Per un’ontologia della progettazione

Per un’ontologia della progettazione

Un confronto tra Teoria del progetto architettonico. Dai disegni agli effetti (Alessandro Armando e Giovanni Durbiano) e Five ways to make architecture political. An Introduction to the Politics of Design Practice (Albena Yaneva)

Tecla, raccontata da Italo Calvino nelle Città invisibili, è una città in continua costruzione, in perenne evoluzione, in costante divenire. Questa trasformazione è per definizione la politica, che attraverso l’azione, confrontandosi con il reale, modifica il mondo. L’azione progettuale – come scrive Maurizio Ferraris nella prefazione al libro di Alessandro Armando e Giovanni Durbiano – consiste in un ciclo che può essere schematizzato in «Mondo – Disegno – Mondo, da un mondo, sociale e naturale, a un disegno, attraverso difficoltà raffigurative di vario tipo, e di qui, attraverso difficoltà attuative di vario tipo, al mondo sociale e naturale». Sotto questo profilo la progettazione può essere interpretata come una politica che produce degli effetti significativi sulla vita pubblica.

Molto spesso i contenuti dei libri sono celati nei sottotitoli. Non fanno eccezione le due opere messe a confronto: Teoria del progetto architettonico. Dai disegni agli effetti di Alessandro Armando e Giovanni Durbiano (professori al Politecnico di Torino) e Five ways to make architecture political. An Introduction to the Politics of Design Practice di Albena Yaneva (docente all’Università di Manchester).

Entrambi i testi presentano una forte base ontologica e un approccio multidisciplinare: il primo più vicino alla filosofia, mentre il secondo fa ricorso soprattutto alle teorie etnografiche. Il libro di Armando e Durbiano ha il grande pregio di rendere argomentabile il processo progettuale attraverso la descrizione di un’ontologia del progetto di architettura concentrandosi sull’oggetto/progetto – mettendo in secondo ordine il tradizionale punto di vista soggetto/autore – e offrendo gli strumenti operativi per orientarsi nel campo raffigurato alla luce di una riformulazione della definizione di valore del progetto. La teoria individua il progetto come conoscenza scientifica, su base documentale, la cui verità consiste nell’efficacia dei risultati e quindi negli effetti prodotti. Il valore progettuale non è quello dell’architettura che ne consegue ma nella costruzione del valore stesso nello scambio. Questa distinzione fra architettura e progetto non emerge in maniera così chiara, invece, nel libro di Yaneva che esemplifica gli effetti sociali del costruito. Le 5 modalità per cui l’architettura assume connotazioni politiche si possono riassumere nella connessioni fra oggetti sociali e artefatti, nel lavoro di sperimentazione quotidiano di progettisti e costruttori, nelle molteplici realtà della città, nella ricerca di siti dove vi sia volontà di rinnovamento e infine, attraverso la promozione, la partecipazione e l’impegno dei soggetti.

Pur partendo dalla stesso presupposto costruttivista ANT (Actor-Network-Theory) i primi creano una nuova teoria della progettazione attraverso una ricerca intorno al progetto a partire dalle sue caratteristiche di oggetto sociale, mentre la seconda utilizza tutte le dicotomie care a Bruno Latour quali natura/cultura, materialità/significato e soggetto/oggetto per un’introduzione alla politica della progettazione pratica. Le strutture dei libri sono profondamente diverse, come è differente anche l’impostazione teorica. Quello di Armando e Durbiano fornisce uno strumento generale analitico e verificabile, costruito con metodo deduttivo attraverso un confronto costante con l’ontologia sociale. Il testo di Yaneva, viceversa, si basa su casi-studio che creano un panorama dei rapporti fra architettura e politica letti attraverso una specifica lente concentrata sugli oggetti, sulle pratiche progettuali, sugli esperimenti progettuali, su siti particolari, sugli spazi urbani e sulla città. Questi due differenti modi di declinare la materia progettuale rinvigoriscono il dibattito sugli effetti del progetto e dell’architettura attraverso un approccio che indaga i confini e il contenuto dell’universo di discorso della progettazione architettonica. Il modo di procedere di Armando e Durbiano porta verso una ricerca ontologica progettuale e architettonica che oltre ad avere risvolti positivi sul piano dell’analisi, della categorizzazione e dell’organizzazione concettuale, cancella i presupposti teleologici del progetto inserendo l’imprevedibilità del futuro. Yaneva sostiene che la politica non è al di fuori degli edifici ma, al contrario, essa è proiettata nelle forme architettoniche, è incarnata nella struttura degli artefatti ed è impressa nelle città. Se è così, per rispondere alle domande che si pone l’autrice – sull’utilità sociale del progetto o sul controllo sociale da parte dell’architettura – abbiamo bisogno di una teoria potente che tenga conto di assetti valoriali, come quella suggerita da Armando e Durbiano, in grado di fornirci un modello operativo capace di individuare nuove strategie «per proporre iscrizioni con implicazioni più controllate, narrazioni con argomentazioni più convincenti e coesive e promesse progettuali più misurate nell’azzardo».

Immagine di copertina tratta dal libro di Alessandro Armando e Giovanni Durbiano

 


Alessandro Armando e Giovanni Durbiano, Teoria del progetto architettonico. Dai disegni agli effetti, Carocci editore, Roma, 2017, 528 pagine, € 44

 


Albena Yaneva, Five ways to make architecture political. An Introduction to the Politics of Design Practice, Bloomsbury Publishing, Londra, 2017, 200 pagine, € 23,32

 

 

 

 

 

Nel fronteggiare i cambiamenti climatici le città siano in prima linea

Nel fronteggiare i cambiamenti climatici le città siano in prima linea

Riflessioni a margine del fallimentare vertice G7 Energia del 9 e 10 aprile a Roma, in relazione ai modelli di pianificazione

 

Gli Stati si stanno dimostrando inadeguati per il governo dell’ambiente; il fallimento del vertice di Roma è sintomatico. Il G7 Energia si è concluso con il rifiuto da parte degli USA di siglare una dichiarazione che contenesse un riferimento alla Cop 21 di Parigi e di conseguenza la possibile transizione accelerata verso fonti energetiche rinnovabili è stata abbandonata. L’Istituzione statale evidenzia difficoltà nel controllo puntuale del territorio e di conseguenza risulta poco efficace nel far rispettare in maniera capillare gli accordi assunti a livello internazionale.

Una soluzione a questo problema potrebbero essere le città che, diventando protagoniste e responsabili insieme ai propri cittadini, avrebbero l’opportunità di perseguire direttamente gli obiettivi ambientali. Sono i dati che ci suggeriscono questa proposta. Le aree urbane infatti coprono il 2% della superficie terrestre, ospitano più del 50% della popolazione mondiale, consumano il 75% dell’energia prodotta e sono responsabili dell’80% della CO2 emessa in atmosfera. Alla futura centralità delle città fa riferimento anche l’ONU che con l’Obiettivo 11 dell’Agenda 2030 auspica che le stesse diventino inclusive, sicure, durature e sostenibili.

Non dimentichiamo che in questo momento 828 milioni di persone vivono in baraccopoli e il loro numero è in continuo aumento. Ogni quattro giorni la popolazione mondiale cresce di un milione di unità e la maggioranza dei nuovi arrivati viene ospitata nei confini urbani; inoltre, buona parte dei 21,3 milioni di rifugiati viene accolta nelle aree urbane. Questo fenomeno di migrazione è composto, per un’alta percentuale, dai rifugiati climatici. Le migrazioni ambientali sono superiori a quelle politiche e la previsione di aumento fra il 2020 e il 2050 è esponenziale.

Non possiamo concentrarci solo sulla città “occidentale”; i problemi infatti appartengono a tutti gli insediamenti umani del pianeta. Ne sono esempi paradigmatici la “città” di Dadaab (Kenya; immagine di copertina) il più grande agglomerato di rifugiati nel mondo che ospita 250.000 abitanti (nata come insediamento temporaneo nel 1991 in alcuni periodi ha ospitato fino a 600.000 persone); nonchè Lagos(Nigeria), che sarà la città a crescere di più al mondo con un incremento di 13 milioni fra il 2013 e il 2030.

Le città sono quindi chiamate a tre azioni dalle quali dipendono le sorti del pianeta: l’abbattimento dell’inquinamento, la capacità di accogliere la migrazione e la riduzione dei rischi di disastri ambientali. Il clima è caratterizzato da condizioni di asimmetria, indeterminatezza e complessità; più che un riscaldamento globale, i big data ci indicano, oltre a una maggiore incertezza meteorologica, un aumento di fenomeni meteorologici estremi. Entro il 2020 l’ONU invita ad aumentare considerevolmente il numero di città e insediamenti umani attraverso politiche e piani tesi all’inclusione, all’efficienza delle risorse, alla mitigazione, all’adattamento alle fluttuazioni climatiche e alla resistenza alle calamità naturali.

Il problema principale che abbiamo di fronte consiste nella scelta del modello di pianificazione.Una possibile risposta si fonda sullo spostamento della responsabilità dallo Stato alle reti di cittàsecondo il concetto ontopologico dell’appartenenza al luogo (descritto da Jacques Derrida), prevedendo anche il “rammendo” delle periferie dove, grazie ai mezzi attuali di comunicazione, possiamo condividere lo stesso tempo senza condividerne lo spazio e dove soprattutto il fenomeno dell’emigrazione è maggiormente presente. È necessario, inoltre, ridiscutere progettualmente alcune coppie concettuali, individuate da Gilles Deleuse e Fèlix Guattari, territorializzazione/deterriolizzazione, albero/rizoma, spazio liscio/spazio striato, non come opposizioni ma come trasmutazioni. Il binomio albero/rizoma diventa particolarmente interessante se lo interpretiamo secondo i recenti studi botanici dai quali emerge una condotta stigmergica da parte delle radici alla stregua dei comportamenti eusociali e della comunicazione via internet.

Una città open source dove i dati ambientali sono noti e nella quale i cittadini contribuiscano a ricercarli è possibile con un’app per smartphone. L’applicazione è stata sperimentata già nel 2008 a Copenaghen dal Senseable city lab del MIT di Boston, diretto dal torinese Carlo Ratti, ed è in grado di raccogliere dati di inquinamento, in maniera diffusa e costante, e di inviarli a un server permettendone la disponibilità in tempo reale.

L’utilizzo dei big data, l’approccio evolutivo, la considerazione dell’oggetto città come realtà rizomatica (sviluppo reticolare agerarchico rispetto a una molteplicità di direzioni), l’adozione del metodo bottom-up e una progettazione open source potranno agevolare, rispetto ai metodi tradizionali, una pianificazione degli insediamenti umani più vicina agli obiettivi previsti dell’Agenda ONU 2030, coinvolgendo in maniera diretta i cittadini che hanno a cuore le sorti del nostro pianeta.

Nephèlai vs Nubes. Nuvole tra le città e il cielo

Nephèlai vs Nubes. Nuvole tra le città e il cielo

Una riflessione a posteriori sulle analogie tra il Centro congressi dell’EUR firmato da Studio Fuksas e la commedia Le nuvole di Aristofane

 

Le vicende storiche non sono mai paragonabili, non si possono derivare logicamente fatti attuali da situazioni passate, tuttavia a volte alcuni eventi contemporanei rimandano a episodi di epoche lontane. In quest’ottica si può fare un tentativo di accostare la recente opera di Massimiliano Fuksas “la Nuvola” (Nubes in latino) con la commedia Le nuvole (in greco Nephèlai) di Aristofane. Le attinenze vanno al di là della denominazione del centro congressi dell’EUR che rimanda al titolo dell’opera teatrale greca. Le nuvole invitano a volgere lo sguardo verso il cielo, al mondo dell’immaginazione e delle idee, ma inducono anche a guardare ai limiti morali dell’essere umano. Esse permettono la dialettica fra il Discorso Migliore (la tradizione) e il Discorso Peggiore (la sofistica). L’opera teatrale possiede valori interpretativi che attengono all’uso polisemico di molti termini e più in generale si fonda sul principio che il linguaggio non abbia come unico fine l’enunciazione della conoscenza ma anche la persuasione. Molti di questi aspetti valgono anche per la Nuvola romana. Il dialogo con la preesistenza e le diverse possibili esegesi del linguaggio architettonico forniscono allo spettatore le chiavi interpretative dell’opera.

Il complesso è formato da tre elementi: la Nuvola (un “telo” di fibra di vetro siliconata), la Lama (la struttura alberghiera) e la Teca (il contenitore parallelepipedo di acciaio e vetro). Come spesso accade per le opere architettoniche l’opinione pubblica e gli esperti si sono divisi sulle valutazioni estetiche e qualitative. Si passa infatti dal parere di Matteo Renzi che ha definito l’edificio “bellissimo”, al giudizio di Aldo Grasso che ritiene la struttura “di rara bruttezza, inutilmente monumentale”, all’opinione di Vittorio Sgarbi che ha classificato il complesso come un “monumento funebre”. Anche la composizione architettonica della Nuvola sembra assumere più significati. Il progettista definisce la trasparenza come un riferimento al barocco e al razionalismo. Non sembra essere la trasparenza ma piuttosto, da una parte, la composizione rigidamente parallelepipeda della Teca a riprendere il canone piacentiniano del quartiere, e dall’altra, le forme curvilinee della Nuvola che richiamano gli aspetti tipici del barocco romano. Il “buon tempo antico”, a cui fa riferimento il Discorso Migliore in relazione alla storia di Atene, non può essere individuato, per quanto riguarda la Nuvola, nel classicismo semplificato del Palazzo della Civiltà italiana, come afferma Grasso.

I differenti convincimenti sulle qualità estetiche e architettoniche sono comprensibili e perfettamente legittimi in quanto si rimane in quell’ambito dove la doxa ha la meglio rispetto all’episteme. Quanto ai costi, al di là delle eterogenee dichiarazioni, è stata messa la parola fine a seguito della certificazione da parte della società di revisione contabile Kpmg che, nella relazione finanziaria semestrale al 30 giugno 2016 del gruppo EUR, ha fissato in 353 milioni i costi di realizzazione dell’opera, come comunicato dall’ad dell’EUR Enrico Pazzali a novembre scorso.

Nella commedia di Aristofane il fattore tempo è centrale. Il togliere la luna dal cielo per fermare il tempo (il calendario greco era lunare) è una delle strategie che il protagonista Strepsiade vuole mettere in atto. L’inquietudine legata al trascorrere del tempo ciclico è potuta solo aumentare con la concezione lineare tipica del cristianesimo e poi del capitalismo. Per un’opera architettonica, soprattutto quando si erge a simbolo, i tempi di realizzazione devono essere contenuti in modo da poter rappresentare correttamente la contemporaneità. Sotto questo profilo il compimento della maggiore età del centro congressuale prima dell’apertura, come molti non hanno mancato di sottolineare, non è certo un segno positivo.

In tutti i casi, adesso che la struttura è completata, diventa urgente e indispensabile usarla. Dalla cerimonia d’inaugurazione, intitolata “Tra Roma e il cielo” (da qui la parafrasi del titolo di quest’articolo), del 29 ottobre 2016 il centro congressi è stato aperto al pubblico per quattro giorni. La preclusione al pubblico solleva qualche perplessità, anche se il centro congressi ha la vocazione BtoB (sono già stati effettuati 8 eventi business). Al riguardo EUR SpA fa sapere che si sta impegnando a portare congressi internazionali nel corso dei prossimi anni, come per esempio l’IBA, il convegno mondiale degli avvocati nel 2018 (attesi 6.500 delegati) e sta valutando l’opportunità di alcuni eventi aperti al pubblico, cittadini, turisti, appassionati di architettura. Dal momento che, a proposito dell’utilizzo lo stesso Fuksas ha ammonito che la struttura “senza la vita, in due anni si degraderebbe”. L’architettura è tale solo se viene in primis realizzata e poi vissuta; in questo caso l’impiego assume ancora più importanza dato che deve consentire un cospicuo ritorno economico.

I sofisti contro cui si scaglia Aristofane sono accusati di deformare la verità attraverso il lógos, ma sono stati anche capaci di sostenere che il lógos più forte non è sempre quello giusto e, soprattutto, hanno contribuito alla creazione dell’eubolìa(la retta deliberazione), in stretta relazione con l’educazione al governo della città. La lezione dei sofisti può contribuire anche all’approccio architettonico se si tiene conto della famosa tesi di Protagora secondo la quale “l’uomo è misura di tutte le cose” che rimanda al “modulor” di Le Corbusier troppo spesso dimenticato nell’architettura contemporanea. Gli interrogativi e i dubbi che avvolgono quest’opera architettonica sono stati posti in maniera maieutica nella consapevolezza che le opere letterarie, teatrali e architettoniche posseggano vari livelli di lettura e ricordando che la prima rappresentazione de Le nuvole fu un fiasco in quanto Aristofane, molto probabilmente, sopravvalutò l’intelligenza del pubblico.

Come Le nuvole di Aristofane forniscono uno scenario della polis, la Nuvola di Fuksas mette in evidenza la civitas romana contemporanea. Questa lettura parallela, seppur di due opere eterogenee, mette in evidenza che un tempo il lógos esprimeva il volto del divino rivelato agli uomini, ora invece la narrazione architettonica pretende troppo spesso di assurgere a ruolo di demiurgo.

Il brivido di Gaia. Sui terremoti

Il brivido di Gaia. Sui terremoti

Le riflessioni di Kant e altri sul grande sisma che sconvolse Lisbona nel 1755 non ci hanno insegnato nulla…

 

Comincerò dalla storia dell’ultimo terremoto. Non intendo riportare la cronaca delle sofferenze che esso ha inflitto agli uomini, né fornire l’elenco delle città rase al suolo o degli abitanti sepolti sotto le macerie. Bisognerebbe mettere assieme tutto ciò che l’immaginazione può rappresentarsi di terribile per riuscire a farsi un’idea approssimativa dello sgomento che coglie gli uomini quando la terra sotto i loro piedi si muove, quando tutto crolla loro intorno, quando le acque sconvolte sin negli abissi completano la sciagura con le inondazioni, quando la paura della morte, la disperazione per la perdita completa di tutti i beni, e infine la vista di altri infelici abbattono anche gli animi dei più coraggiosi”. Con queste parole Immanuel Kant (Storia e descrizione naturale degli straordinari eventi del terremoto che alla fine del 1755 ha scosso gran parte della terra, 1756) descrive le “sorprendenti circostanze naturali che hanno accompagnato il terribile evento” del terremoto di Lisbona del 1° novembre 1755, dalle quali si coglie l’universalità del dolore, dello sgomento e dell’assoluta incertezza che si vede impressa sui volti dei sopravvissuti al terremoto del 24 agosto 2016 del centro Italia.

La drammaticità di questi eventi non cambia con il passare dei secoli. Lo si scorge nelle immagini televisive in diretta da Amatrice come nei dipinti e nei disegni del Settecento di Lisbona. Così come non si è modificato, in duecentocinquant’anni, l’atteggiamento dello spettatore che, come già Lucrezio evidenziava ne La natura, non consiste nell’essere lieti dello spettacolo, ma nella tranquillità di non esserne coinvolti. La differenza fra le due tragedie è stata la velocità del propagarsi della notizia che all’epoca mise venti giorni per arrivare a Parigi e un mese e mezzo per giungere fino alla lontanissima Königsberg di Kant.

Malgrado la lentezza della diffusione delle informazioni, il terremoto di Lisbona è la prima catastrofe naturale ad assumere le connotazione di un evento globale. I maggiori intellettuali dell’epoca si sono espressi e hanno dato vita ad aspre polemiche morali e dispute scientifiche sulle ragioni e sulle conseguenze dell’evento. Il disastro di Lisbona segna profondamente il pensiero di Voltaire, contribuisce ad attenuare l’ottimismo di Rousseau e consolida l’approccio illuminista di Kant. La ricerca per dare una spiegazione all’evento porta a un profondo cambio di paradigma, inducendo ad individuare la ragione delle sofferenze nell’azione edificatoria dell’uomo e non nel suo atteggiamento morale negativo; con la conseguenza di guardare all’ambiente naturale, a cui l’essere umano risulta indifferente, con curiosità scientifica. Questa insensibilità da parte della natura verso l’uomo, settant’anni più tardi, viene evocata con forza da Leopardi nel Dialogo fra la Natura e un islandese, dove la Natura dopo aver chiarito che è un’illusione il pensare il mondo come una creatura per l’uomo afferma: “Finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvederei” (Operette morali).

Con il terremoto di Lisbona hanno avuto inizio due processi di rilevanza storica: il primo individuabile nel lungo crepuscolo della scienza antica; il secondo, non ancora concluso, consistente nel lento allontanamento dall’antropocentrismo. Kant, in uno dei suoi scritti sul terremoto, si pone il problema della necessità dei terremoti e dell’opportunità della costruzione di lussuosi palazzi, concludendo che “è l’uomo a doversi adattare alla natura, mentre egli pretenderebbe che avvenisse il contrario”. Questa presa di coscienza è ribadita anche da Rousseau (Lettera a Voltaire sul disastro di Lisbona, 1756) quando evidenzia le responsabilità dell’uomo per costruzioni inadeguate situate in luoghi a rischio e con organizzazioni urbanistiche che amplificano gli effetti del sisma. Le prese di posizione dei maggiori intellettuali del Settecento possono apparire banali constatazioni se non inserite nel contesto delle conoscenze scientifiche e delle convinzioni diffuse dell’epoca. L’approccio razionale al terremoto di Lisbona ha contribuito a diffondere lo sguardo sul mondo attraverso gli occhi della scienza; sguardo che invece fino ad allora si era basato, quasi esclusivamente, su credenze ed opinioni.

Risulta del tutto incomprensibile per quali ragioni le analisi degli effetti del terremoto, iniziate in epoca illuminista, non siano state considerate, nella loro totalità, nelle ricostruzioni neanche in ambito contemporaneo. Sembra persistere nell’uomo un ostinato fatalismo che gli nega l’importanza dell’esperienza. L’atteggiamento legato alle catastrofi che viene assunto in Italia è ancora quello denunciato da Kant, due secoli e mezzo fa, che consiste nell’essere “incuranti del destino che magari presto potrà abbattersi anche su di noi, ci abbandoniamo alla compassione piuttosto che alla paura quando apprendiamo della devastazione che ha causato vicino a noi quella stessa rovina che se ne sta celata in agguato anche sotto i nostri piedi” (Sulle cause dei terremoti in occasione della sciagura che ha colpito le terre occidentali d’Europa verso la fine dell’anno trascorso, 1756).

L’atteggiamento superstizioso di fronte agli eventi naturali che ha caratterizzato il passato, oggi è stato sostituito da un pessimismo ambientale, da una visione negativa del territorio e soprattutto dall’aspra polemica accusatoria – alimentata da mass media e social network – volta dalla ricerca di un capro espiatorio. Individuare il giusto approccio a queste tragedie non è possibile; tuttavia vi sono ambiti, apparentemente molto marginali, ai quali si può fare riferimento. È il caso del significato delle parole, che oltre ad essere importante a livello di toponomastica (spesso evidenzia il rischio di alcuni luoghi) può suggerire possibili soluzioni percorribili. La parola catastrofe è formata dall’etimo strépho il cui significato è anche quello di “girare”, “cambiare direzione”. Questa interpretazione induce a identificare il lemma non con il significato di fine intesa come annientamento ma nel senso di trasformazione, riadattamento.

L’occasione del cambiamento è data dalla ricostruzione a condizione che quest’ultima risulti il più possibile rapida e sostenibile a livello sia ambientale sia di costi. Una soluzione possibile la suggerisce ancora una volta Kant quando, nel medesimo scritto di cui sopra, a proposito del Perù e del Cile che sono fra i paesi al mondo più colpiti dai sismi, egli osserva “come, in quei luoghi, si segua la precauzione di costruire case a non più di due piani di cui solo quello inferiore in muratura, mentre quello superiore fatto di canna e legno leggero per non crollare sotto l’urto delle scosse”.

Kant non lo poteva sapere, ma le strutture in legno possono elevarsi fino a sette piani in assoluta sicurezza sismica, come è stato dimostrato da una tecnica nata in Germania e perfezionata in Italia, grazie alla collaborazione tra l’Istituto per la Valorizzazione del Legno e delle Specie Arboree del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr-Ivalsa) e la Provincia Autonoma di Trento. L’utilizzo del legno come materiale principale per la ricostruzione, oltre a garantire le caratteristiche di resistenza rispetto alle forze sismiche, potrebbe aprire interessanti prospettive economiche a livello locale legate alla selvicoltura.

È auspicabile che come il terremoto di Lisbona abbia risvegliato le coscienze e abbia contribuito all’”uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso” (Kant, Risposta alla domanda. Che cos’è illuminismo, 1784), i terremoti che si sono susseguiti in Italia recentemente inducano a cambiare prospettiva individuando la prevenzione e la pianificazione a medio e lungo terminequali principali linee d’intervento. Il passaggio dallo stato di costante emergenza alla programmazione potrà permettere d’investire sulla prevenzione anziché sulla ricostruzione. Si tratta, per il Paese, di una vera opportunità di attuare la rivoluzione copernicana di kantiana memoria.