Le janare e la scuola delle streghe

Come leggenda Baselice ha sempre annoverato sin da tempi remoti “La scuola delle streghe” costituita da personaggi soprattutto femminili d’indubbia identificazione morale e sociale. Secondo la leggenda questa scuola aveva una figura carismatica, ‘Maria a Roscia’ di origine sanbartolomeana, una donna alta coi capelli rossi, canuti, arruffati attraversati da una forcina d’argento, con un foulard incrociato al petto, al collo una canacca d’oro e degli orecchini a cerchi d’oro, oltre ad uno spillone metallico dalle sembianze di serpente. Ne parla Jamalio «In questo paese si crede tanto nelle streghe ,che  ve n’è  persino  una scuola ,  formata con un corpo insegnanti  e di parecchie vegliarde, con a capo una direttrice, a nome Maria Rosaria la Sambartolomeare, da S. Bartolomeo in Galdo dove è nata; alla quale  scuola  vanno tutte le donne che  vogliono  iniziarsi  nell’  arte   delle stregonerie. S’intende  che  questa  scuola  è clandestina. All’ influsso malefico di tali streghe dal popolino  vengono attribuiti  tutt’i  guasti dei    bambini, per  guarire i  quali  gl’ infelici  parenti  si  rivolgono ad esse, che con certi  loro intrugli  ne  permettono  la guarigione. .Se questa avviene, allora tutto è pace e amore;  se no  odio eterno alle streghe». Quindi Jamalio riporta in nota il ritratto di Maria a’ Roscia, tracciato per lui da una “gentile persona” di S. Bartolomeo in Galdo. E, dopo il ritratto,  Jamalio aggiunse: «nel momento che questa pagina stava  per andare in macchina,  abbiamo  saputo che questa Maria Roscia  di  S.  Bartolomeo  in  Galdo  è  morta  da  non molto e che morendo desiderò  sul suo letto  una figura diabolica, mentre diceva di vedere intorno  a se  tante fiamme. Il ricordo di questa donna,  nata nella patria di Leonardo Bianchi è divenuta  popolare  per circa  mezzo  secolo  in tutto il territorio galdino  e morgantino, resterà vivo per un pezzo nelle cronache locali»  Per poter accedere alla scuola delle streghe era necessario giungervi nella notte tra il venerdì e il sabato, scivolando lungo i tetti delle case,  finché suoni melodiosi o odori acri attiravano il mal capitato, specie se particolarmente dotato di un certo “sesto senso”, verso il consesso delle streghe che insegnavano l’arte dell’incantamento alle giovani. Tale arte consisteva nel possedere diverse doti: da quella di riuscire a far abortire una giovane donna gravida, a quella di scatenare tempeste, fino alla capacità di far impazzire i bambini o provocare distruzioni di interi raccolti ed ancora la facoltà di trasformarsi e trasformare in animali. Ma le janare sapevano anche guarire dalle peggiori malattie. Ecco la simpatia o antipatia nei loro confronti a seconda dei servizi presumibilmente offerti. Tradizione legata sicuramente a quella beneventana che come risaputo risulta essere per antonomasia la città delle streghe con il suo famoso “Noce di Benevento”, singolare luogo tetro e misterioso in cui avvenivano periodicamente e di nottetempo raduni e balli di stregoneria. (Relazione conoscitiva su Baselice Beni Demoetnoantropologici di Pino Castellucci ) A tal proposito, il comune in questione, tra i fatti di cronaca vissuta annovera una storia particolare che vede protagonista una donna chiamata Coletta. Dalle cronache locali si racconta che ella negli anni ’30 del secolo scorso viveva a Baselice praticando l’attività di fattucchiera e di indovina. Pratica esercitata per un lungo periodo, tanto da divenire un riferimento locale ma, nello stesso tempo soggetto che incuteva timore e spavento tra la popolazione. In effetti, accade che un giorno un gruppetto di cittadini stanchi e ossessionati da questa figura istrionica decisero di eliminarla fisicamente. Per questo fu elaborarono un piano criminoso e violento. Un mattino in località “Ripa di Troia”, luogo caratterizzato dalla esistenza di una serie di grotte incavate nel tufo, la fattucchiera fu condotta – con un inganno – in una di queste grotte. Coletta convinta di dover svolgere la sua funzione di “strega” seguì senza indugiare i suoi assassini. Una volta nella grotta – quella più nascosta ad occhi indiscreti secondo le intenzioni degli assassini – il gruppetto di uomini decise di attuare il loro piano criminoso, fattosi coraggio, approfittando del fatto che la donna stesse per dare inizio ad un rito scaramantico, uno di loro infierì sulla malcapitata colpendola con un’ascia alla testa mentre gli altri si gettarono addosso con arnesi agresti sino ad ucciderla. Ad esecuzione avvenuta la donna venne scaraventata in un fosso e coperta con fascine e sterpaglie. In paese col passare dei giorni la popolazione si era convinta che la donna se ne fosse andata via spontaneamente e questo creava un certo senso di liberazione e di tranquillità sociale dato i tanti malumori che la donna aveva suscitato tra i cittadini del luogo. Pertanto si pensava che finalmente avesse abbandonata definitivamente Baselice, ma dopo alcune settimane grazie ad un cane da caccia che gironzolava nella zona, si scoprì la triste e macabra scoperta. Una serie d’indagini condusse alla scoperta dei colpevoli i quali furono costretti a scontare una pena detentiva. Così finì la storia della “strega Coletta” indicata soprattutto dalle donne di Baselice come colei che praticava fatture sui nascituri con conseguente malformazioni fisiche.  Fenomeno – secondo i racconti – che le partorienti subivano durante la gravidanza mediante, appunto, malefiche e pregiudiziali sentenze inferte sulle stesse anche attraverso un semplice sguardo. Riguardo alle  streghe, (Fiorangelo Morrone “Alta valle del Fortore Vita Tradizioni Riti Costumi”) queste erano le credenze  fortorine e baselicesi. Esse, oltre ad “incantare”  le messi o gli alberi, cioè a renderli  infruttiferi, avevano   il potere malefico di “guastare” i bambini. Entravano nelle case,”incantavano”  tutti   i componenti della famiglia, quindi accendevano un  fuoco e, dopo  aver posto su  di  esso  i piccoli, succhiavano loro il sangue, torcevano le gambe, le braccia  e così  di seguito. Per impedire quindi che le  streghe entrassero  in  casa, bisognava mettere dietro la porta o  la scopa (le streghe  erano costrette a contare tutti i fili di saggina della  scopa , ma, nel  tentativo di  verificare il numero esatto,  sbagliavano e mentre  ricominciavano daccapo,  passava la notte ); oppure una falce spezzata (le streghe  avrebbero dovuto conoscere quanti denti mancavano alla falce,  il che era impossibile); oppure un ferro d’asino (era ugualmente impossibile  che  le streghe conoscessero quanti passi avesse dato l’animale con quel ferro); o ancora della  crusca o un osso di cane nero sotto la soglia  della  porta. Le streghe non potevano entrare nelle camere nelle quali  si aveva cura,  ogni sera, di segnare gli angoli con un segno di croce, mormorando :«tronca e stronca », oppure nelle stanze con la volta a croce o in travi di ferro. Se si nominava una strega, bisognava subito aggiungere : «Fero e piombo nelle orecchie sue. oggi è sabato in casa mia» (di sabato le maliarde non potevano compiere malefici). Se si afferrava una strega per i capelli, alla domanda di lei :«cosa tieni in mano?» non bisognava rispondere :«capillè»  nel qual caso la maliarda sarebbe scappata via dicendo :«E jè me ne fujjè come n’ anguillè» bisognava rispondere  «ferro e acciaio».   In  tal modo la strega veniva trattenuta e  si   aveva la possibilità di farle del male. Se si riusciva a percuotere una strega, si poteva essere sicuri dai loro malefici  per sette generazioni. La strega percossa non poteva  esercitare più il  mestiere, ma aveva  la facoltà di comandare alle altre consorelle. Per compiere le loro malefiche azioni, le maliarde dovevano prima ungersi con un olio speciale, che veniva loro dato nei conciliaboli generali. Quindi si lanciavano nel vuoto,  pronunciando le rituali parole «sott’acqua e sotto a vento, sotto il noce di Benevento».  Nei loro viaggi andavano a cavallo di un animale diabolico dalla forma di un montone o di caprone –ormai avevano venduto l’ anima al diavolo!– ed erano scaraventate giù,  qualora provassero paura o invocassero qualche santo. Per non essere sorprese dalla luce del giorno nel mezzo delle  loro scorribande, si trasformavano in  serpi ed aspettavano così le nuove tenebre. Se qualcuno avesse colpito un serpe sotto le cui spoglie si celava una strega ,avrebbe ricevuto in sonno le percosse date. Nella mezzanotte di Natale, le streghe, dopo essere state a convegno, andavano a messa ,correndo però il rischio di essere riconosciute. Se difatti due uomini si  ponevano alla  porta di  entrata  con un mantello a ruota e con tutti gli arnesi  necessari alla mietitura –falce, cannelle, grembiale ecc. — nascosto sotto di esso, le streghe non potevano più muoversi senza essere riconosciute .Naturalmente i  due uomini  dovevano avere la pazienza di aspettare  fin dopo la messa di mezzo giorno allorché tutta la gente andava via: solo così veniva dato loro la  possibilità di conoscere le  maliarde che passavano. Anche altrove molte credenze nei riguardi delle streghe erano pressappoco simili, se non addirittura identiche ,a quelle da me riportate per la Valfortore.

Il testo è tratto 1°parte da una ricerca

 la 2°parte di Pino Castellucci e infine

la 3°dal libro di Fiorangelo Morrone

 

Alta valle del Fortore

vita tradizioni riti costumi

Le janare e la scuola delle stregheultima modifica: 2019-02-03T17:10:45+01:00da murganthia