S

S [s.f.] Diciassettesima lettera dell’alfabeto mesorachese, corrispondente alla diciottesima di quello latino; della sua forma originaria nella scrittura si hanno scarse notizie per la fase anteriore al greco, non sapendosi con certezza quale delle sibilanti fenicie i Greci prendessero a modello per la lettera da essi chiamata sigma e rappresentata in varie forme nei varî alfabeti arcaici; nel sec. 5° a. C. si generalizzò la forma Σ, che è tuttora in uso; da una sua variante, priva del tratto orizzontale inferiore, è derivata la S latina; il valore fondamentale della lettera è sempre stato quello della sibilante sorda “s” (VT).

Sa 1 [agg.dim.] Questa, codesta, aferesi di chissa, cosi come su è aferesi di chissu, esempi: a mmie sa guagliuna nova u mme piacia ‘a me questa fidanzata nuova non mi garba’, due vai ccu sa magghja vecchja? ‘dove vai con questa maglia logora?’. 2 [agg.poss.] Aggettivo possessivo ‘sua’, si appoggia sempre alla parola che lo precede (forma enclitica) e si lega, quasi esclusivamente, solo a due nomi di parentela, es.: è gghjutu due mammasa ‘è andato da sua mamma’, antura è passata nannasa ‘poco fa è passata sua nonna. 3 [v.tr.] Terza persona singolare presente del verbo sapere, come in italiano, es.: sulu iddu u sa ‘solo lui lo sa’. 4 [pron.pers.] Nei pronomi combinati si a (se la), esempi: sa (s’a) vulia sa piava ‘se la voleva se la prendeva’, sa (s’a) vue t’a dugnu ‘se la vuoi te la do’; cfr ssa, sse, ssi.

Sabatu [s.m.] Sabato, sesto giorno della settimana.

Saccariàre [v.tr.] Rimescolare, rigirare qualcosa senza usare un mestolo, ma aiutandosi da bordi o manici dove è contenuta, es.: saccaria a pignata ‘rimescola la pignatta’.

Sacchìettu [s.m.] Sacchetto, piccola sporta, in genere in tela o in rete di plastica, es.: nu sacchiettu e patate ‘un piccolo sacco di patate’.

Sàcciu [v.tr.] Indicativo (condizionale, congiuntivo) presente prima persona singolare del verbo sapere, può esprimere indecisione davanti ad una domanda, ma anche finta di non sapere una certa cosa e traduce l’italiano ‘non so’ oppure ‘non te lo saprei dire adesso’ (non saprei), oppure ‘che io sappia, o ancora ‘forse’, esempi: (A) cummari Pi’ c’è vai aru cummientu? (B) sacciu (A) ‘Signora Pi’ ci vai al convento?’ (B) ‘non so’, (A) sai s’è gghjutu u s’adduna fore? (B) sacciu ‘sai se è andato in campagna a controllare?’ (B) ‘no, non te lo so dire’, (A) compari Mi’ ta vidi a partita stasira? (B) sacciu (A) ‘Signor Mi’ la guardi la partita stasera?’ (B) ‘può darsi’, u ru sacciu ‘non lo so’; cfr saccìu, sacciusì e paracatè.

Saccìu [avv.] Letteralmente ‘so io’, parola composta da sacciu e iu, la giusta grafia è quindi con l’apostrofo sacc’iu con l’elisione di ben due vocali, es.: sacc’ìu a fatiga chi ci’aju fattu ‘so io (solamente) il lavoro che ci’ho fatto’; ovviamente è anche usata la forma con le parole separate sacciu iu, in tal caso può esprimere più solennità o gravità, esempi: u sacciu iu chiddu chi cce vo ‘lo so io quello che ci vuole’, u sacciu iu cchi bella razza è zianutta ‘lo so io che bella razza è tuo zio’.

Sacciusì [avv.] Parola composta da sacciu (so) e si (se) con l’avverbio ‘non’ sottinteso, il significato è quindi ‘non so se’; viene adoperato da solo in risposta ad una esortazione ed esprime (più distesamente di sacciu) titubanza, esitazione; è usato anche nella sua forma scomposta sacciu si.

Sacramìentu [s.m.] Sacramento, termine impiegato anche come bestemmia.

Sacristànu [s.m.] Sagrestano, collaboratore del prete; guarda anche campanaru.

Saccu [s.m.] Sacco, grossa borsa a forma di sacco, esempi: nu saccu e tila ‘un sacco di tela’, (loc.) nu saccu vacante u ppó stare allimpiedi ‘un sacco vuoto non può stare in piedi’ (proverbio riferito più che altro a persone, se uno mangia poco c’è il rischio che non stia in piedi per la debolezza); guarda anche cirma.

Saccùne 1 [s.m.] Grosso sacco a forma di materasso, imbottito con foglie di mais e/o paglia (di jermanu), fino a non molto tempo fa (anni ’70 del Novecento), fungeva da sotto-materasso, frapposto tra il terreno e il materasso vero e proprio, quest’ultimo era invece fatto con la linazza o la lana grezza, era fornito di grandi asole dentro alle quali di tanto in tanto si infilava la furcita per risistemare le matasse (girare u saccune); tra la gente povera il saccune poteva fungere direttamente da materasso e basta. 2 Coprimaterasso, fatto con le parti più grezze del lino.

Sagghjìre 1 [v.intr.] Salire, risalire, montare, esempi: sagghja finu all’urtimu pianu ‘sali fino all’ultimo piano’, sagghjimu intr’a machina ‘saliamo dentro la macchina’. 2 [v.tr.] L’uso transitivo è diffuso in tutto il Meridione, esempi: sagghji a trempa e si arrivatu ‘sali la collina e sei arrivato’, figghjarì sagghjamila a spisa ppe piacire ‘figliolo portami su la spesa per piacere’, quannu ti nne sagghji ara muntagna? ‘quando te ne sali in montagna?’.

Sagghjùta [s.f.] Salita, erta, es.: c’è na bedda sagghjuta e fare ‘c’è una bella salita da fare’.

Saggiu [s.m.] Termine tecnico impiegato dai cestai per indicare che un certo albero è stato saggiato, ovvero si è verificato, con un colpo sul tronco, se è legno adatto per la costruzione delle ceste.

Sagnàre [v.tr.] In generale ‘salassare’, nel senso di togliere una parte del sangue a uomini o animali, a scopo sia precauzionale sia curativo; più precisamente, in passato, col termine si indicava un’operazione consistente nel praticare un piccolo buco (a volte anche due) nel collo di animali da soma per farne uscire sangue, al fine di diminuire la pressione generale; in questa maniera si preveniva la cosiddetta ‘botta di sangue’ ossia l’ictus, ovvero si evitava la morte dell’animale; questa pratica era più frequente durante la stagione estiva quando gli animali erano più sotto sforzo a causa di grossi carichi.

Sàgula [s.f.] Sagola, piccola corda, spesso impiegata per piccoli carichi da soma; cfr lighera.

Sajìtta [s.f.] Sorta di condotta forzata, ovvero canale dove si convoglia l’acqua impiegata per far girare le pale del mulino.

Sajòla 1 [s.f.] Specie di piccola bilancia con asta graduata, per pesate fino a venti chili circa. 2 Persona spilorcia, precisina, che pesa tutto.

Sàlace [s.m.] Salice bianco, Salix alba L.

Salàri [s.m.] Località presilana, castagneto, del territorio di Mesoraca posta a ovest rispetto al centro abitato, poco sotto Mparu di Napuli.

Salatùru [s.m.] Recipiente cilindrico in terracotta smaltata, in genere di colore chiaro, usato per conservare prodotti in salamoia.

Salimòra [s.f.] Acqua molto salata, spesso mista ad aceto, adoperata per preparare carni o altri alimenti prima di una lunga conservazione.

Salìtu [agg.] Salato, saporito.

Sanàtu [agg.] Vitellino da latte castrato.

Sanciànni [s.m.] Guarda sanciuvanni.

Sancìeri [s.m.] Sanguinaccio, che preparato secondo la tradizione si spalma sul pane come fosse nutella.

Ingredienti: un litro di sangue fresco del maiale, mezzo litro di vinicuettu, una moca di caffè da due molto forte, una tavoletta di cioccolato fondente, una manciata di noci trite, un pugnetto di uva passa, zucchero.

Procedura: con un contenitore recuperare il sangue fresco dal collo del maiale (mentre altre persone lo stanno uccidendo) e girarlo di continuo, per una decina di minuti, aiutandosi con un mestolo di legno per non farlo coagulare (l’azione del mestolo farà sì che non si rapprendi anche a distanza di un giorno intero), successivamente filtrarlo con un colino in una pentola. Mettere a bollire tutto insieme a fuoco lento, tranne la cioccolata, le noci e l’uva passa (ammollata e asciugata) che vanno aggiunte alla fine, girare continuamente con un mestolo di legno; la quantità di zucchero varia in base ai gusti personali. Quando il composto inizia ad essere denso come una crema, ossia quando inizia a quagliare, aggiungere il resto degli ingredienti e spegnere. Si conserva in dei barattoli di vetro o terracotta smaltata. Nel secolo scorso per conservare il sancieri fino all’estate si usava mettere uno strato di grasso che si raccoglieva dalle frittule prima di salarle; lo stesso grasso era anche usato come una pomata per lenire piccole escoriazioni, piccole botte, piccole bruciature.

Sancilùengu [s.m.] Spilungone, persona molto alta, es.: uih mà! Cchi sanciluengu! ‘oh mamma! Che pertica!’ (esclamazione di una vecchietta vedendomi).

Sanciuvànni [s.m.] Il legame di parentela acquisito  (comparatico) che lega i compari o le comari di battesimo e di cresima ai loro figliocci, e i compari di nozze agli sposi, esempi: ci’avimu u sanciuvanni ccu ru cumpari Peppe ‘ci’abbiamo il comparatico con il compare Giuseppe’, u cumpari d’anellu ‘il compare d’anello’ (testimone di nozze); viene usato con la stessa frequenza anche la variante Sancianni,  es.: (loc.) finu a Sancianni u te canciare i panni ‘fino a San Giovanni non cambiarti i panni’ (non cambiare guardaroba fino all’arrivo dell’estate, ossia il 24 giugno poiché fino a quella data potrebbe ancora fare freddo).

Sangu [s.m.] Sangue, appartenenza ad una famiglia con tutti i suoi carattteri, anche quelli non ereditari, da cui sangùsu ‘che ha molto sangue’, esempi: m’aju fattu sangu ‘mi ho fatto sangue’ (mi sono ferito), (lap.) te viennu u jietti u sangu lavine lavine ‘che tu possa versare sangue come una slavina’, (loc.) me fattu fare u sangu acqua ‘mi hai fatto fare il sangue acqua’ (modo di dire che si esclama quando qualcuno ci ha fatto incazzare di continuo, traducibile con ‘mi hai fatto arrabbiare molto’, ma anche ‘mi hai profondamente turbato, svuotato, demoralizzato, rotto i coglioni’), (loc.) u sangu si t’abbincia te mancia ‘il sangue se ti vince ti mangia’ (farsi vincere dalla rabbia significa lacerarsi profondamente), ce curra u sangu ‘ci scorre il sangue’ (c’è la parentela diretta).

Sanguicìeddu [s.m.] Letteralmente ‘sanguettino’, ovvero ‘al sangue’, il termine va quindi riferito ad una bistecca poco cotta, es.: fammila ccu ru sanguicieddu ‘fammela con il sanguettino’ (al sangue).

Sanìzzu [agg.] Persona, animale, organo, vegetale o cosa che gode di buona salute, che non è affetto da malattie, che non presenta disfunzioni, integro, intatto, che non sia marcio, esempi: u cumpari Cola, ottant’anni, ed è sanizzu cuemu nu guagliune ‘il signor Nicola, ottant’anni, ed è sano come un ragazzo’, u capeccueddu è beddu sanizzu ‘il capocollo è ben conservato’ (integro).

Sànnalu [s.m.] Sandalo, calzare.

Santa Lucia 1 [s.f.] Quartiere di Mesoraca contiguo a Filippa, la parte a valle si connette con i rioni Pede da castagna e Santu Marcu. 2 Chiocciola senza guscio, ovvero la lumaca Limax sp., guarda anche vermituru.

Sant’Ánciulu [s.m.] Località presilana situata immediatamente dopo il monte Petrara, alla cui base scorre il Vergari; sono visibili i resti di un antico monastero con architettura di tipo gotico denominato Sant’Angelo in Frigillo.

Resti di Sant’Anciulu

Sant’Antùeni 1 [s.m.] Località di campagna compresa tra Mesoraca e il territorio del comune di Marcedusa; si possono ancora scorgere i resti dell’antica chiesa (castello fattoria) che vi sorgeva; lo stesso toponimo dà il nome al fiume che vi passa. 2 [s.m.] Calabrone, nome scientifico Vespa crabro L., quindi un vespide, spesso confuso col bombo (Bombus terrestris L.) che è un apide; entrambi somigliano ad una ape (Apis mellifera L.) o ad una vespina (Polistes gallicus Latreille) dal punto di vista morfologico, ma il bombo ha l’ultimo segmento dell’addome colorato bianco ed è un pochino più peloso.

Ruderi di Sant’Antueni

Santa Vènneri [s.f.] Contrada e località di campagna vicina al quartiere Santu Marcu, varianti Santa Vennera e Santa Vennere.

Santu Marcu [s.m.] Località di uliveti e rione di Mesoraca, contiguo al quartiere Pede da castagna; è in questo quartiere che sorgono le case popolari, meglio conosciute col nome di Palazzine.

Santu Nicola [s.m.] Località di campagna (uliveti), confinante con le località Cudicini e Furesta.

Santu Paulu [s.m.] Località e quartiere di Mesoraca, situato lungo la strada che da sotto l’ex magistrale porta verso Marcedusa; variante Santu Pagulu.

Santu Quaranta [s.m.] Località di campagna di Mesoraca in posizione sud-est rispetto al comune.

Sanu [agg.] Sano, integro, intero, es.: u cumpari Ntoni se manciau nu crapiettu sanu! o (sanu sanu!) ‘il signor Antonio si mangiò un capretto intero!’; non di rado si usa raddoppiare il termine per dare maggiore enfasi all’azione.

Sanza [s.f.] Sansa, ovvero il sottoprodotto del processo di estrazione dell’olio dalle olive.

Sapìre 1 [v.tr.] Conoscere, sapere, esempi: u ssacciu nente ‘non so niente’, u nne sai nente? ‘non ne sai nulla?’, cchi ne vue sapire tu! ‘cosa ne vuoi sapere tu!’, (loc.) u sanu tre u sa u re ‘lo sanno tre lo sa il re’ (se un segreto lo sanno in tre lo sanno tutti, persino il re), (loc) sapimu duve nescimu e u sapimu duve murimu ‘sappiamo dove nasciamo e non sappiamo dove moriamo’ (non ci è dato conoscere il futuro). 2 [v.intr.] La proprietà dei cibi di aver sapore, esattamente come in italiano, usato anche in senso traslato, esempi: su pollu vinnitizzu u ssa de nente ‘questo pollo commerciale non sa di niente’, mi nn’è saputu forte ‘me n’è saputo forte’ (me n’é dispiaciuto molto), (loc.) cuemu te sa u duce te sa l’amaru ‘come ti sa il dolce ti sa l’amaro’ (ti succede qualcosa di buono la prendi, ti succede qualcosa di brutto la prendi ugualmente, bisogna saper accettare le cose della vita).

Sapunàru [s.m.] Alla lettera chi fa o vende sapone, ma anche zona del Timpune dove adesso sorgono i parcheggi.

Sapuniàre [v.tr. v.rifl.] Insaponare, lavare col sapone, esempi: vaju a sapuniare i panni ‘vado a strofinare con il sapone i panni’, me sapuniu puru l’oricchje ‘mi friziono col sapone anche le orecchie’.

Sapùtu [agg.] Dotto, saputo, ma anche saccente, presuntuoso, pieno di sé.

Sàraca [s.f.] Verme del lardo o del formaggio, Dermestes lardarinus L.

Saramìenti [s.m.pl.] Il termine è praticamente impiegato solo al plurale ed indica la potatura autunnale delle viti; al singolare denota semplicemente un tralcio di vite.

Sarcìna [s.f.] Fascina di legna secca.

Sarciùta [s.f.] Botte e sberle in quantità, lezione dura, razione di legnate; guarda anche sarvereggina.

Sardèdda [s.f.] Neonata di acciughe, (Engraulis encrasicholus L.) che insieme al finocchio selvatico (Foeniculum vulgare Mill.) e al peperoncino (Capsicum annuum L.) forma un’ottima salsa infuocata, buonissima da mangiare sul pane tostato, magari accompagnata da un buon bicchiere di Cirò rosato e della cipolla di Tropea. Conosciuta anche come “Caviale del Sud” o Rosamarina, è originaria del comune di Crucoli e vede numerose varianti lungo la costa jonica e tirrenica, usando talvolta pesci di grandezza crescente o di specie diversa come ad esempio la triglia giovane, Mullus surmuletus L. Il nome però dovrebbe far intuire che la ricetta originale doveva essere fatta con la neonata di sardine, Sardina pilchardus Walbaum. È molto probabile che la sardedda sia l’erede dell’antica ricetta romana chiamata GARUM salsa liquida di interiora di pesce e pesce salato, quest’ultima basata su quella greca chiamata GARON salsa fatta con le parti di scarto del pesce, quali intestini, branchie e sangue macerati nel sale.

Sarma [s.f.] Quantità di legna o di altro bene, che può essere trasportata sulla groppa di un animale da soma, es.: na sarma e ligna ‘un carico di legna’. In tempi nemmeno tanto lontani, la sarma era un’unità di misura della quantità di frumento trasportabile da un animale da soma, variabile in base alla stazza dell’animale.

Sarrancòne [s.m.] Spauracchio, uomo nero, babau; il termine è ovviamente usato per fare paura ai bambini, es.: si u manci chjamu u sarrancone ‘se non mangi chiamo l’uomo nero’.

Sarvàggiu [agg.] Selvaggio, selvatico, es.: u cignale me sa troppu e sarvaggiu ‘il cinghiale mi sa troppo di selvatico’.

Sarvereggìna [s.f.] Letteralmente ‘Salve Regina’, prestito metaforico per riferirsi ad un sacco di botte, una caterva di legnate.

Sarvu [agg.] Salvo, illeso, incolume, es.: sanu e sarvu ‘sano e salvo’.

Sarza 1 [s.f.] Salsa di pomodoro, sugo, conserva di pomodoro, esempi: na sarza carrica ‘un sugo carico’ (denso), domane facimu a sarza (in maniera equivalente domane facimu e buttigghje) ‘domani facciamo la conserva’ (domani facciamo le bottiglie – di salsa di pomodoro è sottinteso), sarza culata ‘salsa colata’ (passata di pomodoro).

Pruvvista e sarza. Ingredienti: pomodori maturi tipo San Marzano, peperoncini interi, sale, basilico, bottiglie vuote pulite e sgocciolate.

Procedura: lavare i pomodori bene, tagliarli a metà e metterli in una cesta (cistune luengu), aggiungere sale per ammorbidire la buccia per una buona mezzora, quindi si macinano e si riempiono le bottiglie, al cui interno hanno una foglia di basilico e un peperoncino per chi lo aggrada, vengono chiuse usando una tappatrice manuale con i tappi a corona (tirri tirri). Si possono fare anche buttigghje a spicchju ‘bottiglie a spicchio’ (di pomodoro), adoperando bottiglie a bocca larga (quelle dei succhi di frutta) e pigiandoci spicchi di pomodoro (non molto maturi) appena tagliati, leggermente salati e doppio basilico. La fase successiva consiste nel preparare il pentolone (quadarune), ovvero si sistema su un apposito sostegno (tripuedu ranne), poi si mette un sacco pulito (o qualcosa di simile) sul fondo e su cui andranno adagiate le bottiglie, riempire d’acqua, chiudere la pila con un altro sacco. Accendere il fuoco, dapprima basso, poi gradualmente che l’acqua si scalda aggiungere legna (o alzare il gas); da quando inizia a bollire mantenere il fuoco per un’ora, quindi lasciarlo spegnere e coprire con un coperchio o altro di adeguato. Nella cenere della legna arsa durante la bollitura, la tradizione vuole che si mettano ad arrostire patate, cipolle e peperoni rotondi. Il secondo giorno sciacquare le bottiglie e sistemarle in cantina in un posto fresco e asciutto.

Sarza all’antica: lavare i pomodori, tagliarli e bollirli con un po’ di sale e poca acqua, giusto per dare una ammorbidita; nel mentre che si raffreddano si iniziano a strofinare su un setaccio metallico finché non rimangono solo le bucce. I pomodori così “spremuti” si ripongono in una pentola a fuoco moderato, fino a quando non diventa una crema molto densa. Finita la cottura, svuotare il contenuto su un piatto molto largo (diciamo XXXL, chiamato piattu tarantinu) e sistemarlo in un luogo molto soleggiato, finché non diventa molto asciutta. Si conserva in un vaso tipo salaturu, avendo l’accortezza di mettere olio sia nel fondo che sopra; chiudere con una carta e un laccio. Le bucce venivano seccate, quindi macinate e costituivano condimento per qualche piatto povero come pasta e patate o pane cuettu, facendo finta fosse peperoncino in polvere; inoltre, il tipo di pomodoro era del tipo ‘costoluto’ di taglia piccola, la varietà San Marzano non c’era ancora. Non si buttava niente.

Sarza culata ccu a freve (salsa colata con la febbre): lavare e spaccare i pomodori, metterli a bollire con un po’ d’acqua e un pizzico di sale, farli cuocere per un’ora circa; finita questa prima cottura, i pomodori vengono macinati ancora molto caldi; la passata così ottenuta viene messa poi in un pentolone a bollire di nuovo per una ventina di minuti circa; imbottigliare mentre sta bollendo, chiudere e conservare le bottigliette in un contenitore protette da una coperta di lana. 2 Giocatore di pallone molto scarso.

Sarzètta [s.f.] Alla lettera ‘salsetta’ ‘piccola salsa’, il termine trova impiego prevalentemente come aggettivo nella preparazione delle cosiddette olive ara sarzetta.

Sassìddu [s.m.] Piccolo sasso, es.: ci’aju nu sassiddu intra na scarpa ‘ho un sassetto in una scarpa’; da cui l’aggettivo sassiddusa ‘terra ricca di sassi’.

Sasumìda [s.f.] Geco, spesso confuso con la salamandra e viceversa.  La maggior parte degli avvistamenti a Mesoraca e dintorni, specie nelle notti d’estate, sono da attribuire a gechi comuni Tarentola mauritanica L. e gechi verrucosi Hemidactylus turcicus L., più delicati dei precedenti e con una livrea che vira verso l’arancione e il rosa.

Sasumida (con un pezzo di coda mancante)

Satacòla [s.m.] Bambino o ragazzo irrequieto e vivace, che non conosce riposo.

Satàre [v.tr. v.intr.] Saltare, zompare, esempi: sata cumu nu griddu ‘salta come un grillo’, e satare e su scuegghju ‘devi saltare da questo scoglio’.

Satariàre [v.intr.] Saltare, saltellare, zompare qua e là.

Savùcu [s.m.] Sambuco, ossia genere di pianta arbustacea o arborea appartenente alla famiglia delle Adoxaceae, la specie più diffusa in Calabria è Sambucus nigra L., es.: (loc.) jure e maju ogne mmale astuta ‘fiore di maggio ogni male spegne’ (il ‘fiore di maggio’ è proprio quello del sambuco, usato come antinfiammatorio per varie disfunzioni); guarda anche jure.

Savùrra [s.f.] Pietra di piccole dimensioni utilizzata per riempire gli interstizi dei muri rurali costruiti a secco o dei contromuri di nuove costruzioni, es.: (loc.) ogne piccula savurra ara fravica abbisogna ‘ogni piccola zavorra alla costruzione necessita’ (c’è bisogno anche delle piccole cose per fare le grandi); guarda anche muragghju.

Sbarru [s.m.] Usanza dei proprietari di uliveti di ‘aprire lo sbarramento’ ai poveri; finita la fase di abbacchiatura (cfr derramare) chiunque poteva andare a raccogliere le olive dimenticate.

Sbentàre [v.tr.] Far prendere aria, sventolare.

Sberginàre [v.tr.] Sverginare, deflorare.

Sburràre [v.intr.] Eiaculare, sborrare, venire, da cui sburràta ‘eiaculata’, ‘sperma’.

Sburru [s.m.] Sperma, liquido seminale.

Scacàre [v.tr.] Sbagliare, fallire.

Scacchjàre [v.tr. v.intr.pron.] Sganciare, liberare, esattamente il contrario di ncacchjare, esempi: scacchja a corda ‘sgancia la corda’, ajutame a me scacchjare du spinaru ‘dammi una mano a liberarmi dal rovo’.

Scacocciulàre [v.tr.] Sgranare, sbaccellare.

Scacummulàre [v.tr.] Raccogliere tutti i frutti da un albero, lasciando solo le foglie e i rami; infatti il termine è anche usato in chiave comico-ironica, es.: si l’ha scacummulati tutti ‘se li ha rastrellati tutti’; variante scacommulàre.

Scaddàre 1 [v.tr.] Guastare, scollare, allentare. 2 L’atto dello svelare lentamente le carte da gioco nella speranza che esse siano buone; per estensione qualunque cosa che può essere scaddàta, come ad esempio delle figurine (nella speranza di trovare quelle più ricercate), i risultati delle partite (per controllare la schedina); tipico esempio di una usanza scaramantico-quantistica che qualsiasi giocatore del globo conosce. 3 Termine usato dai cestai per indicare l’azione di liberare il legno dalla corteccia. 4 Levare l’unto da contenitori o panni.

Scaddarizzàta [v.tr.] Abbuffata, grossa mangiata, anche solo di un particolare piatto, es.: na scaddarizzata e pisci ‘una scorpacciata di pesci’.

Scafazzàta [s.f.] Donna giovane priva di attenzioni, poco di buono, capace anche di cose riprovevoli.

Scaffiàre [v.tr.] Schiaffeggiare, malmenare.

Scaffu [s.m.] Schiaffo, ceffone, molto usato anche l’accrescitivo scaffùne ‘schiaffone’, es.: te jiettu nu scaffu ‘ti butto (do) uno schiaffo’.

Scafùne [s.m.] Genere di verdura selvatica di solito mangiata cruda ad insalata; cresce lungo i corsi d’acqua e somiglia ad una troppa e acciu (pianta di sedano); infatti, in italiano è conosciuta col nome di ‘sedanina selvatica’ e scientificamente con Sium latifolium L.

Scagghja [s.f.] Scaglia, scheggia, es.: na scagghja e sapune ‘una scaglia di sapone’.

Scagghjòla [s.f.] Becchime per uccelli, si tratta di un’erba originaria delle isole Canarie, Phalaris canariensis L.

Scagghjùne [s.m.] Il dente canino, specie quello degli animali, ma anche dente sovrapposto.

Scagnòzzu [s.m.] Chi ‘lecca’ e serve una persona potente ed autorevole per la propria convenienza personale o, peggio, per servilismo; in ogni caso denota una persona mediocre, con scarsa dignità e fierezza; dalle nostre parti ha anche assunto la denotazione di gregario di una banda di criminali, comunque di basso rango.

Scala [s.f.] Zona di campagna compresa tra Mazzaccaru e Cerceddina.

Scalantrùne [s.m.] Scala rudimentale adoperata per salire sugli alberi.

Scalapàtu [agg.] Persona maldestra, sgarbata, talvolta anche inetta e sprovveduta e con tutto ciò che questo belle caratteristiche comportano.

Scaliddi [s.m.pl.] Località di campagna, castagneti e di case di Filippa, confinante con Francu e Juevi (di cui è praticamente parte).

Scaliddu [s.m.] Scalino, piolo.

Scalòra 1 [s.f] Scarola, Cichoria endivia L. 2 Ragazza magra e bruttarella, es.: s’ha piatu a na scalora ‘si è preso (sposato) a una un po’ sgraziata’.

Scalunàta [s.f.] Scalinata, gradinata.

Scalùne [s.m.] Gradino, scalino.

Scamacciàre [v.tr.] Schiacciare, pigiare, ammaccare, spiaccicare, esempi: u scamacciare l’olive ‘non calpestare le olive’, scamaccialu aru muru ‘spiaccicalo al muro’.

Scammiàre [v.tr. v.rifl.] Scambiare, cambiare.

Scampàre 1 [v.intr.impers.] Smettere di piovere, spiovere, es.: u scampa cchjù e chjuvire! ‘non smette più di piovere’. 2 [v.intr.] Il significato della parola è del tutto simile a quello italiano, ossia sfuggire, evitare un pericolo o un male, il mesorachese aggiunge una sfumatura in più, vale a dire il sottrarsi ad un lavoro non gradito, es.: ti l’e scampate stannu l’olive ‘te le sei scampate quest’anno le olive’ (la raccolta); cfr scampitare.

Scampitàre [v.intr.] Il significato è quasi identico a scampare, ma l’evitamento di un lavoro, un pericolo o un male o, in generale, qualcosa di sgradito, è più legato al caso.

Scanàre [v.tr.] Spianare la pasta di farina per farne delle forme di pane da infornare.

Scancaràre [v.tr.] Allargare, dilatare, divaricare eccessivamente le gambe o altra articolazione, esempi: scancara a vucca ‘spalanca la bocca’, (lap.) te via scancaratu ‘che tu possa sgangherarti’ (le gambe); il termine è usato anche per indicare indumenti slargati, es.: e scancaratu i cavuzi ‘hai slargato i pantaloni’; talvolta è impiegata la variante scancareddàre e denota un’azione più intensa e prolungata.

Scanciàre [v.tr.] Cambiare, scambiare, il termine è spesso usato per cambiare banconote di grosso taglio con tagli più piccoli, esempi: u re scanciare ca te spienni subitu ‘non cambiarli (i soldi) che se no li spendi subito’, ni nne scanciamu giornaletti? ‘ce ne scambiamo fumetti?’.

Scànnalu 1 [s.m.] Scandalo, clamore, es.: così facimu nu scannalu ‘così facciamo uno scandalo’. 2 [v.tr.] Imperativo del verbo scannare ‘scannalo!’.

Scannarozzàre [v.intr.pron.] Sgolarsi, perderci la voce, parlare a lungo con lo scopo di convincere qualcuno a fare qualcosa o persuaderlo a cambiare idea.

Scannatùra [s.f.] Parte del collo del maiale e di altri animali da macello, dove si conficca il coltello per recidere la giugulare e quindi la gola; guarda anche scannaturu.

Scannatùru [s.m.] Coltello molto affilato, usato per scannare i maiali e altri animali da macello; guarda anche scannatura.

Scannu 1 [s.m.] Scanno, ovvero mini panchina in legno senza spalliera, abbastanza semplice, anche di un solo posto. 2 [v.tr.] Indicativo, prima persona singolare del verbo scannare.

Scantàre 1 [v.tr.] Sbollentare verdure, scottare della carne, es.: dugnu na scantata ari vruecculi ‘do una sbollentata ai broccoletti’. 2 [v.intr.] Impaurirsi, spaventarsi, es.: m’ha fattu scantare da paura ‘mi ha fatto trasalire dalla paura’.

Scantréscia [s.f.] Termine generico impiegato per indicare un oggetto, vecchio, malridotto, logoro, maschile scantrìesciu, es.: sa machina e na scantrescia ‘questa auto è una carretta’; non di rado, la parola è usata anche per indicare una persona malandata, vecchia, con acciacchi.

Scantu 1 [s.m.] Paura improvvisa, spavento, attimo di panico, da cui scantùsu ‘pauroso’. 2 Rametto, pollone, da trapiantare. 3 [avv.] Un po’, un pezzo.

Scanzatùru [s.m.] Bivio, deviazione con scorciatoia, sentiero.

Scapicchjàre [v.tr.] Svezzare, togliere il capezzolo, adoperato sia per le persone che per gli altri mammiferi.

Scapilàre 1 [v.intr.] Concludere la giornata di lavoro, da cui scapilàta ‘termine della giornata lavorativa’, esempi: a cchi ura scapili? ‘a che ora stacchi?’, ne vidimu ara scapilata? ‘ci vediamo dopo il lavoro’. 2 [v.tr.] Dividere due persone che litigano e si azzuffano, es.: s’u re scapili u ssa finiscianu ‘se non li dividi non se la finiscono’ (di azzuffarsi).

Scapilavùi [s.m.] Alla lettera persona addetta a separare i buoi che litigano, ovvero perditempo, buono a nulla.

Scapizzàre 1 [v.tr.] Togliere la cavezza, da cui scapizzàtu ‘scapestrato’. 2 [v.intr.] Allontanarsi, scansarsi, andare via.

Scappàta [s.f.] Corsa, scappata, esempi: fa na scappata ‘fai una corsa’, va’ na scappata ‘vai una scappata’ (di corsa).

Scapuerchjulàre [v.tr.] Scappellare, ossia evaginazione del glande dal prepuzio, es.: u mme scapuerchjulare a minchja ‘non scappellarmi il cazzo’ (non rompermi le palle).

Scaratìtulu [s.m.] Cavillo, pretesto, ripiego, es.: quantu scaratituli stai piannu! ‘quanti discorsi stai prendendo!’.

Scaravellàre [v.tr.] Mangiare molto, sbafare di santa ragione; parola estinta.

Scarcagnàre [v.tr.] Deformare, rompere, da cui scarcagnàtu ‘guasto’ ‘danneggiato’; cfr scaddare.

Scarda 1 [s.f.] La lisca dei pesci, o un pezzo di essa. 2 La spiga di grano.

Scardàre 1 [v.tr.] Togliere la lisca ai pesci, diliscare, es.: i scardusi su sapuriti ma l’e scardare bbueni ‘le mormore sono saporite, ma devi diliscarle tanto’. 2 Scardassare, carminare la lana o il lino.

Scardédde [s.f.pl.] Scuse, cavilli, pretesti, puntigliosità, es.: ud armare scardedde ‘non architettare scuse’.

Scardùsu [s.m.] Mormora, ottimo pesce dalle carni prelibate, ma ricco di lische, Lithognathus mormyrus L.

Scàrfare [v.tr. v.rifl.] Scaldare, riscaldarsi al calore del fuoco o di una stufa, esempi: vieni, scarfate nu pocu ‘vieni, scaldati un po’’, (loc.) u sule a chine vida scarfa ‘il sole a chi vede scalda’ (il sole come metafora di genitore – o un padrone, se deve fare delle concessioni le farà a chi sarà più presente).

Scargiàre [v.tr.] Cacciare, sborsare, tirare fuori soldi.

Scarmàre [v.intr.] Sfoltire, il termine è usato per indicare sia il taglio dei capelli che le fronde degli alberi, es.: dunale na scarmata ari capiddi ‘dagli una sfoltita ai capelli’.

Scarmigghjàre 1 [v.tr.] Vagliare, separare; cfr scarminare e scarminiare. 2 Scardassare, pettinare, la lana o altro tessuto tramite lo scardasso.

Scarmigghjùsu [agg.] Persona schifiltosa, complicata, schizzinosa, di bocca non buona; cfr pizzulaficu.

Scarminàre [v.tr.] Il termine in origine era riferito alla pulitura della lana dalle impurità, oggi indica in generale pulire, scegliere, separare, nettare, sinonimo di scarmigghjare, esempi: (loc.) chine u ttena nente da fare pia a lana e atri a scarminare ‘chi non tiene niente da fare prende la lana di altri a pulire’ (impicciarsi dei problemi degli altri, quando non si vogliono affrontare i propri), (loc.) ci nn’ha lane e scarminare! ‘ce ne sono lane da pulire!’ (ci sono tante cose da fare); cfr scarminiare.

Scarminiàre 1 [v.tr.] Rovistare, frugare, selezionare, specie riferito ad un piatto, selezionare, es.: cchi tte scarminii! ‘cosa ti scegli!’ (e mangia!). 2 Contorcere, rimescolare, es.: mi se scarminìa u stomacu ‘mi si contorce lo stomaco’.

Scarpàru [s.m.] Calzolaio, ciabattino, es.: (loc.) scarparu, ticchi ticchi sempre povaru e mmai riccu ‘il calzolaio, ticchi ticchi (rumore del martello) sempre povero e mai ricco’ (col mestiere del calzolaio non si diventa ricchi).

Scarpieddu [s.m.] Scalpello, i falegnami usano anche lo scarpieddu a pede e puercu ‘scalpello a piede di porco’ (attrezzo usato per scavare il legno).

Scarpùni [s.m.pl.] Scarponi, ma anche scarpe vistose, eccentriche, es.: duve l’e piati si scarpuni? ‘dove le hai comprate queste scarpe?’ (così pacchiane).

Scarracchjàre [v.intr.] Scaracchiare, espettorare.

Scarrancàre [v.tr.] Guadare, traversare un fiume saltando su massi e sassi, es.: e viernu u sse po scarrancare a jumara ‘d’inverno non si può attraversare il fiume’.

Scarrìca 1 [s.f.] Annata di riposo degli alberi d’ulivo, ovvero portano pochi frutti. 2 Discutibile gioco di ragazzi, che consiste, senza apparente motivo, nel dare un sacco di botte (non eccessive), tutti insieme, al malcapitato.

Scartàre 1 [v.tr.] Scartavetrare, levigare con la carta vetrata. 2 Nei giochi con le carte, significa eliminare o sostituire una carta con particolari propositi a seconda del gioco.

Scarvàgghju [s.m.] Scarafaggio, variante scaravàgghju, coleottero della famiglia Chrysomelidae, la specie più diffusa in Calabria è Timarcha pimelioides Herrich-Schäffer.

Scarziàre [v.intr.] Scarseggiare, essere insufficiente, es.: scarziamu e vinu ‘scarseggiamo di vino’.

Scarzu [agg.] Scarso, esiguo, mediocre, da cui scarzulìeddu ‘scarsetto’ ‘piuttosto scarso’, esempi: è troppu scarzu su jocature ‘è troppo scadente questo giocatore’, (loc.) ognunu va scarzu all’arte sua ‘ognuno va scarso all’arte propria’ (il proverbio mette in guardia dal pericolo di dedicarsi nel proprio mestiere troppo agli altri e poco alle proprie cose, per cui diventa possibile vedere un carrozziere con la sua auto malconcia oppure un venditore di smartphone con il proprio cellulare malfunzionante).

Scarzuliàre [v.intr.] Scarseggiare, difettare, ma in tono minore rispetto a scarziare.

Scasàre [v.tr. v.rifl.] Rimuovere qualcosa dalla sua posizione originaria, smuovere, esempi: ha scasatu a porta ‘ha scardinato (rotto) la porta’, ame scasare sa petra ppe passare ‘dobbiamo rimuovre questa pietra per passare’, scasate da seggia ‘(levati) alzati dalla sedia’, u me scasu cchjù du focularu ‘non mi tolgo più dal focolare’; non sono contemplati i significati italiani della parola.

Scasciàre [v.tr.] Rompere, scassare, spaccare, sfasciare, esempi: e scasciatu a machina ‘hai scassato l’auto’, ccu nu pugnu scasci nu muru ‘con un pugno spacchi un muro’ (tipico modo di dire dei calabresi, si pensa che dopo che mangi un peperoncino hai una forza tale che appunto potresti spaccare un muro con un pugno).

Scasùne [s.f.] Scusa, motivo, ragione, es.: (loc.) u cc’è morte senza scasune ‘non c’è morte senza ragione’.

Scataliàre [v.tr.] Rimestare, frugare.

Scatàre [v.intr.] Sbagliare, commettere un errore nei giochi tra ragazzi, come ad esempio unamantelluna; guarda anche nzottàre.

Scatreare [v.intr.pron.] Lavorare sodo, rompersi la schiena dalla fatica, es.: oje u mme vuegghju scatreare cumu ajieri ‘oggi non voglio spaccarmi la schiena come ieri’.

Scatreàtu [agg.] Molto stanco, fiaccato, specie da lavoro, ma anche deformato o sfiancato dal troppo uso se riferito a cose, esempi: pari scatreatu a tte vidire caminare ‘sembri spezzato a vederti camminare’, (lap.) te via scatreatu ‘possa vederti con la schiena spezzata’, t’accattatu na machina scatreata ‘ti sei comprato un’auto troppo usata’.

Scattapànza 1 [s.m.] Tuffo di pancia, spanciata. 2 Nell’espressione a scattapanza ‘a scoppiapancia’ indica aver mangiato qualcosa esageratamente, es.: aju manciatu cerase a scattapanza ‘ho mangiato ciliegie da fare schifo’.

Scattàre [v.tr. v.rifl.] 1 Rodere, tormentare, angustiarsi (fino a scoppiare), esempi: avogghja u scatti, u tti nne dugnu ‘a voglia a soffrire, non te ne do’, (loc.) si vue chi scatta u tue nemicu iddu parra e tu stai citu ‘se vuoi che si affligga il tuo nemico, lui parla e tu stai zitto’, m’e fattu scattare da raggia ‘mi hai fatto scoppiare dalla rabbia’. 2 [v.intr.] Affogare per blocco della digestione, es.: se gghjettatu doppu manciatu ed è scattatu ‘si è gettato (in acqua) dopo mangiato ed è schiattato’. 3 Scoppiare, deflagarare, esempi: m’è scattatu u nasu a sangu ‘mi è scoppiato il naso a sangue’, fazzu scattare na bummicedda ‘faccio scoppiare un petardo’.

Scattariàre [v.intr.] Scoppiettare, come il mais da popcorn o alcuni tipi di legno mentre ardono.

Scattìgna [s.f.] Fico acerbo che tende a scoppiare, cioè aprirsi e spaccarsi come se fosse maturo.

Scattu [s.m.] Capriccio, provocazione, da cui scattusu ‘capriccioso’ ‘dispettoso’, esempi: u nne fare scatti ca u ra vinci sta vota ‘non fare bizze che non la vinci questa volta’, t’u fazzu ppe scattu ‘te lo faccio apposta’, (loc.) cchi scattu chi me fa a gatta, va e me piscia u liettu ‘che dispetto che mi fa la gatta, va e mi piscia il letto’ (proverbio che si dice quando una persona ti fa un dispetto).

Scatturàre [v.tr. v.rifl.] Liberare, divincolare, slegare, anche in senso traslato, ovvero uscire da una situazione per alcuni versi noiosa o poco piacevole; cfr ncatturare.

Scàtulu [s.m.] Scatola, ma anche scatolone.

Scatùzzu [s.m.] Nomignolo per persone piccole, di bassa statura, scaltre, furbesche.

Scavìeddu [s.m.] Spiritello domestico, gnomo, al servizio della casa dove è ospitato; spauracchio usato dalle mamme per intimorire i bimbi un po’ rompipalle.

Scavigghjàre [v.tr.] Slogarsi la caviglia, ma il termine è usato anche per indicare una distorsione al polso.

Scavigghjàtu 1 [agg.] Slogato, lussato, p.p. di scavigghjare.  2 [s.m.] Persona spericolata amante del rischio, es.: (lap.) te via scavigghjatu ‘possa vederti disarticolato’.

Scàvuzu [agg.] Scalzo, a piedi nudi.

Scegghjìre [v.tr.] Scegliere, selezionare, usata anche la variante scégghjare, es.: scegghja quale vue ‘scegli quale vuoi’.

Scentiniàre [v.intr.] Arrancare, lottare con la fortuna, es: sta scentiniannu ‘sta penando’.

Scerra 1 [s.f.] Lite, rissa, zuffa. 2 Caratteristica di una persona che delinque e perciò poco raccomandabile, per estensione indica anche una persona lesta, furba, che si muove sul crinale della legalità, es.: aih cchi scerra e ueminu! ‘che canaglia d’uomo!’.

Scerriàre [v.intr.] Fare rissa, litigare e per estensione delinquere.

Scerveddàre [v.intr.pron.] Scervellarsi, lambiccarsi, affannare il cervello inutilmente.

Scesàre [v.tr.] Operazione di apertura di un buccellato o di una piccola ciambella compiuta usando una forchetta, quando sono a metà cottura circa; consiste nell’incidere il “toro” lungo la parte centrale esterna, se si incide un gucceddatu si otterranno dei viscuetti, se si incide un taraddu si otterranno delle fresine; guarda anche cudduru.

Scesàtu [agg.] Spaccato, tagliato, es.: pumadueri scesati ‘pomodori tagliati’ (con origano e sale).

Schèlatru [s.m.] Scheletro, struttura.

Schicciàre [v.tr.] Schizzare, sprizzare, zampillare, anche nel senso di muoversi celermente, correre, esempi: m’ha schicciatu ccu ra pompa ‘mi ha schizzato (acqua) con il tubo di gomma’, schiccia due mammata ‘catapultati da tua madre’.

Schiccialùru [s.m.] Aggeggio idoneo a produrre schizzi, come contenitori vuoti di detersivi o dell’alcol, pistola ad acqua.

Schìcciu [s.m.] Schizzo, spruzzo, zacchera, ma anche il getto dell’acqua sulle pale del mulino, es.: aru schicciu du mulinu c’è na troppa e petrusinu, petrusinu e maguranu nescia tu lu capitanu ‘al getto del mulino c’è una pianta di prezzemolo, prezzemolo e maggiorana esci te il capitano’ (rima persa, canzoncina usata, una volta, per fare la conta); guarda anche sajitta.

Schicciuliàre [v.tr.] Annaffiare delle piante a pioggia e per estensione irrorare a pioggerellina una superficie; infatti, di rado è usato anche come sinonimo di ciciuliare.

Schicciulùne [s.m.] Grossa goccia, il termine è generalmente riferito alle grosse gocce di pioggia, es.: m’è arrivatu nu schicciulune ‘mi è arrivato un gocciolone’.

Schìettu 1 [agg.] Scapolo, non sposato, celibe, es.: (loc.) saperra a schetta quantu sa a maritata, se curcherra e facerra a malata ‘sapesse la nubile quanto sa la maritata, si coricherebbe e farebbe la malata’. 2 Schietto, semplice, sincero.

Schifenzìa [s.f.] Schifezza, porcheria.

Schifiàre [v.tr. v.intr.pron.] Schifare, nauseare, provare disgusto.

Schifìu [s.m.] Andare a male, o meglio finire a male, in una schifezza.

Schifu [s.m.] Schifo, disgusto, es.: u tte fai schifu? ‘non ti fai schifo?’.

Schinu [s.m.] Schiena, es.: purtare a schinu ‘trasportare sulla schiena’; guarda anche catrea.

Schiodatrìce [s.f.] Attrezzo per disarmare solai o colonne, da un lato ha la forma del piede di porco, dall’altro quella del martello.

Schiribìzzu [s.m.] Sghiribizzo, idea bizzarra, capriccio.

Sciabbèccu [agg. s.m.] Persona con scarse qualità, sia di tipo lavorativo che di altro tipo, persona mediocre, es.: chi me rappresenta su sciabbeccu? ‘cosa mi rappresenta questo poco di buono?’ (cosa significa questa persona, cosa sa fare, dove vuole andare?); guarda anche cajiccu.

Sciàbula [agg.] Persona poco raccomandabile, malvivente, termine molto vicino al significato di scerra, talvolta è adoperato anche il suo accrescitivo sciabulùne ‘bandito’.

Sciabuliàre [v.tr.] Alla lettera ‘menar la sciabola’, delinquere, fare bravate, violare la legge; cfr scerriare.

Sciacqualattùca [s.f.] Figura retorica, letteralmente ‘colei che sciacqua la lattuga’; indica una donna giovane non molto brava a fare i mestieri di casa o un lavoro, a mala pena buona a lavare l’insalata, es.: u tt’a piare ch’è na sciacqualattuca ‘non prendertela (non fidanzarti) che è una poco di buono’; raramente, il termine è anche usato al maschile, nella lingua napoletana è invece usato prevalentemente al maschile (FDA); guarda anche ciampalinazze il corrispettivo semantico maschile.

Sciacquariàre [v.tr.]  Sciacquare, agitare un liquido, es.: u ru sciacquariare ca se nturvula ‘non agitarlo che si intorbida’.

Sciacquìettu 1 [s.m.] Capretto magro. 2 Privo di forze, secco. 3 Persona che non rispetta la parola, sinonimo di barderellu.

Sciaffèrru [s.m.] Autista, conducente, ma ormai non lo usa quasi più nessuno.

Sciagràre [v.tr.] Sprecare, consumare, dissipare, es.: (loc.) quannu vidi a rrobba tua sciagrare, sciagra puru tu! ‘quando vedi i tuoi averi sperperarsi, sperpera pure tu’.

Sciagréra [agg.] Spendacciona, sciupona, persona che spende male i propri soldi o che ne spende molti, esempi: (loc.) l’avaru e u sciagraru ara fine se ficiaru u cuntu e gghjiru gualu ‘l’avaro e lo spendaccione alla fine fecero i conti e andarono pari’ (a risparmiare troppo o a spender troppo non si alza molto la qualità di vita), (loc.) perda cchjù l’avaru c’u sciagraru ‘perde di più l’avaro che lo spendaccione’ (è meglio dare o spendere che troppo risparmiare), (loc.) si vue vidire a fimmina sciagrera guardala quannu munna e patate ‘se vuoi vedere la donna scialacquona guardala quando sbuccia le patate’, (loc.) i sordi e l’avaru s’e mancia u sciagraru ‘i soldi dell’avaro se li mangia lo sciupone’ (a risparmiare troppo si corre il rischio di far consumare i propri sacrifici a chi non ha problemi a spendere, ad es. un figlio o una moglie; cfr esempio di scialaccune).

Scialaccùne [s.m.] Scialacquone, sperperatore, es.: (loc.) di sordi è l’avaru nn’ha bene u scialaccune ‘dei soldi dell’avaro ne ha bene lo spendaccione’.

Scialacquamìentu [s.m.] Scialacquamento, sperpero.

Scialàre 1 [v.tr. v.rifl.] Divertire/rsi, godersela, rilassarsi, da cui scialàta ‘goduta’, es.: mi l’aiu scialata oje ara jumara ‘me la sono passata allegramente oggi al fiume’ (‘siamo stati bene e senza pensieri’, ma anche ‘ci siamo divertiti oggi al fiume’), prima me scialu e pue fatigu ‘prima me la godo poi lavoro’; cfr ricriare. 2 Sperperare, spendere senza tanta oculatezza, es.: te scialatu tutti i sordi ‘hai speso tutti i soldi’.

Scialamìentu [s.m.] Scialamento, diversivo, festa, sollazzo; guarda anche sciala-sciala e scialu.

Sciala-sciala [s.m.] Allegria, gozzoviglia, godimento, espressione bella ma poco adoperata, es.: duv’è u sciala-sciala? ‘dove il divertimento?’ (dov’è la festa?); guarda anche scialamìentu e scialu.

Sciàllu [s.m.] Scialle, ossia indumento femminile di varia natura e forma che si porta sulle spalle.

Sciàlu [s.m.] Divertimento, piacere, goduria, ma anche sfarzo, ostentazione di beni di lusso; guarda anche scialamientu e sciala-sciala.

Sciamìngu [s.m.] Persona stupida e sciatta, praticamente sinonimo di sciabbeccu.

Sciammìssu [s.m.] Camice largo, camiciola.

Sciampagnùne [s.m.] Scialacquatore, dilapidatore, spendaccione, compagnone.

Sciancàre [v.tr.] Strappare, lacerare, stracciare, esempi: mi se su sciancati i quazietti ‘mi si sono strappate le calze’, ha sciancatu u testamientu ‘ha strappato il testamento’.

Sciancatìna [s.f.] Strappo, lacerazione di un tessuto, ferita di rilievo della pelle; cfr scigatina.

Sciancàtu [s.m. agg.] Poveraccio, persona malandata, participio passato di sciancare, ormai poco adoperata l’accezione originaria di storpio o zoppo, es.: cammiate ca pari nu sciancatu ‘cambiati che somigli uno straccione’.

Sciarabàllu [s.m.] Carretto, calesse, per il trasporto di cose e persone, trainato da un cavallo o da un mulo; il rango sociale più alto   poteva permettersi una vera carrozza.

Sciardèu [s.m.] Persona poco intelligente, incapace, tontolone, con chiaro disturbo dello sviluppo intellettivo, un ciociò, es.: pari nu sciardeu, quannu ta pii na mugghjere? ‘sembri un brocco, quando te la prendi una moglie?’; il femminile sciardedda, assume anche sfumature di donna sciatta, inabile a tenere pulita e ordinata la propria casa.

Sciàrtu [s.m.] Corda, fune, es.: (loc.) ogne pilu para nu sciartu ‘ogni pelo sembra una corda’ (in certe situazioni, specie emotive, ogni cosa piccola appare grande).

Sciasciàre [v.tr.] Cambiare le fasse (fasce) ai neonati una o più volte al giorno, quando i pannolini usa e getta non c’erano ancora e se c’erano costavano troppo; il termine è il contrario di mpassare.

Scichinìenza [s.f.] Roba di poco valore, di poco conto, di scarto, usata, variante sichinìenza; il termine può riferirsi sia a cosa e di rado anche a persona.

Sciddicàre [v.intr.] Scivolare, sdrucciolare.

Sciddicùsu [agg.] Sdrucciolevole, scivoloso.

Scidda [s.f.] Piccola porzione, un po’ di qualcosa, una buona forchettata, brandelli di qualcosa, di solito di una verdura, esempi: na scidda e cicueri ‘una porzioncina di cicoria’, te fazzu scidde scidde ‘ti faccio (concio) brandelli brandelli’.

Sciddiàre [v.tr.] Fare a fette, strisce o pezzettini.

Scìettula 1 [s.f.] Legnetto, lungo circa 15 cm, con le estremità appuntite, impiegato nel gioco pizza, pane e suzizza, conosciuto in italiano come lippa; è il pezzo che deve essere colpito con la mazza; guarda anche mazza e pizza. 2 Minchia, pene.

Scifa [s.f.] Contenitore usato dai cestai per tenere ammollo le stecche.

Scifu [s.m.] Angolo della porcilaia adibita a mangiatoia, truogolo, un tempo ricavato da un tronco escavato, oggi costruito con cemento e mattoni.

Scìfure [s.f.] Località di montagna di Mesoraca compresa tra le località Muntanu e Varrilare.

Scigalìgnu [agg. s.m.] Segaligno, persona asciutta, magra, sana; qualche parlante usa la parola nell’accezione di ‘persona che compie un lavoro inutile’.

Scigàre [v.tr.] Strappare, in particolare il termine si riferisce allo strappare un tessuto o della carta, esempi: sciga chiddu ch’e scrittu ‘straccia quello hai scritto’, se su scigati i cavuzi ‘si sono strappati i pantaloni’.

Scigatìna [s.f.] Squarcio, strappo, lacerazione dell’epidermide; cfr sciancatina.

Scigulàre [v.intr.] Scivolare, sdrucciolare, slittare.

Scìgulu [s.m.] Scivolo, da cui scigulùne ‘scivolone’, ‘sdrucciolone’, ‘scivolata rovinosa’.

Sciladdàppa [s.f.] Nastro adesivo in tessuto usato per tenere ferme bende o simili su una ferita, con la stessa frequenza viene adoperata la variante stiladdàppa.

Scilàre 1 [v.intr.] Il serpeggiare e lo strisciare di una biscia, es.: m’è scilata na vipara davanti ‘mi è passata una vipera davanti’. 2 [v.tr.] Svolgere, srotolare, stendere la pasta fresca, ad esempio gli scilatieddi, es.: nn’aju scilatu a rriegula e nu chilu e farina ‘ne ho impastato (fatto) a regola (più o meno) di un chilo di farina’.

Scilàrmacu [s.m.] Muro di pietra a secco, variante scieràrmacu; guarda anche muragghju.

Scilatìeddi [s.m.] Tipo di pasta, meglio conosciuta con il termine napoletano di ‘scialatelli’, simile a dei grossi spaghetti, come i veneti bigoli.

Scilàzzi [s.m.pl.] Fili di muco e liquidi amniotici che rimangono in bocca e nel naso nei bambini appena nati; sono pericolosi in quanto impediscono di respirare bene, la levatrice per toglierli si aiuta con una siringa ad hoc.

Scileràtu [agg.] Scellerato, malvagio, es.: (loc.) te via scileratu ‘possa vederti sciagurato’.

Scilettàre [v.tr.] Uccidere, accoltellare, usato più in termini scherzosi, per estensione scilettata ossia rompere la schiena a qualcuno, picchiarlo pesantemente, esempi: si te piu te sciliettu ‘se ti prendo di ammazzo’, (lap.) te via scilettatu ‘possa vederti a filetti’ (oppure, che tu possa essere disgraziato), l’ha fattu na bella scilettata ‘gli ha fatto una bella razione di botte’ (gli ha dato una lezione).

Scilinguàtu [agg.] Che parla male, balbuziente o che farfuglia le parole.

Scilòtracu [s.m.] Terreno pietroso non coltivabile, ma anche (similmente) il letto di un torrente in secca.

Scilu [s.m.] Desiderio, nostalgia, esempi: si me vena u scilu mi l’accattu ‘se mi viene voglia me lo compro’, ci’aju scilu e Misuraca ‘ho (un grande) desiderio di (rivedere) Mesoraca’ (ho nostalgia del paese); cfr gulia e chjuritu.

Scilùsu [agg.] Che fa voglia e desiderio, il termine è riferito prevalentemente a qualche buon cibo ed è molto vicino al significato di guliùsu, es.: guà cumu su scilusi i tardiddi ‘guarda come fanno voglia i tardiddi’.

Scimàre [v.tr.] Cimare, nel senso preciso di togliere le fronde ad un ramo o ad un tronco già tagliati, azione che, a seconda dello spessore, può essere effettuata con l’accetta.

Scinneriàre [v.tr.] Passare i panni nell’acqua per lavarli dalla cenere, quando il bucato si faceva in un’altra maniera, oggi significa sciacquare i panni da una prima passata nel detersivo, per chi lava ancora a mano; guarda anche lissia e nchjarare.

Scinnìre [v.intr. v.tr.] Scendere, discendere, calare, adoperata anche la variante scìnnare, esempi: scinna ch’è prontu ‘scendi che è pronto’, quannu su scinnuti da muntagna? ‘quando sono scesi dalla montagna?’, scinname u libru ‘scendimi (portami giù) il libro’.

Scinu [s.m.] Arbusto sempreverde, Pistacia lentiscus, L., impiegato più che altro come materia prima da bruciare nei forni dove viene fatto il pane casareccio.

Sciocculìdda [agg.] Alla lettera ‘sciocchina’, ossia persona che non sempre cura o sa curare il proprio aspetto, es.: (loc.) a donna quannu è bedda de natura, cchjú sciocculidda va e cchjú bedda para ‘la donna quando è bella di natura, più trasandata va e più bella appare’.

Sciòdda [s.f.] Terreno franoso, frana, es.: (lap.) te vorra cadire na sciodda ‘possa caderti una frana’.

Sciosciò [s.m.] Spendaccione, scialacquone, es.: t’e piaciutu u fai u sciosciò, mo l’acchjappi nculu! ‘ti è piaciuto fare lo spendaccione, adesso lo prendi nel culo!’.

Sciovàre [v.tr.] Schiodare, guarda chjuvàre.

Scirchjàre [v.intr.] Impazzire, andare fuori di testa, es: tu me fai scirchjare ‘tu mi fai impazzire’.

Scirchjàtu 1 [agg. s.m.] Pazzo, squilibrato, letteralmente fuori dal cerchio, es.: si scirchjàtu e capu ‘sei fuori di testa’, è nu scirchjatu ‘è un pazzo’. 2 [agg.] Deformato, sformato, p.p. di scirchjare.

Scirinùsa [agg.] Aggettivo riferito ad un impasto che ha subito cottura, di volta in volta assume il significato di ‘soffice ‘digeribile’ ‘leggera’ ‘ben lievitata’, es.: a cuzzupa era bedda scirinusa ‘la cuzzupa era cotta e lievitata bene’.

Scirùeccu 1 [s.m.] Nebbia, sinonimo di negghja. 2 Il vento (caldo) di scirocco, proveniente da Sud-Est.

Sciscìddi [s.m.pl.] Termine generico che indica un oggetto di piccole dimensioni come spille, oggetti di corredo, ogggetti ornamentali di consumo, es.: dui scisciddi avia ncueddu ‘due fronzoli aveva addosso’ (era mal vestita).

Scìsciula [s.f.] Scheggia di mattone o di legno; guarda anche scisciuliare.

Scisciuliàre [v.tr.] Rendere un mattone o un pezzo di legno in piccoli pezzi; il termine è anche usato in senso figurato, ossia indica una persona che con il suo modo di fare, sta perdendo tempo.

Scisciuliàtu [agg.] Persona messa male, malconcia, es.: (lap.) te via scisciuliatu ‘possa vederti a pezzetti’.

Sciuddùme [agg.] Casa molto malridotta, cadente, sbrindellata.

Sciùeddu [s.m.] Guarda sciodda.

Sciuervicàre [v.tr.] Dissotterrare, disseppellire, riesumare.

Sciuffeddàta [agg.] Sfilacciata, sfrangiata.

Sciulicàre [v.tr.] Sciogliere, districare, slegare.

Sciumìentu [s.m.] Suffumigio, ossia riduzione in vapore di sostanze medicamentose a scopo inalatorio.

Sciumulìdda [s.f.] Tipo di formaggio fatto con latte caprino o pecorino.

Sciunnìre [v.tr.] Slegare, slacciare, sciogliere, usata anche la variante sciùnnare, es.: u sse sciunna su nudu ‘non si scioglie questo nodo’; molto usato anche il p.p. sotto forma di aggettivo sciùsu ‘sciolto’ ‘slegato’ ‘liberato’ ‘senza incarto’ ‘sfuso’.

Sciurmàre [v.tr.] Schiodare, disarmare, levare assi, tavole, puntelli e ferri vari da solai, colonne e muri gettati da poco.

Sciurnàre [v.tr.] Sfornare, togliere dal forno, variante spurnàre.

Sciurtìre [v.tr.] Sortire, conseguire, arrivare alla soluzione di un problema, in altre parole, avere un ‘insight fortunoso’, da cui sciurtùtu ‘risolto’ ‘sortito’.

Sciurtunàtu [agg.] Fortunato, fausto.

Sciusceddàtu [agg.] Persona che non ha molta cura di sé, trasandata, malandata.

Sciżżiùeni [s.m.] Località di campagna (uliveti) compresa tra i Riagi (vicino al ponte sul Riace) e Campizzi.

Scocca [s.f.] Una costa di verdura, ne sono esempio finocchio, lattuga, cipolla sedano.

Scòcciu [s.m.] Scotch, nastro adesivo, da cui scòcciu di pacchi ‘nastro per imballi’.

Scòciare [v.tr. v.intr.] Scuocere, cuocere troppo a lungo, adoperata anche la variante scucìre, da cui scùettu ‘scotto’.

Scofanàta [agg.] Aggettivo, non simpaticissimo, riferito alle donne che di solito cambiano la propria fisionomia dopo aver perso la propria verginità.

Scòla [s.f.] Scuola, istituzione dove si riceve un’educazione e una formazione culturale e umana, in generale luogo dove si apprende, esempi: u cce sugnu juta ara scola ‘non ci sono andata a scuola’, u bbidu l’ura u inizia a scola ‘non vedo l’ora che inizi la scuola’.

Scolla [s.f.] Cravatta, in altre parti anche fazzoletto che le donne portano intorno al collo.

Scontricàtu [agg.] Superficie corporea ricoperta di piaghe ed escoriazioni; il termine è molto impiegato per quanto riguarda gli animali da soma.

Scorchjarìeddu [s.m.] Bucce di frutta secca, in particolare di castagne, cumulate a terra dopo la lavorazione; la maggior parte delle volte venivano raccolte e bruciate.

Scorchjulàre 1 [v.tr.] Levare la scorza, la buccia, anche sbaccellare, sgranare, in particolare legumi; di rado indica anche il levare la corteccia ad un albero; cfr scurciare. 2 [v.intr.pron.] Scorticare, spellare una parte del corpo o levare la crosticina che si forma sulle ferite.

Scorciatìna [s.f.] Escoriazione, graffio, es.: ti nne si addunatu ca cci’hai na scorciatina aru cueddu? ‘te ne sei accorto che hai una ferita leggera al collo?’. Guarda scurciare.

Scordatìzzu [agg.] Dimenticato, scordato da tempo, che non ha ricevuto la giusta attenzione, es.: castagne scordatizze ‘castagne dimenticate’ (di essere raccolte).

Scorpìddu [agg.] Minuto, piccolo, esile, di poco conto, specie riferito a persona.

Scorvicàre [v.tr.]  Dissotterrare, esumare, portare alla luce, variante scuervicare.guarda anche sciuervicare.

Scotulàre [v.tr.] Scuotere, sbattere, in genere i vestiti o la tovaglia per togliere la polvere o le briciole, varianti scotuliàre, scuetulàre e scuetuliàre, anche, talora, usato in senso figurato, esempi: scotulìa (o scùetula) u misale ‘sbatti la tovaglia’, mi nne scuetulu ‘me ne sbatto’ (me ne lavo le mani).

Scrapettàre [v.tr.] Uccidere, scannare, ammazzare alla maniera dei capretti, es.: te scrapiettu si te piu ‘ti uccido se ti prendo’; il termine, per quanto brutto, è usato quasi esclusivamente in tono scherzoso.

Scravàre [v.intr.] Sgravare, partorire, dare alla luce; cfr accattare e figghjare.

Scrènca 1 [s.f.] Gamba, anca, da cui screnchina ‘gamba magra’, tipica dei bambini e per sineddoche una ‘bambina magrolina’. 2 Tipo di verdura selvatica, parente del cardo, Scolymus hispanicus L., denominata screnche vecchje, una vera prelibatezza con l’uovo a frittata, es.: aju cuetu nu mazzarieddu e screnche vecchje ‘ho raccolto un mazzetto di gambe vecchie’.

Screncàre [v.tr.] Parola senza un preciso corrispettivo semantico nell’italiano, approssimativamente si tratta di uno strappo, più precisamente si tratta di una lacerazione muscolare unita a disarticolazione dovuta ad una eccessiva divaricazione delle gambe, esempi: vida ppe nnu tte scrienchi ‘vedi di non strapparti’, (lap.) te via screncatu ‘possa vederti lacerarti dalle gambe’ (diventare storpio); guarda anche scancarare. 

Scrima [s.f.] La riga (scriminatura) dei capelli, sinonimo di lìffa, es.: va fatte a scrima ‘vai a farti la scriminatura’ (figurativo, vai a darti una sistemata).

Scripentàre [v.tr.] Far scoppiare, spaccare in due, ma anche trapanare, passare da parte a parte (cfr perciare), es.: te scripientu ‘ti ammazzo’.

Scrittiàre [v.tr.] Tracciare segni (scritte) confusamente, anche cucendo, es.: facce na scrittiata ‘facci una cucita sommaria’ (circa a zig zag)’; termine poco usato all’infinito.

Scrivìre [v.tr.] Scrivere, tracciare, adoperata anche la variante scrìvare, es.: scrivame ogne tantu ‘scrivimi ogni tanto’.

Scronciàre [v.tr.] Scarabocchiare, scribacchiare quaderni e album con disegni tutti da interpretare, variante scruenciare; cfr scrittiare.

Scrozzàre [v.tr.] Tagliare i capelli molto corti, variante scruzzàre; il termine in origine significava decapitare.

Scrudìre [v.intr.] Verdura che ha perso la proprietà di cuocersi, perdita di cottura, in particolare per patate e legumi, es.: si cce jietti acqua fridda i ciciari se scrudiascianu ‘se ci butti acqua fredda i ceci scrudiscono’.

Scrùenciu [s.m.] Scarabocchio, disegno fatto con la penna o con un lapis senza un significato apparente.

Scruffugnùne [s.m.] Sganascione, forte schiaffo; cfr pellaru, buffettune e mappina.

Scrussàre [v.tr.] Sgrassare, levare l’unto, in particolare da pentole e tegami.

Scucchjàre [v.tr.] Disaccoppiare, staccare, separare.

Scucinàta [agg.] Vivanda troppo cucinata, passata di cottura; il termine è prevalentemente adoperato per designare la pasta scotta, molto poco usato l’infinito scucinare, viene preferito scociare.

Scucùgghje [s.f.pl.] Piccoli legnetti, ramoscelli, fraschine, fogliame, utili per avviare il fuoco, usato anche in senso traslato, es.: scucugghje ce truevi si vai mo aru mercatu ‘scarti (cose di poco conto) ci trovi se vai adesso al mercato’.

Scuddàre [v.tr.] Staccare due superfici incollate insieme, ma anche dividere due persone troppo attaccate.

Scùegghju 1 [s.m.] Scoglio, masso. [v.tr.] 2 Prima persona singolare, presente indicativo di scugghjire.

Scueppulàre [v.tr.] Togliersi la coppola o il cappello, variante scoppulàre.

Scueppulùne [s.f.] Scapaccione, colpo dato con la mano tra capo e collo.

Scùernu [s.m.] Scorno, vergogna.

Scùerpuru [s.m.] Termine generico usato per indicare un piccolo legnetto di solito appuntito, variante scùerpu, molto usato anche il diminutivo scuerpurìcchju, esempi: damme nu scuerpuru e riganu ca m’anniettu i dienti ‘dammi uno stelo di origano che mi netto i denti’, si nu scuerpuru all’uecchju ‘sei un rametto nell’occhio’ (sei fastidioso).

Scuervicàre [v.tr.] Guarda scorvicare.

Scuetulafràsche [s.m.] Alla lettera ‘scuotifrasche’ ossia persona inconcludente, buono a nulla, es.: (loc.) scuetulafrasche e scuetulavilanze ud inchjanu u panaru ‘scuotifrasche e scuotibilancia non riempiono il cesto’; guarda anche scuetulavilanze.

Scuetulàre [v.tr.] Guarda scotulare.

Scuetulavilànza [s.m.] Persona inetta, buona a nulla, senza valore; guarda anche scuetulafrasche.

Scuezzulàre [v.tr.] Togliere il fogliame e la peluria dalle pannocchie di granturco.

Scugghjìre [v.tr.] Termine senza un preciso corrispettivo nell’italiano, raggranellare, raccogliere qua e là, cogliere gli ultimi esemplari di un insieme più grande, come ad esempio i resti di un pranzo, le ultime olive sul terreno, gli ultimi spiccioli e così via, variante scògghjare, es.: amu scuetu tuttu ‘abbiamo raccolto tutto’.

Scugghjunàtu [agg.] Alla lettera ‘scoglionato’, ma nel dialetto mesorachese quasi mai assume il significato italiano di ‘annoiato’ ‘scocciato’, bensì quello di ‘spossato’ ‘esausto’ per aver compiuto una grossa fatica, es.: mi cci’aju scugghjunatu a sagghjire e ligne ‘mi ci sono scoglionato (rotto la schiena) a salire (portare su) la legna’; cfr squaddaratu e scatreatu.

Scugnàre [v.tr.] Togliere i cunei da un’armatura e per estensione scassare, rompere, dissodare.

Sculàre 1 [v.tr.] Scolare, sgrondare dall’acqua. 2 [v.intr.] Eiaculare, emettere liquido seminale, venire, es.: e sculatu? ‘hai scolato?’ (sei venuto?); cfr sburrare.

Sculatìna 1 [s.f.] Sperma, liquido seminale. 2 L’atto dello scolo di qualcosa, es.: (loc.) tu arrivi are sculatine de frittule ‘tu arrivi allo scolo delle frittule’ (arrivi sempre tardi, ossia alla fine).

Sculuriscìre [v.tr. v.intr.pron.] Scolorire, stingere, scolorirsi, da cui sculurisciùtu ‘stinto’.

Scuma [s.f.] Schiuma, spuma.

Scumare [v.tr.] Schiumare, levare la schiuma, specie quella che si forma quando si prepara il brodo di carne o quando si lessano dei legumi.

Scummerdiàre [v.tr.] Offendere, svergognare.

Scummèrire [v.intr.] Sconvenire, comportarsi in maniera inappropriata dal punto di vista delle norme sociali o morali, ma anche di qualcosa che non si confà alla propria immagine, esempi: scummera si u cce viegnu ara zita? ‘sconviene se non vengo al matrimonio?’, scummieri ccu su cappottu ‘non fai bella figura con questo cappotto’; cfr paracatè.

Scummenàre [v.tr.] Scombinare, disordinare, scomporre.

Scummìntare [v.intr.] Detto di qualcosa di stagionale che sta finendo, il termine è pienamente adeguato se riferito a frutta e verdura, esempi: i pumi su scummisi ‘le mele hanno finito la stagione’ (il tempo delle mele è passato), i siddi e solitu scummintanu a ottobre ‘i porcini di solito finiscono a ottobre’; variante scummintìre; cfr mintìre.

Scummittìre [v.tr.] Scommettere, puntare una somma, varianti scumméttare e scomméttare.

Scummugghjàre [v.tr.] Scoperchiare, scoprire, variante scummògghjare, es.: stanotte te si scummugghjatu ‘questa notte ti sei scoperto’ (rimasto senza coperta).

Scumpariscìre [v.intr.] Fare cattiva figura, rovinarsi la reputazione, esempi: u cce viegnu ccu ttie ca me fai scumpariscire ‘non ci vengo con te che mi rovino la reputazione’, si te minti chiddi cavuzi scumparisci ‘se ti metti quei pantaloni fai brutta figura’; cfr scummerire.

Scumpùsu [agg.] Deluso, disilluso, afflitto.

Scunchjùsu [agg.] Persona disordinata, buona a nulla e inconcludente, per questo può risultare inopportuna e sguaiata; participio passato del verbo *scunchjudire (LA); guarda anche cunchjudire.

Scuntìentu [agg.] Scontento, deluso, mesto.

Scuntru [s.m.] Vergogna, affronto, imbarazzo, contrasto, es.: oih cchi scuntru! ‘oih (mannaggia) che vergogna!’.

Scunzàre [v.tr.] Sconciare, guastare, sparecchiare, il contrario di cunzare, esempi: io cuenzu e iddu sconza ‘io aggiusto e lui guasta’, sconza e gghjamuninne ‘sparecchia e andiamocene’.

Scunzulàre [v.tr. v.rifl.] Sconsolare, non recar sollievo, non trovare conforto, es. a morte du gattu l’ha scunzulatu ‘la morte del gatto l’ha sconsolato’.

Scupafucùne [s.m.] Spazzacamino, persona addetta alla pulizia delle canne fumarie.

Scupàzzu [s.m.] Scopa composta da uno straccio e da un manico molto lungo, impiegata per pulire il forno a legna. 

Scupètta [s.f.] Scopa di piccole dimensione, specie quelle usate per pulire la base del caminetto, viene adoperato anche il diminutivo scupettìna ‘spazzola’.

Scupettiàre [v.tr.] Scopare con la scupetta.

Scuppàre [v.intr.] Il fuoriuscire di un liquido dai bordi del contenitore dove si trova, esempi: u ffare scuppare u latte ‘non fare fuoriuscire il latte’ (quando lo si scalda troppo), si l’inchji assai pue scuppa ‘se lo riempi troppo poi trabocca’ (come nelle damigiane quando vengono riempite fino all’orlo di mosto); qualunque contenitore, riempito oltre la sua capacità ovviamente scuppa.

Scuppètta [s.f.] Fucile, schioppo, es.: […] ccu a scuppetta vulimma cantà ‘con il fucile vogliamo cantare’ (Brigante se more, Eugenio Bennato).

Scupùgghje [s.f.pl.] Se si potesse tradurre alla lettera sarebbe ‘scopaglie’, ossia legnetti piccoli secchi, utili per accendere il fuoco; cfr scucugghje.

Scùpulu [s.m.] Grossa scopa (ramazza) formata dalla parte finale di una varietà della pianta delle canne (guarda cannamasca) o da altro arbusto (guarda gazza), usata per scopare soprattutto superfici esterne, o magazzìeni senza pavimentazione; fino a non molto tempo fa era lo strumento usato dagli spazzini per spazzare le strade; il termine dà il nome anche alla pianta stessa.

Scuràre [v.tr. v.intr.] Fare buio, il venir sera, tramontare, esempi: è scuratu ‘è scurato’ (è venuta sera o è venuto buio), ara scuràta ‘al tramonto’.

Scurciàre 1 [v.tr.] Sbucciare, spellare, scorticare, esempi: scurciare u puercu ‘scorticare il maiale’, scurciare e fave ‘sbucciare le fave’; guarda anche scorchjulare. 2 In senso figurato, accollarsi, sopportare, sciroppare, farsi carico, di qualcuno o qualcosa, esempi: t’a scuerci tu a mammasa?! ‘te la accolli tu sua madre?!’, va scorciate (dopo una partita a carte in cui si è perso) ‘va’ a pagare’ (vai a fartene carico). 3 Scorciare, rendere più corto, es.: dalle na scurciata a si capiddi ‘dagli una accorciata a questi capelli’.

Scurdàre 1 [v.tr. v.intr.pron.] Scordare, dimenticare, scordarsi, es.: fa bene e scordate, fa male e guardate ‘fai bene e scordati, fa male e guardati’ (se si fa del bene è assai probabile che la persona che lo riceve ben presto lo dimenticherà, ma non il Signore; se si fa del male è praticamente certo che la persona che lo ha subito non lo dimeticherà mai, e forse neanche il Signore). 2 Scordare, perdere l’accordatura.

Scurinàre 1 [v.tr.] Tagliare la cima di un albero per farlo crescere basso e largo. 2 Decapitare persone o animali, usato solo in senso metaforico; guarda scurinatu.

Scurinàtu [agg.] Malandato, con la testa tra le nuvole, sconclusionato, esempi: me sientu scurinatu ‘mi sento confuso e indolente’, (lap.) ih chi te via scurinatu ‘ih che possa vederti senza testa’ (che ti colga qualcosa).

Scuritòriu [s.m.] Luogo molto buio, scuro; il termine può indicare sia un luogo della casa dove penetra poca (o niente) luce che una valle poco esposta al sole.

Scurmàre 1 [v.tr.] Scolmare, togliere un po’ di qualcosa che si è messo di troppo in un contenitore, in particolare liquidi; la parola con il significato opposto è parinchjìre; il termine è anche usato per indicare la perdita, per cause naturali, di fiori degli alberi da frutto, in particolare degli ulivi.

Scurmàre 2 [v.tr.] L’azione di tagliare a pezzi la legna, ma di lunghezza utile per il camino, fare curmi, es.: scurmale ca cc’e nzaccamu ‘tagliale a pezzi che ce le ficchiamo’ (dentro al camino) cfr scimare.

Scurnacchjàre [v.tr.] Svergognare, schernire, deridere, da cui scurnacchjàtu ‘svergognato’ ‘sfrontato’.

Scurrìre 1 [v.intr.] Scorrere, fluire, sgocciolare, variante scùrrare. 2 Pulire le piantine di grano, lino o di altra pianta utile dalle erbacce.

Scurritùra [s.f.] Nelle colture, la “pulitura” delle piantine dalle erbacce.

Scurtàre [v.tr.] Accorciare, diminuire, es.: va fatte na scurtata ari capiddi ‘vai a farti una accorciata ai capelli’; guarda anche scurciare.

Scurtatùru [s.m.] Scorciatoia, viottolo, sinonimo di accurtaturu.

Scurzùne [s.m.] Grossa biscia, Elaphe longissima L.; il termine è spesso impiegato per indicare anche una qualsiasi biscia di grosse dimensioni, un serpente, es.: (loc.) quannu vidi nu scurzune chjama a San Paulu ‘quando vedi un serpente chiama a San Paolo’ (quando vedi il serpente, il demonio, invoca San Paolo).

Scusàgnu [agg.] Luogo appartato, riservato, talvolta tetro, poco frequentato, es.: (parlando di una abitazione) se trova aru pubbricu e aru scusagnu ‘si trova al pubblico (dove tutti passano) e allo stesso tempo è appartata’.

Scuscenziàtu [agg.] Incosciente, irresponsabile, letteralmente ‘privo di coscienza’.

Scusìre [v.tr.] Scucire, dividere due parti cucite insieme.

Scusitìna [s.f.] Scucitura, sdrucitura.

Scustumatìzza [s.f.] Sfrontatezza, scortesia, mala creanza, maleducazione, scostumataggine, variante scustumatìa.

Scustumàtu [agg.] Maleducato, scostumato.

Scuttàre [v.intr.impers.] Esaurire, diminuire, estinguere l’acqua per cause naturali come una estate torrida, o per cause artificiali, come una interruzione a monte, es.: è scuttata l’acqua ‘è finita (interrotta) l’acqua’.

Scuverìre [v.tr.] Scoprire, scoperchiare, guarda anche scummugghjare.

Se 1 [agg.dim.] Queste, codeste, aferesi di chisse, esempi: t’e mmanci se due ova? ‘te le mangi queste due uova?’, damme se quattr’ossa ‘dammi queste quattro ossa’ (dammi la mano). [pron.pers.rifl.] 2 Pronome personale riflessivo ‘si’, esempi: se scoddanu aru sule ‘si scollano al sole’, domane se ntrigghja ‘domani si ubriaca’, se mmita sulu ‘si invita (da) solo’, se ncavuna si u minti ddà ‘(si) cade se lo metti là, se piscia ncueddu ‘si piscia addosso’, se jetta menzu chilu e pasta ‘si butta (mangia) mezzo chilo di pasta’; guarda anche sse. 3 Pronome personale riflessivo ‘si’ combinato col verbo essere ‘è’, esempi: s’è currivatu ‘si è offeso’, s’è ncazzatu e si nne gghjutu ‘si è incazzato e se ne andato’. [pron.pers.c.] 4 Pronome personale ‘se’ combinato con il pronome ‘le’, esempi: s’e mmanciau tutte ‘se le mangiò tutte’, s’e minta doppu ‘se le mette dopo’. [cong.] 5 Congiunzione ‘se’ (condizionale) combinata col pronome ‘le’, es.: s’e vvue piatile ‘se le vuoi prenditele’, s’e ttruevi tenatile ‘se le trovi tientele’. [v.tr.] 6 Forma tronca della seconda persona singolare, presente indicativo, del verbo sentire, esempi: se’, avvicinate ca taje dire na mmasciata ‘senti, avvicinati che ti devo dire una cosa’, se’, io u mm’a fidu cchjù ‘senti, io non me la sento più’.

Secra [s.f.] Versione selvatica della bietola, Beta Vulgaris L., esempi: me staju manciannu secre e suraca ccu na pedduzza ‘mi sto mangiando bietole selvatiche con fagioli e una cotica’, pari na secra ‘sembri una bietola’ (sei una racchia).

Secra

Secrétu [s.m.] Segreto, informazione riservata.

Sèggia [s.f.] Sedia, da cui seggiùne ‘grossa sedia’ e seggiulìdda ‘sedia di piccole dimensioni’ che di solito si trova accanto al focolare.

Seggiàru [s.m.] Artigiano costruttore e riparatore di sedie.

Seghìettu [s.m.] Seghetto, piccola sega, di solito quella che s’impiega per tagliare metalli.

Segnùre [s.m.] Gesù, Signore, variante Signùre, esempi: Segnure miu famme sta grażża ‘Signore mio fammi questa grazia’, (loc.) u Segnure manna viscuetti a chine u tena ganghe ‘il Signore manda viscuetti a chi non ha molari’ (non sempre il Signore fa le cose giuste), (loc.) u Segnure u te fa cuntientu e miegghju a miegghju ‘che il Signore possa farti contento di meglio in meglio’ (frase che si dice quando si vuole augurare l’optimum per l’interlocutore del momento), u Segnure muertu ‘il Signore morto’ (sinonimo della processione del Venerdì Santo), u Segnure u tte fa cuntientu! ‘il Signore non ti fa contento!’, Segnure miu perduname, para c’u ce forra mmai statu ‘Signore mio perdonami, sembra che tu non ci sia mai stato!’ (esclamazione moralmente discutibile, la persona che la pronuncia da un lato chiede perdono a Dio (perduname), dall’altro sta dicendo alla persona cara scomparsa che non le manca, glielo dice in prima persona), (loc.) duve ce su i figghji u Segnure ce vigghja ‘dove ci sono i figli il Signore ci vigila’ (i figli sono una grazia); guarda anche naca.

Senzàle [s.m.] Mediatore, intermediario.

Serra 1 [s.f.] Sega, lama dentata, da cui serràcchju ‘tipo di sega che si usa con una sola mano’ e serra e vùetu ‘sega con lama mobile per sagomare’. 2 Dorso di una montagna o montagne a catena, da cui Serra du Truenu ‘Serra del Tuono’, località di campagna in posizione nord-est rispetto al comune; guarda Passu da Serra.

Serratùre [s.m.] Segantino, artigiano che usa la sega, a mano o elettrica, per tagliare fusti di legno per trarne semilavorati o legna da ardere, variante serratùru.

Serrétta [s.f.] Minuscolo seghetto in ferro lungo circa tre cm e alto quattro millimetri circa; una volta si trovava nelle confezioni di medicine a fiala, serviva a fare una piccola incisione per meglio spezzare il bulbo con le dita.

Servìżżu [s.m.] Servizio, servigio, esempi: (loc.) ppennu ddire Madonna te rincrażżu, dicia c’u lle piacia ru serviżżu ‘per non dire “Madonna ti ringrazio”, dice che non gli piace il servizio’ (non ci si contenta mai, anche quando la sorte ci da una mano), (loc.) na via e due serviżżi ‘una via e due servizi’ (due commissioni, uno sbattimento).

Settèmpre [s.m.] Settembre, nono mese dell’anno.

Settìna [s.f.] Insieme di persone, o animali, o cose, o eventi pari a sette o circa sette.

Sfogliàre [v.tr.] Ridurre in lamine un pezzo di legno.

Sfìziu [s.m.] Sfizio, sollazzo.

Sfringuliare [v.tr.] Sfilacciare, ridurre a brandelli.

Sgangàtu [agg.] Sdentato, privo di denti molari.

Sgarru [s.m.] Sbaglio, sgarro, es.: aru primu sgarru si muertu ‘al primo sgarro sei morto’.

Sgrancàre [v.rifl] Sgranchire, sciogliere, es.: m’aje sgrancare e gamme, sugnu anninocchjata e stamatina ‘mi devo sgranchire le gambe, è da stamattina che sono inginocchiata’.

Sguàttaru [s.m.] Sguattero, garzone.

Si 1 [agg.dim.] Questi, codesti, es.: si quatri me piacianu ‘questi quadri mi piacciono’. 2 [pron.pers.] Se pronome, esempi: si nn’è gghjutu ‘se ne è andato’, si m’u vue dire ‘se me lo vuoi dire’, (loc.) si vue cadare malatu mancia pierzichi e granatu ‘se vuoi cadere ammalato mangia pesche e melograno’ (proverbio dalla dubbia utilità), (loc.) si vue ciciari scippatinne si vue fave vieni cca ‘se vuoi ceci prendine se vuoi fave vieni qua’ (proverbio un po’ volgare). 3 [cong.] Se congiunzione, esempi: si se minta a parrare u ss’a finiscia cchjù ‘se si mette a discutere non se la finisce più’, (loc.) si ad ogni petra ce minti u pede ud arrivi mmai ‘se ad ogni pietra ci metti il piede non arrivi mai’ (se ad ogni cosa ti offendi, o ti fermi, non si arriva mai a conclusione).

Si [v.intr.] Indicativo presente seconda persona singolare verbo essere, es. si na cosa fina ‘sei una cosa fine’ (ironico, sei un grezzo).

Sicàrru [s.m.] Sigaro, rotolo di foglie di tabacco.

Siccàgnu [agg.] Terreno arido, secco, in particolare il letto dei torrenti rinsecchiti.

Siccàre [v.tr.] Essiccare, seccare, es.: e fattu siccare e graste ‘hai fatto essiccare le piante’.

Sicchiàre [v.intr.] Diventare secco, l’inizio dell’inaridirsi di qualcosa, es: i pumadueri stanu sicchiannu ‘i pomodori stanno iniziando a seccare’; non molto usato l’infinito.

Sìccia [s.f.] Seppia, Sepia officinalis L., variante sicchja.

Sicùnnu 1 [agg.num.] Secondo, successivo, es.: u sicunnu canale ‘il secondo canale’. 2 [s.m.] Nome di uno dei tanti vuddi balneabili della jumàra, situato poco più sopra del ben più grosso Briglia, le piene e l’incuria lo hanno fatto sparire, era spesso adoperato come piccola scuola di nuoto, molti ragazzini imparavano a nuotare in questo posto, prima di tuffarsi nel ben più profondo Briglia.

Siddu [s.m.] Porcino, il ben noto fungo: Boletus edulis Bull. (nei boschi di faggio), Boletus pinophilus Pilat (nei boschi di pino), Boletus aereus Bull. (nei boschi di castagno, faggio, cerro), Boletus aestivalis Paulet (nei boschi di castagno, cerro); da segnalare inoltre altre due specie non commestibili, Boletus satanas Lenz. ‘siddu mmelenàto’ (porcino avvelenato) e Boletus carpini Kallen. ‘siddu cannilaGyroporus castaneus Bull. & Fr. (porcino candela, per la forma del gambo).

Sidi [avv.] Paragoge di si, indicativo presente seconda persona singolare del verbo essere, es.: sidi bravu ‘sei bravo’.

Sìdici [agg.num.] Il numero sedici.

Sie [agg.num.] Il numero sei.

Sìenzu [s.m.] Senso, pensiero, intuito (anche ‘sesto senso’), consapevolezza, esempi: mi cce dava u sienzu ca stava arrivannu ‘mi ci dava il senso che stava arrivando’ (l’intuito, il pensiero, mi diceva che stava arrivando), (loc.) sienzu giustu finu all’ura da morte ‘senso giusto fino all’ora della morte’ (che il cervello mi funzioni adeguatamente fino all’ora della morte, anzi qualcuno specifica fina a nn’ura doppu da morte ‘fino ad un’ora dopo la morte), aparirire u sienzu ‘aprire il senso’ (schiarirsi le idee, ristrutturare il campo cognitivo), mi ce sugnu ruttu u sienzu ‘mi ci sono rotto il senso’ (modo di dire per sottolineare di aver elucubrato molto su qualcosa), i sienzi u cci l’aju cchjù cuemu na vota ‘i sensi (tutte le funzioni cognitive) non ce li ho più come una volta’.

Sìeru [s.m.] Siero, la parte del latte che rimane dopo la caseificazione, sottoprodotto della fabbricazione dei formaggi.

Sìettu 1 [s.m.] Fondo, la parte bassa di un oggetto, come un vaso ad esempio. 2 Terreno pianeggiante circondato da colline o montagne.

Signa 1 [s.m.] Segno, graffio, sfregio cenno, variante signu, esempi: famme signa (signu) quannu passi ‘fammi segno quando passi’, (loc.) ccu ra rroba e ra vigna se marita a signa ‘con la roba e la vigna si marita (pure) la sfregiata’; cfr singa; da sottolineare che in altre parti della Calabria il termine vuol dire ‘scimmia’, per cui il secondo esempio calza anche con questo significato.

Signaliàre [v.tr.] Segnalare, evidenziare, tracciare un segno che aiuti a ricordare, avvisare.

Signòra [s.f.] Oltre al significato italiano, la parola fino a qualche anno fa era usata dai bambini di scuola elementare al posto di ‘signora maestra’.

Signurinèdda [s.f.] Signorinella, giovinetta.

Siìna [s.f.] Insieme di persone, o animali, o cose, o eventi pari a sei o circa sei, variante seìna.

Simàna [s.f.] Settimana, es.: (loc.) luni luniai, marti e miercuri u filai, u juevi pierzi u fusu, u vennari u truvai, u sabatu le fici a testa ppe ra duminica ch’era festa ‘lunedì vagabondai, martedì e mercoledì non filai, giovedì ho perso il fuso, venerdì lo ritrovai, sabato gli aggiustai la testa per la domenica che era festa’ (una settimana passata senza fare niente, oziando).

Simènta [s.f.] Semenza, semi, es.: (lap.) chi si nne vorra perdare a simenta da razza tua ‘che si possa perdere ogni traccia della tua razza (famiglia)’.

Simentìnu [agg.] Sementino, ovvero frutto o verdura ricca di semi e quindi non di grande pregio; infatti, la parola è usata anche in senso figurato, es.: tritruelu simentinu ‘cetriolo sementino’ (citrullo al quadrato).

Simìggia [s.f.] Puntina piatta, anche piccolo chiodo da calzolaio.

Simu [v.intr.] Indicativo presente prima persona plurale verbo essere, es.: simu sulu nue chi jamu aru liettu a matina priestu ‘siamo solo noi che andiamo a letto la mattina presto’.

Simulànte [agg.] Terreno arato più volte fino a renderlo farinoso e quindi utile per la semina.

Sinàle [s.f.] Grembiule, sinonimo di fadale.

Singa [s.f.] Segno, linea, incisione, es.: facce na singa subra u terrienu ‘traccia un segno sul terreno’; di rado usata anche la forma maschile singu.

Singàre [v.tr.] Tracciare, demarcare, solcare, rigare.

Singatùru [s.m.] Tavoletta di legno dotata di punta metallica, adoperata dai falegnami per prendere lo spessore di una tavola.

Singaturu

Sini [avv.] Composizione dell’avverbio ‘sì’ e della sillaba ‘ni’ con funzione paragogica; forma rafforzata di sì e corrisponde all’italiano ‘sine’; cfr noni.

Sìnnacu [s.m.] Sindaco, esempi: chine anu fattu sinnacu? ‘chi hanno eletto sindaco’, s’è spusatu aru sinnacu ‘si è sposato dal sindaco’ (matrimonio civile); adoperata anche la variante sìnnicu ed il dispregiativo sinnichìcchju ‘piccolo sindaco’ ‘sindaco che non vale niente’.

Sinnò [avv.] Alla lettera ‘se no’, ossia ‘altrimenti’, es.: sinnò cchi mme fai? ‘altrimenti cosa mi fai?’.

Sinu [s.m.] Grembo, seno.

Sipultùra [s.f.] Sepoltura, tomba.

Sira [s.f.] Sera, crepuscolo, es.: a sira-sira ‘la sera-sera’ (intercalare, di qualcosa che si fa la sera, dopo gli altri impegni).

Sìricu [s.m.] Serico, baco da seta; guarda anche sita.

Sisca [s.f.] Secchia in alluminio usata dai pastori per mungerci il latte.

Sita [s.f.] Seta, la fibra ricavata dal bozzolo del baco da seta, Bombyx mori L.; guarda anche siricu.

Sitàcciu [s.m.] Setaccio, piccola grata dove, con le mani, si sfregavano i pomodori maturi per fare la conserva, quando il passatutto non cera; guarda anche sarza.

Site [s.f.] Sete, es.: m’aju sunnatu jumare e laghi da site c’avia ‘ho sognato fiumi e laghi dalla sete che avevo’.

Siti [v.intr.] Indicativo presente seconda persona plurale verbo essere, es.: cuemu siti cunzati? ‘come siete messi?’.

Sivu [s.m.] Grasso animale, in particolare quello dei maiali.

Sivùrra [s.f.] Zavorra, carico.

Smenzàre [v.tr.] Smezzare, dividere a metà.

Smicciàre [v.tr.] Scorgere, sbirciare, spiare, molto usato il participio passato smicciatu ‘intravisto’.

Sminchjàtu [agg.] Sminchiato, demoralizzato; rotto, fuori uso.

Sofìsticu [agg.] Sofisticato, che manca di spontaneità; eccessivamente complicato, specie nei discorsi.

Sola [s.f.] Suola, la parte della scarpa che poggia sul terreno.

Solètta [s.f.] Solaio, cioè l’armatura piana, di solito in cemento armato, usata per solai o coperture piane in genere, es.: domane jettamu a soletta ‘domani gettiamo il solaio’.

Solìre [v.intr.] Solere, essere soliti, avere l’abitudine, variante sulire, es.: sola bbenire are tre ‘suole viene alle tre’.

Sonagghjèra [s.f.] Giocattolo in materiale plastico per bambini molto piccoli, è fatto da un manico tondo a cui è attaccata una pallina con dentro altre piccole palline, agitandolo produce un tintinnio che piace agli infanti; il manico è studiato apposta per essere morso, così le piccole pesti possono farsi i denti, le mamme, o chi li accudisce, possono anche fare altro nel frattempo perché il suono le comunica che il bimbo sta giocando; la sonagliera in italiano indica un collare tintinnante degli animali da pascolo.

Sordiàre [v.intr.] Avere, maneggiare o guadagnare molti soldi, es.: quannu era a Milanu sordiava assai ‘quando era (emigrato) a Milano guadagnava molto’.

Sordu [s.m.] Soldo, denaro, pecunia, es.: (loc.) le mancanu diciannove sordi ppe na lira ‘gli mancano diciannove soldi per una lira’ (è sempre in bolletta; il proverbio affonda le sue radici nel Medioevo, quando ci volevano in effetti venti soldi per formare una lira), (loc.) i sordi fanu venire a vista ari cecati ‘i soldi fanno tornare la vista ai ciechi’ (ovvero chi ha i soldi ha anche la possibilità di curarsi).

Sorgiva [s.f.] Sorgente, fontanella di montagna.

Soricèdda [s.f.] Sorellina, molto usata anche la forma tronca soricé o sorice’, adoperata quando un proprio caro deve raccomandare o confidare qualcosa di importante alla propria sorella o ad una persona cara, es.: soricé, senza e tie mi nne stava gghjiennu all’atru munnu ‘sorellina mia, senza te me ne stavo andando nell’altro mondo’.

Sorma [s.f.] Mia sorella, es.: sorma Maria ‘mia sorella Maria’; guarda anche sueru.

Sorta [s.f.] Tua sorella, es.: è stata sorta chi mi l’ha dittu ‘è stata tua sorella che me lo ha detto’; guarda anche sueru.

Sorva [s.f.] Sorba, frutto del sorbo Sorbus domestica L., da cui sorvìgnu che ha il sapore della sorba, ovvero ‘acidulo’ ‘acerbo’, es.: (loc.) ccu ru tiempu e ra pagghja maturano e sorve ‘con il tempo e la paglia maturano le sorbe’ (la pazienza porta buoni risultati).

Spacantàre [v.tr.] Svuotare, liberare un recipiente dal liquido contenuto al suo interno, anche vuotare un invaso d’acqua, esempi: aju spacantatu nu jascu e 54 litri ‘ho svuotato un fiasco da 54 litri’, anu spacantatu a cipia ‘hanno svuotato la cipia’.

Spaccapìritu [s.m.] Alla lettera ‘spacca scoreggia’ ossia ‘perizoma’ ‘tanga’, neologismo usato in forma scherzosa tra le persone giovani, in via d’estinzione.

Spaccariàre [v.tr.] Screpolare, frantumare, crepare.

Spaccatìna 1 [s.f.] Spaccatura, breccia, ferita, es.: na spaccatina ara capu ‘una ferita alla testa’. 2 Vagina, anche nella variante spaccàzza, entrambi i termini sono molto poco usati, viene preferito pipe o picciune, ma si va sempre più affermando ‘figa’. 3 Piccola apertura esterna posta in fondo alle maniche della giacca, dove ci sono i bottoni.

Spaccennàtu [agg.] Sfaccendato, fannullone.

Spacchjatùra [s.f.] Ramo d’albero attaccato al tronco o al ramo principale, facile a staccarsi.

Spacchjàre 1 [v.rifl.] Rinfrescarsi, dissetare, ristorarsi, divertirsi, esempi: spacchjate a vucca ‘rinfrescati (dissetati) la bocca’ (ristorati), spacchjate l’uecchji quannu me vidi ‘rifatti gli occhi quando mi vedi’. 2 [v.tr.] Disgiungere, rompere, staccare, es.: ha spacchjatu u ramu bbuenu ‘ha staccato il ramo buono’.

Spacchjùsu [agg.] Favoloso, molto bello, fresco, pimpante, simpatico; da notare che in altre parti della Calabria e in Sicilia la parola spacchju indica anche lo sperma.

Spacenziàre [v.tr. v.intr.pron.] Perdere o far perdere la pazienza, da cui spacenziùsu ‘impaziente’, ‘insofferente’, ‘agitato’, es.: te spacenzii subitu ‘ti spazientisci subito’.

Spachìetti [s.m.pl.] Spaghetti, ossia la famosa pasta per la quale sono famosi gli italiani nel mondo; parola ormai poco usata, es.: vieni ca ne facimu dui spachietti ‘vieni che ci facciamo due spaghetti’.

Spacìre [v.tr.] Sprecare, sciupare.

Spacu [s.m.] Spago, cordicella.

Spadda [s.f.] Spalla, da cui spaddàta ‘spallata’, ‘spintone’, al plurale sono parimenti usate spaddi e spadde.

Spaddanàtu [agg.] Pane che si è cotto bene, specie lungo le righe fatte sopra prima della cottura; ovviamente le righe (le spalle) si cuociono bene e si aprono se la lievitazione è stata fatta con dovizia; non molto usato l’infinito spaddanare.

Spaddottàre [v.tr.] Sbriciolare, togliere i grumi, ridurre a farina da una forma più grande; guarda anche paddòtta e appaddottare.

Spafànte [agg. s.m.] Spavaldo, spaccone, da cui l’aggettivo spafantùsu ‘che rivela sfrontatezza, arroganza’ e il sostantivo spafanterìa ‘spavalderia’, es.: u ffare u spafante (o spafantusu) ccu mmie ‘non fare lo spavaldo (arrogante) con me’.

Spaffàre [v.tr.] Sbafare, mangiare avidamente.

Spagghjòcca [s.f.] Il fogliame che avvolge il granturco, un tempo usato per farne sotto materassi o materassi veri e propri (guarda saccune); il termine è anche impiegato in senso metaforico ed indica perdita di fiducia e/o stima nei confronti di un’altra persona, es.: ccu ttie u c’è cchjù spagghjocca ‘con te non c’è più sostanza’ (non ci si può più avvalere).

Spagnàre [v.intr. v.intr.pron.] Incutere paura, mettere apprensione, avere inquietudine, provar timore o spavento di qualcuno o qualcosa, esempi: u cce vaju ddà ca me spagnu ‘non ci vado là che ho paura’, mi nne spagnu ‘me ne spavento’ (ne ho paura), (loc.) spagnate du riccu mpoveritu e du poveru arricchisciutu ‘abbi paura del ricco impoverito e del povero arricchito’ (entrambe le categorie potrebbero diventare cattive), (loc.) a cavuda l’ha squadatu e da fridda si nne spagna ‘(l’acqua) calda l’ha scottato e dalla fredda ne ha paura’ (chi è rimasto deluso da una persona, in futuro avrà timore di essere deluso di nuovo anche da persone che meriterebbero più fiducia; estensione del trauma).

Spagnatàru [agg.] Fifone, persona che ha facilmente paura.

Spagnolìeddu [s.m.] Peperoncino, il re delle spezie, Capsicum annuun cerasiferum L., la specie un tempo più diffusa localmente, di forma tondeggiante, abbastanza piccante, es.: piame nu cerasieddu ca chissu ud usca ‘prendimi un ciliegino che questo non picca’. Senz’altro la spezia più apprezzata in Calabria, molti la usano ovunque, ovvero (se giustamente dosata) può essere impiegata in svariati piatti, dal classico spezzatino al piatto di spaghetti al pomodoro, ma anche al gelato, al cioccolato, alle marmellate e così via, è il gusto che fa vibrare tutti gli altri gusti. La sostanza “elettrizzante” principale è la capsaicina (C18H27NO3) un alcaloide tonico del sistema nervoso, è misurata in unità Scoville: la capsaicina pura ha un valore pari a 16.000.000, il peperone dolce invece è pari a zero; il peperoncino più piccante in assoluto è il Carolina reaper (la morte del Carolina – del Sud) con picchi di unità Scoville pari ad 2.200.000, poi c’è lo Scorpione di Trinidad con i suoi rispettabili picchi di 2.000.000, il Naga Morich (circa un milione),  l’Habanero con circa 300.000; e quello nostrano? Si situa “appena” a 20/30.000 (Wiki), (V. Teti, Storia del peperoncino); il primato del Carolina pare sia insidiato da Pepper X, anche se ancora non è ufficiale, sembra che superi i 3.000.000 shu. L’autore ha assaggiato moltissime varietà, incluso il Carolina, lo scorpione, il 7 pod, il Naga Morich, ma rimane del parere che quello calabrese è quello che unisce perfettamente piccantezza e sapore; anche il Cayenna lungo in quanto a sapore non scherza; guarda anche uscare e spiezzu.

Spagnùelu [s.m.] Peperone, Capsicum annuum, varietà non piccante; non di rado si usa dire spagnuelu finu ‘peperone fino’ per indicare il peperoncino macinato.

Spalastrùne [s.m.] Guarda palastrune.

Spalificàre [v.tr.] Propalare, render pubblico, spettegolare qualcosa di segreto o riservato; molto usato anche il participio passato spalificàtu con funzione aggettivale, esempi: e na nutiżża spalificata ‘è una notizia spettegolata’, me raccumannu u ru spalificare ‘mi raccomando non lo rivelare’; cfr spubbricare.

Spalummàtu [agg.] Essere senza soldi, squattrinato, spiantato.

Spammàre 1 [v.intr.] Filarsela, smammare, togliersi di mezzo, esempi: quannu l’affrunti spammatila ‘quando lo incontri fila via’, spamma! ‘sparisci!’; naturalmente significa anche ‘mandare posta elettronica indesiderata’. 2 Svezzare, slattare.

Spampàre [v.tr. v.intr.pron.] Infiammare, far prendere fuoco, come in italiano, può essere riferito anche all’infiammarsi del viso, esempi: fa spampare u fuecu ‘fai prender fuoco’, le spampava ra faccia da vrigogna ‘gli s’infiammava il viso dalla vergogna’.

Spampinàre[v.tr.] Defoliare, sbucciare, ovvero togliere le foglie (le pampine) senza l’ausilio di agenti chimici.

Spampùne [s.m.] Spavaldo, uomo focoso, es.: spampune e vucca ‘coraggioso di bocca’.

Spanacàtu: Muro che si è stonacato per via dell’umidità.

Spanàre [v.tr.] Rovinare la filettatura (o impanatura) di una vite o di un rubinetto.

Spannìre [v.tr.] Stendere, spandere, es.: spanniamu e castagne subra u cannizzu ‘stendavamo le castagne in una rete di canne’.

Spannizzàre [v.intr.pron.] Provare un sentimento di gioia, di soddisfazione, togliersi un peso, rallegrarsi, es.: mi se spannizza u core ‘mi si rallegra il cuore’.

Spanticàre [v.intr. v.intr.pron.] Spaventare, prendersi un colpo, da cui spanticàta ‘spavento’, esempi: u ru spanticare ca le pia nu collassu ‘non spaventarlo che gli prende un collasso’, torcicueddu chi spanticata! ‘torcicollo (porca boia) che spavento’; cfr spagnare.

Spantìcchju [s.m.] Fifone, cagasotto.

Spanzàre [v.intr.pron.] Abbuffarsi di brutto, rimpinzarsi, da cui spanzàta ‘abbuffata’ ‘scorpacciata’, es.: m’aju spanzatu e culumpre ‘mi ho (sono) abbuffato di fioroni’.

Spàraci [s.m.pl.] Asparagi, Asparagus officinalis L., la specie più commercializzata e che troviamo al supermercato, Asparagus acutifolius L. è invece la specie selvatica che è possibile raccogliere intorno al periodo del pascune; guarda anche sparacogna.

Sparacògna [s.f.] Nome locale dell’asparago selvatico Asparagus acutifolius L., guarda anche sparaci.

Sparagnàre [v.tr. v.intr.] Risparmiare, economizzare, da cui sparàgnu ‘risparmio’ ‘economia’, esempi: (loc.) a tina se sparagna quannu e chjina, ca quannu è bbacante se sparagna ssula ‘la botte si risparmia quando è piena, che quando è vuota si risparmia da sola’ (l’economia va fatta quando il contenitore è pieno non quando è vuoto), (loc.) du sparagnu u nn’hai mai guadagnu ‘del risparmio non ne hai mai guadagno’.

Sparamentàre [v.tr.] Provare, sperimentare.

Sparamìentu 1 [s.m.] Esperimento, prova. 2 [v.tr.] Indicativo presente prima persona singolare di sparamentare.

Sparatìna [s.f.] Sparatoria, spari.

Sparattàre [v.tr.] Sgombrare, rimuovere, il termine per quanto simile all’italiano ‘sbarattare’ il suo significato però diverge molto, infatti è molto impiegato per indicare ‘liberare da ingombri’, specie il disimpegno della tavola dalle stoviglie, quindi molto più vicino al significato di ‘sbarazzare’; cfr mmarattàre.

Sparattatavùla [s.f.] Cesto di vimini usato per sbarazzare la tavola.

Spardàre [v.tr.] Togliere i finimenti dal cavallo, ossia la bardatura e la sella.

Spardiàni [s.m.pl.] Nome dato agli abitanti di Petilia da parte dei mesorachesi; guarda anche cantuni.

Spari 1 [s.m.] Fuochi pirotecnici, es.: stasira ce su i spari ‘questa sera ci sono i fuochi d’artificio’. 2 [agg.] Plurale di sparu ‘impervi’.

Sparigghjàre [v.tr.] Sparigliare, spaiare, es.: sparigghja e carte e ppue mmisca ‘spariglia le carte e poi mischiale’.

Sparràre 1 [v.intr.] Sparlare, diffamare, es.: te tieni te tieni e ppue sparrietti ‘ti tieni ti tieni e poi sparli’ (liberarsi nel parlare, rivelando cose che sarebbe utile tenere per sé). 2 Cominciare, iniziare a bollire, liberare da qualcosa, es.: quannu sparra a vuddare, vasci u gassu ‘quando inizia a bollire, abbassi il gas’.

Spàrtare [v.tr.] Variante in estinzione di spartire, dividere in pezzi, es.: (loc.) è miegghju ccu atri spartare no tu sulu pèrdare ‘è meglio con altri dividere (e) non tu solo perdere’.

Sparte [avv.] A parte, oltre, da parte, esempi: sparte e tie u cc’è nessun atru chi vena ‘oltre a te non c’è nessun altro che viene’, mintalu sparte ‘mettilo da parte’.

Spartìenza [s.f.] Divisione, distacco.

Sparu 1 [agg.] Impervio, scosceso, scomodo, contrario di mparu, esempi: è nu pocu spara a via da marina ‘è un po’ impervia la strada della marina’, sugnu sparu subra stu sedile ‘sono scomodo su questo sedile’; cfr mparu. 2 [s.m.] Sparo, botto, es.: aju sentutu nu sparu ‘ho sentito uno sparo’; guarda anche spari.

Spassatiempu [s.m.] Passatempo, occupazione per lo più piacevole, es.: (loc.) spassatiempu e munnizze e casa ‘passatempo e monnezze di casa’ (modo di dire, indica le bucce di castagne che si spargono per casa quando le si mangia, specie quelle delle caldarroste; guarda anche scorchjarieddu).

Spattìre [v.tr. v.intr.] Sbattere, scagliare, agitare, urtare con violenza, variante spàttare, esempi: tu spattu intr’a faccia ‘te lo sbatto in faccia’, spatta due ova ‘sbatti due uova’, è spattutu a nu muru ‘è sbattuto ad un muro’.

Spattu [agg.] Stracotto, sfatto, anche marcio per similitudine formale.

Spattuliàre 1 [v.tr.] Sbatacchiare con non molta forza, scuotere; la parola è anche adoperata per descrivere le pulsazioni dolorose che si avvertono quando si subisce un piccolo trauma, tipo una martellata, esempi: u re spattuliare e puma ca mucanu ‘non sbattere le mele se no vanno a male’, u jiritu m’u sientu spattuliare ‘il dito me lo sento pulsare’. 2 [v.intr.pron.] Tribolarsi, penare.

Spaturnàtu 1 [agg.] Sciagurato, sventurato, parola ormai quasi scomparsa, in passato era adoperata più che altro per rimproverare bambini e ragazzini monelli, esempi: ohi spaturnatu, ih si te piu! ‘o peste, eh se ti prendo!’, (lap.) chi te via spaturnatu ‘che tu possa errare’ (senza meta, senza padrone). 2 [s.m.] Malattia dell’infanzia, probabilmente una forma di epilessia, alcuni anziani la definoscono come un particolare mal di testa dovuto al malocchio; guarda anche rizzu.

Spavuttimìentu [s.m.] Preoccupazione, sbattimento, apprensione, usata anche la variante spaguttimìentu.

Spavuttìre [v.irr.] Preoccuparsi, premurarsi, affaccendarsi, da cui spavuttùtu ‘affannato’, ‘agitato’, ‘concitato’, es.: u tte spavuttire c’u nne vala a pena ‘non ti preoccupare che non ne vale la pena’.

Specchjàle [s.m.] Specchiale, specchio, es.: (loc.) ruga mia, specchjale miu ‘quartiere mio, specchio mio’ (la ruga in questo caso è da intendersi come immagine positiva di se stessi e di chi la abita, per cui ci si aiuta gli uni con gli altri come norma di base).

Specchjàre [v.rifl.] Specchiarsi, rimirarsi in uno specchio o in una qualsiasi superficie riflettente, es.: c’era così niettu chi ti cce putie specchjare ‘c’era così pulito che ti ci potevi specchiare’.

Specchjìera [s.f.] Specchiera, toletta.

Spècchju [s.m.] Specchio, specchiera.

Spedicinapàssule [s,m.] Alla lettera ‘(persona che) leva il peduncolo dall’uvetta’, ovvero perditempo, buono a nulla; guarda anche jucchjabrodu.

Speduddàre [v.intr.pron.] Alla lettera ‘smidollare’, ossia ‘esaurirsi’ ‘estenuarsi’ ‘fiaccarsi’ davanti ad un compito che necessita molte energie psichiche, es.: u tti cce speduddare c’u ru truevi ‘non ti ci sforzare che (tanto) non lo trovi’.

Speglia [s.f.] Sveglia, orologio a muro.

Spènnare [v.tr.] Spendere, sborsare, fare acquisti, variante spennìre.

Spentàre [v.tr.] Sfiatare, sventare, fare uscire aria o altro gas da un contenitore, di rado usata anche la variante spèntare, es: spenta nu pocu ‘perde un po”.

Spentuliàre [v.tr.] Sventolare, sbandierare, agitare, svolazzare e figurativamente svelare, render noto.

Spèra [s.f.] Sfera, palla.

Sperciafucùne [s.m.] Alla lettera “colui che sbircia dal camino’, ossia curiosone, impiccione.

Sperciàre 1 [v.tr.] Forare, bucare. 2 Sbirciare, scorgere.

Sperciùddu [s.m.] Persona capace, che arriva ai risultati prefissi usando varie vie se necessario, es.: u sperciuddu e na perzuna chi se ntramezza, sperta ‘l’intelligente è una persona che si dà da fare, in gamba’.

Sperdìre 1 [v.intr.pron.] Togliersi, levarsi, eliminare un comportamento indesiderato, es.: t’e sperdire u vizzu du fumu ‘ti devi togliere il vizio del fumo’. 2 Perdersi, smarrirsi, es.: me sugnu sperdutu ‘mi sono perso’.

Sperrunzàre [v.tr.] Sparpagliare, spargere, disperdere.

Sperta [agg.] Guarda spìertu.

Spertìzza [s.f.] Intelligenza, sagacia, esperienza, accortezza.

Sperza [s.f.] Il ripiego del lenzuolo di un letto.

Sperzàre 1 [v.tr.] Rimboccare, arrotolare, ripiegare, es.: sperzame e maniche ‘arrotolami le maniche’. 2 [v.intr.] Rovesciare, cadere di lato, es.: chjanu ca sperza ‘piano che si rovescia’.

Spetrarìare [v.rifl.] Lambiccarsi, sforzarsi mentalmente per trovare una soluzione ad un proplema.

Speżżiàle [s.m.] Farmacista, venditore di erbe medicinali, droghiere, es.: (loc.) u speżżiale scadutu va cercannu riżżette vecchje ‘il farmacista scaduto va cercando ricette vecchie’ (proverbio per farmacisti incapaci).

Speżżiàre [v.tr.] Insaporire con il pepe, pepare.

Speżżierìa [s.f.] Farmacia, drogheria, anche nella variante spezzerìa.

Spiàre [v.tr. v.intr.pron.] Il termine trova impiego localmente nel descrivere la difficoltà ad addormentarsi, o a riprendere sonno, dopo essere stati sviati (o svegliati) da un motivo qualsiasi: dei pensieri, un rumore, un sogno, un’esigenza biologica, es.: m’è spiatu u suennu ‘mi è sviato il sonno’ (mi è passato il sonno).

Spiatàre [v.intr.] Sfiatare, svaporare, liberare dai gas.

Spicàre [v.intr.] Spigare, mettere la spiga, da notare che in italiano si usa anche la forma ‘spicare’, es.: u granu è spicatu ‘il grano è spigato’; il termine è anche usato in senso scherzoso-figurato e indica il crescere di una persona, ovvero la sua maturità, ovviamente questo è molto notato se la persona in oggetto è ancora scapola, es.: si spicatu! ‘sei grande!’ (e sei ancora scapolo).

Spicarieddu [s.m.] Piantaggine, ossia genere di piante erbacee perenni usate anche come foraggio.

Spicchju [s.m.] Spicchio, fetta.

Spicciàre [vtr. v.intr.pron.] Come nell’italiano significa finire, completare, sbrigare, assume quindi il senso di togliersi un pensiero/obbligo (talvolta fastidioso) riguardo ad un dovere o lavoro da compiere; nel dialetto ha un paio di sfumature in più: la prima, ha il senso di ‘mettersela via’ ‘rassegnarsi’, la seconda invece il senso di ‘ammonizione’ ‘avviso’, esempi: cc’e spicciatu? ‘ci’hai finito?’, quannu spicci e fatigare? ‘quando finisci di lavorare?’, spicciaticce, oramai u bbena cchjù ‘mettitela via, ormai non viene più’, spicciatila! ‘finiscitela!’, ti l’e spicciare ‘te la devi finire’, fin’a ccu spicci e manciare u niesci ‘finché non finisci di mangiare non esci’, m’e spicciatu! ‘mi hai esaurito!’, (lap.) te vorre spicciare ‘possa tu terminare la tua vita’.

Spiccicàtu [agg.] Spiccicato, uguale, identico, che non differisce nel carattere e/o nel volto ad un’altra persona, es.: spiccicatu mammasa ‘tale e quale sua mamma’.

Spiculàre 1 [v.intr.] Spigolare, raccogliere le spighe rimaste qua e là dopo la trebbiatura. 2 [v.intr. v.tr. v.rifl.] Svicolare, sfuggire, liberarsi di qualcuno, specie se quest’ultimo è riconosciuto come uno scocciatore.

Spicùne [s.m.] Alla lettera ‘spigone’, ossia grossa spiga, ovvero le infiorescenze di piante come cipolle, aglio, sedano, prezzemolo e così via, da cui poi si ricaveranno i semi; guarda anche spicare.

Spiddàre [v.intr.pron.] Pulirsi gli occhi dalle cisposità, variante antica sicula del più moderno speddàre.

Spiddicàre [v.rifl.] Sbellicarsi dal ridere, ridere smodatamente.

Spiducchjàre [v.tr.] Liberare dai pidocchi una persona o dalle pulci un animale.

Spìertu [agg.] Persona in gamba, svelta, competente, abile, esempi: è na guagliuna sperta ‘è una ragazza sveglia’, (loc.) sperta e rapinante e duve passa u cce lassa nente ‘esperta e rapinante e dove passa non ci lascia niente’ (è una persona competente che porta sempre qualcosa a casa), (loc.) sa cchjù u fissa ara casa sua ca u spiertu ara casa e l’atri ‘sa più il fesso in casa sua che l’intelligente in casa d’altri’ (è da presuntuosi pretendere di conoscere le faccende degli altri credendo di saperne di più – cfr proverbio i guai da pignata del vocabolo pignata), (loc.) (ce) vaju sperta chimancu ‘(ci) vado svelta che manco’ (si intercala per dire che su una certa cosa la persona non si dà pace; con l’avverbio ce il soggetto che pronuncia la frase in quel momento è anche in movimento, in genere per strada, verso la ricerca di una soluzione ad un problema).

Spìeżżu [s.m.] Pepe, Piper nigrum L. Fino al 1500 circa era la spezia per eccellenza, status symbol del ceto aristocratico, con l’arrivo del peperoncino e la sua facile coltivazione, in breve tempo, il pepe passo in secondo piano.

Spilafucùne [s.m.] Lungo palo usato per pulire i camini dalla fuliggine, ma anche persona molto alta e magra.

Spilanzàre [v.intr.] Prendere la rincorsa, sbilanciarsi; cfr spilanzu.

Spilànzu [s.m.] Rincorsa, ossia rapida corsa per acquistare slancio, specie per saltare, es.: si me spilanzu ci’a fazzu a satare ‘se prendo la rincorsa ce la faccio a saltare’.

Spilàre [v.tr.] Sfilare, sfilacciare, scardassare (GR).

Spilegràre [v.tr.] Nettare le viti o gli ulivi dai polloni, dai rami e dalle foglie inutili.

Spilètta [s.f.] Rocchetta di filo per cucire, detta anche spagnoletta; il termine indica anche una matassa di filo di ferro doppio, adoperato da muratori e carpentieri per armare i solai.

Spilluzzare [v.tr.] Spennare, spremere al gioco qualcuno, es.: mo te spilluzzu ‘adesso ti spiumo’; guarda anche pilare.

Spilluzzu [s.m.] Persona che vince al gioco, qualche volta per abilità, molte volte perché se ne approfitta, ossia incontra un pollo.

Spilùerciu [s.m.] Spilorcio, tirchio.

Spina [s.f.] Brufolo, foruncolo, il termine deve però essere seguito da e carne, es.: ci’aju na spina e carne aru cueddu ‘ho un foruncolo al collo’.

Spinaròla [s.f.] Attrezzo adoperato dai falegnami per fare la scanalatura delle aperture e altri lavori di precisione; è una mini pialletta.

Spinarola

Spinàru [s.m.] Rovo, Rubus ulmifolius Schott.

Spinàrva [s.f.] Località di montagna compresa tra Fratta e Tirivolo; il territorio che ricopre cade in larga parte nel comune di Petronà.

Spìnciare [v.tr.] Muovere, sganciare qualcosa da una parete o da un supporto, variante spincìre, es.: spinciamilu chiddu presuttieddu ca tu si bieddu avutu ‘sganciamelo quel bel prosciuttino che tu sei bellamente e utilmente alto’.

Sngula [s.f.] Spilla da balia, fermaglio.

Spinìeddi [s.m.] Punto di riferimento (e fontana) contiguo al rione della Piraina e vicino a quello del Campu.

Spinnàre [v.tr.] Privare un volatile di penne e piume strappandogliele con vigore, di solito dopo essere stato ucciso.

Spinnàta 1 [s.f.] Per un attimo, velocemente, es.: oje aju vistu na spinnata a fratitta ‘oggi ho visto per un momento tuo fratello’. 2 Forte perdita di soldi al gioco, specie quello a carte, es.: m’anu spinnatu are carte ‘mi hanno spiumato a carte’.

Spinta [s.f.] Dormitina, pennichella, sonnellino pomeridiano, es.: m’aju fattu na spinta ‘mi sono fatto un riposino’.

Spinu [s.m.] Spinello, canna, joint, guarda anche brodu.

Spinzu [s.m.] Fringuello, Fringilla coelebs L.

Spirdàre [v.intr.] Spaventare, terrorizzare, da cui spirdàtu ‘impaurito’ ‘terrorizzato’, es.: fallu spirdare ‘fagli prendere un colpo’.

Spirdu [s.m.] Spettro, apparizione, fantasma, spirito di un morto.

Spiritu Santu [s.m.] Punto di riferimento della località Ciceraru.

Spirrażżàtu [agg.] Termine impiegato per descrivere il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza, l’età puberale, es.: s’è spirrazzatu ‘si è lanciato’ (nell’età adulta, è meno timido, più intraprendente).

Spirùne 1 [s.m.] Sperone, ovvero piccoli spuntoni di epidermide danneggiata dal taglio delle unghie o per aver fatto un lavoro manuale, es.: (loc.) e vennari e de luni te nescianu i spiruni ‘di venerdì e di lunedì ti escono gli speroni’ (pare che in passato le unghie bisognasse tagliarle solo la domenica). 2 Sperone, pungolo, es.: (loc.) cavaddi e atri e spirune du tue caminu nne fai quantu nne vue ‘cavalli di altri e speroni tuoi, cammino ne fai quanto ne vuoi’ (non ti frega molto se il cavallo da sforzare è di un’altra persona). 3 Rotella zigrinata usata per tagliare la sfoglia, in particolare quella delle pittanchjuse.

Spisa [s.f.] Spesa, importo, al plurale spise indica il vitto e l’alloggio.

Spisàtu [s.m.] Ammontare, ovvero spesa che si deve sostenere in occasione di matrimoni, funerali, cresima, diciottesimo e simili; guarda anche mortizzu.

Spissiddìa [v.intr.] Lo stato fisico dell’acqua poco prima di raggiungere i 100 °C, quasi mai è usata la forma all’infinito spissiddiàre, es.: (A) vudda l’acqua? (B) spissiddia (A) bolle l’acqua? B quasi’; guarda anche scattariare e spissula.

Spìssula [s.f.] Scintille, faville, derivanti dallo scoppiettio della legna che arde. 

Spitàle [s.m.] Ospedale, nosocomio; l’ospedale di Mesoraca è in località Campizzi e dà anche il nome alla zona circostante.

                                                                             Spitale

Spitàre [v.tr.] Svitare, allentare.

Spitittàtu [agg.] Persona che momentaneamente non ha fame, che ha perso l’appetito, di solito in seguito ad una convalescenza, ma anche per stanchezza fisica e/o svogliatezza generale; in questi casi risulta molto utile cucinare piatti guliusi.

Spitràre 1 [v.tr.] Colpire un bersaglio con una pietra, lanciandola con le mani o attraverso una fionda, ma anche colpire un oggetto con un proiettile. 2 Incrinare, crepare.

Spitu [s.m.] Ferro molto appuntito, spiedo, di mezzo metro o più, per cuocere un pezzo di qualcosa al fuoco senza bruciarsi, come suzìzza o prùevula; l’accrescitivo spitùne è invece usato anche come sinonimo di pollone.

Spizzicarìeddi [s.m.] Assaggini di vari antipasti, come olive, salame, formaggi, funghi, melanzane e cosi via; anche come semplici cose da mangiare per bersi un bicchiere di vino.

Spizzichiàre [v.tr.] Spizzicare, mangiucchiare qualcosa prima del pasto vero e proprio, fare uno spuntino.

Spìżżiu [s.m.] Ospizio, struttura per anziani.

Spizzutàre [v.tr.] Sbeccare, scheggiare un vaso o una tazzina, ma anche rompere la punta di una matita.

Spogghja 1 [s.f.] Spoglia, ovvero l’esuvia, cioè lo strato esterno del corpo (epidermide) degli animali che subiscono mute, come i rettili, es.: na spogghja e vipara ‘una muta di vipera’; la parola è altresì usata per indicare il rivestimento (brattea) che racchiude la pannocchia di mais. 2 [v.rifl.] Terza persona singolare indicativo presente del verbo spugghjare ‘spogliare’.

Sponda [s.f.] Asse incastrata insieme ad altre, che è parte dell’impalcatura delle colonne che verranno gettate.

Sponza [s.f.] Grumolo, parte centrale di una verdura, come il broccolo o il cavolo, o di una spezia, come l’origano; per estensione col termine s’indica anche l’intero ramo o costa del vegetale in questione.

Sporduliàre [v.intr.] Lavoricchiare, anche nell’accezione di perdere tempo con lavoretti di poca importanza.

Spracalàta [agg.] Persona con parti del corpo prominenti, specie quelle addominali, che a volte fuoriescono dai vestiti, per obesità o per aver mangiato cuemu na murra e lupi ‘come una muta di lupi’; per estensione il termine indica una persona sciattona, sbracata.

Sprasciàre [v.tr.] Sbraciare, smuovere un cumulo di braci per ravvivarlo.

Spràticu [agg.] Inesperto, incapace, non pratico.

Spravicàre[v.tr.] Abbattere, demolire, radere al suolo, il contrario di costruire, variante sfravicàre.

Spricùne [agg.] Sprecone, scialacquatore.

Spridu [s.m.] Spreco, calo di peso, in altre parole è la percentuale di bene scartato dal totale e non vendibile, ne sono esempi levare le castagne marce da quelle buone o pesare i funghi dopo la pulitura.

Sprignàre [v.intr.pron.] Svignarsela, svicolare.

Sprigògna [s.f.] Vergogna, variante di vrigogna.

Sprigugnàre [v.tr.] Svergognare, fare vergognare, esempi: t’averre sprigugnare ppe chiddu chi dicisti ‘dovresti vergognarti per quello che affermasti’, (loc.) chine te trasa intra o te ncorna, o te scorna o puramente te sprigogna ‘chi ti entra dentro casa o ti incorna, o ti scorna oppure ti svergogna’ (chi ti entra dentro casa – e non è ben venuto, o ti affascina, o ti chiede qualcosa o ti carpisce informazioni riservate che poi dirà in giro).

Sprincu [agg.] Veloce, abile, e in senso ironico anche il suo contrario, esempi: beddu sprincu ‘bello sveglio’, chi sprincu chi si ‘che inetto che sei’.

Sprinnu [s.m.] Desiderio, gulia, talvolta assimilabile (come intensità) al chjuritu e culu, ma anche la voglia di tetta dei bambini piccoli da cui deriva, es.: tena u sprinnu ‘vuole il latte’ (ancora non si è svezzato).

Sprittàre [v.intr.] Scivolare, o farsi scivolare qualcosa dalle mani, es.: acchjappalu bbuenu ppe nnu tte spritta ‘afferralo bene affinché non ti scivoli’.

Sprubbicàre [v.tr.] Rendere pubblico, svergognare, sputtanare, screditare qualcuno rendendo pubblico faccende molto private, variante spubbricàre; cfr spalificare.

Spruddàre 1 [v.tr.] Spolpare bene bene, es.: chine su sprudda s’uessu? ‘chi se lo spolpa questo osso?’. 2 Sbucciare, produrre una escoriazione.

Sprudeddàre [v.tr. v.intr.] Defecare abbondantemente, cacare, es.: me sugnu sprudeddatu ‘mi sono liberato alla grande’.

Sprufunnàre [v.tr.] Sprofondare, affondare.

Spruppàre [v.tr.] Spolpare, divorare, usata anche la variante spùrpare.

Sprussàre [v.tr.] Spruzzare, annaffiare.

Spruvàre 1 [v.tr.] Incitare, esortare, variante sprivàre. 2 Carpire, esplorare le intenzioni altrui per secondi fini.

Spruvìeri [s.m.] Colui che prova, anzi spruva, guarda spruvare.

Spuddàre [v.tr.] Sturare, disintasare, stappare.

Spuddicàre [v.tr.] Smollicare, sbriciolare, es.: (lap./loc.) chi te via u culu e crita, chi quannu chjova ti se spuddica ‘che tu possa avere il culo d’argilla (così) che quando piove ti si sbriciola(i)’ (imprecazione tutto sommato simpatica).

Spùecu [s.m.] Sfogo, irritazione cutanea.

Spuemmicàre 1 [v.intr.] Incitare qualcuno a parlare, a raccontare fatti e faccende private, es.: spuemmicate nu pocu ‘sfogati (liberati) un po’’. 2 Emettere, espellere con impeto, es.: guarda cuemu se spuemmica chidda diga ‘guarda come vomita acqua quella diga’.

Spùerzu [s.m.] Sforzo, fatica.

Spùestu 1 [s.m. agg.] Divertimento, diletto. 2 Persona un po’ strana, esagerata nei modi e forse per questo divertente e socievole, simpatica.

Spugàre [v.tr. v.intr.pron.] Sfogare, manifestare.

Spugghjàre [v.tr. v.intr.pron.] Spogliare, togliersi i vestiti, esempi: me spuegghju e me jiettu subitu ‘mi spoglio e mi butto (nel fiume, a nuotare) subito’, (loc.) chine se vesta ccu i panni e l’atri priestu si nne spogghja ‘chi si veste con i panni degli altri presto se ne spoglia’ (quando ti fai bello con le cose degli altri presto ti renderanno nudo), (loc.) ca mo spugghjamu nu cristu e vestimu nu santu ‘che adesso spogliamo un cristo e vestiamo un santo’ (locuzione usata quando qualcuno pretende di farci  tralasciare dal fare qualcosa di utile o di molto importante, a discapito di qualcos’altro che lo è di meno).

Spujìre [v.tr.] Scansare le fatiche, sfuggire a esse; cfr fatigature.

Spulicàre [v.tr.] Sbrogliare, dipanare, es.: chisà quannu ne spulicamu e su trafficu ‘chissà quando ci liberiamo da questo traffico’.

Spulitrìni [s.m.] Funghi della macchia mediterranea che crescono negli spulitri durante il periodo autunnale, Lactarius tesquorum Malencon e Lactarius blennius L. (la specie maggiormente diffusa dalle nostre parti); il loro habitat si estende fino ad un’altezza di circa di 1200 metri slm.

Spùlitru [s.m.] Cespuglio, in particolare Cytisus salvifolius L. e Inula viscosa L.

Spùmmare [v.intr.] Dare una notizia bomba, che può essere anche una grande fesseria.

Spunìre [v.tr.] Poggiare a terra, o su un tavolo o altra superficie idonea, un pesante carico, es.: ajutame a me spunire ‘aiutami a deporre’; guarda anche pisuelu, spunituru, mpunìre, strampunire.

Spunitùru [s.m.] Luogo dove le donne (ma anche gli uomini) posano le ceste e le fascine per riposarsi.

Spùnnare [v.tr.] Sfondare, sfasciare, variante spunnàre.

Spuntiddàre [v.tr.] Levare i puntelli, ovvero i sostegni usati nelle costruzioni da muratori e carpentieri; guarda anche cristi.

Spuntu [s.m.] Vino dal sapore un poco acidulo, ovvero sta per andare a male; cfr annacizzatu.

Spuntùne [s.m.] Angolo, punto, canto.

Spunzàre [v.tr.] Rendere fradicio, inzuppato, spugnoso, qualcosa come un biscotto, un pezzo di legno e così via, a Filippa si dice sponzàre.

Spurchja 1 [s.f.] Sfiga, rogna, termine usato per imprecare o inveire, es.: ih la spurchja! ‘ih la sfiga!’. 2 Ematuria, malattia vescicolare dei bovini.

Spuriàre [v.tr. v.rifl.] Far svagare, distrarsi, fare qualsiasi cosa che distoglie dal solito tran tran, da cui spuriàta ‘gita’ ‘svago’ ‘evasione’, esempi: falli spuriare sti guagliuni ‘falli svagare ‘sti ragazzi’, vaju e me fazzu na spuriata ‘vado a farmi una gita’ (a rilassarmi un po’), aru mare u mme spuriu ‘al mare non mi svago’ (diverto, riposo).

Spurmunàre [v.rifl.] Spolmonarsi, ovvero urlare (parlare) a tutto fiato, spesso indica una discussione in cui ci si è affannati a convincere l’interlocutore delle proprie tesi e consigli, es.: mi cci’aju spurmunatu tutta a matinata ‘mi ci sono spolmonato tutta la mattinata’ (ho provato di tutto per convincerlo).

Spurnàre [v.tr.] Sfornare, togliere dal forno, es.: appena spurnamu e pitte te chjamu ‘appena sforniano le pitte ti chiamo’.

Spurtàru [s.m.] Artigiano specializzato nella costruzione di ceste di varia grandezza destinate sia ad un uso domestico sia agricolo.

Spurtùna [s.f.] Sfortuna, mala sorte.

Spurtùne [s.m.] Grossa cesta fatta di lamelle di legno, avente base quadrata e apertura rotonda; le dimensioni mutano in base agli usi e agli scopi: l’altezza varia da uno a oltre due metri, il diametro da settanta cm a un metro e mezzo circa; destinata alla momentanea conservazione del grano o altri cereali, qualcuno la usava anche per conservare pastiddi; era posizionata nei magażżieni e alla base si ponevano delle tavole per non farla poggiare direttamente sul pavimento, quando si danneggiava, viste le dimensioni, era l’artigiano che si recava direttamente sul luogo per ripararla, es.: (loc.) e cose du spurtune nu puecu male nu puecu buenu ‘le cose dello spurtune un po’ male un po’ bene’ (a volte le merci contenute in questo grosso cesto non sempre si conservavano bene).

Spurzàre [v.tr. v.intr.pron.] Sforzare, sottoporre ad uno sforzo eccessivo, anche il proprio organismo, es.: u tte spurzare assai ca te cada a guaddara ‘non ti sforzare troppo che ti viene l’ernia (inguinale)’.

Spustàtu [agg. s.m.] Spostato, disadattato, persona che per una serie di circostanze si trova a vivere una situazione di intenso disagio psicosociale, in altre parole fuori posto.

Spusu [agg.] Sfuso, non confezionato; cfr sciunnire.

Spùta [inter.] Zitto, respira un poco, imperativo del verbo sputare, usato come locuzione quando ci si trova davanti ad una persona particolarmente loquace, es.: sputa nu momentu! ‘zitto un attimo!’.

Sputàzza [s.f.] Saliva,  sputo, es.: (loc.) mintu a sputazza ‘metto la salivazza’ (piccolo rito, ormai quasi dimenticato, praticato da bambini/ragazzi, consistente nello sputare per terra e aspettare che la saliva da bianca diventi incolore, in questo frangente uno del gruppo faceva, o doveva fare, qualcosa molto velocemente, ovvero nel tempo impiegato dalla saliva a cambiare  colorazione, circa 2-5 minuti, un esempio tipico era andare a prendere il pallone a casa).

Sputtìre 1 [v.tr.] Sfottere, prendere in giro, da cui sputtènte ‘sfottente’, poco usata la variante spùttare. 2 Consumare, deteriorare, spendere velocemente, es.: u tte sputtire subitu i sordi chi t’aju rigalatu ‘non spararteli subito i soldi che ti ho regalato’.

Sputtò [s.m.] Sfottò, canzonatura.

Sputtunàre [v.tr. v.rifl. vintr.pron.] Sbottonare, sganciare un fermaglio, esempi: sputtunate a cammisa ‘sbottonati la camicia’, mi s’è sputtunatu u reggisenu ‘mi si è sganciato il reggiseno’.

Squadàre [v.tr.] Bollire, lessare, immergere nell’acqua calda, es.: squadu na virdura ‘lesso una verdura’.

Squaddaràre 1 [v.intr.pron.] Farsi venire o far venire l’ernia a causa di un grosso sforzo, da cui squaddaratu ‘persona afflitta da voluminosa ernia inguinale’, es.: mi cci’aju squaddaratu ppe spustare chiddu jascu ‘mi ci ho (è) venuta l’ernia (mi sono spaccato la schiena) per spostare quel fiasco’. 2 [v.intr.pron.] Picchiare violentemente con un arto nei genitali, sia maschili sia femminili, es.: te jiettu nu cavuce chi te squaddara ‘ti getto un calcio che ti sbudella’.

Squagghjàre 1 [v.tr.] Squagliare, sciogliere, es.: ce squagghji u lievitu e pue a mpasti ‘ci sciogli il lievito e poi l’impasti’. 2 Basare, ossia cucinare la cocaina (riduzione in base della cocaina cloridrato, meglio conosciuta come crack) adoperando ammoniaca oppure acqua e bicarbonato. 3 [v.intr.pron.] Fuggire, dileguarsi, es.: si l’è squagghjata ‘si è dileguato’.

Squajaterìa [s.f.] Sguaiataggine, scompostezza, trivialità, maleducazione.

Squajàtu [agg.] Sguaiato, scurrile, maleducato, che fa discorsi fuori luogo.

Squalàtu [agg.] Sbagliato, eseguito male, non conforme, es.: l’e squalatu tuttu ‘lo hai sbagliato tutto’.

Squarcéra [s.f.] Ragazza a cui piace cambiare vestiti spesso, ovvero fare mostra dei pochi che ha.

Squatra 1 [s.f.] Squadra, di calcio, di lavoro, etc. 2 Oggetto di forma triangolare, di ferro, legno o plastica, utile per tracciare o disegnare, per cui è usato prevalentemente da muratori o falegnami, questi ultimi usano anche lo squatru favuzu ‘squadro falso’ ossia attrezzo simile alla squadra di cui può essere variata l’angolatura; ne deriva squatrétta ‘squadretta’, quella che si usa per il disegno tecnico alla scuola media e che matematicamente rompevi o scheggiavi.

Squatràre 1 [v.tr.] Mettere in squadra geometricamente, nel linguaggio dei bastai significa sfaccettare un tronchetto con la scure. 2 Misurare con lo sguardo una persona.

Squazacàne [s.m.] Persona di poco valore, accattone, calco dell’italiano ‘scalzacane’.

Squazàre [v.rifl] Togliersi le calze e le scarpe.

Squitàre [v.diff.] Mettersela via, mettersi l’anima in pace, rassegnarsi, rispetto a qualcuno o qualcosa, esempi: u mme riesciu a squitare ‘non riesco a mettermela via’ (calmarmi), squitaticce ppe oje ‘rassegnati per oggi’, ti cce si squitatu ‘hai finito’ (te lo sei giocato, ti sei tolto il pensiero).

Ssa [pron.pers.] Pronome ‘se’ combinato col pronome ‘la’ (a), la giusta grafia è ss’a ‘se la’, usato quando il termine è preceduto dall’avverbio ‘non’ (u), es.: u ss’a piau a laura ‘non se l’ha prese la laurea’; guarda anche sa 4.

Sse 1 [pron.pers.] Pronome personale ‘si’, usato quando la frase è denotata al plurale e il termine è preceduto dall’avverbio ‘non’ (u), esempi: u sse controlla i figghji ‘non si controlla i figli’, u sse dicia ‘non si dice’; guarda anche si. 2 Pronome personale ‘se’ (se) combinato col pronome personale ‘le’ (e), ma anche col pronome maschile ‘gli’ (antico li) rimanendo però invariato ossia adoperando comunque il pronome ‘le’ (e), per cui è corretto scrivere ss’e (‘se le’ oppure ‘se li’), è sempre preceduto dall’avverbio ‘non’ (u), esempi: u ss’e cugghjiu l’olive ‘non se le raccolsero le olive’, u ss’e ppia i sordi ‘non se li prende i soldi’; guarda anche se 2.

Ssi [pron.pers.]  Pronome personale ‘se’ quando preceduto dall’avverbio di negazione ‘non’ (u), esempi: u ssi l’ucchja ‘non se li gonfia’, u ssi cc’è piatu ‘non si ci è preso’ (non se l’è presa); guarda si 2.

Ssu 1 [v.intr.] Verbo essere indicativo presente terza persona plurale quando preceduto dall’avverbio ‘non’ (u), es.: u ssu ricueti ‘non sono ritornati’. 2 [pron.pers.] Pronome ‘se’ in forma combinata, usato quando il termine è preceduto dall’avverbio ‘non’ (u) e seguito dal pronome ‘lo’ (u), è corretto scrivere ss’u, es.: u ss’u manciau u pisce ‘non se lo mangiò il pesce’.

Stacca 1 [s.f.] Cavalla giovane, puledra. 2 Bella ragazza, bona e giunonica; cfr fimminùne.

Stàccia [s.f.] Piccola pietra piatta levigata, adoperata (insieme ad altre simili) dai bambini per giocare ad un gioco simile alle bocce; di rado il termine è usato anche per indicare una grossa soppressata o una grossa fetta di formaggio.

Stadda [s.f.] Stalla, ricovero per animali.

Stagghjiàre [v.tr.] Separare, dividere, stabilire.

Stàggia [s.f.] Asse in alluminio o in legno utilizzata dai muratori per rifinire di intonaco grezzo i muri; quelle in legno sono poco precise per l’inevitabile umidità del cemento.

Staggiòne [s.f.] Estate, es.: è benuta a staggione ‘è arrivata (venuta) l’estate’. 2 Ciascuno dei quattro periodi in cui è suddiviso l’anno, ma anche momento dell’anno in cui maturano determinati vegetali, es.: ud è staggione e grasuemuli ‘non è stagione di corbezzoli’.

Stagnìnu [s.m.] Artigiano dedito alla stagnatura di quadare e altre pentole in metallo; cfr quadararu.

Staminédda [s.f.] Leva collegata al subbio del telaio, con lo scopo di tenere più tesi i fili dell’ordito e della tela.

Stannu [s.m.] Quest’anno, l’anno che viene; la forma estesa, ma che nessuno usa, sarebbe chistu annu, la grafia corretta st’annu, es.: st’annu vaju aru mare ‘quest’anno vado al mare’; l’italiano ‘stanno’ si scrive stanu, es.: stanu jiennu ‘stanno andando’; guarda anche stu.

Staru [s.m.] Recipiente in latta per la misura dell’olio, corrispondente a cinque litre, ossia dodici litri e mezzo.

Stavìre [v.intr.] Stare, restare, fermarsi, di rado usata la forma stàvare, es.: ci’ame stavire dui juerni ‘dobbiamo starci due giorni’.

Stavòta [avv.] Questa volta, es.: stavota u cce viegnu ‘questa volta non ci vengo’.

Stazzu [s.m.] Luogo recintato ove stazionano pecore e capre.

Stegnu [s.m.] Sdegno, biasimo, disapprovazione.

Stènnare [v.tr. v.rifl.] Stendere, sdraiarsi, con la stessa frequenza viene usata anche la variante stennìre, esempi: stenna e gamme ‘stendi le gambe’, me stiennu subra u liettu ‘mi sdraio sopra al letto’.

Stennicchjàre [v.tr. v.rifl.] Distendersi, giacere, es.: m’aju stennicchjatu subra nu scuegghju ‘mi sono steso sopra uno scoglio’.

Stentìnu 1 [s.f.] Un segmento dell’intestino, mentre stentine o stentina ‘l’intestino nel suo complesso’; per riferirsi all’intestino e parte delle interiora di un animale viene adoperata stentinàta. Particolare è la pulitura degli intestini dei maiali adoperati per fare i salami:  prendere le intestina e lavarle abbondantemente sotto l’acqua, tagliarle della giusta misura per salsicce e soppressate, dopodiché vanno girati al contrario come fossero un calzino e si rilavano prima con abbondante acqua calda (per mille volte circa) e poi si ripongono in un contenitore con molto sale, molto aceto bianco e farina 00 (per sbiancarle) per 5-10 minuti; in seguito strofinarle bene, quindi risciacquarle e lasciarle una notte intera con sale, limoni e aranci tritati e spremuti, quest’ultimi, se quelli giusti, sono più agri dei limoni. Risciacquare e quindi riempire. 2 Persona molto magra.

Sterregulàtu [agg.] Sregolato, senza misura, disordinato, variante sterregolato.

Sterrużżàre 1 [v.tr.] Levare la ruggine da una superficie. 2 [v.intr. v.intr.pron.] Ripulire, rimettere a nuovo un oggetto, ma anche sgrezzarsi, raffinarsi, modernizzarsi, educarsi, es.: te dare na sterrużżata si vue venire ccu mmie ‘ti devi dare una sgrezzata se vuoi venire con me’.

Stiavùccu [s.m.] Alla lettera ‘pulisci-bocca’, sinonimo di mappìna e stujamussu; indica anche il pranzo che si porta a lavoro, difatti il cibo viene infagottato nello stiavùccu; all’ora di pranzo viene aperto e steso così funge anche da piccola tovaglia, tipica usanza dei boscaioli o di chi lavora in campagna, es.: me fazzu u stiavuccu ppe domane ‘mi preparo il pranzo per domani’.

Sticchju [s.f.] La ‘patata’ per eccellenza, figa.

Stiddattàre [v.tr.] Schiacciare, ridurre a crema una patata o altra verdura; guarda anche minaturu.

Stiddu [s.f.] Stella, da cui l’aggettivo stiddàtu ‘stellato’.

Stìerru [s.m.] Sterro, calcinacci e scarti di materiali impiegati in edilizia.

Stìerzu [s.m.] Sterzo, volante.

Stifétta [s.m.] Variante della surdulina, a sua volta variante della zampogna.

Stigghjòle [s.f.pl.] Intestino di capretto, o agnello, o gallina avvolto in piccoli gomitoli e tenuto fermo con un rametto di origano, infine cotto in padella come fosse uno spezzatino; variante stigghjùle; guarda anche stigghjulata.

Stigghju [s.m.] Scaffale, ripiano.

Stigghjulàta [s.f.] Interiora di agnello, capretto, gallina, ottime per farne degli intingoli; cfr curatedda e diunedde; guarda anche stigghjola.

Stiladdàppa [s.f.] Guarda sciladdappa.

Stillabràre [v.tr.] Rendere meno elastico un tessuto o un vestito, slabbrare.

Stillampàre [v.intr.] Verbo impersonale, il lampeggiare del cielo prima e/o durante un temporale, quasi mai usato all’infinito, es.: stillampa da Marina ‘arrivano lampi dalla marina’; guarda anche surruscare.

Stillàmpi [s.m.pl.] Lampi in lontananza che segnalano un temporale.

Stilùsu [agg.] Stiloso, persona che ha molta cura nello scegliere vestiti e accessori, talvolta troppa, fino a scadere nel pacchiano, es.: è bellu stilusu s’orologiu ‘è bello stiloso questo orologio’ (anche vistoso, troppo kitsch).

Stincìre [v.tr.] Stingere, scolorire, sbiadire.

Stinnàrdu [s.m.] Stendardo, vessillo, in particolare quello che si porta durante la processione del Venerdì Santo.

Stinningàre [v.tr.] Spossare, stancare; poco usato.

Stinnìngu [s.m.] Concetto non semplice da definire in italiano, stato d’animo connotato da rabbia, spossatezza e sdegno, es.: mi nne stai faciennu venire u stinningu ‘mi stai facendo venire lo stinningu’.

Stipare [v.tr.] Conservare, riporre.

Stipu [s.m.] Stipo, armadietto della cucina adoperato per riporvi oggetti d’uso domestico, es.: (scioglilingua) apara u stipu e pia u spitu, stipa u spitu e chjuda u stipu ‘apri lo stipo e prendi lo spiedo, metti via lo spiedo e chiudi lo stipo’ (persa la rima).

Stirapètra [s.f.] Fionda, sinonimo di furcitedda, esempi nn’amu spaccatu lamparine ccu a stirapetra! ‘ne abbiamo spaccato lampadine con la fionda!’, era normale jire in giru ccu a stirapetra ‘era normle andare in giro con la fionda’. La fionda tradizionale è composta da un impugnatura con i due rami che si biforcano a U e non a V, ricavata dall’albero uecchju e fatta temprare nella cenere calda; gli elastici (lastiche) sono ricavati tagliando per lungo delle strisce dai guanti da cucina, per una maggiore potenza si possono usare le camere d’aria delle ruote delle bici; gli elastici sono fissati ai due rami usando dei rollini, mentre le altre estremità sono fissate alla lappedda (toppa) ricavata dalla linguetta di vecchie scarpe.

Stirraricàre [v.tr.] Sradicare, estirpare.

Stirrażżàre [v.tr.] Abbandonare, allontanare un animale, es.: stirrażżalu su cane ca te sta manciannu tutte e gaddine ‘disperdilo sto cane che ti sta mangiando tutte le galline’, forra mparte e tie l’averra stirrażżatu su gattu ‘fossi stato in te l’avrei abbandonato questo gatto’.

Stirrenàtu [agg.] Stanco, slombato, es.: me sientu stirrenatu ‘mi sento sderenato’.

Stirrentàre [v.tr.] Allentare, attenuare la tensione di un oggetto, come ad esempio una corda.

Stirrescìre [v.intr.] Termine riferito a qualcosa che è venuta male, oppure cresciuta male, sviluppata nell’errore, cresciuta fuori dalla norma; la parola è meglio conosciuta con il suo participio passato, con funzione aggettivale, stirresciùtu ‘fallito’ ‘deviante’ ‘non riuscito’, ma anche persona che ha lasciato una strada per intraprenderne una non proprio retta’; guarda anche stirregolatu.

Stizzuniàre [v.tr.] Smuovere la legna dal fuoco per farla ardere meglio, guarda anche attizzare.

Stizzùsu [agg.] Bilioso, stizzoso.

Stoccallammènta 1 [s.m.] Letteralmente stocca e l’ammenta ‘spezza e ricuce’ ovvero persona che apre tanti discorsi per poi ritornare a chiuderli e riaprirli di nuovo o riaprirne di nuovi, es.: si nu stoccallammenta ‘sei uno che salta da un discorso all’altro’ (inconcludente). 2 Pianta erbacea perenne appartenente alla famiglia delle Equisetaceae, Equisetum telmateia Ehrh.

Stoccariàre [v.tr.] Spezzettare, ridurre a piccoli tocchi rami o oggetti simili.

Stoccarìeddu [s.m.] Un pezzo, un tocco.

Stomacàtu [agg.] Stufo, scocciato, stanco, es.: nne sugnu stomacata e sorta ‘ne sono (proprio) seccata di tua sorella’ (mi sono rotta il cazzo di tua sorella).

Stomacùsu [agg.] Stomachevole, che produce nausea a vederlo.

Stomiàre [v.tr.] Deformare, deturpare, alterare la forma di qualcosa in peggio; il termine è riferito anche alle persone, es.: caminava tuttu stomiatu ‘camminava tutto storto’.

Storticàre [v.tr.] Piegare, storcere.

Stracanciàre [v.intr.] Grosso cambiamento del proprio aspetto, impallidire, mutare di colore, tramutarsi, trasformarsi; molto usato il p.p. stracanciàtu ‘sconvolto’ ‘turbato’.

Strachjùmmu [s.m.] Strapiombo, dirupo.

Stracquàta [s.f.] Mandata via, emarginata, rifiutata, discriminata, persona direttamente o indirettamente allontanata dal proprio paese e che ha trovato momentaneo rifugio in un altro vicino, azione questa dovuta ad una colpa “sociale” che la persona in oggetto deve scontare, ovvero qualcosa di cui vergognarsi; viene quindi estraniata e trattata come una reietta, ergo ‘gentilmente’ invitata ad andarsene; quest’ultima, come un naufrago, è in balia delle onde nell’arcipelago del pregiudizio; p.p. del poco usato infinito stracquàre.

Stracquàtu [agg.] Persona o animale trattato estremamente male, a cui si è rotto pesantemente i coglioni, tant’è che piglia e se ne va, es.: e stracquatu chiddu gattu ‘hai maltrattato esageratamente quel gatto’.

Stracùeddu [s.m.] Il luogo dove si passa il versante di un’altura, il crinale, oltre il quale si è fuori dalla vista.

Strafucàre [v.tr. v.intr.pron.] Soffocare, strozzarsi, mangiare a crepapelle, es.: (lap.) te viennu u te strafuchi ‘che possa vederti strozzare’.

Straguisàre [v.intr.] Impaurire, spaventare, da cui straguisatu ‘basito’ ‘esterrefatto’ ‘sbigottito’.

Stràgula [s.f.] Specie di slitta in legno trainata da muli o cavalli, adibita al trasporto di cose all’interno di un podere.

Straguliscìre [v.tr.]  Intravedere, distinguere, intuire, percepire, mettere a fuoco, vedere in lontananza, vedere di sfuggita; il vedere/non vedere qualcosa o qualcuno, può essere dovuto sia a cause naturali, come foschia, vegetazione o lontananza, sia a causa di un cattivo funzionamento della vista, esempi: u cce stragulisciu buenu ccu s’occhjali ‘non ci vedo bene con questi occhiali’ (non metto a fuorco), ud’ha stragulisciutu a via e s’è pierzu ‘non ha individuato la strada e s’è perso’, aju stragulisciutu a patritta e luntanu ‘ho intravisto (intuito) tuo papà da lontano’, vidimu si u stragulisciu iu ‘vediamo se lo metto a fuoco io’.

Strajìre [v.tr.] Ammatassare, avvolgere su naspi per fare matasse.

Stramànu [avv.] Fuori mano, non vicino, non vicino a casa, anche in termini temporali, es.: ti nne si benutu stramanu ‘te ne sei venuto non nei tempi canonici’ (non alle feste).

Strammenìre [v.intr.] Arrabbiarsi fortemente con perdita di controllo, perdere le staffe, perdere le resistenze, es.: si me strammena u ru sacciu chiddu chi succeda ‘se m’incazzo nero non lo so quello che succede’.

Strammu [agg.] Strambo, eccentrico, bizzarro.

Strampalatìgnu [agg.] Persona che ha la caratteristica di comportarsi in maniera strampalata, stramba.

Strampaliàre [v.intr.] Comportarsi in maniera strampalata e bizzarra, anche usando un linguaggio stravagante.

Strampunìre [v.tr. v.intr.pron.] Levare o levarsi dei carichi da dosso per riposarsi, posizionati sulle spalle se si tratta di un uomo o sulla testa se di una donna; questo comportamento era necessario quando si trasportavano dei pesi di rilievo per un tragitto lungo o difficoltoso, specie sacchi di olive; guarda anche spunìre, mpunire e curuna.

Stramùertu [agg.] Tramortito, stordito, privo di sensi.

Strangalàtu [agg.] Trasandato, dimesso, disordinato.

Strangaliàre [v.rifl.] Distendersi, spaparanzarsi, su un prato o su un divano.

Strangugghjàre [v.rifl.] Strangolarsi, tossire forte e stizzosamente, strozzarsi, soprattutto se si mangia avidamente.

Strangùgghju [s.m.] Il soffocarsi con acqua o cibo, l’atto dello strozzarsi, il tossire forte.

Stranu [s.m.] Forestiero, estraneo.

Strascinàcchju [agg.] Persona che cammina trascinando i piedi, ovvero persona male in arnese.

Straviàre 1 [v.tr.] Fuorviare, traviare, corrompere, es.: vida ppe nu me stravii puru a fratimma ‘vedi di non fuorviare pure mio fratello’. 2 Spargere, spostare qua e là.

Stravìentu [s.m.] Posto schermato dal vento o dalla brezza, es.: (loc.) quannu chjova e mina bbientu te mparu io cuemu ame fare, ne cunzamu a nu stravientu ca lassa de chjovare e de nivicare ‘quando piove e tira vento ti insegno io come dobbiamo fare, ci mettiamo ad un riparo che smette di piovere e nevicare’.

Strazziàre [v.tr.] Avvoltolare, attorcigliare, trattare come uno straccio, variante strazzare, es.: me sientu strazziare u stomacu ‘mi sento torcere (dalla fame o dalla gastrite) lo stomaco’.

Strazzu [s.m.] Straccio, cencio, panno, es.: ce lavare ccu ru strazzu ‘devi lavarci con lo straccio’; il termine è anche usato in senso figurato e indica la vita, la persona, es.: ce tieni aru strazzu ‘ci tieni alla tua vita’ (alla tua persona).

Strazzùne [agg.] Straccione, pezzente.

Strempàtu [agg.] Stempiato e per estensione persona con pochi capelli.

Stricàre 1 [v.tr.] Strofinare, sfregare, strisciare, spalmare, passare lo straccio a terra, esempi: va strica nterra ‘vai strofina (lava) per terra’, strica buenu i cavuzi ca su luerdi ‘strofina bene i pantaloni che sono sporchi’, m’ha stricatu a machina ‘mi ha strisciato (rigato) l’auto’, vieni ca te stricu a pumata ‘vieni che ti spalmo la pomata’. 2 [v.rifl.] Strusciarsi, stare attorno a qualcuno per ottenere favori, arruffianarsi, es: avogghja u te strichi, u tti nne duna cumpidienza ‘è inutile che ti strusci, non te ne dà confidenza’.

Stricatèdda [s.f.] Strofinata, la passata di un panno su pavimenti o piastrelle o lo strusciarsi tra due persone; cfr stricatina.

Stricatìna [s.f.] Scalfittura, rigatura, il termine è molto impiegato per indicare le righe (strisce) prodotte su un telaio metallico come la carrozzeria di un’auto; guarda anche stricatedda.

Stricatùru 1 [s.m.] Superficie idonea a strofinare i panni, può essere una tavola, ma anche uno scoglio di fiume. 2 La raccolta dei piccoli pezzi di pasta che rimangono attaccati alla madia dopo aver composto i pani, se ne ricava un piccolo pane (panicieddu) o un buccellato (gucceddatu).

Striculiàre [v.tr.] Strofinare bene i panni da lavare, ma non in modo energico.

Strìevuzu [agg.] Mezzo pazzo, strano, capace di gesti socialmente pericolosi, persona con evidente difficoltà schizotipica di personalità, variante strévuzu, esempi: c’ha na forza strèvuza ‘ha una forza fuori dal normale’, u cci’avire a cchi fare ch’è unu strievuzu ‘non averci a che fare che è uno pericoloso’ (che non ragiona molto, impulsivo); cfr strolacu.

Strigghja 1 [s.f.] Striglia, spazzola per strigliare cavalli, asini e muli. 2 Giochino di tipo logico, di solito in plastica, conosciuto in italiano col nome di “gioco del 15”, consistente in una piccola matrice a sedici posizioni (4 righe e 4 colonne) su cui sono posizionate 15 placchette numerate da 1 a 15, ognuna di loro può scorrere solo in orizzontale o verticale muovendosi di una posizione alla volta, lo scorrimento è permesso da una apposita casella vuota che a gioco ultimato occupa l’ultimo posto, lo scopo del gioco è quello di riordinare i numeri in ordine crescente.

Strigghjàre 1 [v.tr.] Strigliare, spazzolare, bruscare un animale da soma, come in italiano il termine è usato anche in senso figurato, ma mentre in quest’ultimo indica una sonora ramanzina a Mesoraca significa buscarle, es.: te fazzu na strigghjata si te piu ‘ti faccio una (bella) ripassata se ti acciuffo’. 2 [v.rifl.] Ripulirsi bene bene, darsi una bella lavata con vigore, es.: m’aju fattu na strigghjata ‘mi sono lavato con molta cura’, me strigghjanu i dienti ‘mi strigliano i denti’ (la frase viene riportata quando si ode un rumore fastidioso, come il gesso sulla lavagna, ovvero come il rumore del digrignare dei denti).

Strìgghju [agg.] Sottile, snello, termine impiegato dai bastai per indicare la parte più sottile del cavallo, ossia il collo.

Strina 1 [s.f.] Strenna, dono, regalo; il giorno della strina è il sei gennaio e usanza vuole che si facciano dei regali, esempi: (lap.) t’a fazzu iu a strina! ‘te la faccio io la strenna!’ (certo che riceverai qualcosa, ma saranno probabilmente vajane), (loc.) e Natale ara strina e jurnate s’allonganu e na screnca e gaddina ‘da Natale all’Epifania le giornate si allungano quanto la zampa di una gallina’ (un modo per dire che è passato da poco il solstizio e che l’inverno è ancora lungo). 2 Canzone del periodo natalizio.

Strincìre [v.tr.] Stringere, pressare, legare saldamente, rimpicciolire un ambiente, variante strìnciare, esempi: strinciate a curria ‘stringiti la cintura’, strincia i dienti ‘stringi i denti’, strincire l’uva ‘pressare l’uva’.

Strincitùru 1 [s.m.] Persona magrissima. 2 Legnetto usato per stringere le fascine di legna tramite la corda. 3 Luogo angusto, stretto.

Strisicàre [v.intr.] Rabbrividire, raggelarsi; guarda anche strisicatu.

Strisicàtu [agg.] Participio passato di strisicare, raggelato, rabbrividito, ma usato in senso metaforico ovvero nel suo contrario, e cioè di chi compie un’azione senza troppi pensieri, es.: ha fattu n’acquistu e nu c’è strisicatu e nente ‘ha fatto un acquisto e non c’è rabbrividito per niente’ (ha scialato senza pensieri).

Strisignàtu [agg.] Persona molto magra, esile.

Strividdicàre [v.diff.] Strabuzzare gli occhi per lo spavento o per la meraviglia.

Strittìzze [s.f.] Ristrettezze economiche.

Strittu [s.m. agg.] Stretto, strettoia, es.: (loc.) casa stritta, donna destra ‘casa piccola, donna in gamba’ (ci vuole una moglie capace per tenere in ordine una casa di piccole dimensioni).

Strolachiàre [v.intr.] Fare discorsi sconclusionati o apparentemente senza nessi logici, parlare alla maniera dello stròlacu; il termine è anche usato come sinonimo di ‘parlare inopportunamente’ ‘parlare troppo’ ‘dire male’ ‘spettegolare’, al fine di risvegliare nella persona “sparlatrice” maggiore attenzione/discrezione in quello che sta raccontando, esempi: mo se minta e strolachìa ‘adesso si mette e parla come un lunatico’ (come una persona che non tanto c’è con la testa), se misu a strolachiare e ha ruvinatu tuttu ‘si è messo a sparlare ed ha rovinato tutto’, u strolachiare cchjù ‘non ciarlare più’.

Strolachìgnu [s.m. agg.] Detto di persona un po’ strana, tocca; anche di cosa fatta in maniera stramba, strampalata, balzana, esempi: è unu strolachignu ‘è uno un po’ strano’, u cce mintire pisi strolachigni ‘non metterci pesi esagerati’ (da insensato); cfr ciotignu.

Strolicherìa [s.f.] Discorso, cosa o azione fatti come li farebbe uno non tanto giusto di testa, es.: cchid’é sa strolicheria dduecu! ‘cos’è questa stronzata qui!’ (idiozia, ma anche ‘cosa troppo originale’ per una mente sublunare).

Stròlacu [s.m.] Persona che parla senza senso, lunatico, rincoglionito, persona con evidente difficoltà schizoide di personalità, commette azioni incoscienti (un po’ da stupido, ingenuamemte), spesso si veste in maniera trascurata e/o anticonformista; infatti, non di rado, lo strolacu presenta lati bizzarri, eccentrici, stravaganti e inconsueti, lati che non necessariamente vanno connotati negativamente, in quanto potrebbero essere proprietà creative del carattere; cfr strievuzu.

Strongulìse 1 [s.m.] Vento che spira da Nord-Est, si dice porti neve. 2 Abitante di Strongoli.

Stroppiàre [v.tr.] Storpiare, rovinare, danneggiare.

Stròppiu [agg.] Storpio, deforme, zoppo.

Stròscia 1 [agg.] Logora, usurata, trasandata, che vale poco. [s.f.] 2 Donna dagli agevoli costumi, puttana.

Strosciàre [v.intr.] Arrangiarsi con poche cose o con un lavoretto di poco conto.

Strudìre [v.tr.] Consumare, usurare, esempi: mi se su strudùte e scarpe ‘mi si sono consumate le scarpe’, (loc.) aru maritu u struda a mugghjere, ara mugghjere a strudanu i figghji ‘al marito lo consuma la moglie, alla moglie la consumano i figli’ (triste condizione della donna), (lap.) te viennu ppennu te strudi ‘possa tu non consumartele’ (lapida mandata ad una persona che si era comprato un paio di scarpe nuove).

Strùesciu [agg.] Termine generico per indicare cosa logora, poco funzionante, o vecchia e quindi da buttare, di rado il termine è affibbiato anche ad una persona, esempi: nu strùesciu e par’e cavuzi ‘un vecchio paio di pantaloni’, c’è su sulu strùesci ‘ci sono solo cose inutili’, nu struesciu e motorino ‘un motorino di scarso valore’, oih strùesciu! ‘oih brutto!’; cfr stroscia.

Struesciuliàre [v.intr.] Compiere attività di poco conto o di scarso valore; cfr strosciare, picatiare e rocciuliare.

Strummìentu [s.m.] Strumento, atto notarile, rogito.

Strummentàre [v.tr.] Fare un istrumento, ovvero redigere un documento pubblico presso un notaio, può essere un testamento, un rogito o altro documento di questo tipo. Nel nostro dialetto nella maggior parte delle volte, ha assunto la valenza di fare testamento, lascito testamentario, es.: l’ha strummentatu a rrobba e fore ‘gli ha lasciato il terreno in campagna’.

Strùmmulu [s.m.] Trottola, variante strummu, che insieme alla gnetta e alla lanza (o posta) costituiscono il set necessario per giocare.

Struncatùru [s.m.] Grande sega con due manici da usare in coppia; guarda anche mannise.

Struncunàre [v.tr.] Arare in profondità, tipo di dissodamento effettuato su terreni vergini, come le zone di pascolo (guarda margia), o su terreni che non vengono arati da molto tempo; diventa quindi necessario rivoltare il terreno a fondo (un metro circa) per renderlo più soffice e metterci nuove piante.

Strunzu [s.m.] Stronzo, rotto in culo, es.: strunzu e mmerda ‘stronzo di merda’.

Struppignàtu [s.m.] Razza, specie; cfr arrazzare.

Strusciàru [s.m.] Robivecchi, straccivendolo, persona che vende cianfrusaglie.

Strùsciu [s.m.] Rumore, schiamazzo, suono sordo, variante strùstru (la pronuncia sembra un fischio) che è quasi uno scioglilingua.

Stu [agg.dim. pron.dim.] Aferesi di chistu ‘questo’, l’italiano popolare ‘sto’; usato anche il femminile sta, i plurali ste e sti, esempi: stu ciuetu ‘sto cretino’, piate sti sordi ‘prenditi questi soldi’; guarda anche sa, se, si e su.

Stuccàre 1 [v.tr.] Spezzare, rompere a due metà qualcosa, un legno, la pasta lunga e così via, variante stoccàre. 2 Mettere lo stucco, guarda stucchiare.

Stucchiàre [v.tr.] Stuccare, ossia stendere (applicare) dello stucco su una superficie o una cavità, per renderla regolare o riempirla, es.: prima u pitti e stucchiare ca u muru è malucummenatu ‘prima di tinteggiare devi stuccare che il muro è malmesso’.

Studìa [v.tr. intr.] Indicativo presente terza persona singolare del verbo studiare, identico all’italiano, cambia solo l’accento.

Stùertu 1 [agg.] Storto, piegato. 2 Sleale, scorretto, es.: u ffare u stuertu ‘non fare lo scorretto’.

Stuffu [s.m.]  Noia, fastidio, es.: mi nn’è benutu a stuffu e tantu chi mi nn’aju manciatu ‘me n’è venuto a noia da tanto che me ne ho mangiato’ (stavo vomitando da tanto che ne ho mangiato).

Stuffùsu [agg.] Che reca noia, che stufa, che secca, es.: cum’è stuffusu cuginutta ‘com’è scocciante (e noioso) tuo cugino’.

Stufuliàre [v.tr.] Stufare, nel senso di cuocere a fuoco lento una pietanza, di solito con olio e acqua.

Stujamùssu [s.m.] Alla lettera ‘pulisci-muso’, tovagliolo, salvietta.

Stùjare [v.intr.] Pulire, passare un panno, con la stessa frequenza adoperata la variante stujìre.

Stummuddàre [v.tr.] Sfondare, fracassare, sfasciare, es.: te jiettu nu pugnu chi te stummuddu ‘ti getto un pugno che ti scasso’; guarda anche summuddare.

Stunàre [v.tr.] Turbare, angustiare, ma soprattutto rincoglionire l’interlocutore con una valanga di parole oppure strimpellando molto male uno strumento.

Stuppa [s.f.] Stoppa, ossia cascame della pettinatura del lino, suddiviso in stuppa grossa (o punta), da cui se ne ricavavano strofinacci, bisacce (le persone povere anche lenzuola) e stuppa fina o ntragna per ricavarne saccuni e altra biancheria rustica.

Stużżiùsa [agg.] Persona giudiziosa, che ha gli occhi aperti, attiva, che si programma ciò che deve fare; guarda anche spiertu.

Su 1 [agg.dim.] Questo, codesto, ossia indica persona o cosa vicina nel tempo e nello spazio a chi parla, esempi: su piscie ud è friscu ‘questo pesce non è fresco’, su mmerda cchi bbò? ‘questo stronzo che vuole?’.  [pron.pers.] 2 Pronome si ‘se’ combinato con il pronome u ‘lo’, s’u ‘se lo’, esempi: s’u vidi mannamilu ‘se lo vedi mandamelo’, s’u fricau ‘se lo fregò’. 3 Pronome si ‘se’ combinato con la negazione u ‘non’, s’u ‘se non’, esempi: s’u ru vue u ttu piare ‘se non lo vuoi non te lo prendere’, si u (o s’u) nne niesci mo u nne niesci cchjù ‘se non ne esci adesso non ne esci più’; cfr ssu.

Su’ [v.intr.] Presente indicativo terza persona plurale, apocope di sunu, esempi: su nchjanati antura ‘sono saliti poco fa’, su i cchjù malabbiduti ‘sono i più malvisti’; guarda anche sunu.

Subitànea [agg.] Istantanea, improvvisa, esempi: (lap.) chi te viennu u te pia na morte subitanea ‘che tu possa morire all’istante’, (loc.) a miegghju morte è chidda subitanea ‘la migliore morte è quella repentina’; il termine è italiano, ma a Mesoraca ha una sua economia.

Subra [avv.] Sopra, al di sopra, esempi: mintalilu cchjù subra ‘mettiglielo più sopra’, (loc.) a carne subra l’uessu sta mpara ‘la carne (la ciccia) sopra l’osso bene sta’ (la donna in carne va bene perché dimostra salute ed è buona per fare figli), (loc.) ca ci l’ha cchjù subra?! ‘che ce l’ha più sopra?!’ (frase che si intercala, di solito con un certo grado di stizza, quando l’interlocutore chiede o fa una particolarità verso qualcuno non dettata da meriti; il ‘più sopra’ è riferito al sesso per sottolineare metaforicamente una scelta ingiusta e parziale), (loc.) subra i cazzuni cce campanu i spierti ‘sopra i cazzoni ci campano i furbi’.

Subracchjù [avv.] Alla lettera ‘sopra più’, ossia in più, inoltre, per di più, oltre a ciò, es.: subracchjù l’ha minatu ‘in più lo ha picchiato’.

Subramànu [s.f.] Cucitura a zig zag di supporto alla cucitura principale.

Subramìsu [agg.] Alla lettera ‘sopra messo’, attaccato sopra tutto il resto, posticcio.

Subrulìddu [avv.] Poco più sopra, un pochino più su, quasi sempre accompagnato dall’avverbio cchjù ‘più’, es.: mintalu cchjù subruliddu ‘mettilo un pochettino più sopra’.

Suca [v.tr. loc.] Imperativo di sucare, termine usato come locuzione per dire ‘col cazzo!’ ‘vaffanculo!’ ‘non ci sperare’, es.: suca! ‘ciuccia!’, può essere accompagnato da gesto volgare ed è circa equivalente ad un’altra locuzione locale l’e fare intr’u culu ‘lo devi fare nel culo’; il tono, la maggior parte delle volte ha funzione di scherno, da ‘presa per il culo’.

Sucagnùestru [agg. s.m.] Letteralmente ‘succhia inchiostro’, figurativamente spilorcio, avaro, ma anche impiegato di poco valore, l’ultima ruota del carro.

Sucaméle [s.m.] Erba di campo della stessa famiglia delle vurraine il cui fiore talora somiglia ad un cuore, da cui se ne può succhiare il nettare, Cerinthe major L.

Sucàre [v.tr.] Succhiare, suggere, esempi: m’aju sucatu due ova frische stamatina ‘mi sono succhiato due uova fresche stamattina’, (loc.) para sucatu di lampi ‘sembra sia succhiato dai fulmini’ (evocativo modo di dire quando ci si riferisce ad una persona particolarmente emaciata).

Suchefrùttu [s.m.] Alla lettera ‘succo di frutta’ ‘bottiglietta di succo di frutta’.

Sucu [s.m.] Sugo di pomodoro naturalmente, ma anche il ragù, da cui l’aggettivo sucùsu ‘sugoso’ ‘ricco di sugo’.

Sudda [s.f.] Erba da foraggio, Hedysarum coronarium L., conosciuta anche col nome di lupinella selvatica, es.: (loc.) oih bedda mia intra sudda ‘oh bella mia nella sulla’ (andare in camporella).

Suddàcca [s.f.] Colatura di cemento, gesso o calce per riempire piccole cavità, fessure, angoli.

Sue 1 [agg.poss. pron.poss.] Aggettivo e pronome possessivo ‘suo’, invariante al plurale femminile ‘sue’, ne è variante suu, si pospone al sostantivo, u paise sue ‘il suo paese, e cose sue ‘le sue cose’, su state e sueru sue ‘sono state le sue sorelle’; con uso sostantivato e pronominale, esempi: c’è du sue (suu) ‘c’è del suo’ (di sua proprietà), chissu e u sue ‘questo è il suo’; guarda anche sa e tue. [s.m.] 2 Nel gioco della briscola ha il significato di carico dello stesso seme della carta giocata dall’avversario, esempi: mintace u sue ‘mettici il (suo) carico’, u sue u tt’u duna ‘il suo non te lo da’.

Sùelu 1 [s.m.] Terreno, suolo, in genere edificabile. 2 [v.tr. v.intr.] Presente indicativo, terza persona plurale del verbo ‘solere’, oltre all’infinito è il solo tempo, modo e persona usato, es.: suelu gghjire are quattru ‘sogliono andare alle quattro’.

Sùennu [s.m.] Sonno, sogno, esempi: l’è ngagghjatu u suennu ‘gli è preso sonno’, m’aju sunnatu a sorta ‘mi ho sognato tua sorella’, (lap.) te viennu u te sparanu intr’u suennu ‘che ti possano sparare nel sonno’ (mentre dormi).

Sùeru [s.f.sing.pl.] Sorella, sorelle, esempi: su’ frate e sueru ‘sono fratello e sorella’, a mamma avia uettu sueru ‘la mamma aveva otto sorelle’; molto usate anche suerumma ‘mia sorella’ e sùerutta ‘tua sorella’, varianti di sorma e sorta.

Suerubétta [s.f.] Granitina di neve fresca mista al vinicuettu (sciroppo di mosto d’uva), variante sorubétta, variante filippara scirubétta.

Suffrichìettu [s.m.] Soffritto di pezzi di maiale misto con abbondante peperoncino piccante in polvere; il termine è impiegato anche per altri tipi di spezzatini.

Suffrijìre [v.tr.] Soffriggere, friggere a fuoco moderato.

Sugghja [s.f.] Punteruolo, lesina.

Sugghju [s.f.] Subbio, ossia elemento di sostegno per l’avvolgimento del filato d’ordito, costituito da un cilindro di piccolo diametro.

Sugghjuttàre [v.intr.] Singhiozzare, avere il singhiozzo.

Sugghjùttu [s.m.] Singhiozzo, singulto.

Sugnu [v.intr.] Prima persona singolare, indicativo presente verbo essere, esempi: sugnu iu ‘sono io’, sugnu cca ‘sono qua’.

Sui [agg.poss. pron.poss.] Aggettivo e pronome plurale ‘suoi’, come per sua si pospone al nome e in uso sostantivato pronominale, esempi: i sordi sui ‘i soldi suoi’, (loc.) chine se fa l’affari sui u ffa male a nuddu ‘chi si fa gli affari suoi non fa male a nessuno’ (ogni commento è superfluo), su di sui ‘sono dei suoi’ (sono i suoi).

Sulàgna [agg.] Isolata, poco frequentata, solitaria, es.: na casa sulagna ‘una casa lontana dai centri abitati’; guarda anche sularinu.

Sularìnu [agg.] Solitario, solo, es.: chissa e na cristiana chi u bbo accunti ccu nuddu, è na sularina ‘questa è una persona che non vuole (ac)conti con nessuno, è una solitaria’; guarda anche sulagna.

Sule 1 [s.m.] Sole, esempi: me mintu aru sule ‘mi metto al sole’, è cuddàtu u sule ‘è tramontato il sole’, (lap.) te via riccu cuemu u sule ‘che tu possa essere ricco come il sole’ (una rarissima imprecazione positiva), (lap.) te viennu u pii u sule a petrate ‘che tu possa prendere il sole a pietrate’ (che tu possa impazzire), (loc.) è nnu sule chi ricogghja l’acqua ‘è un sole che raccoglie acqua’ (un sole che non ha durata, quindi pioverà di nuovo), sapiavu ca c’era u sule? ‘sapevate che c’era il sole?’ (intercalare, si usa quando si incontra un gruppo di persone i cui componenti di solito li si incontra singolarmente). 2 [agg.] Plurale di sula ‘sola’, es.: u re lassare sule ‘non lasciarle sole’.

Sulìre [v.tr. v.intr.] Solere, avere per consuetudine, es.: suelu sagghjire doppu manciatu ‘sogliono salire dopo mangiato’ (nel pomeriggio).

Suliverzàre [v.tr.] Sollevare, girare qualcosa dal lato inferiore a quello superiore, es.: e suliverzare u matarazzu ‘devi girare il materasso’.

Sullàzza [s.f.] Sigaretta, gergo dei calderai.

Sullìcitu [agg.] Svelto, veloce, sollecito.

Sulu [agg.] Solo, che è senza compagnia.

Summarcàre [v.tr.] Girare, scavalcare.

Summàstru [s.m.] Principale, capo mastro, esperto.

Summègna [s.f.] Scarica di botte.

Summuddàre [v.tr.] Sfondare, incurvare, deformare, rompere, es.: u tte sedire subra a casciotta c’a summuddi ‘non sederti sopra la cassetta che la sfondi’; guarda anche stummuddare.

Sùmpicu [s.m.] Sincope, forte spavento, forte emozione, esempi: me vena nu sumpicu ‘mi viene un infarto, (lap.) te via nu sumpicu ‘possa venirti un accidente’.

Sumpòsta [s.f.] Supposta, farmaco che si somministra per via rettale.

Sumpurtàre [v.tr.] Sopportare, patire, tollerare, esempi: u ra sumpuertu cchjù! ‘non la sopporto più!’, (loc.) chine sa de cchjù ha de sumpurtare chine sa de menu ‘chi sa di più ha da sopportare chi sa di meno’ (chi ha più conoscenza e saggezza e/o intelligenza deve tollerare chi ha meno conoscenze e/o capacità), nn’ha sumpurtatu corna! ‘ne ha subito corna!’ (a voglia quante corna che ha dovuto tollerare).

Sumpustùre [s.m.] Scocciatore, persona fastidiosa, sempre in mezzo alle scatole.

Sunnàbbule [agg. s.m.] Sonnambulo, il significato prevalente è però di persona dormigliona, che dorme in piedi e per questo poco concludente, persona un po’ assente.

Sunnàre [v.tr.] Sognare, raffigurarsi qualcuno o qualcosa nella fantasia.

Sunu [v.intr.] Indicativo presente terza persona plurale verbo essere, anche nella variante tronca su’, es.: su’ arrivati iddi ‘sono arrivati loro’; guarda anche su’.

Suppa [s.f.] Latte con pane, oppure con biscotti o fresìne, ma anche i taraddi non guastano.

Suppìera [s.f.] Grossa tazza per alimenti, zuppiera.

Suppressàta [s.f.] Soppressata, ossia prelibatissimo salame tipico della Calabria, dalla consueta forma appiattita e diffuso con questo nome in tutta Italia, ma declinato in maniera diversa.

Ingredienti: 1 kg di carne del prosciutto del maiale (ma anche del filetto e del lombo, specie per la parte grassa), 25 grammi di sale, 100 grammi circa di peperone dolce in polvere, peperoncino piccante secondo i gusti, pepe appena schiacciato (una piccola manciata), budelli di maiale dell’intestino crasso (guarda stentinu).

Procedura: macinare la carne e impastarla insieme a tutto il resto, fare riposare per due o tre ore, quindi riempire le budella. I salami così formati vengono appesi per due giorni e poi messi alla mazara (sotto peso) per 24/36 ore. La pressa avviene aprendo a metà una tovaglia (misale) su una parte di pavimento pulito, vengono quindi adagiate le soppressate e coperte con l’altra metà del misale, in seguito si copre il tutto con un asse di legno (timpagnu), infine, si pongono sopra dei pesi di varia natura; negli ultimi tempi si sta affermando una tecnica nuova di pressatura, ovvero fissando dei puntelli direttamente tra il timpagnu e il soffitto. Finita la mazara le soppressate devono essere appese in un luogo ventilato per un mese e mezzo circa prima di poter essere consumate, questo periodo si accorcia se si sono confezionate soppressate di piccolo taglio; la conservazione avviene sottolio o sottovuoto.

Suràca [s.f.] Fagioli, Phaseolus vulgaris, L., esempi: suraca scrittiata ‘fagioli segnati’ (fagioli borlotti), suraca a mmele ‘fagioli (dal colore) del miele’ (varietà di fagioli molto diffusa localmente che uniti alla cicoria selvatica compongono una gustosa e tradizionale ricetta).

Suraca e cicueri. Ingredienti: fagioli a mmele, cicoria selvatica, olio, sale, aglio, peperoncino. Procedura: mettere a bagno i fagioli la sera, il giorno successivo cuocerli con acqua e sale, dentro una pignata al fuoco del camino per un’ora e mezza – 20 minuti con la pentola a pressione dopo che inizia l’ebollizione. Cuocere la cicoria e soffriggerla in una pentola capace con aglio, olio e peperoncino; addizionare i fagioli con la propria acqua, mescolare insieme e fare cuocere altri 5 minuti. Da gustare con pane raffermo o viscuetti.

Suràru [agg. s.m.] Tirchio, taccagno, es.: (loc.) a rroba du suraru s’a mancia u sciampagnune ‘la roba dell’avaro se la mangia lo spendaccione’.

Surchjàre [v.tr.] Succhiare, aspirare, (loc.) pari surchjatu e nu lampu ‘sembri succhiato da un lampo’ (sei macilento, deperito).

Surchjèllu [s.m.] Succhiotto, tettarella.

Surchjùne [s.m.] Succhione, pollone, nello specifico s’intendono i polloni che crescono sui rami e non quelli che crescono alla base dell’albero; cfr. anche purchjune, tacchjune e spitu.

Surcu [s.m.] Solco, fenditura, spaccatura, es.: u surcu di pumadueri ‘il solco dei pomodori’.

Surdàtu [s.m.] Soldato, militare, es.: è partutu surdatu ‘è partito militare’.

Surdu [agg. s.m] Sordo, persona che ha perso, in parte o del tutto, il senso dell’udito, ma anche persona che con consapevolezza non presta ascolto, che fa finta di non udire, es.: u ffare u surdu ‘non fare il sordo’ (non fare il finto tonto).

Surdulìna [s.f.] Particolare zampogna ‘a paro’ (quando le canne cilindrico-coniche sono uguali) diffusa nella comunità arbërësh calabrese; guarda anche zampogna e stifetta.

Surdulìnu [s.m.] Sorta di richiamo all’accoppiamento per femmine umane, ovvero fischio prodotto con le labbra   tirando l’aria dentro anziché soffiarla; comportamento prodotto dall’Homo amator mesorachensis giovane al passaggio di una fanciulla.

Surfa 1 [s.f.] Zolfo, in particolare quello in polvere usato come anticrittogamico. 2 Nel gergo locale indica la cocaina; guarda anche nzurfare.

Suriànu [s.m.] Località di castagneti situati quasi in cima al monte Giove.

Sùrice 1 [s.m.] Sorcio, topino di campagna e che non disdegna i magażżìeni, la specie più diffusa è Mus musculus L. 2 Specie di pesce (Xyrichtys novacula L.) conosciuto in italiano col nome di pesce pettine, di solito mangiato fritto.

Suriciàra [s.f.] Trappola per topi, consistente in una casettina in legno dove è posizionata un’esca che, una volta toccata, fa scattare una porticina che chiude in trappola il topo, munita anche di finestrella a chiodi per far passare la luce.

Suriciùervu [s.m.] Letteralmente ‘sorcio orbo’ cioè topo cieco, ovvero la talpa, Talpa europaea L.; variante poco usata surichjùercu, sinonimo di topinaru.

Surruscare [v.intr.] Verbo impersonale, lampeggiare, mandare bagliori dal cielo, sinonimo di stillampare.

Surrùscu [s.m.] Località di campagna, uliveti, confinate a valle con Santu Marcu e Ciceraru.

Suspisàre [v.tr.] Sollevare, più precisamente soppesare, ossia stimare il peso di un oggetto, di solito tenendolo in mano e alzandolo e abbassandolo più volte, es.: prova aru suspisare ‘prova a soppesarlo’.

Sussegàre [v.tr.] Dissuadere, distogliere, scoraggiare, es.: sussegalu ppe nnu bba ‘dissuadilo dall’andare’.

Susu [avv.] Sopra, parte superiore.

Susumèlla [s.f.] Biscotto di pasta frolla.

Susta [s.f.] Corda adoperata nei basti artigianali e inserita nella parte anteriore per legare grossi carichi, infatti è la corda più lunga ed è sempre accoppiata con un’altra identica.

Sustùsu [agg.] Persona noiosa, fastidiosa.

Sutta [avv. s.f.] Sotto, nella parte inferiore, esempi: va piamila sutta a chjave ‘va a prendermi (al piano) sotto la chiave’, c’è nu sutta e nu subra ‘c’è un sotto ed un sopra’ (ci sono due stanze dislocate su due livelli), (loc.) u tata e mamma fanu a lutta e io ce vaju e sutta ‘il babbo e la mamma fanno la lotta e io ne vado sotto’ (tra due litiganti il terzo può prendere qualche botta, anche se non centra niente).

Suttàna 1 [s.f.] Sottana, sottoveste, esempi: (loc.) ih cunnieddu, t’ha mmisu a suttana ‘ih stupido, ti ha messo la sottana’ (ovvero è la donna nella coppia che comanda e prende decisioni), (loc.) chine te vo male, sette suttane e ru culu te para ‘chi ti vuol male, (puoi metterti anche) sette sottane e il culo ti si vede’ (quando una persona è cattiva dentro è più dedita a calunniare o infamarne un’altra, la quale ha tanti pregi e solo di rado sbaglia qualcosa, ma gli stronzi essendo tali, mettono in evidenza solo gli errori, facendo perdere d’un botto stima e prestigio al malcapitato); guarda anche tajittu. 2 [agg.] Femminile dell’italiano sottano, es.: ruga suttanaruga di sotto’. La ruga suttana, a Filippa, indicava u chjanu e Mantella (l’attuale piazza Tonin), il reale chjanu e Mantella invece sarebbe la piazzetta poco più sopra di piazza Tonin; guarda anche chjanu.

Suttanìnu [s.m.] Indumento femminile indossato sotto i vestiti col fine di evitare eventuali trasparenze, sottoveste.

Suu [agg.poss. pron.pers.] Variante di sue ‘suo’.

Suvàre [s.f.] L’estro della scrofa, con conseguente forte desiderio all’accoppiamento, ovvero l’accoppiamento tra i suini.

Sùvaru [s.m.] Sughero, es.: nu muddagghju e suvaru ‘un tappo di sughero’.

Suverchjàre [v.tr.] Soverchiare, avanzare, es.: mi nne suverchja assai ‘me ne avanza molto’.

Suvìerchju [agg. s.m.] Sovrabbondante, eccessivo, soverchio, esempi: (loc.) u suverchju rumpa a cassarola e ru cuvierchju ‘il soverchio rompe la pentola e il coperchio’ (ogni cosa in eccesso non è bene), (loc.) u suvierchju è cuemu u mancante ‘l’eccesso è come la carenza’ (ci vuole un giusto ad ogni cosa).

Suzìeri [s.m.] Mortaio, ossia contenitore in legno, marmo o bronzo, dotato di pestello o di pietra di fiume dove si sbriciola(va) il sale, variante sizìeri, es.: (loc.) ammacca l’acqua intr’u suzieri ‘pesta l’acqua nel mortaio’ (proverbio riferito a persone che si girano i pollici, ovvero millantano lavori o attività non vere).

Suzìzza [s.f.] Salsiccia, ossia il classico insaccato a base di carne di maiale e spezie, esempi: n’amu manciatu cchjù de nu chilu e suzizza purmunara ‘ci siamo mangiati più di un chilo di salciccia polmonare’ (guarda nnugghja), pizza pane e suzizza ‘pizza pane e salsiccia’ (ovvero il nome popolare del gioco della lippa), (loc.) e suzizze u ssu quantu i juerni e l’annu ‘le salsicce non sono quanto i giorni dell’anno’ (la cosa bella non si può avere tutti i giorni).

Suzizza a ra misurachise. Ingredienti: 1 kg di carne suina della spalla e del costato, 25 grammi di sale, 100 grammi di peperone dolce in polvere, peperoncino piccante, una manciata di pepe appena schiacciato, una manciata di semi di finocchio selvatico, budelli dell’intestino tenue del maiale (guarda stentinu).
Procedura: tritare la carne e amalgamarla bene con le spezie e il sale, poi prendere una manciata dell’impasto e soffriggerlo per assaggiare se va bene, quindi riempire i budelli. Possono essere mangiate subito arrostendole, oppure stagionandole per un mese in un luogo ventilato e dopo conservate sottolio o sottovuoto.

Suzizzùne [agg.] Salsiccione, il termine è però usato in senso figurato per indicare una persona un po’ tonta.

Suzu [s.m.] Gelatina di carne del maiale, più precisamente della testa del maiale; guarda anche jelatina.

Suzzàru [s.m.] Mangione, lurco.

Suzzuniàre 1 [v.tr.] Ridurre in poltiglia, sbrindellare, sbriciolare. 2 Pappare, mangiare voracemente.

Sultima modifica: 2022-03-13T10:52:03+01:00da mars.net