Z

Z [s.f.] Ventunesima e ultima lettera dell’alfabeto mesorachese, corrispondente alla venticinquesima di quello latino derivata dalla zeta dell’alfabeto greco, che nella forma maiuscola ha lo stesso segno Z; la forma greca della Z era molto simile a quella del simbolo fenicio I. Nella scrittura corrente, la z rappresenta in italiano e mesorachese due diversi fonemi, che in questo vocabolario sono distinti con i segni z e ż; sono due fonemi che hanno in comune il punto e il modo dell’articolazione, essendo tutt’e due affricati: il primo (detto z sorda o aspra o dura) pronunciato senza vibrazione delle corde vocali (per es. Maurizio); il secondo (z sonora o dolce) con le corde vocali in vibrazione (per es. Muriżżu) (VT).

Za [s.f.] Sincope di ‘zia’, es.: za Rosa ‘zia Rosa’; il termine, insieme al maschile zu, è anche adoperato, come forma di rispetto, quando ci si rivolge a persone anziane, inoltre, è usato anche nei confronti della madrina al posto, o in alternativa, di cummari (comare), a meno che quest’ultima non sia abbastanza giovane rispetto alla cresimanda; guarda anche zi e zu.

Zaccagnàta [s.f.] Coltellata, stilettata, più precisamente, nel gergo della malavita, taglio verticale nell’addome inferto ad un traditore (CFA).

Zaccàgnu [s.m.] Coltello, lama.

Zaccarèdda [s.f.] Scoiattolo calabrese, specie endemica, identificabile per il caratteristico manto nero e molto diffusa in Sila, conosciuta scientificamente col nome di Sciurus meridionalis Lucifero; dato che tale specie vive praticamente solo in Calabria, sarebbe più corretto cambiare il nome in Sciurus calabrensis.

Zaccuràfa [s.f.] Grosso ago lungo fino a 30 cm, usato per cucire grosse stoffe o teloni; un tempo, per gli stessi scopi, veniva usata anche la punta spinosa dell’agave (Agave americana L.).

Żachìecu [s.m.] Vecchio, bisnonno, femminile żacheca.

ddaru [s.m.] Pezzo di merda, escremento solido umano o animale, esempi: ha fattu nu zaddaru c’ha mmuddatu u bagnu e tantu ch’era gruessu! ‘ha fatto una massa fecale cilindrica che ha ostruito il bagno da tanto ch’era grosso!’, nu zaddaru e cane ‘uno stronzo di cane’ (un pezzo di cacca solida di cane); la parola può essere usata come epiteto ingiurioso, ma non c’è il pieno significato figurato presente nell’italiano ‘stronzo’, il termine equivalente pisciaturu è semanticamente molto vicino.

Zaddarùsu [agg. s.m.] Merdoso, riprovevole, senza lode.

Żagàrda [agg.] Sudiciona, malvestita, incivile.

Żagarédda [s.f.] Nastro, fettuccia, striscia di stoffa colorata e per estensione cianfrusaglia.

Zài [inter.] Insieme a zaa, zan, zain e zanifò viene usato per allontanare i cani quando infastidiscono.

Żàina [s.f.] 1 Sega, pugnetta, masturbazione maschile, es.: nne vidi zaine sa jumara jumara ‘ne vedi di seghe questo fiume fiume’ (si vedono un sacco di ragazzi che si fanno le seghe lungo il fiume). 2 Conformazione delle giacche dei cacciatori, ove vengono riposti gli uccelli uccisi.

Zàmmaru [agg.] Persona grossolana e dozzinale, un vero zotico, variante poco usata zàmparu; nel gioco del calcio indica un giocatore molto falloso, da cui zammarusu ‘falloso’.

Zampalìa [s.f.] Zanzara, parola non molto adoperata.

Zampillu [s.m.] Zampillo, ovvero fontana, in particolare il tipo di fontana che c’era negli anni addietro in piazza De Grazia, costituiva anche punto di riferimento, es.: ne vidimu aru zampillu ‘ci vediamo alla fontana’ (di piazza De grazia); la zeta può essere pronunciata anche sonora.

Zampògnaru [s.m.] Suonatore di zampogna, zampognaro; vi è usanza, da parte di alcuni pastori, di suonarla la sera di Natale, ma non è raro sentirlo anche durante tutto il periodo natalizio.

Zampognaru

Zancàru [s.m.] Fanghiglia, melma, pozzanghera, pantano.

Zancu [s.m.] Fango, mota, limo, melma, poltiglia, esempi: gira cchjù ddà ca cc’é chjinu e zanchi ‘gira più in là che c’è pieno di fango’, c’hai e scarpe lorde e zanchi ‘hai le scarpe sporche di melma’, (loc.) quannu chjova e nnu ffa zanchi ‘quando piove e non fa fango’ (metafora per qualcosa che succede raramente o non succede mai).

Zannùtu [agg.] Persona con denti grandi e sporgenti. 

Zanzìfaru [s.m.] Il nome indica sia il frutto della palma da dattero (Phoenix dactylifera L.) che il frutto del giuggiolo (Zizyphus sativa Mill.); allo stesso tempo, può indicare anche un peperoncino di piccole dimensioni, o ancora, scherzosamente, un pene sottomisura.

Zappuliàre [v.tr.] Zappettare, zappare senza troppa fatica o intensità, variante zappuniàre.

Zappùdda [s.f.] Piccola zappa.

Zappùne [s.m.] Zappa, zappone; a volte con lo stesso termine vengono indicate le unghie delle mani di uomini o ragazzi lasciate crescere troppo; guarda anche marugiu.

Żaràffa [s.f.] Piccola truffa, accordo sottobanco.

Żaraffu [s.m.] Intermediario, faccendiere, mezzo imbroglione; nel gergo malavitoso indica ‘persona non di fiducia, spia, sbirro’.

Żena [s.f.] Briga, litigio, esempi: le sta faciennu e żene ‘gli sta facendo storie’ (gliene sta facendo di tutti i colori, impazzire), (lap.) te vorre cunzumare cuemu e cannile e żena ‘possa vederti consumare come le candele di żena’ (da notare che żena è anche voce dialettale del nome Genova).

Żeru [agg.num.card.] Il numero zero, es.: żeru tituli ‘zero titoli’.

Żetterìnu [s.m.] Gelato al gusto di vaniglia e cacao racchiuso tra due larghi biscotti.

Zi [s.f.inv.] Apocope di zia o zio (zi’), il termine è adoperato in forma non sempre colloquiale, in presenza della zia/o in questione e senza aggiungere il nome, esempi: zi’, mi nne vaju ‘zio (o zia) me ne vado’, zi’ t’a vidi a partita? ‘zio te la vedi la partita?’; guarda anche zizì.

Ziàna [s.f.] Zia, maschile zianu, il termine è usato solo per descrivere il tipo di parentela che intercorre tra due persone, esempi: m’è ziana ‘mi è zia’ (mi viene zia), li l’aju dittu aru zianu e Mimmu ‘gliel’ho detto allo zio di Mimmo’; ne derivano ziànimma (o ziànamma) ‘mia zia’ (maschile zianumma), ziànatta ‘tua zia’ (maschile ziànutta).

Ziarèdda [s.f.] Zietta, la zia sorella della nonna, ziarìeddu ‘zietto’; il termine è usato anche in forma colloquiale (e scherzosa).

Zibbìbbu [agg.] Zibibbo, varietà di uva bianca, variante zibbìccu.

Żicarrètta [s.f.] Colpetto dato sulla testa di qualcuno usando, in genere, il dito indice o medio, facendo leva col pollice, è un genere di piccola punizione tra i ragazzi; la zeta può essere pronunciata sia in maniera sonora che sorda.

Zicca [s.f.] 1 Zecca, sotto questo nome confluiscono diverse specie di acari che si nutrono di sangue; guarda anche ervalura. 2 Avaro, spilorcio.

Ziccùsu [agg.] Persona tirata, pidocchiosa.

Zichi [inter.] 1 Ripetuto due volte zichi zichi, accompagna l’atto del fare il solletico, specie nei bambini quando si vuole farli ridere. 2 [s.m.] Piccola o molto piccola quantità di qualcosa, es.: nu zichi zichi e sale ‘un pizzichino di sale’.

Żìchiti [inter.] Lo scricchiolio che provocano su alcuni pavimenti le scarpe nuove.

Ziddicàre [v.tr.] Fare il solletico, stuzzicare, di rado è usato anche nella accezione troglodita di solleticare una ragazza proprio lì, ovvero di trombarla, es.: ziddicalilu ‘solleticaglielo’ (scopala).

Zìernu [s.m.] Recinto per la raccolta dello sterco degli ovini.

Żigożàgo [s.m.inv.] Variante mesorachese dell’italiano zig-zag, ossia fare dei cambiamenti di direzioni formando angoli simili alla lettera zeta; in sartoria indica il sopraffilo condotto a macchina. 

Zìgulu [s.m.] Zigolo, Emberiza hortulana L. e Emberiza citrinella L. le due specie più diffuse.

Zilàre [v.intr.pron.] Si potrebbe tradurre con ‘diarreare’, defecare in forma fluida; il verbo è molto usato anche in senso figurato ed ha il significato di avere fifa, paura, farsela nei pantaloni, es.: t’a zili ‘te la caghi’ (ti caghi sotto, hai paura).

Zilarèdda [s.f.] Diarrea, sciolta, cacarella, e in senso figurato fifa, paura.

Zilàta [s.f.] L’atto del fare la diarrea, gli escrementi fluidi prodotti, es.: u tti nne manciare assai ca pue te zili ‘non mangiartene molti che poi vai di sciolta’. 

Zìmma [s.f.] Letamaio, porcilaia.

Zìmmaru [s.m.] 1 Il maschio della capra, caprone, Capra hircus L. [agg.]  2 Persona tamarra et zotica assai.

Zimmùne [s.m.] Porcile, porcilaia.

Zingariàre [v.intr.] Alla lettera ‘zingareggiare’, ossia comportarsi come uno zingaro, ovvero (come pregiudizio vuole) cercare di truffare o frodare la gente, vestirsi in maniera pacchiana o vistosa, avere comportamenti abbastanza liberi da schemi convenzionali.

Żinìrcu [agg.] Taccagno, spilorcio, tirchio. 

Żinna [s.f.] 1 Spigolo, orlo, sponda. 2 Taglio del coltello, qualsiasi oggetto che abbia margini taglienti.

Zinzulàru [s.m.] Venditore di zìnzuli, straccivendolo; nel mercato si presenta con delle bancarelle stracolme o con dei grossi teloni stesi a terra dove sono presenti grossi cumuli di vestiti di poco conto e dal costo molto basso.

Zinzuliàre [v.tr.] 1 Trattare qualcuno o qualcosa come un cencio, un zinzulu appunto, es.: m’ha trattatu cumu nu zinzulu, u ru vaju a truvare cchjù! ‘mi ha trattato come uno straccio, non lo vado più a trovare!’. 2 Sbattere un tessuto o vestito per spolverarlo, es.: u misale zinzulialu cchjù ddà ‘la tovaglia sbattila più (in) là’. 3 Lanciare con impeto qualcosa o qualcuno, es.: piate su motorinu o tu zinzuliu intr’a jumara ‘prenditi questo motorino o te lo scaravento dentro al fiume’.

Zìnzulu [s.m.] Vestito molto poco costoso comprato al mercato dal zinzulàru; talvolta è sinonimo di cencio o di vestito ormai troppo vecchio e logoro per essere usato ancora e quindi al massimo buono da adoperare come straccio; ne deriva zinzulùne ‘grosso straccio’ e l’aggettivo zinzulùsu ‘cencioso’, ‘da straccione’.

Zippa [s.f.] Tacca, stecco.

Żippi [s.m.] Parola onomatopeica usata per descrivere lo sfiorarsi tra due oggetti, di solito uno fermo e l’altro a grande velocità, il termine, ormai poco usato, trovava largo impiego nel gioco jucare a babbi ossia quando un pupazzetto veniva lanciato per colpirne un altro e quest’ultimo era sfiorato, es.: chi żippi chi l’aju fattu! ‘che sfioramento che gli ho fatto!’ (l’ho mancato per pochissimo); variante żippu; guarda anche babbu.

Zippulìddu [s.m. agg.] Bambinetto, moccioso e per estensione persona bassa di statura o piccola d’età.

Żirgùne [s.m.] Grosso cesto di dimensioni medio-grandi somigliante allo spurtune, ma più piccolo, adoperato per trasportare formaggi o conservare altri alimenti.

Żirra [s.f.] Irrequietezza, bizza.

Żirru [s.m.] Grosso vaso di terracotta adoperato per contenerci olio, vino o cereali; oggi il termine è usato soprattutto per indicare grossi recipienti in latta usati per contenere olio d’oliva come provvista familiare per tutto l’anno; molto utilizzato anche il diminutivo zirricìeddu; cfr ciarra.

Zita [s.f.] Sposa e per estensione matrimonio, sposalizio, nei territori vicini il termine indica anche la fidanzata, esempi: a zita è cchjù bedda du zitu ‘la sposa è più bella dello sposo’, domane c’è na zita ‘domani c’è un matrimonio’, ci l’hai a zita? ‘ce l’hai la fidanzata?’, (loc.) unu se goda a zita aru liettu e unu s’a goda aru scuviertu ‘uno si gode la sposa a letto e un altro se la gode allo scoperto’ (l’amante a letto e il marito in pubblico).

Ziu [s.m.] Zio, es.: u ziu da Merica ‘lo zio d’America’; il termine è poco usato nel parlato, sono preferite le forme zu e zio, il primo è prevalentemente usato per zii anziani, il secondo per zii meno attempati; guarda anche zizì.

Zizì [s.m.] Zio o zia, apocope di zizio (o ziziu) o zizia, come zi è usato senza aggiungere il nome della zia (o zio), ma non è una regola ferrea, infatti non di rado se viene specificato il nome, anche quest’ultimo viene troncato, esempi: zizì, e sedate nu pocu ‘zia, e siediti un poco’ (non avere fretta), zizì Ro’ cchi te pii? ‘zia Rosa cosa ti prendi?’ (cosa ti offro), quannu vena u zizio? ‘quando viene lo zio?’.

Zocculùne [s.f.] Puttanone, meretrice, ma anche escort d’alto bordo; la zeta può essere letta sia sonora che sorda.

Zomma [s.f.] 1 Ceppo di medie/grosse dimensioni, usato come appoggio per altra legna di più piccole dimensioni quando si accende il fuoco, ne derivano zommarùtu ‘a forma di ceppo’ (anche riferito a persona) e l’accrescitivo zummùne o zommùne, esempi: pia na zomma e carigghju ‘prendi un ceppo di quercia’ (cerro), a zomma mantena u fuecu ‘il ceppo mantiene il fuoco’, (loc.) vestate e zummune, ca assimigghji a nu barune ‘vestiti di (come un) ceppone che assomigli a un barone’ (sarai elegante come un barone). 2 Birra, di solito in bottiglia, es.: n’amu jettatu na zomma ‘ci siamo buttati una birra’ (abbiamo bevuto una birra); oscuro il passaggio di significato da ceppo a birra.

Zoppiàre [v.intr.] Zoppicare, claudicare, da cui zoppichiàre o zoppuliàre ‘zoppicare leggermente’, es.: puru zoppiannu e jire ara scola ‘anche zoppicando devi andare a scuola’.

Zu [s.m.] Sincope di zio (ziu), variante zzu, molto raramente è usata anche la forma zuzù; il termine, identicamente a za, è adoperato come forma di rispetto e di educazione quando ci si rivolge a persone anziane; inoltre, viene anche usato nei confronti del padrino al posto di cumpari (compare), a meno che quest’ultimo non sia abbastanza giovane rispetto al cresimando; guarda anche za, zi e zizì.

Zuccarìgna [agg.] Varietà del frutto del fico d’India dalla buccia giallo-pallida, dal frutto bianco e dal sapore molto dolce, zuccherino appunto; guarda anche ficunniana e cacalura.

Zùccaru [s.m.] Zucchero, es.: (lap.) chi te vorranu dare vitru ppe zuccaru ‘che ti possano dare vetro per zucchero’.

Żuchi żuchi [s.m.] 1 Strumento musicale natalizio, chiamato in italiano tamburo a frizione; di solito si accompagna alla zampogna, ed è formato da una latta o un barilotto con il coperchio mancante, ove viene stesa una pelle d’animale; in mezzo viene praticato un foro su cui è annodata una canna o un fil di ferro spesso, tirata su e giù, si ottiene il tipico suono cupo e lontano; ad intervalli viene messa un po’ d’acqua nel buco per migliorare la frizione. 2 Fare all’amore, es.: facimu żuchi żuchi ‘facciamo żichi żichi’; guarda anche nzicuniàre.

Zùeppu [agg.] Zoppo, claudicante.

Zumpafìlice [s.m.] Gioco praticato da bambini e ragazzini consistente nel saltare sulla schiena di un compagno, mentre questo è piegato, per poi piazzarsi a sua volta ed essere pronto per far saltare un altro compagno; non c’è uno scopo ben preciso, alcuni lo trovavano facendo percorsi impervi.

Zumpafùessu [s.m.] Persona poco affidabile, che salta di palo in frasca, la parola può essere riferita anche ad una situazione, es.: sa cosa è a zumpafuessu ‘questa condizione non è sicura’.

Zumpàre [v.tr.] Zompare, saltare, buttarsi in acqua, esempi: zumpa cuemu na crapa ‘salta come una capra’, ne zumpamu? ‘ci buttiamo?’ (in acqua). 

Zumpu [s.m.] Salto, balzo.

Zumpùne [s.m.] Gran salto, salto in acqua con i piedi, esempi: jettate a zumpune ‘buttati con i piedi’, u zumpune da fenza, aru Truenu ‘il salto dalla fenza, al Truenu’; guarda anche vuddu e Truenu.

Zupu [agg.] Ripetuto due volte zupu zupu assume il significato di ‘continuo e sopportabile’ ed è in genere riferito ad un dolore fisico, es.: tiegnu nu dulure zupu zupu ara spadda ‘ho un male lieve ma continuo alla spalla’.

Zzuddu [s.m.] Dolce tipico calabrese impastato con miele e uva passa, ricoperto di cioccolato; viene venduto soprattutto durante la fiera che si tiene in maggio lungo la strada che porta al santuario dell’Ecce Homo; guarda anche fera.

Zultima modifica: 2022-03-13T10:52:46+01:00da mars.net