sono diversi gruppi etnici, conosciuti con il nome meno accattivante di “lavoratori d’alta quota”. Per una classica spedizione sull’Everest che dura dai tre ai quattro mesi, la maggior parte di essi guadagna fra i 2.500 e i 5.000 dollari. Negli ultimi anni, grazie a opportunità formative nate, per esempio, dal Khumbu Climbing Center, le guide nepalesi hanno iniziato a seguire una formazione e ottenere certificazioni secondo gli standard internazionali.

Quanto dura una spedizione?
Le condizioni metereologiche migliori per raggiungere la cima dell’Everest si verificano di solito nella seconda metà di maggio, ma i preparativi per un’ascesa di successo iniziano mesi prima. La maggior parte delle squadre si riunisce a Kathmandu a fine marzo per iniziare l’acclimatamento. Mentre gli scalatori si dirigono verso il campo base, il personale di supporto del campo base e gli operatori d’alta quota si trovano già sulla montagna, trasportando carichi e preparando il percorso verso la vetta.

Ad aprile, gli alpinisti effettuano numerose incursioni notturne (“rotazioni”, nel linguaggio dell’Everest) verso i campi successivi, situati ad altitudini più elevate, per acclimatarsi, mentre le prime squadre composte dalle guide nepalesi raggiungono la vetta. Entro la seconda settimana di maggio, le squadre sperano che i chilometri di corde fisse che servono a raggiungere la vetta dal campo base siano stati fissati e che lungo il percorso vi siano campi ben riforniti.

Dopo un ultimo periodo di riposo, alcune squadre sgomberano completamente la montagna per trascorrere alcune notti a quote più basse e recuperare quanto più possibile le forze: lo sforzo verso la vetta si svolge normalmente in un arduo viaggio di andata e ritorno, che dura da quattro a cinque giorni, considerando la partenza dal campo base. Se tutto va bene, la maggior parte degli scalatori dell’Everest entro l’inizio di giugno ha conquistato la montagna e sta già tornando a casa.

Quanto è pericoloso?
A partire dalla fine della stagione 2018, l’Himalayan Database – la più grande raccolta dati su quanto avvenuto sulle montagne dell’area – riporta che 295 persone sono morte nel tentativo di scalare l’Everest, mentre ci sono state 9.159 salite con successo fino alla vetta, compiute da 5.294 persone. Il tasso di mortalità complessivo – il numero di morti diviso per il numero complessivo di persone presenti sulla montagna, non solo quelle che si arrampicano – è approssimativamente dell’1,2 percento; ciò significa che chi prova a scalare l’Everest ha circa una possibilità su cento di morire lungo il percorso.

“Statisticamente, l’Everest sta diventando sempre più sicuro, principalmente grazie all’uso di attrezzature migliori, nonché alla disponibilità di previsioni meteorologiche sempre più affidabili e alla presenza di un numero maggiore di persone che si arrampicano nell’ambito di spedizioni commerciali”, afferma Alan Arnette. “Dal 1923 al 1999 sono morte 170 persone sull’Everest, a fronte di 1.169 scalate, con un tasso di mortalità del 14,5%. Ma le morti sono drasticamente diminuite dal 2000 al 2018, periodo in cui sono state registrate 7.990 scalate e 123 morti, con un tasso di mortalità dell’1,5 per cento”.

Che cosa significa arrivare in vetta?
Oggi la cima della montagna si presenta come una piccola cupola di neve delle dimensioni di un tavolo da pranzo. C’è spazio per sei scalatori, che riescono a stare in piedi e a godersi il panorama, anche se nei giorni più affollati gli alpinisti devono alternarsi per stare in piedi sul tetto del mondo.

Ci sono ancora rotte inesplorate sull’Everest?
L’ultima rotta rimasta da scalare è stata percorsa interamente da una squadra di prestanti russi nel 2004. Sebbene ognuna delle tre pareti e delle tre creste principali dell’Everest sia già stata scalata e raggiunta, ci sono ancora diverse sfide intriganti per i futuri alpinisti; ad esempio, il Fantasy Ridge, ancora mai scalato, e il cosiddetto Horseshoe Traverse, un audace percorso che comprende l’Everest e le due vette vicine, il Lhotse e il Nuptse.

“L’Everest è ancora, per molti versi, una tela bianca”, afferma l’alpinista e fotografo del National Geographic Cory Richards. “È ancora la montagna più alta, fredda e maestosa che ci sia mai stata. Il modo in cui ognuno sceglie di scalarla è espressione delle proprie abilità specifiche, così come della propria creatività. C’è sempre un nuovo modo di avvicinarsi a qualcosa, e l’Everest non fa eccezione”. Richards tornerà sulla montagna nella primavera del 2019, sperando di completare la sua prima ascesa verso la vetta più alta.

By TravelDeal

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Sri Lanka, la nuova frontiera

Sono passati ormai nove anni dalla sconfitta delle Tigri Tamil da parte dell’esercito governativo nel Nord dello Sri Lanka. Così quando il signor Kumarasoorya, il mio compagno di viaggio, si volta verso di me sul traghetto che si avvicina a Delft e sussurra «Sulla nostra isola ci sono ancora i paramilitari», resto piuttosto stupito. «Ci sono ancora le Tigri Tamil qui a Delft?», domando. «No, sono state annientate», risponde Kumarasoorya, continuando a guardarsi in giro con circospezione. «Sono quelli dell’Epdp [Partito Democratico del Popolo dell’Eelam]. Vogliono anche loro uno Stato Tamil e stanno occupando la casa di mia sorella senza pagare l’affitto».

Le radici del radicalismo tamil nello Sri Lanka risalgono al 1948, con l’indipendenza di Ceylon (l’antico nome dell’isola) dai britannici, in parallelo alla crescita del sentimento nazionalista nella maggioranza singalese e buddhista che avrebbe portato a politiche discriminatorie verso la minoranza tamil, di religione induista, che vive soprattutto nel Nord e nell’Est del paese.

Nel 1983, dopo un sanguinoso moto popolare culminato in devastazioni e massacri contro i Tamil in tutta l’isola, le Tigri della Liberazione del Tamil Eelam (dette “Tigri Tamil”) contrattaccarono con una violenta campagna terroristica, caratterizzata da attentati suicidi. Di fatto, crearono uno Stato tamil all’estremo nord dello Sri Lanka. Questo sopravvisse fino alla massiccia offensiva militare governativa del 2006-2009, che sgominò le Tigri Tamil e portò all’uccisione del loro stravagante leader, Velupillai Prabhakaran.

Da quella brutale campagna, che ha provocato 40 mila morti tra i Tamil, tutto il Nord giace in rovina. Dopo trent’anni di esilio volontario nel Regno Unito per sfuggire agli scontri, il signor Kumarasooriya è tornato a Delft – isoletta tropicale baciata da una dolce brezza marina – per contribuire alla sua ricostruzione.

Come prescrive la tradizionale ospitalità tamil di cui godrò per tutta la mia settimana di permanenza sulla Penisola di Jaffna, Kumarasooriya cambia i suoi piani per accompagnarmi in giro per Delft in tuk-tuk.

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