P

P [s.f.] Quattordicesima lettera dell’alfabeto mesorachese, corrispondente alla quindicesima di quello latino, la cui forma (rimasta più o meno immutata nel tempo, salvo che in origine il semicerchio di destra non giungeva a saldarsi con l’asta verticale), derivata dalla scrittura fenicia, fu comune in età arcaica anche all’alfabeto greco; questo però, in età classica, per evitare confusione con il segno P corrispondente al suono “r”, preferì spezzare il tratto a semicerchio in due tratti rettilinei perpendicolari tra loro, dando luogo al segno π rimasto poi definitivo nella scrittura greca e trasmesso da questa a quella cirillica. In italiano, come in tutte le altre lingue, la lettera p rappresenta la consonante esplosiva bilabiale sorda “p” (VT).

Paccàru [s.m.] Persona che tira bidoni, che non rispetta gli appuntamenti; il termine è nuovo e viene usato per lo più dalle persone giovani; da ricordare che in molte parti della Calabria pàccaru indica ‘schiaffo, pacca’.

Pacchicìeddu [s.m.] Pacchettino, confezione regalo.

Pacchja [s.f.] Pacchia, divertimento, fortuna, mangiare e bere senza troppe preoccupazioni, ma anche lavorare senza troppi controlli e quindi rendere meno del previsto, es.: è na pacchja duve fatigu ‘è una fortuna dove lavoro’.

Pacchjàna [s.f.] Donna calabrese in costume tradizionale, appartenente ad un gruppo folcloristico. La pacchjàna, come termine e come costume, è (era) diffusa in tutto il meridione d’Italia – Regno Duosicilano. E’ utile sottolineare che fu Ferdinando IV di Borbone, intorno al 1780 a voler riprodurre su ceramica i vestiti tipici femminili del regno per il mercato europeo, poiché allora tali vestiti non avevano la valenza che oggi gli si attribuisce, anzi, erano molto raffinati e curati e per altri versi anche nobili poiché venivano abbinati con oggetti in oro, come spille, orecchini e altri monili di valore; col tempo il significato è mutato completamente, oggi viene indicata una donna dai gusti grossolani, grezzi e dozzinali, contadineschi.

Pacchjanàta [s.f.] Pacchianata, buffonata, cattivo gusto, kitsch molto discutibile, ma anche cosa di poco conto, esempi: u firme e ajieri sira era na pacchjanata ‘il film di ieri sera era una cazzata’, chidda gonna è na pacchjanata ‘quella gonna è una grossolanità’ (brutta, scadente, dozzinale).

Pacchjiàre [v.intr] Godersela, scialarsela, mangiare con avidità e gusto nello stesso tempo, esempi: ti l’è pacchjiata oje ‘te la sei spassata oggi’ (ma anche ‘non hai fatto un cazzo oggi’), quannu me ricuegghju ma vuegghju pacchjiare ‘quando ritorno voglio godermela (gustarmi l’ozio)’.

Pace [s.m.] Specie di stendardo dove si mettevano le offerte durante le processioni religiose.

Pacenziùsu [agg. s.m.] Persona ritardataria perché fa le cose con calma, che indugia, es.: pacenziusu cumu patritta u cce nuddu ‘calmo (e perditempo) come tuo padre non c’è nessuno’; cfr ruecciulusu.

Pacìenza [s.f.] Pazienza, sopportazione, calma.

Padda [s.f.] Palla, anche di cannone, proiettile, boccia, es.: amu jucatu a padde tuttu u pomeriggiu ‘abbiamo giocato a bocce tutto il pomeriggio’, (lap.) chi te via na padda e l’ariu ‘che tu possa essere colpito da una pallottola vagante’.

Paddàta [s.f.] Letteralmente pallata, nel senso di revolverata, es.: (lap.) nne vulerre paddàte! ‘meriteresti un sacco di revolverate’.

Paddiàre [v.tr.] Impallinare, sparare.

Paddòtta [s.f.] Pallotta di materiale vario accartocciata o compattata con le mani, esempi: na paddòtta e nive ‘una pallotta di neve’, e vrasciole e ppue fare tunne, a paddotte o longarute cumu forranu filonicchji ‘le polpette le puoi fare rotonde, a pallotte oppure di forma allungata come dei piccoli filoni’.

Pàffiti [inter.] Voce usata per indicare il suono prodotto da un oggetto molliccio o fragile che cade per terra o in acqua, infatti il termine è anche impiegato scherzosamente quando si gioca con i bimbi piccoli, riproduce l’italiano ‘punfete’.

Pagatùre [s.m.] Persona abituata a pagare subito il lavoro che ha commissionato, al contrario di molti che fanno aspettare, anche se, es.: (loc.) du malu pagature scippa chiddu chi pue ‘del cattivo pagatore scippa quello che puoi’.

Pagghja [s.f.] Paglia, fieno, esempi: (loc.) u tti nne vula pagghja aru cuezzu ‘non te vola paglia alla nuca’ (poiché non lavori per i campi, ovvero non sei un contadino), (loc.) minti pagghja e fai carvune? ‘metti paglia e fai carbone?’ (con la paglia ovviamente non si ottiene carbone, il proverbio invita a fare le cose in maniera corretta).

Pagghjàru [s.m.] Pagliaio, capanno, es.: (loc.) pagghjaru viecchiu usca no ru nuevu ‘fienile vecchio brucia non il nuovo’ (la persona anziana è più affidabile perché ha più esperienza).

Pagghjùne [s.m.] 1 Pagliericcio, letto fatto con la paglia, in passato lo usavano gli operai che lavoravano in campagna o montagna; vedi anche masciune. 2 Imbroglio, raggiro, es.: m’ha ffattu u pagghjune ‘mi ha imbrogliato’.

Pagnotta [s.f.] Generico biscotto artigianale lungo una decina di centimetri da intingere nel latte; vedi anche suppa.

Pagùra [s.f.] Paura, timore, da cui pagurùsu ‘fifone, pauroso’.

Paisànu [s.m.] Paesano, nostrano, esempi: nu paisanu chi fatiga a ra Germania ‘un compaesano che lavora in Germania’, chissu è casu paisanu ‘questo è formaggio della nostra terra’.

Pajèdda [s.f.] I lembi della camicia o della maglia interna, che non sono stati messi dentro i pantaloni; a volte è una distrazione, ma rimane sintomo di trascuratezza e/o precaria salute mentale.

Pajòrda [agg.] Disordinata, sciocca, che non ci tiene molto alla sua persona, ma anche sporca, laida, lurida, es.: u cce jire a manciare ch’è pajorda ‘non andarci a mangiare che è sudicia’.

Palastrùne [s.m.] Ramo troppo cresciuto, più grosso di un grosso pollone, da potare, variante spalastrùne; vedi anche jettune.

Palazzìne [s.m.] Zona di Mesoraca dove sorgono le case popolari, compresa nel quartiere (e località di campagna) denominato Santu Marcu.

Palètta [s.f.] 1 Paletta in plastica per la raccolta dell’immondizia domestica o in metallo per gestire il focolare. 2 Scapola, quella del maiale, es.: ta vue spruddàre a paletta? ‘te la vuoi spolpare la scapola?’. 3 Incisivo centrale dell’arcata dentale superiore. 4 Ramo del fico d’India, es.: t’aju stipatu na paletta e ficunniane ‘ti ho messo da parte una paletta di fichi d’India’.

Paliatùne [s.m.] Un sacco di sberle, bastonatura. 

Palìettu [s.m.] Paletto, spranga.

Palla [s.f.] 1 Bugìa, frottola, es.: m’ha cuntatu nu munte e palle ‘mi ha raccontato un sacco (monte) di balle’. 2 Testicolo, es.: m’e ruttu e palle ‘mi (hai) rotto le palle’. 3 Pallone piccolo.

Pallina [s.f.] 1 Palla di piccole dimensioni, ad esempio quella del biliardino. 2 Indica il numero di vite nei video game, es.: e piatu a pallina ‘hai preso la vita’.

Pallìsta [s.m.] Ballista, fanfarone, sinonimo di pallonaru.

Pallonàru [s.m.] Bugiardo, mistificatore.

Palòra [s.f.] Metatesi di parola. 

Palummàru [s.f.] Colombaia, piccionaia.

Palummèdda [s.f.] 1 Piccola falena, probabilmente rappresentata da più di qualche specie. Un’antica credenza popolare vuole che si porti rispetto a questo animale quando entra la sera in casa, perché rappresenta l’anima di un defunto. In altre zone del crotonese è chiamata palummedda e Sant’Antueni o zampalia ed è creduta messaggera del Santo, quindi portatrice di buone notizie. 2 Zona di campagna (orti) confinante col quartiere Pipinu e Turra.

Palummìeddu [s.m.] Tipo di fungo commestibile appartenente alla famiglia delle Russulaceae, con oltre 250 specie, non tutte commestibili. Nei nostri boschi si raccolgono principalmente la Russula cyanoxanthal Schaeff., dal cappello violaceo, la Russula aurata Pers., la più ricercata, Russula delica Fries., di colore biancastro somigliante al lattaru, Russula vesca Fr., color mattone e Russula virescens Schaeff., color grigio-verdastro chiaro.

Palùmmu [s.m.] Colombo, piccione, Columba livia Gmelin; il colombaccio, un po’ più grande ed elegante del piccione Columba palumbus L., da cui palummieddu ‘colombino’, (loc.) palummu mutu u ppo essere servutu ‘colombo zitto non può essere servito’ (se una persona non parla non viene servita).

Pàmpina [s.f.] Foglia, esempi: n’arvule chjinu e pampine porta puecu ‘un albero pieno di foglie porta poco’ (poca frutta), (lap.) chi vorre vulare cuemu e pampine de castagne ‘possa tu volare come le foglie dei castagni’ (sottintende al fatto di essere molto malati ossia molto deperiti).

Pàmpinu [s.m.] Baco da seta, ovvero le foglie del gelso con le quali venivano nutriti.

Pampògghje [s.f.] Fogliame e piccoli rametti.

Panàru [s.m.] 1 Paniere di lamelle di legno o di canne a base quadrata o rotonda; questo robusto cesto è però usato per altri scopi, come per raccogliere olive, funghi, frutta; di solito al mattino si mette dentro lo stiavuccu da portarsi in campagna e la sera si riporta pieno di altro come frutta o verdure. 2 Culo, sedere, sia in senso anatomico che figurato, esempi: ce vo panaru ‘ci vuole fortuna’, te fazzu u culu cumu nu panaru ‘ti faccio il culo come un paniere’, tieni u culu cuemu nu panaru ‘hai il culo come un paniere’.

Panaru

Panata [s.f.] Tazza di latte con dentro pane, ma anche tazza di latte e caffè con biscotti, es.: me fazzu a panata prima u vaju a fatigare ‘mi faccio una tazza di latte col pane prima di andare a lavorare’.

Pane [s.m.] Pane, ossia impasto di farina, acqua, lievito, sale, e cotto in forno, esempi: (loc.) vorre campare quantu u pane e ru vinu ‘possa tu voler vivere quanto il pane e il vino’ (intercalare per dire ‘vorresti campare molto’, evidentemente gli antichi erano speranzosi del fatto che pane e vino non sarebbero mai mancati), pane a vinnare ‘pane a vendere’ (ossia pane, di solito di tipo casaluru, proveniente da un forno non ufficiale); vedi anche casaluru, pupidda, gucceddatu, pitta, viscuettu, pane e castagna, panicieddu, cudduru, fresa, panecuettu, levatu, levatina, cicimmò, panata, furnaru, fatta, majidda, spaddanatu, urulu, scanare, cannizzu, uscare, ncanceddusa e cumpane.

Panecùettu [s.m.] Alla lettera ‘pane cotto’, ricetta popolare diffusa in tutta Italia, che ha come ingrediente principale il pane raffermo. Ingredienti: pane raffermo, acqua, olio, sale, peperoncino rosso macinato, formaggio grattugiato, origano, cipolla, aglio. Procedura: stufare leggermente la cipolla, aggiungere acqua quanto basta, olio, origano, uno spicchio d’aglio; quando è in ebollizione aggiungere il peperoncino (senza lesinare) e il pane; amalgamare per due minuti, togliere dal fuoco e servire con una spolverata di formaggio pecorino.

Panevìpara [s.f.] Letteralmente pane di vipera ovvero la pianta gigaro, Arum italicum Mill.; il nome è appropriato poiché si tratta di una pianta velenosa, es.: stricale pane e vipara a re spadde ca pue se rasca ‘strofinagli del gigaro alle spalle così poi si gratta’; strofinare del gigaro sulla pelle provoca un’immediata dermatite, ovvero un prurito molto fastidioso.

Pànica [s.f.] Calcinaccio, pezzo di intonaco, zolla di terra.

Panicanzìta [s.f.] Altalena a bilico o a bascula, varianti panecanzìta o paricanzìta.

Panicìeddu [s.m.] Alla lettera ‘panicello’, ossia ‘piccolo pane’; con questo termine ci si riferisce a dei panini benedetti che vengono distribuiti al vicinato dalle famiglie che hanno in casa un componente che si chiama Antonio, Francesco o Giuseppe, in occasione dei loro onomastici.

Pannaménti [s.m.pl.] Insieme di vestiti, complesso di indumenti o panni generalmente stesi ad asciugare.

Panniatùru [s.m.] Grosso telo di lino grezzo utilizzato per fare il bucato, ovvero impiegato come filtro, infatti al suo interno veniva versata l’acqua calda, la miscela filtrata finiva sui panni da lavare; vedi anche lissia.

Pannìeddu [s.f.] Tela molto resistente per il rivestimento interno del basto.

Pannizzìa [v.intr.impers.] Alla lettera ‘nevica’, poco usato l’infinito pannizziare; vedi anche pudduliare.

Pannìzzu [s.m.] 1 Pannolino in tela lavabile, quello che si usava prima dell’arrivo di quelli usa e getta. 2 Grosso fiocco di neve. 3 Pianta erbacea perenne riconoscibile per i delicati fiorellini rosei, conosciuta localmente col nome di pannizzu da Madonna, scientificamente Convolvulus althaeoides L.

Pannu [s.m.] 1 Panno, stoffa. 2 Gonna molto lunga, fatta di lana grezza o di un tessuto pesante. 3 Grembiule, cfr anche fadale.

Pantànu [s.m.] Località di campagna, situata in posizione nord-ovest rispetto al comune, confinante con la località denominata Campizzi; buona parte del territorio così denominato ricade nel comune di Petilia.

Panùsu [agg.] Composto alimentare, come le polpette o la tiella, che contiene più pane di quello necessario “panoso”.

Panza [s.f.] Pancia, trippa, ventre, esempi: (loc.) l’acqua vattuta da jumara è bbona ppe ru ficatu e ppe ra panza ‘l’acqua sbattuta dal fiume è buona per il fegato e per la pancia’ (per i minerali disciolti), (loc.) panza chjina canta nno cammisa janca ‘pancia piena canta, non camicia bianca’ (con la pancia piena si è contenti, a costo di sporcarsi la camicia, viceversa con la camicia linda e la pancia vuota è difficile esserlo), (loc.) panza e prisenza ‘pancia e presenza’ (mi presento nella mia interezza, pancia compresa), (lap.) chi te viennu u fai l’acqua a ra panza ‘che possa vederti fare l’acqua alla pancia’ (che tu possa stare male, l’acqua alla pancia è sintomo di un cattivo funzionamento del fegato), (loc.) è miegghju a panza u scatta e no a rrobba u resta ‘è meglio (che) la pancia scoppi e non la roba che resti’ (quando si presenta un’occasione bisogna approfittarne), (indovinello) panza ccu panza e manicu tirente ccu na vrancata chi le damu facimu zumpare nu munte e gente ‘pancia con pancia e manico teso, con una manata che le diamo fazziamo saltare un mucchio di gente’ (la chitarra).

Panzàgghja [s.f.] Pancetta, ricavata dal sottocostato inferiore dei suini; il periodo di stagionatura è di almeno trenta giorni, appesa in locali con umidità relativa e temperatura controllate, naturalmente cosparsa di peperoncino macinato.

Panzallària [avv.] Supino, sul dorso.

Panzùne [s.m.] Pancione, grassone.

Panzùtu [agg.] Panciuto, corpulento.

Pàpara [s.f.] 1 Pene, pisello, da cui paparèdda ‘pisellino dei bambini’. 2 Papera ovvero oca, Anser anser L.

Paparànne [s.m.] Letteralmente ‘papà grande’, quindi nonno, sinonimo di tataranne.

Paparèdde [s.f.pl.] Alla lettera ‘paperelle’ ovvero mais scoppiato, pop corn.

Papariàre [v.intr.] 1 Amoreggiare, limonare, fare petting, pomiciare, da cui papariàta ‘pomiciata’, ‘limonata’. 2 Perdere tempo, temporeggiare; vedi anche picatiare.

Paparìna [s.f.] Forma accorciata di papa(ve)rina.

Papéllu [s.m.] Discorso lungo, noioso e spesso inutile, es.: m’ha fattu nu papellu! ‘mi ha fatto un discorso lunghissimo’.

Papìnu [s.m.] Coglione, stupido, es.: è nu papinu ‘è un cretino’.

Papògna [s.f.] Grosso naso, sinonimo di naschilàrigu.

Papòscia [s.f.] Ernia inguinale, sinonimo di guaddara.

Pappacérva [s.f.] Persona tonta, anche ebete, vicina al significato di ciota.

Pappafìcu [s.m.] Stupido, idiota, balordo, alla lettera ‘pappa fico’.

Pappasàle [s.m.] Appianamento, accordo di compromesso, aggiustaggio, la persona che fa un pappasale è una persona buona, che non cerca liti, nelle dispute si adopera per trovare una soluzione di accomodamento e lusinga tra i contendenti, es.: tu momò minti nu pappasale ‘tu subito appiani una discussione’.

Pappasùennu [s.m.] Letteralmente ‘pappa del sonno’, ovvero pallina d’oppio estratta dalla pianta Papaver somniferum L., un tempo somministrata anche a bambini con problemi di sonno (o troppo irrequieti), o come antidolorifico per gli adulti.

Pàppula [s.f.] Gonfiore, tumescenza.

Pappuliàre [v.tr.] Mangiare, spiluccare con un certo gusto, es.:  pappuliate l’urtime cerase ‘sbafati le ultime ciliegie’.

Papuzzàna [s.f.] Coleottero parassita delle leguminose; tre sono le specie conosciute con questo nome: Bruchus pisorum L., o tonchio dei piselli; Bruchus rufimanus Boheman., o tonchio delle fave; Acanthoscelides obtectus Say., tonchio dei fagioli; da aggiungere Aphis fabae Scopoli, o afide nero, parassita delle fave.

Para [s.f.] 1 Plurale di paio, paia, es.: quattru para e quazietti ‘quattro paia di calze’; vedi anche paru. [v.intr.] 2 Parere, sembrare, indicativo presente terza persona singolare, es.: me para bbuenu u vinu stannu ‘mi sembra buono il vino quest’anno’.

Pàraca [avv.] Alla lettera ‘(mi) pare che’, unione del verbo ‘parere’ (sembrare) e del pronome relativo ‘che’, con la stessa frequenza viene usata la variante parca, esempi: paraca sta bbuddiennu ‘sembra che stia bollendo’, parca u bbena ‘(mi) pare che non venga’.

Paracaté [l.avv.] Letteralmente ‘pare che’, la parola non è il pronome ‘tu’, bensì la particella teh, che non ha un preciso significato, però viene intercalata molto spesso in molte espressioni di stupore, di esclamazione o di scherno. Il mesorachese come gran parte dei dialetti, ha la capacità di sintetizzare in una locuzione concetti ed espressioni che molto spesso non trovano corrispondenze con l’italiano. Tra le tante questa è la più curiosa: para ca té, con il significato di non vorrei comportarmi in questo modo (sconveniente), ma le circostanze mi costringono a farlo. Tale espressione, in altre parole, rappresenta una sorta di formalità obbligata e condizionata dal costume sociale. Niente si può negare e niente si può fare che non giovi al prossimo. L’importante è salvare la propria reputazione. Fare, pur controvoglia, quella buona azione che piace alla gente, altrimenti si rischia di essere malabbiduti (mal visti) da tutto il paese. Il paracaté rappresenta uno scudo con cui ripararsi per nascondere meglio la propria formalità. Un’espressione, questa, che ha assunto una certa notorietà tale da essere usata nei paesi limitrofi per prendere in giro o per fare il verso al mesorachese (AL).

Paranùme [s.m.] Soprannome, nomignolo, ovvero secondo nome che, viene da altri aggiunto al nome proprio, derivandolo generalmente dal nome di uno dei genitori, da un difetto o dal luogo di provenienza.

Paràre 1 [v.tr. v.intr.pron] Puntare, mettere la propria parte nei giochi con le carte o a quelli simili alla tombola, esempi: e paratu? ‘hai puntato?’, mi cce pari? (o paramicce) ‘mi paghi tu il giro?’ (mettici tu la mia parte). 2 [v.intr.pron.] Sistemarsi, porgere una parte del corpo, l’andare sotto in un gioco (guarda nzottare), esempi: parate a π/2 ‘mettiti a 270 gradi’, para e manu ‘porgi le mani’, parate, tocca a ttie ‘vai giù, tocca a te’. 3 [v.tr.] Apparecchiare, approntare, prendere qualcosa così com’è, esempi: para l’acqua ppe a pasta ‘metti l’acqua per la pasta’, e castagne su pare pare ‘le castagne sono pari pari’ (le castagne sono a terra pronte, uniformi, per essere raccolte), è para para ‘è pronta’, piala para para ‘prendila così com’è’ (riferendosi a qualcosa di concreto come una pentola, una tavola da spostare, ecc.). 4 Bloccare, fermare, es.: para su tiru ‘ferma (para) questo tiro’.

Pararìsu [s.m.] Paradiso, esempi: (lap.) penn’u cce vai aru Pararisu! ‘che tu possa non andare in Paradiso!’, (loc.) chine ciucci risparmia e fimmine crida luce du pararisu u nne vida ‘chi asini risparmia e a donne crede luce del Paradiso non vede’.

Paràta [s.f.] Insieme di cesti di varia misura e scopo, costituenti parte integrante della dote delle figlie femmine; difatti, la parata era allestita insieme al corredo qualche giorno prima delle nozze, di modo che i parenti dello sposo potessero visionarla, era composta da: cistune da tre menzaluri, cistune da un tuminu, cistune luengu, quartaredda, menza quartaredda, potevano esserci compresi anche un panaru e un ventagghju.

Pardinàzzu [s.m.] Persona alta, giovane e ben piazzata; cfr magghjicutu.

Parentàtu [s.f.] Parentado, parentela.

Parìenti [s.m.pl.] Plurale di parente, es.: (loc.) si vue passare na vita cuntenta statte luntanu di parienti ‘se vuoi passare una vita contenta stai lontano dai parenti’ (proverbio diffuso in tutto il Meridione).

Parìgghja [s.f.] Pariglia, ossia coppia o paio di oggetti simili o uguali.

Parincchjìre [v.tr.] Colmare, riempire quasi fino all’orlo.

Parìre [v.intr.] Sembrare, mostrarsi, apparire, esempi: (loc.) chine bbedda vo parire gran duluri ha de patire ‘chi bella vuole apparire gran dolori deve patire’ (per mostrarsi bella bisogna sacrificarsi, sia economicamente che di fatto, come depilarsi, farsi la ceretta, truccarsi etc.), (loc.) tutte e cose te paranu timpe e cavuni ‘tutte le cose ti sembrano timpe e burroni’ (si intercala davanti a persone pessimiste o che vedono solo le difficoltà), (loc.) pari e Napuli ‘sembri di Napoli’ (espressione che si usa quando l’interlocutore non afferra subito il discorso, perché distratto da qualcosa o soprappensiero).

Parma [s.f.] 1 Palma, genere di piante che producono datteri o cocco; come in italiano rappresenta anche il ramoscello d’ulivo benedetto la domenica delle palme. 2 La città di Parma.

Parmìentu [s.m.] Palmento, locale adibito alla macina e alla pigiatura dell’uva da cui poi ricavarne il mosto.

Parmu [s.m.] Il palmo della mano. Il gioco a parmi consiste nel fare avvicinare, lanciandola, la propria moneta a quella avversaria, se la misura del proprio palmo tocca le due monete allora si vince la posta in gioco, che può essere superiore alla moneta di gioco. La regola dice che se si arriva a toccare appena le due monete, cioè toccarle con le unghie, allora è obbligatorio lanciare di nuovo la propria moneta dalla distanza del proprio palmo. Una variante di questo gioco (cfr battamuru) consiste nel lanciare la moneta contro il muro per farla avvicinare a quella avversaria, per poi misurarla col palmo. Si gioca più che altro durante il periodo natalizio.

Parmusciàna [s.f.] Damigiana per il vino, è di terracotta e di varia misura, es.: na parmisciana e dui varrili ‘una damigiana da due barili’; vedi anche varrile.

Paroliàre [v.intr.] Polemizzare, discutere, litigare a parole.

Parralùra [agg. s.f.] Avere la favella facile, la parlantina, esempi: teh cchi parralura chi tena ‘guarda un po’ che parlantina che ha’, a cummari tena na parralura scunchjusa ‘la comare ha una parlantina sguaiata’, e nu parraluru cu tte lassa cchjù ‘è uno che parla tanto e che non ti molla mai’.

Parràre [v.intr.] Parlare, conversare, rivelare, esempi: parra cuemu manci ‘parla come mangi’ si vidi ancuna cosa, tu ud é parrare ‘se vedi qualcosa, tu non devi parlare’, (loc.) parra mmueddu e frica tuestu ‘parla molle e frega duro’ (parla dolcemente e poi t’incula/ti fotte), (loc.) a lingua parra sette vote a dannu tue stessu ‘la lingua parla sette volte a danno tuo stesso’ (occorre essere sempre attenti quando si parla di certi argomenti o fatti).

Parrasciùne [s.m.] Brontolio, mormorio.

Parrasìa [s.f.] Loquacità eccessiva, logorrea, parlantina fastidiosa; loquela spesso legata ad una preoccupazione ma che l’interlocutore non coglie al momento, es.: teh chi parrasia chi cci’ha ‘guarda un po’ che loquacità che ha’.

Parràta [s.f.] Participio passato di parrare, ma anche parlata, dialetto, slang, gergo, lingua, linguaggio da cui parratùne ‘grosso discorso’, esempi: a parrata misurachise ‘la lingua (il dialetto) mesorachese’, n’amu fattu nu parratune ‘ci siamo fatti un lungo discorso’, si l’anu parrata ‘se la sono raccontata’ (si sono messi d’accordo).

Parrettéra [s.f.] Ciarliera, pettegola, sinonimo di parrulera.

Parrìdda [s.f.] Il passeriforme conosciuto in italiano col nome di cinciallegra Parus major L., molto usato anche il diminutivo parridduzza.

Parrìnu [s.m.] Padrino, compare.

Parrulèra [s.f.] Persona pettegola, che parla troppo, che vocifera malignamente e sguaiatamente; termine usato di più al femminile, maschile parrulìeru; vedi anche linguta.

Parte [s.f.] Antica usanza, quando ancora si uccideva il maiale allevato in proprio, di donarne una parte ad un convento o chiesa.

Parturiscìre [v.tr.] Partorire, dare alla luce; cfr accattare.

Paru [s.m.] 1 Paio, due cose uguali e complementari, es.: nu paru e scarpe ‘un paio di scarpe’. [agg.] 2 Pari, parità, pareggio, es.: a partita finiu paru ‘la partita finì pari’. 3 Uguale, di ugual peso o dimensione, es.: sta cirma è paru a chissa ‘questo sacco è uguale a questo’. 4 Comodo, pianeggiante, simile a mparu. [agg. s.m.] 5 Di numero, ossia qualsiasi numero divisibile per due, esempi: uettu è nu numaru paru ‘otto è un numero pari’, paru o disparu? ‘pari o dispari?’. [avv.] 6 Intero, intonso quando la parola viene ripetuta due volte, paru paru, es.: poriame u catu paru paru ‘passami il secchio così com’è’; il termine è anche usato per descrivere “uniformità”, ovvero il formare o il formarsi di una superficie parallela a quella del suolo, in particolare viene adoperato quando qualcosa è sparso per terra in maniera regolare, es.: e castagne su pare pare e nuddu chi va e re cogghja ‘le castagne sono tutte a terra e nessuno che le vada a raccogliere’. [v.intr.] 7 Presente indicativo, prima persona singolare di parire ‘sembrare, apparire’, es.: me paru brutte ste scarpe ‘mi sembrano brutte queste scarpe’. [v.tr.] 8 Presente indicativo prima persona singolare di parare ‘mettere la propria parte’, es.: io paru ppe mie ‘io metto la mia parte’; vedi parare.

Pascìre [v.tr.] Pascolare, ma anche mangiare, cibarsi, accezione questa usata prevalentemente al participio passato, esempi: va pascia e vacche ‘porta a pascolare le vacche’, te vidu bieddu pasciutu ‘ti vedo ben nutrito’, (loc.) natu, crisciutu e pasciutu ‘nato, cresciuto e pasciuto’.

Pasciùne [s.m.] Grosso bastone usato dai pastori; non dissimile dal tacchjiune.

 

Pascùne [s.m.] Alla lettera ‘Pasqua grande’, ossia la tradizionale scampagnata di Pasquetta, es.: stannu aru pascune jamu aru mare ‘questo anno a pasquetta andiamo al mare’.

Passa [s.f.] Razione, in genere di legnate, es.: na passa e ciampate ‘un mucchio di pedate’.

Passaccùni [s.m.] Rumori e gesti di un animale moribondo; qualche volta il termine è riferito anche a persone, ma in tono scherzoso, es.: quantu passaccuni chi fa ‘quante storie che fa’.

Passamùru [s.m.] Barra di legno (o di ferro), piccola traversina, che si ficca in degli appositi buchi nei muri esterni di case o edifici e viene adoperata per innalzare l’impalcatura dove poi operai e muratori lavoreranno.

Pàssaru [s.m.] Passero, Passer domesticus italiae L.

Passata [s.f.] Ritorno, passare o ripassare per un luogo, esempi: ara passata pia a sarza ‘al ritorno (quando ripassi) prendi la salsa’ (conserva di pomodoro), Luna cuntradiecimi e rutunna, pia i purrietti mii e munnali e ara passata u ccè lassare mancu a raricata ‘Luna contro i decimi e rotonda prendi le mie verruche e mondale (tagliale) e al ritorno non lasciarci nemmeno le radici’ (antica filastrocca pagana adoperata per risolvere il problema delle verruche (vedi purriettu) con la magia; infatti, durante i giorni di luna piena la persona officiante si inumidisce le dita con un po’ di saliva e poi li sfrega sulle verruche, contemporaneamente recita la filastrocca).

Passatùru [s.m.] Accesso, passaggio, varco ad un luogo difficoltoso da raggiungere, ad esempio un sentiero o un guado.

Passiàre [v.intr.] Passeggiare, fare due passi, da cui passiàta ‘passeggiata’.

Passu da serra [s.m.] Castagneto situato vicino ai piedi del monte Giove.

Pàssula [s.f.] Uva passa, uvetta.

Passulùne [s.m.] 1 Grosso fico secco. 2 Grosso acino di uva secca.

Pastìddu [s.m.] Castagna secca, di solito macinata per ricavarne della farina, da cui ottenere dei pani venduti tradizionalmente alla fiera di maggio (fera e maju) che si snoda lungo la strada che porta al santuario dell’Ecce Homo.

Pane e castagna. Ingredienti: farina di castagne, acqua, sale.

Procedura: raccogliere le castagne e lasciarle in un luogo asciutto fino ad aprile-maggio. Infornarle e sbucciarle bene, infornarle di nuovo fino a quando non diventano marroncino, a questo punto vanno levate e macinate. Setacciare la farina e metterla in un contenitore pulito, aggiungere acqua caldissima quanto basta per amalgamare e un pizzico di sale; impastare fino ad ottenere un impasto morbido e cremoso. Fare riposare per una mezzora circa, successivamente dare la forma di piccoli pani e riporli in delle teglie grandi (lannie), avendo prima la cura di averle spolverate con la semola rimanente (quella rimasta dalla cernita). La temperatura del forno deve essere di circa 200 °C, i panetti sono cotti quando iniziano a creparsi (spaccariare).

Pastùra [s.f.] Pastoia, ovvero la corda che viene legata alle zampe degli animali da pascolo di grossa taglia, come mucche e cavalli, per non farli allontanare troppo.

Pasturedda [s.f.] Alla lettera ‘pastorella’, specie di cappello.

Pastùsu [agg.] Pastoso, denso, corposo, cremoso, molle.

Patalìa [s.f.] Apatia, abulia, esempi: teh chi patalia chi me benuta stasira ‘guarda un po’ che malinconia che mi è venuta stasera’, (loc.) alì e patalia ‘alì e patalia’ (modo di dire che s’intercala per dire bonariamente che non c’è niente da mangiare).

Patarnùesti [s.m.] arc. La corona che si adopera per recitare il rosario, es.: (loc.) a santi cu ri cavuzi u llinne dire patarnuesti ‘a santi con i pantaloni non gli dire rosari’ (non ti fidare di santi che portano i pantaloni, potrebbero essere comuni mortali, è risaputo che i santi portano le vesti.

Patata [s.m.] 1 Il muscolo bicipite, es.: e vistu cchi patata chi cci’ha Maruzzu! ‘hai visto che bicipite (muscolo) che c’ha Marietto!’. [s.f.] 2 La patata in quanto ortaggio, Solanum tuberosum L.; non è contemplata l’accezione italiana che indica col termine anche il sesso femminile; guarda anche sarza, finuecchju, vrasciole, vrasciolune, fressura e vurraina per dei gustosi impieghi del tubero nella tradizione culinaria.

Patìssa [s.f.] Località di campagna e di grandi castagneti di Mesoraca e Petilia, confinante a valle con la zona denominata Campizzi e a ovest con Sant’Anciulu, variante Badessa.

Patre [s.m.] Padre, da cui trimma ‘mio padre’ e tritta ‘tuo padre’, es.: (loc.) ccu patri e ccu patruni u tieni mmai ragiuni ‘con padri e con padroni non hai mai ragione’.

Patrìu [s.m.] Suocero, da cui patrìumma ‘mio suocero’ e patrìatta ‘tuo suocero’.

Patrùne [s.m.] 1 Padrone, datore di lavoro, esempi: (loc.) ppe rispettu du patrune se rispetta ru cane ‘per rispetto del padrone si rispetta il cane’ (quindi senza padrone il cane non verrebbe più rispettato), (loc.) attacca l’asinu due vo u patrune puru chi va u lupu e ssu mmucca ‘attacca l’asino dove vuole il padrone, pure se va il lupo e se lo mangia’ (quello che pensa il mastro conta fino ad un certo punto, se il padrone decide una certa cosa quella è, visto che è lui a pagare), (loc.) e patrune sciurti garzune ‘da padrone diventi garzone’ (oggi occorre essere guardinghi per non farsi fare le scarpe da un dipendente, ieri dal garzone), (loc) u patrune da mantra, u ppò avire na ricotta! ‘il padrone della mandria, non può avere una ricotta!’ (a volte hanno più benefici chi lavora direttamente le cose, piuttosto che i padroni stessi, spesso troppo indaffarati per godere dei beni di cui sono padroni), ni cci’ha pizzicatu a patruna ‘ci ha pizzicato la padrona’. 2 Gioco a carte chiamato patrune e sutta ‘padrone e vice’, diffuso in buona parte del Meridione; si gioca a squadre con le carte napoletane, lo scopo è quello di bere il più possibile pagando il meno possibile (guarda Wiki per ulteriori specificazioni).

Pattiàre [v.tr.] Patteggiare, accordarsi.

Pattu [s.m.] Patto, accordo.

Paùne [s.m.] Pavone, Pavo cristatus L.

Pazziàre [v.intr.] Folleggiare, scherzare.

Pecchì [avv. cong. s.m.] Perché, per quale motivo, si usano anche le varianti ppecchì, perchì e pecchìdi, esempi: me fattu arraggiare pecchì u si bbenutu ‘mi hai fatto arrabbiare perché non sei venuto’, pecchì u mmu dici? ‘perché non me lo dici?’, u perchì l’ha minatu u sse capiscia ‘il perché l’abbia picchiato non si capisce’.

Pecuràru [s.m.] Pastore di pecore, ne deriva pecurarìeddu ‘pastorello’.

Pecurìnu [s.m.] Formaggio fatto col formaggio di pecora.

Pecurùne [s.m.] 1 Grossa pecora. [agg.] 2 Persona gretta e ignorante.

Pedalùra [s.f.] Pedaliera del telaio a mano, azionata con i piedi era usata per aprire o chiudere i fili dell’ordito; vedi anche pedana.

Pedalùru [s.m.] Rami che si formano alla base di un albero, specie i polloni che crescono ai piedi degli alberi d’ulivo.

Pedana [s.f.] Pedaliera delle macchine da cucire; il termine è impiegato anche per indicare l’insieme dei pedali del telaio; vedi anche pedalura.

Pedarìeddu [s.m.] Asse di legno utile a sostenere un infisso.

Pedda [s.f.] 1 Pelle, epidermide, anche di animale, peddùzza ne è il diminutivo ma non sempre vuol significare ‘piccola’, es.: a ru suffrichiettu ci le mintire due pedduzze ‘alla spadellata di carne di maiale ci devi mettere due cotiche’. 2 Buccia della frutta o della verdura, es.: u mme piacia a sarza ccu re pedde ‘non mi piace la salsa (di pomodoro) con le bucce’.

Peddizzùne [agg.] Svogliato, viziato, perditempo e poca voglia di lavorare, ma anche straccione, accattone. Da ricordare che ‘pelliccione’ era un’antica veste medievale, usata dalle classi abbienti.

Peddòcchja [s.f.] Taglio di carne della pancia e dei fianchi dell’animale, è in pratica sinonimo di vacante.

Pede [s.m.] 1 Piede, esempi: me dola u pede ‘mi fa male il piede’, pede e musca ‘piede di mosca’ (punto-croce invisibile all’esterno, cioè tipo di cucitura a mano dei bordi dei pantaloni), (loc.) u pede chi troppu anna, cchjù perda ca guadagna ‘il piede che troppo va, più perde che guadagna’ (a voler fare le cose velocemente si rischia; vedi anche primo proverbio della voce ganga), a pede chjanu ‘a piede piano’ (ossia luogo pianeggiante, comodo). 2 Albero, pianta, ma solo da frutto, esempi: nu pede e olive ‘una pianta d’ulivo’, Pede da Castagna ‘Albero della Castagna’ (quartiere di Mesoraca confinate a monte con il rione Santa Lucia e a ovest con Santu Marcu).

Pedicìnu [s.m.] 1 Peduncolo, picciolo, gambo, es.: u llu levare u pedicinu a re cerase ‘non glielo levare il peduncolo alle ciliegie’. 2 Parte di filo compresa tra il bottone e l’indumento.

Pedilùengu [agg. s.m.] Alla lettera ‘piede lungo’, ovvero persona che cammina molto, che fa tanta strada a piedi; usato anche in forma ironica per indicare qualcuno che cammina tanto giusto per perdere tempo; il termine è inoltre adoperato come sinonimo di girulieri, ossia persona che passeggia molto, ma anche persona che viaggia spesso, quindi il mezzo di locomozione non necessariamente sono i piedi.

Pedìzzi [s.m.] La parte del letto dove si rivolgono i piedi; cfr capizzi.

Peduzzi [s.m.pl.] Ricamo punto a giorno.

Pelantrùne [s.m.] Pelandrone, scansafatiche.

Pèllaru [s.m.] Schiaffo, ceffone, talvolta viene adoperata la variante peddàru; vedi anche mascata e cinquelire. 

Peniàre [intr.] Soffrire le pene per un bel po’, per colpa di qualcosa o qualcuno, patire, esempi: l’amu peniata assai ‘l’abbiamo sofferta molto’, (loc.) è miegghju u vai aru luntanu a ligniare ma no aru vicinu a peniare ‘è meglio che vai al lontano a far legna, ma non al vicino a penare’ (è inutile fare i pigroni cercando di fare la legna vicino, si rischia di fare più fatica, se invece si butta lo sguardo più in lontananza magari se ne fa meno perché è in abbondanza, ovviamente il principio è valido in generale), te vidu tuttu peniatu ‘ti vedo tutto patito’.

Penìu [s.m.] Pena, afflizione, sofferenza, es.: teh chi peniu amaru ‘guarda un po’ te che penare’ (amarezza).

Pennàgghju [s.m.] 1 Brocco, ovvero persona un po’ tonta e poco attiva, proprio come un pendaglio, che sta fermo e si muove solo quando c’è vento; anche ‘pendaglio da forca’. 2 Ninnolo.

Pennimùeccu [s.m.] Tacchino, Meleagris gallopavo L., letteralmente (le) penna u mueccu ‘(gli) cola il moccio’, variante pennimòcca; infatti, le orribili escrescenze (le caruncole) situate sulla testa, somigliano proprio al moccio che cola dal naso; vedi anche nnianu.

Pennìnu [s.m.] Discesa, pendio, da cui penninàta ‘lunga discesa’, esempi: Misuraca è quasi tutta a penninu ‘Mesoraca è quasi tutta in pendenza’, (loc.) aru penninu ogne santu aiuta ‘in discesa ogni santo aiuta’.

Pennìre [v.intr.] Pendere, penzolare, variante pénnare.

Pennulàri [s.m.] Ciglia, varianti pinnulàri e piennulàri, es.: (loc.) aju pierzu l’uecchji e vai vidiennu i pennulari ‘ho perso gli occhi e vai a vedere le ciglia’ (alla fine è inutile stare a vedere i dettagli).

Pennuliàre [v.intr.] Penzolare, pendolare, variante piennuliàre.

Pentànze [s.f] Gesto di perdono, la parte offesa di un processo perdona il colpevole, ritira la denuncia; l’atto assume un certo rilievo soprattutto quando la parte offesa si accorge di stare accusando qualcuno ‘troppo importante’.

Penzàre [v.tr. v.intr.] Pensare, cogitare, da cui penzìeru ‘pensiero’, ‘idea’ e penzerusu ‘pensieroso’, ‘preoccupato’, esempi: penzacce prima u parti ‘pensaci prima di partire’, penza a ra salute ‘pensa alla salute’, pienzu ch’è miegghju si te stai citu ‘penso che sia meglio se ti stai zitto’.

Penze [s.f.] Tipo di cucitura (piega interna) per dare forma alla parte relativa al bacino e al seno dei vestiti; in italiano vengono chiamate ‘riprese’.

Peppe [s.m.] Il primo piccolo bacino naturale, riconosciuto con un nome, del fiume Vergari, situato ai piedi di una cascata molto alta; fino a non molto tempo fa, visto il grosso salto della cascata, vi era impiantata una piccola centrale idroelettrica che alimentava l’illuminazione pubblica e le utenze private, la cosiddetta luce vecchja ‘luce vecchia’, nelle case c’erano due impianti, quello di stato e quello locale; poi negli anni ‘60 arrivò l’Enel e scomparve questa fonte di energia pulita; negli ultimi tempi si sta parlando di ripristinarla; guarda anche vuddu e jumara.

Vuddu e Peppe

Perce [s.m.] Località presilana vicina a Santanciulu e Luta.

Pèrciare [v.tr.] Forare, bucare da parte a parte, variante percìre, es.: u ru perciare assai ca pue u sse cusa cchjù ‘non lo bucare molto che poi non si può cucire più’.

Perciatìeddi [s.m.pl.] Tipo di pasta fatta in casa molto simile ai bucatini.

Perdénza [s.f.] Perdita, mancato introito, anche lavorare in perdita, es.: (loc.) duve c’è gustu u cc’è perdenza ‘dove c’è gusto non c’è perdita’ (se ti stai divertendo passa in secondo piano che stai perdendo qualcosa).

Perdìre [v.tr.] Perdere, sciupare, variante pérdare.

Perna [s.f.] Sinonimo di minchja.

Perniciùne [agg.] Persona alta e magra, predisposta alla stupidità.

Pertùsa [s.f.] Asola, occhiello.

Perzùna [s.f.] Persona, individuo, da cui perzunaggiu ‘personaggio’.

Pesta [s.f.] Peste, calamità.

Petrachjàna [s.f.] Il rione di Mesoraca posto più in alto insieme a quello di Campizzi, infatti confina con un versante del monte Petrara e al di là del quale c’è la località Sant’Anciulu.

Petra cupa [s.f.] Castagneto quasi ai piedi del monte Giove.

Petralìa [s.f.] Piccolo rione del villaggio Fratta, situato poco più su della parte piana principale dell’abitato (mparu da Fratta), conosciuto come mparu e Petralia.

Petràra [s.f.] Letteralmente ‘pietraia’, è il nome dell’omonima montagna, alla cui base scorre il fiume Vergari; probabilmente in passato il luogo e le sue vicinanze erano usate come cava di pietra, infatti il termine è usato quasi esclusivamente al femminile, es.: sugnu jutu a ra Petrara ‘sono andato alla Pietraia’ (sono andato al monte Petrara).

Monte Petrara

Petrariàta [s.f.] Sassaiola, da cui petràta ‘pietrata, sassata’, es.: l’amu fattu a petrariata e ssu fujuti ‘gli abbiamo fatto la sassaiola e sono scappati’.

Petrarìzzu [s.m.] 1 Rione di Mesoraca, che parte dal bivio del ponte e arriva fino in via Tirone, da un lato confina con il fiume Vergari. [agg.] 2 Luogo con molte pietre, un ammasso di pietre.

Petrùsa [agg.] Pietrosa, ghiaiosa.

Petrusìnu [s.m.] Prezzemolo, Petroselinum sativum Hoffm.

Pettinìssa [s.f.] Particolare tipo di pettine a quattro o cinque denti, di osso o altro materiale organico, adoperato dalle donne per fissare i capelli dietro la testa e per ornare.

Pezza [s.f.] 1 Forma, pezzo; nello specifico, si indica un pezzo di cacio di forma cilindrica, il peso può variare da uno a due chili circa; altrettanto usato il diminutivo pezzùdda ‘forma (di cacio piccola)’ da un chilo circa, es.: na pezza e casu ‘una forma di cacio’. 2 Pezza, pezzo di tessuto adibito a vari usi, da cui pezzùdda ‘pezzuola’.

Pezziàre [v.tr.] Tagliare a pezzi una porzione di stoffa, spaccare la legna in pezzi piccoli.

Pezzìennu [v.intr.dif.] Alla lettera gerundio del verbo ‘pezzentare’, ossia elemosinare, mendicare, esempi: (lap.) chi te via (oppure chi vorre jire) pezziennu i munni munni ccu na viertula sciancata chi chiddu chi minti e subra cada de sutta ‘possa vederti (oppure ti venisse voglia d’andare) mendicare/ndo (i) mondi mondi con una bisaccia strappata e che tutto ciò che metti sopra cada sotto’ (pezzente era e più pezzente diventava), me fai jire pezziennu ‘mi fai andare elemosinando’ (mi riduci al lastrico); guarda anche appezzentiscire.

Pezzuvecchjàru [s.m.] Robivecchi, zinzularu, rigattiere, ma anche persona malvestita, stracciona.

Pìalu [inter.] Letteralmente ‘prendilo’, forma ironica che indica che l’interlocutore ha detto una cazzata; cfr tenate.

Piàre 1 [v.tr.] Prendere (anche prendere moglie), afferrare, buscare, intraprendere un’azione, esempi: piame u libru ‘prendimi il libro’, a chine s’ha piatu? ‘a chi si ha preso (sposato)?’, pia su jascu ‘afferra questo fiasco’, m’aju piatu a freve ‘mi sono buscato (preso) la febbre’, m’è piatu u suennu ‘mi è preso il sonno’, mo piu e mi nne vaju ‘adesso prendo e me ne vado’, (loc.) piare assu ppe figura e a donna ppe dinari ‘prendere asso per figura e la donna per denari’ (fare confusione, capovolgere una situazione), (loc.) piate a chine vue ca u mmueri mmai ‘prenditi a chi vuoi che non muori mai’ (se sei tu a scegliere la sposa sarai sempre contento), (loc.) piava a mmerda e nterra e sa mintia ara faccia? ‘prendeva la merda da terra e se la metteva in faccia?’ (intercalare che si usa quando una persona consapevolmente evita di mettere a nudo pubblicamente un fatto perché troppo infangante), a ogne vuddu ce piu a terra ‘a ogni vuddu ci prendo la terra’ (andare in apnea sul fondo di un vuddu, prenderne della terra e portarla su per dimostrare agli astanti che si è arrivati a toccare il fondo). 2 Insaporire, prendersi di sapore, es.: si nn’è piata e sale? ‘se n’è presa (insaporita) di sale?’. 3 Somigliare (sia nei tratti che caratterialmente), comparire in una foto o video, es.: e chine ppiatu? ‘da chi è preso?’ (a chi somiglia), cumu sugnu piatu? ‘come sono venuto?’ (in foto). 4 Ricevere, ovvero la ricezione di onde elettromagnetiche, il termine è infatti riferito ad apparecchi radiotelevisivi, es.: u riesciu a piare u tre ‘non riesco a ricevere il tre’ (il terzo canale). 5 Scrivere, nel senso di lasciare traccia con qualcosa, es.: a pinna u ppia ‘la penna non scrive’. 6 [v.intr.] Attecchire, mettere radici da parte di una pianta o di una talea, es.: è piatu chiddu chjantune d’oliva? ‘ha preso quel pollone d’ulivo?’. 7 Far accendere, esempi: u fùecu e piatu? ‘il fuoco s’è acceso?’ u baciù u pia ‘l’abat-jour non si accende’. 8 L’iniziare a farsi sentire o il crescere di qualcosa, in particolare quando si parla della fatica o della rabbia, esempi: me su piati i lummieddi ‘hanno iniziato a dolere i lombi’ (dalla fatica), (loc.) le su piati i cinque minuti ‘gli sono presi i cinque minuti’ (gli è salita l’arrabbiatura). 9 Prendersela, offendersi per qualcosa, ma anche scaricare su altri la propria arrabbiatura: esempi: mi cce sugnu piatu ‘mi ci sono offeso’, u tti cci’a piare ‘non ti ce la prendere’ (oppure u tti c’e piare ‘non ti ci devi prendere’ forma più diffusa), ccu ancunu mi l’aj’e piare ‘con qualcuno me la devo prendere’. 10 [v.intr.pron.] Aggrapparsi, afferrarsi, es.: piate da sponda ‘aggrappati dalla sponda’. [s.m.] 11 Gioco per fanciulli (jucare a piare) che consiste nel cercare di toccare un partecipante mentre questo scappa per farlo diventare, a sua volta, colui il quale deve inseguire qualcun altro per toccarlo; molto bello giocarci al fiume nell’acqua; cfr nzottàre.

Piattàra [s.f.] Mobile aperto adoperato per riporre i piatti; ce ne sono ancora in giro, ma usati come mobili d’antiquariato.

Piattàzzu [s.m.] Alla lettera ‘piattaccio’, ovvero grossa quantità di cibo contenuta in un piatto, quest’ultimo a sua volta (non di rado) di dimensioni superiori alla media, es.: s’è gghjettatu nu bellu piattazzu e pasta ‘si è gettato (mangiato) un bel piattone di pasta’.

Piattìna [s.f.] Sotto tazza, piattino anche in metallo.

Pica [s.f.] Ghiandaia, Garrulus glandarius L.

Picàta [s.f.] Lavoretto di poco conto, di qualsiasi natura, ma che rappresenta una seccatura per chi lo deve compiere; vedi anche picataru.

Picatàru [s.m.] Persona che lavora con lentezza o che si perde in lavori di poco conto, perditempo’, in altre parole persona a cui non piace granché lavorare; molto usata la forma contratta al femminile, es.: ohi cumu si picata ‘oh come sei scansafatiche’.

Picatiàre [v.intr.] Lavoricchiare, perdersi in lavori di poco conto; cfr sporduliare.

Piccantìno [s.m. agg.]  Salsa piccante a base di verdure o funghi finemente tritati, anche se ormai non si contano più le varianti che includono tonno, acciughe, nduja, e ultimamente anche frutta fresca; il piccore varia notevolmente, da leggero a estremo, a seconda delle usanze e del gusto personale di chi lo prepara; variante piccantèllo. Da notare che la parola quasi mai è usata come aggettivo, riferendosi ad un cibo, viene preferito il dialettale uschente o usculia.

Picchjàtu [agg.] Persona un po’ suonata nella testa, che si atteggia in modo bizzarro, toccato.

Picchjéca [s.f.] Donna molto brutta, sgraziata, racchiona, malvestita, talvolta anche affetta da una brutta malattia.

Picchju [s.m.] Il velo, o più precisamente il reticolo e le relative parti grasse che avvolgono fegato, pancreas e reni, es.: (loc.) nu ficatu e nu picchju ‘un fegato e un velo’ (per indicare due persone molto affiatate). La tradizione culinaria vuole che si arrostisca il fegato di maiale insieme al reticolo per renderlo più gustoso.

Picciòttu [s.m.] Ragazzo in età adolescenziale, giovane, ma anche il grado più basso nelle gerarchie malavitose meridionali.

Piccirìddu [agg.] 1 Piccolo, piccino, ridotto, abbastanza basso, di piccole dimensioni, usato anche picciriddùzzu ‘minuscolo, di formato piccolo ma dignitoso’. [s.m.] 2 Un buon bicchiere di vino, piccolino.

Picciulìddu [s.m.] Neonato, lattante, es.: quannu u vattianu u picciuliddu? ‘quando lo battezzano il bambino?’.

Picciùne [s.m.] 1 Piccione, Columba livia Gmelin, es.: chi t’e manciatu, picciuni crudi? ‘cosa hai mangiato piccioni crudi?’ (intercalare, ormai non più adoperato, per sottolineare il muso più che sporco di un bambino con la fame agli occhi). 2 È il corrispettivo del settentrionale ‘passera’ o il toscano ‘topa’, la fica insomma; come in italiano, per metonimia, ragazza bona, attraente, stuzzicante, intrigante; molto usato il simpatico accrescitivo picciunàzzu, ascoltato persino da attempati e distinti signori milanesi, a Mesoraca quasi sempre identifica una Milf, esempi: chi cc’ha miegghju du picciune? ‘cosa c’è meglio della gnocca?’, u picciunazzu e mammata ‘la figona (facile) di tua mamma’.

Picciunìeddu [s.m.] Pullo, piccolo di uccello non ancora non in grado di volare.

Pìcculu [agg. s.m.] Piccolo, piccino, esempi: nu vasu picculu picculu ‘un bacio piccolo piccolo, u picculu ‘il piccolo’ (il figlio più piccolo).

Pice [s.f.] Pece, resina dei pini, degli abeti.

Pichinìcchju [s.m.] Picnic, scampagnata.

Piciàru [agg.] Persona nera come la pece, vedi anche niguru. In passato, probabilmente, denotava anche la persona addetta all’estrazione della pece dai pini.

Picòzza [agg.] Donna o ragazza che frequenta molto la chiesa, bigotta.

Picu [s.m.] Piccone, da cui picunata ‘picconata’, ‘bordata’.

Picùezzu [s.m.] 1 Piccozza, piccone di piccole dimensioni. 2 Uomo o ragazzo che frequenta molto la chiesa, beghino, moralista. 3 Gioco praticato da bambini e ragazzini, praticamente estinto; consiste nel colpire il più forte possibile l’avversario calciando una palla (picuezzu), un pallone sgonfio, una lattina, una palla sgonfia, una pallina qualsiasi, chi viene colpito o sfiorato prende il posto di chi ha calciato; il numero di giocatori è variabile, almeno due, il campo di gioco è la ruga, nessun limite di tempo, nessuno vince nessuno perde.

Pìcula [s.f.] Località di Mesoraca confinate con il rione Rina russa e Campizzi; molto usata come punto di riferimento è la curva e (di) Picula, ovvero una particolare curva a gomito della statale 109.

Picuniàre [v.tr.] 1 Dare colpi col piccone e figurativamente fare l’amore, dare colpi pelvici. 2 Lasciare a piedi o a bocca asciutta nel gioco di patrune e sutta, da cui picunàta, con il significato di non rendere qualcuno partecipe alla bevuta, ovvero lassare all’umpra ‘lasciare all’ombra’. [v.intr.] 3 Fare grossi sforzi, sudare, anche figurativamente, su un lavoro.

Pidda [s.f.] Limo, fango, terreno argilloso, ma anche piddacchju ‘pantano, acquitrino’, es.: chine mi l’avia de dire ca m’avia de cadire su ciucciu ara pidda? ‘chi me lo doveva dire che mi doveva cadere questo asino nel fango?’ (proverbio che si intercala quando succede una malasorte); vedi anche appiddare, mpiddare e zancu.

Pidùcchju [s.m.] Pidocchio, Pediculus humanus capitis De G., da cui piducchjùsu ‘pidocchioso, avaro’, es.: (loc.) chine tena sordi fa i sordi, chine tena i piducchji, fa piducchji ‘chi ha soldi fa soldi, chi ha pidocchi fa i pidocchi’, anche nella variante i sordi fanu sordi e i piducchji fanu piducchji ‘i soldi fanno soldi e i pidocchi fanno pidocchi’.

Piducchjùsa [s.f.] 1 Località di campagna confinante con i quartieri del Petrarizzu e del Tirune, attigua alla località denominata Acquaru. [agg.] 2 Persona con molti pidocchi, in senso traslato povera in canna. 3 Spilorcia, taccagna; guarda anche piducchju.

Pidùgghja [s.f.] Residuo della macina delle olive, utile per alimentare il fuoco a casa, sinonimo di sanza.

Pìecura [s.f.] Pecora, Ovis aries L., esempi: (loc.) chine mancia erva piecura diventa, e chine piecura se fa u lupu s’a mancia ‘chi mangia erba pecora diventa e chi pecora si fa il lupo se la mangia’ (qualsiasi cosa si faccia si sbaglia), (loc.) io vaju nculu a marzu ca e piecure mie su sarve ‘io vado in culo a marzo che le mie pecore sono salve’ (passato l’inverno ci si può arrischiare; in generale questo proverbio si intercala quando dopo una dura fatica si è raggiunto uno scopo, specie di tipo economico), (loc.) chine ud ha ricuetu e piecure a st’ura u ricogghja né piecure né lana ‘chi non ha raccolto – radunato – le pecore a quest’ora non raduna né pecore né lana’ (se fai troppo in ritardo una cosa la perdi), (loc.) ppennu fare a piecura for’e munnu ‘per non fare la pecora fuori dal mondo’ (proverbio che si potrebbe tradurre con ‘mi adeguo benevolmente alla maggioranza anche se le mie idee al riguardo sarebbero da pecora nera’).

Pìeju [avv. agg. s.m.] Peggio, peggiore, variante peju ma solo se precede la preposizione semplice ‘e‘ (di), esempi: u tratta pieju e n’animale ‘lo tratta peggio di un animale’, è pej’e prima ‘è peggio di prima’, m’è tuccatu u pieju ‘mi è toccato il peggio’, (loc.) a ricadìa è pieju da malatia ‘la ricaduta è peggio della malattia’.

Pìennu [prep.] Vedi ppennu.

Pìennula [s.f.] Grappolo, es.: pisame due piennule e uva ‘pesami due grappoli d’uva’.

Pìenzica [avv.] Alla lettera ‘penso che’, ossia ‘forse’, ‘può essere’.

Pìergula [s.f.] Pergola, pergolato.

Pìernu [s.m.] Perno, asse, supporto. 

Pìertica [s.f.] 1 Pertica. 2 Persona molto alta.

Pìerzicu [s.m.] Pesca, Prunus persica L.

Pìerzu [agg.] Perso, perduto, smarrito, esempi: a tiempu pierzu ‘a tempo perso’, aju pierzu u portazicchini ‘ho perso il portazecchini’.

Pìessulu [s.m.] Piccolo pezzo di legno distaccato da uno più grande adoperando l’ascia, buono per accendere il fuoco; lo stesso termine identifica anche un pezzo di carne cotta troppo e quindi diventata dura come un pezzo di legno.

Pìettine [s.m.] 1 Pettine, esempi: u piettine di piducchji ‘il pettine dei (per i) pidocchi’, (loc.) chjanu chjanu a lana se fila e ogne nudu aru piettine vena ‘piano piano la lana si fila e ogni nodo al pettine viene’ (prima o poi le malefatte compiute si scontano, oppure che prima o poi dovremo affrontare problemi o difficoltà rimandati). 2 Pezzo di favo, ossia un tocco della costruzione in cera, fatta da cellette esagonali, che le api operaie fabbricano dentro l’arnia e dove poi depositano il miele. 3 Rudimentale strumento musicale, una volta adoperato da ragazzi e ragazzini, consistente in un pettine su cui è applicata una carta velina, avvicinando la bocca (cantando o parlando) si ottiene un tipico suono ronzante.

Pìettu [s.m.] 1 Petto, seno. 2 Suola, parte inferiore della scarpa, es.: aje mntire u piettu a na scarpa ‘debbo mettere la suola ad una scarpa’.

Pìezzu [s.m.] Pezzo, porzione.

Pignàta [s.f.] 1 Pignatta, olla, vaso in terracotta con due manici avente la forma di una piccola ciarra, utile per cuocere al fuoco del camino legumi o altre pietanze; ne deriva pignatìeddu, ossia una pignata piccolina, esempi: (loc.) i guai da pignata è ssa sulu a cucchjara ch’è rimina ‘i guai della pignatta li conosce solamente il cucchiaio che li gira’ (si fa presto, dall’esterno, a dire di conoscere una certa situazione, una certa realtà, ma io che ci sono in mezzo so bene di che stiamo parlando), (loc.) quannu è annuvulatu da marina, piate a pignata e va cucina, quannu è annuvulatu da muntagna piate a zappa e va guadagna ‘quando è annuvolato dalla marina prendi la pignata e cucina, quando è annuvolato dalla montagna prendi la zappa e guadagna’. 2 Grosso mattone usato nella costruzione dei solai a travetti. Poiché l’emorragia dell’emigrazione non cessa, molto spesso le case nuove a Mesoraca non vengono rifinite, rimangono in rustico, per cui disabitate dalle persone, ma abitate da più di qualche specie di uccello che nidifica all’interno dei grossi fori di questo mattone.

Pignata

Pignatàru [s.m.] Chi fabbrica o vende pignate e altri oggetti in terracotta, come lancedde, graste, ciarre, gummuli.

Pignolàta [s.f.] Altro nome della cicerata, termine non molto adoperato a Mesoraca.

Pignu [s.m.] Pegno, prova, garanzia.

Pignùelu [s.m.] Genere di fungo appartenente alla famiglia delle Morchellaceae, cresce in primavera, tendenzialmente nei boschi di aghifoglia, lungo le stradine pietrose o sabbiose, ma anche vicino a rifiuti; le specie più diffuse in Sila sono Morchella conica Pers. e Morchella deliciosa Fr.

Pìgula [s.f.] 1 Civetta, sinonimo di cuccuvedda, Athena noctua Scopoli; da sottolineare che in altre zone lo stesso termine indica il picchio. 2 Iettatore e per estensione persona che si lamenta, noiosa, che reca irritazione, variante pìgulu.

Piguliàre [v.intr.] Piangere, lagnarsi sommessamente, rompere i coglioni con il proprio lamento monotono, a volte anche per un lungo tratto di tempo.

Pila [s.f.] 1 Soldi, denaro. 2 Batteria, pila e per metonimia torcia. [v.tr.] 3 Scotta, brucia, presente indicativo terza persona singolare del verbo pilare. 

Pilàre [v.tr.] 1 Staccare i peli (o le piume) dalla pelle degli animali macellati, anche raschiandone la pelle, per estensione sbucciare, staccare le olive, pelare frutta o verdura, esempi: u mme piacia pilare u puercu ‘non mi piace pelare il porco’, pilu due patate ch’è fazzu ccu ri spagnueli ‘sbuccio due patate che le faccio insieme ai peperoni’, na pilata e olive ‘una pelata di olive’ (una quantità di olive utile per una macina); il termine è anche impiegato figurativamente in due accezioni, nel significato di rompere le scatole (es.: u mme pilare a minchja ‘non mi pelare la minchia’ (non mi rompere il cazzo) e di vincere dei soldi nei confronti di qualcuno (spiumare), es.: m’ha pilatu tutti i sordi ‘mi ha vinto tutti i denari’. 2 [v.intr.pron.] Tagliare i capelli molto corti, ma anche l’approssimarsi di una calvizia o il perderli completamente, esempi: m’aju fattu a crozza pilata ‘mi sono fatto la testa rasata’, te si pilatu ‘sei diventato calvo’. [v.rifl.] 3 Graffiarsi, scorticarsi, esempi: sugnu cadutu e m’aju pilatu tutta a gamma ‘sono caduto e mi sono graffiato tutta la gamba’, oih me pilu! ‘oih mi graffio!’ – il viso (intercalare tipico delle comari di una volta, spesso accompagnato dallo sbattere forte le mani sopra le gambe, di rado anche graffiarsi il viso, esprime dolore e/o forte disappunto). [v.intr.] 4 Scottare, bruciare, es.: u tuccare l’acqua ca pila ‘non toccare l’acqua che scotta’.

Pilàta [s.f.] Unità di misura pari ad una macina di olive, ossia la quantità di olive che possono essere contenute nella vasca dove gira la mola.

Pilatùra [s.f.] 1 Brutto colorito, faccia smagrita, es.: ha fattu na mala pilatura ‘ha fatto una brutta cera’ (non sta bene). 2 Scocciatura, seccatura, noia, es.: cchi pilatura chi si ‘che fastidio che sei’. 3 Pelame, insieme di peli.

Piléja [s.f.] Seccatura, discorso vecchio che è inutile riprendere, pretesto per brigare, cavillo, es.: (loc.) nne pii pileje ‘ne prendi discorsi triti’ (discorsi o cavillosità che è inopportuno riprendere vuoi perché sono superati, vuoi perché fastidiosi per l’interlocutore, talvolta vicini al significato italiano di ‘cercare il pelo nell’uovo’).

Pilecàne [agg.] Letteralmente ‘pelo di cane’, ossia persona con capelli rossi; evidentemente dalle nostre parti i cani hanno tutti lo stesso pelo; vedi anche pilirussu.

Pilénte [agg.] Participio presente di pilare, ossia bollente, scottante, arroventato.

Pilettichiàre [v.tr.] Sproloquiare, blaterare, cianciare, es.: u pilettichiare, dunate nu puntu aru mussu ‘non ciarlare, datti un punto al muso’ (tieni la bocca chiusa); cfr strolachiare.

Pilètticu [agg. s.m.] Alla lettera ‘epilettico’, il termine è però impiegato per indicare una persona un po’ fuori di sé, che sparla, farnetica, che dice cose strambe, quasi mai indica una persona che vive il disagio dell’epilessia; vedi anche pilettichiare.

Piliàre [v.itr.] Mangiare controvoglia, mangiare con poco appetito, mangiare svogliatamente, per scelta personale o per malattia, esempi: maritumma a sira u mancia, pilìa ‘mio marito la sera non mangia, è inappettente’, manciate tutta a pasta u piliare ‘mangiati tutta la pasta non fare storie’ (non fare capricci).

Pilìddu [s.m.] Mancare poco, un pelino, un attimo, es.: ppe nu piliddu amu pierzu u trenu ‘per un pelo abbiamo perso il treno’.

Pilijàncu [agg.] Letteralmente ‘pelo bianco’, ossia capelli biondi.

Pilirùssu [agg.] Letteralmente ‘pelo rosso’, ossia persona con i capelli rossi; vedi anche pilecane.

Pilissìa [s.f.] Epilessia, ossia la sindrome clinico-psichiatrica caratterizzata dall’insorgenza e cessazione repentina di varie manifestazioni psicofisiche.

Pilòja [s.f.] Rancore, piagnucolio, es.: l’ha piata a piloja ‘l’ha presa con rancore’.

Pilu 1 [s.m.] Pelo, capello, esempi: i pili da crapa su cuemu chiddi de perzune ‘i peli della capra sono come quelli delle persone’, ppennu ttueccu mancu nu pilu ‘per non tocco nemmeno un pelo’ (non mangiai nulla), u cc’è mancu nu pilu ‘non c’è neanche un pelo’ (non c’è niente), (loc.) u mmi l’inchjìre e pili ‘non riempirmelo di peli’ (non scassare la minchia), (loc.) ci l’e fatti i pili aru culu? ‘ce li hai fatti i peli al culo?’ (modo di dire che si intercala(va) quando un ragazzino intende(va) fare una cosa da grandi), (loc.) t’alliscia u pilu ‘ti alliscia il pelo’ (metaforico di ‘te le suona bene bene’); guarda anche pilùsu. 2 Sesso femminile, gnocca, per estensione presenza femminile in un posto o a una festa, esempi: cchjù pilu ppe tutti ‘più figa (sesso) per tutti’, ci nn’ha pilu? ‘ce n’è figa?’, c’era chjinu e pilu aru festinu ‘c’era pieno di ragazze al festino’, (loc.) tira cchjù nu pilu all’irtu ca nu sciartu aru penninu ‘tira più un pelo (di donna) in salita che una corda di canapa in discesa’ (proverbio diffuso anche in altri paesi), (loc.) l’uemu cinquantinu lassa u pilu e pia ru vinu ‘l’uomo sui cinquanta abbandona la gnocca e s’attacca al vino’, (indovinello osè) pilu e cuntra pilu aza l’anca e ficcatilu (prima versione), pilu e cuntra pilu aza l’anca e ficcalilu (seconda versione) ‘pelo e contropelo alza l’anca e ficcatelo’ (o ficcaglielo, equivalenti a ‘scopati’ e ‘scopala/o’), cos’è?: il calzino.

Pilucamméllu [s.m.] Letteralmente ‘pelo di cammello’, tessuto di rinforzo posto all’interno della giacca.

Pilùcca [s.f.] Grossa sbronza, sinonimo di trigghja e tibbia.

Pilùsu [agg.] Peloso, ricoperto di peli; il termine è anche impiegato in senso figurato, es.: na musica pilusa ‘una musica noiosa’.

Pìmice [agg.] Noioso, fastidioso, come una cimice.

Pinciòttu [s.m.] Scalpello da muratore, punteruolo.

Pinétu [s.m.] Località silana contigua alla località Ritorta, entrambe situate a nord-ovest rispetto al villaggio Fratta, variante Pinìetu. 

Pinna 1 [s.f.] Penna di uccello, piuma. 2 Biro, penna per scrivere. 3 Plettro, lamina per suonare strumenti a corda.

Pinnìeddu [s.m.] Pennello, da cui pinnedduzzu ‘pennellino’.

Pìnnulu [s.m.] Pillola, medicina.

Pinùelu [s.m.] Pinolo, il seme delle pigne, in particolare del pino domestico (Pinus pinea L.). 

Pipe [s.m.] 1 Peperoncino, pepe rosso, peperone Capsicum annuum L., es.: (loc.) mi l’anu fatta ccu pipe e ccu sale ‘me l’hanno fatta con pepe e con sale’ (me l’hanno architettata bene, mi hanno gabbato); guarda anche spagnolieddu. 2 Figa, vagina, es.: (lap.) ih chi te vorranu ammaccare u pipe ‘potessero ammaccarti la figa’. [inter.] 3 Stai zitto, fai silenzio, es.: pipe! ‘mosca!’.

Piperìa [s.f.] Pianta velenosa (Daphne gnidium L.) un tempo usata per avvelenare le acque dei fiumi con lo scopo di stordire i pesci e catturarli più facilmente; cfr ntassare.

Pipilénta [agg.] Alla lettera ‘figa snella’ ossia ragazza molto magra, esile, secca; unione delle parole pipe e lenta.

Pipìnu [s.m.] Rione di Mesoraca, vicino alla zona denominata timpune.

Pipiriżìna [s.f.] Dal composto chimico denominato ‘piperazina’, i cui derivati hanno una ampia gamma di effetti farmacologici; parola ormai estinta.

Pipìta [s.f.] 1 Grossa sbronza, sbornia solenne, sinonimo di pilucca e trigghja, ne deriva pipitùne ‘super bevuta’ e pipitàru ‘ubriacone’; guarda anche tibbia. 2 Zufolo, di solito suonato insieme alla cornamusa. 3 Loquacità eccessiva, es.: teh chi pipita chi tena ‘guarda un po’ che parlantina che ha’. 4 Malattia dei polli, consistente nella comparsa di una pellicola bianca sulla punta della lingua che impedisce loro un normale e limpido canto.

Pipitàre [v.diff.] Parlare in maniera inopportuna, a sproposito o fuori luogo, variante meno adoperata pipitiare, es.: guai a ttie si pipiti ‘guai a te se apri bocca’; il verbo è usato anche come segno di ammonimento, nel senso di zittirsi o abbassare il volume della voce, esempi: pipitia nu pocu ‘zitto un po’’, u pipitare ‘non parlare’.

Pipitèdda [s.f.] 1 Palloncino, es.: ucchjame na pipitedda ‘gonfiami un palloncino’. 2 Ancia, guarda anche puzedda.

Pippa [s.f.] 1 Pipa. 2 Castagna non sviluppata, sinonimo di coppa.

Pippàre [v.intr.pron.] Avere voglia, volontà, di andare in un certo posto o fare una certa cosa, ovvero la possibilità di infischiarsene o meno, esempi: u mmi cce pippa u viegnu ‘non me ne infischia di venire’, u mmi cce pippa u juecu oje ‘non è ho voglia di giocare oggi’.

Pippiàre [v.intr.] Fumare la pipa e per estensione fumare in genere, es.: ti le pippiate tutte e sicarette? ‘te le sei fumate tutte le sigarette?’.

Piràina [s.f.] Quartiere di Mesoraca, compreso tra il quartiere della Nuzziata e i (piano) Spinieddi.

Piràinu [s.m.] Pero selvatico, Pyrus piraster Burgsd.

Pirajinìettu [s.m.] Località di campagna di Mesoraca nel confine del territorio comunale in posizione sud; variante Perainètto.

Piriddùsu [agg.] 1 Persona con forti accenti ipocondriaci, molto ansiosa e che tende a ingigantire e a fare un dramma per ogni piccolo malanno o problema. 2 Permaloso, che se la prende facilmente, con la puzza sotto al naso, es: joih cuemu si piriddusu! ‘oh come sei precisino!’.

Pirìettu [s.m.] Cedro, Citrus medica (Plinio il Vecchio).

Piripàcchju [s.m.] Gioco fatto con le carte da gioco simile ad asso piglia tutto.

Piritàppiti [inter.] Voce di origine onomatopeica, indica la caduta di un oggetto o lo scivolone di una persona, può essere sostituita dalle varianti pirituppiti, tiritappiti e tirituppiti; il termine è presente nella filastrocca pane unu, pane due, pane tre, piritappiti, pitta e viscuettu, usata per fare la conta, i “pani” variano in base ai partecipanti.

Piritàre [v.intr.] 1 Scoreggiare, tuonare di culo, ne deriva piritata ‘scoreggiata’, es.: così se fa! broot! ‘così si fa! proot!’ 2 Scappare, fuggire, es.: appena u vidi ti le piritare ‘appena lo vedi ti devi dileguare’. [v.tr.] 3 Impiegare in termini temporali, metterci, es.: u postale e Catanzaru ci’ha piritatu tre ure ‘l’autobus di Catanzaro ci’ha impiegato tre ore’. 4 Mettere, impiantare es.: m’ha piritatu nu dente e ueru ‘mi ha messo un dente d’oro’. 5 Dare, rifilare, es.: pìritale nu cavuce ‘dagli un calcio’. 6 Fottere, usato come locuzione, es.: e nnu tte piriti! ‘e non ti freghi (fotti)!’.

Piritàru [s.m.] Persona che non sa mantenere i segreti, che spiffera subito ciò di cui viene a conoscenza.

Pìritu [s.m.] 1 Peto, scoreggia, flatulenza, es.: (loc.) è na perzuna chi le fuma u piritu ‘è una persona che gli fuma la scoreggia’ (si dice quando si parla di una persona che si fa valere, che sa il fatto suo, coraggioso, per questo fa una scoreggia e se ne sbatte dei giudizi altrui); da evidenziare il cosiddetto piritu affucatu ‘scorreggia soffocata’ ovvero flatulenza fatta senza fare rumore – per non farsene accorgere, ma con effetti quasi sempre devastanti fra gli astanti. 2 Fungo di forma sferica chiamato piritu e lupu ‘peto di lupo’, conosciuto in italiano col nome di vescia, buono da fare a frittata con le uova; i nomi scientifici delle due specie più diffuse e commestibili sono Lycoperdon pyriforme Schaeff. e Lycoperdon perlatum Pers. In paese, qualcuno nel secolo scorso usava le spore come antibiotico naturale per curare piccole ferite o pustole, probabilmente ancora prima della scoperta di Fleming; vedi anche lapune, e rizzu. 

Piritùne [s.f.] 1 Scoreggia molto chiassosa. 2 Gran figa, bella gnocca, alcuni la definiscono anche ‘donna in carriera’, es.: nu piritune e fimmina ‘una gran figa’; cfr fimminune.

Piritùppiti [inter.] Voce di origine onomatopeica, indica la caduta di un oggetto o lo scivolone di una persona, può essere sostituita dalle varianti piritàppiti e piritùffiti; vedi anche piritappiti.

Piru [s.m.] Pera, frutto e albero, Pyrus communis L. la specie più diffusa in Italia, da cui piru verniticu ‘pera invernale (varietà della stessa specie di forma arrotondata, matura da ottobre in poi), es.: (loc.) u piru quannu è maturu cada sulu ‘la pera quando è matura cade (da) sola’ (il tempo rende le cose e le situazioni più limpide, basta saper aspettare); plurale pira o piri. Nell’italiano di solito l’albero di un frutto è espresso al maschile e il frutto al femminile, nel nostro dialetto spesso il maschile indica ambo le cose (portugallu, nuce, pumu, mannarinu, e così via).

Pirùezzulu [s.m.] Termine generico usato per indicare varie cose piccole (o comunque non molto grandi) e protuberanti, che sporgono in parte, come la testina di carica dell’orologio, il picciolo, un perno, il piolo e così via.

Pirùne [s.m.] Pirone, piolo, legni delle sedie dove si possono appoggiare i piedi e che fanno parte dell’intelaiatura, ma anche grosso chiodo di legno usato dai bastai.

Pisa [s.f.] Quantità di lino o di lana corrispondente a circa tre chili.

Pisànza [s.f.] Pietà, commiserazione, es.: (loc.) chine tena pisanza di carni e atru e sue se mancianu i cani ‘chi ha compassione delle carni altrui le proprie se le mangiano i cani’ (ci vuole un giusto anche nello spirito di abnegazione, per avere cura degli altri è importante averne per sé stessi).

Pisàre [v.tr.] 1 Pesare, gravare. [v.intr.] 2 Dispiacere, rincrescere, con sfumature di commozione, es.: mi nne pisa ‘me ne dispiace molto’.

Pisasàle [s.m.] 1 Letteralmente ‘pesa il sale’, grosso scarabeo di colore scuro Cerambyx cerdo L. Il nome di questo insetto è dovuto al fatto che se sollevato con le mani dal dorso, è possibile fargli issare un piccolo sasso con le zampine, presumibilmente in passato anche dei grani di sale; alcuni bambini usavano legargli una cordicella ad una delle sue lunghe antenne per tenerlo al guinzaglio. 2 Persona claudicante, lenta nei movimenti.

Piscàre 1 [v.tr.] Pescare, catturare pesci, in genere usando esca e amo. 2 Imbattersi, scovare, incappare, reperire, cogliere di sorpresa, esempi: l’aju piscatu aru Ponte ‘l’ho trovato al Ponte’, va piscalu duv’è gghjutu a finire mo, ‘vai a vedere dove è andato a finire adesso’ (di un oggetto che si perde accidentalmente), va piscalu e dicialilu ‘vai a scovare dov’è e diglielo’, ci l’aju piscati! ‘ce li ho sorpresi’.

Pisce [s.m.] 1 Caduta rovinosa, scivolone, tonfo, es.: ha piatu nu pisce ‘ha preso (si è procurato) un capitombolo’. 2 Pesce, ovvero vertebrato (osseo o cartilagineo) che vive in acqua, esempi: ajieri n’amu fattu na bella manciata e pisci ‘ieri ci siamo fatti una grossa scorpacciata di pesci’, (loc.) pisci cuetti e carne cruda ‘pesci cotti e carne cruda’ (i pesci vanno cotti sempre, per la carne invece va bene anche una scottata), (loc.) u pisce bbuenu mmai e Tarantu nescia ‘il pesce buono mai di Taranto esce’ (le persone cosiddette per bene si sposano in paese, son benvoluti e non hanno bisogno di cercar moglie altrove).

Piscialìettu [s.m.] 1 Parola composta da ‘pisciare’ e ‘letto’, ovvero persona disturbata da enuresi notturna, in genere sono i bambini ad avere tale fastidio. [agg.] 2 Persona immatura, inesperta.

Pisciàre [v.intr.] 1 Orinare, fare la pipì, esempi: s’è pisciatu ncueddu ‘s’è pisciato addosso’, (loc.) chine piscia chjaru va nculu a miedici e speżżiali ‘chi piscia chiaro va in culo a medici e farmacisti’ (fare la pipi chiara è sintomo di buona salute, ovvero dicendo la verità non si ha paura); cfr ncriddare. [v.tr.] 2 Dimenticarsi più o meno deliberatamente (con una certa dose di sciocca furbizia) di restituire (dare indietro, riconsegnare) qualcosa, d’incontrarsi con qualcuno, esempi: si le mpriesti t’e piscia ‘se gliele presti non te le rende’, piscialili i sordi ‘tienitili i soldi’, mi cci’ha pisciatu ‘mi ci ha lasciato (bidonato)’.

Pisciàru [s.m.] Pescivendolo, venditore ambulante di pesce.

Pisciatùru [s.m.] 1 Pitale, orinale, es.: (loc.) mintare u luttu a ru pisciaturu ‘mettere il lutto all’orinale’ (ironico, non interessarsi affatto a qualcosa, oppure che non ci dispiace per un certo evento).  2 Persona indegna, diciamo pure stronza, che non ha mantenuto la parola data o che si è comportato scorrettamente, es.: si nnu pisciaturu ‘sei una merda’; talvolta è usato quasi affettuosamente il diminutivo pisciaturìeddu.

Pisciaturìeddi [s.m.pl.] Alla lettera ‘piccoli orinali’, ossia tazzine, bicchieri, bicchierini, tazze, pentolini, ovvero qualsiasi contenitore piccolo a bocca larga.

Pisciàzza [s.f.] Pipì, orina, es.: l’acqua è na pisciazza ‘l’acqua è (calda come) una pipì’.

Piscigogò [s.m.] Verdura spontanea che cresce nelle zone umide o acquose; è simile ad un piccolo cono ricoperto di puntini ed è lunga dai 5 ai 10 cm circa, di colore verde-giallastro. Viene cucinata a frittata, impanata fritta o cruda in insalata; cresce in primavera-estate; quando la pianta diventa più grande i frutti virano il colore verso il marroncino e vengono chiamati piscicantanni.

Pisciòla [s.f.] Pene, minchia, l’attrezzo maschile per fare la pipì, es.: tena nu macchinariu ppe se fare ranne a pisciola ‘tiene un macchinario per farsi grande la minchia’.

Pisìddu [s.m.] Pisello, il legume, Pisum sativum L.

Pissi [inter.] Fare il pissi pissi, ovvero il sibilo di richiamo per belle ragazze, traduce l’italiano ‘psss!’.

Pisté [inter.] Ordine del pastore impartito al gregge per richiamare gli animali verso la giusta strada, di solito è accompagnato da altri suoni, es.: pistè prr prr prrté prnà! ‘dai, forza, sbrigatevi da quel lato!’.

Pistunàta [s.f.] Pallonata, bordata.

Pistùne [s.m.] 1 Pistone. 2 Pestello del mortaio.

Pistuniare [v.tr.] Bidonare, piantare in asso, es.: mi cc’è pistuniatu ‘mi hai piantato in asso’ (bidonato).

Pisu [s.m.] Peso, grave; cfr pisa.

Pisùelu [s.m.] Sorta di rialzo del terreno adoperato per appoggiarci un peso momentaneamente, svolgono la stessa funzione anche una grossa pietra piana, ma anche un ripiano artificiale come panchine in cemento o alcuni tipi di muretto.

Pisuliàre [v.tr.] Valutare il peso di un oggetto con le mani, soppesare.

Pitàzzu [s.m.] Termine che racchiude insieme il valore e l’orgoglio di una persona appartenente ad una determinata famiglia, variante pitacchju, es.: (loc.) a razza u pperda u pitacchju ‘la famiglia non perde le proprie origini’ (fatte di dignità, fierezza e rispetto).

Pitìjina [s.f.] Impetigine, infezione della pelle nei bambini, variante pitìnia.

Pitinùsu [agg.] Lamentoso, seccante, petulante.

Pitìttu [s.m.] Appetito, desiderio di cibo ma anche fame, miseria, povertà, esempi: ai tiempi da guerra nn’aviamu pitittu! ‘ai tempi di guerra ne avevamo (molta) di fame!’, (loc.) lussu e pitittu ‘lusso e appetito’ (persona che si veste elegante e poi è affamato).

Pitittùsu [agg. s.m.] Appetitoso, che fa gola, ma anche persona con un grande appetito, una grande fame.

Pitòrru [s.m.] Cafone, maleducato, scortese, villano, da cui pitorrìa ‘grossonalità’, ‘cafonaggine’ e pitorrìgnu ‘di persona rozza’.

Pitòzzu [s.m.] Era ed è tuttora, il buco dove era posizionata la trottola di chi perdeva, l’avversario tentava di scheggiarla o spaccarla con la propria; vedi anche strummu.

Pitta [s.f.] Pane casereccio a forma di ciambella piatta, molto usato anche il diminutivo pitticèdda ‘pitticella’, esempi: e pitte se mpurnanu prima du pane ‘le pitte si infornano prima del pane’, (loc.) te minti sempre avanti cumu a pitta avanti u furnu ‘ti metti sempre avanti come la pitta alla bocca del forno’ (parli sempre senza prima aver ascoltato, ovvero persona che si impiccia, che non si fa gli affari propri, inopportuna. La pitta avanti u furnu era una schiacciata che veniva piazzata sulla bocca del forno e che serviva per valutare la cottura del pane e poi consumata per prima (V. Teti, Storia del peperoncino).
Da segnalare l’antenata della pizza odierna, denominata pitta gniritàta (o pitta ccu sarde). Ingredienti: pasta della pitta, olio d’oliva, sarde sotto sale, peperoncino in polvere. Procedura: appiattire la pasta come la pizza, cospargerne d’olio la superficie, aggiungere le sarde e il peperoncino in polvere (anche dolce); infine ripiegare i grandi bordi verso l’interno ricoprendo quasi interamente la superficie; a piacere si può integrare pomodoro (a pezzi) e qualche oliva; infornare a 180/200 °C per 15/20 minuti.
Vi è inoltre la pitta ccu frisuli (pitta con ciccioli): la stessa pasta della pitta viene dapprima impastata insieme ai ciccioli e poi sistemata in una teglia rotonda (in passato non vi erano teglie), il bordo, come la gniritata viene abbondantemente ripiegato verso l’interno; vedi anche pittanchjusa, per completare l’universo delle pitte.

Pitta

Pittanchjùsa [s.f.] Dolce natalizio (o della fiera di maggio) fatto con un impasto particolare, a cui viene dato la forma di una spirale unica o tante piccole spirali che somigliano a dei piccoli carciofi (o rosette) tenuti insiemi da una base di pasta.

Ingredienti: 3 kg di farina di grano duro (accappellu), mezzo litro d’olio, mezzo litro di vino (bianco o rosso), 750 grammi di zucchero, lievito madre (levatina, 1,3 kg), noci o mandorle (q. b.) tritate, uvetta (q. b.), cannella (3 bustine, 75 grammi circa) e chiodi garofano (una bustina, 20 grammi circa), bucce d’arancio e mandarini secche (o freschi a seconda del gusto, di peso doppio rispetto al peso della cannella e dei chiodi di garofano), un pizzico di sale.

Procedura: impastare con acqua calda la farina, l’olio, il vino, il sale, il lievito, lo zucchero e amalgamare bene a lungo; successivamente formare dei panetti da 500 grammi. Tirare i panetti a sfoglia con il matterello, ungerla d’olio aiutandosi con la mano, successivamente cospargerla con gli aromi (cannella, garofano, bucce d’arancio e mandarino), addizionare mezzo pugno di zucchero e poi mettere a piacere uvetta e noci. A questo punto si decide se si vuole una pittanchjusa a spirale unica oppure una formata da più spirali, in ogni caso bisognerà tagliare rettangoli aventi l’altezza di tre cm circa e lunghezza di un palmo se si vogliono formare più rosette, mentre più lunghi se si vuole comporre una spirale unica; la sfoglia va tagliata servendosi di un attrezzo chiamato spirune (sperone, per la somiglianza); per tenere insieme le composizioni, che avranno forma rotonda, viene adoperato uno spago e per quelle a rosette anche una base di sfoglia. I dolci così formati si adagiano in una teglia oliata, una volta finito il tutto occorre coprire bene e lasciare riposare all’incirca per 12/24 ore. Vengono infornate dopo il pane a circa 220 °C e per un’ora circa, in questa maniera la temperatura col tempo cala e la cottura avviene lentamente.

Pittanchjusa

Ultimamente si sta affermando anche un genere di pittanchjusa del periodo pasquale, in diretta competizione con la cuzzupa.

Pittanchjusa pasquale. Ingredienti: 1 kg di farina 00, 6 uova, 6 cucchiai di olio, 8 cucchiai di zucchero, la buccia di un limone grattugiato (fresco), 1 bicchierino di liquore (da scegliere tra vermouth, cognac, strega e così via, in base ai gusti personali), mezza busta di lievito, mandorle q. b., uvetta q. b.

Procedura: sbattere le uova e impastarle insieme alla farina, all’olio, al lievito e allo zucchero aiutandosi con un po’ d’acqua calda; dopo una lodevole impastata fare dei panetti da 250 grammi e lasciarli riposare in un canovaccio per quindici minuti. Tirare la sfoglia e strofinarci generosamente mezzo limone, cospargere con una manciata di zucchero, aggiungere un pugnetto di mandorle trite e uno d’uvetta, in quantità minore rispetto alle pittanchjuse che si fanno a Natale, mentre la composizione è del tutto simile; aggiungere ancora un po’ di zucchero sopra prima di infornare ad una temperatura di 180 °C per 25 minuti; togliere quando dorata.

Pittàre [v.tr.] Imbiancare, tinteggiare, ma anche dipingere, pitturare; vedi anche ncuaciare.

Pittèdda [s.f.] Piccolo impasto di farina, pronta per ulteriori lavorazioni, come ad esempio dei tagliolini.

Pittimùsciu [s.m.] Letteralmente ‘pitta moscia’, ovvero persona flaccida, ma anche lenta e impacciata, variante pittamùscia.

Pittu [s.m.] Vernice, tintura, quella usata per imbiancare.

Pittùre [s.m.] Imbianchino, anche pittore.

Pitùsu [s.m.] 1 Puzzola, Mustela putorius L., alcuni indicano con questo nome la donnola Mustela nivalis L., altri ancora la faina Martes foina Erxleben. 2 Pertugio, piccolo buco. 3 Figa, vulva, usato di rado in questo senso. 4 Ragazzetto, persona bassina.

Pìu [inter.] Modalità di scherno, si intercala quando si vuol prendere in giro l’interlocutore, sottolineando di essere migliori di lui, riguardo ad una certa abilità, al possedere qualcosa e così via.

Piumétta [s.f.] Fodera molto sottile adoperata per l’interno della gonna. 

Pizza [s.f.] 1 Minchia, cazzo, ma in senso figurato, es.: u mme rùmpare a pizza ‘non rompermi il cazzo’. Da notare che il senso figurato era già in uso nel siciliano del ‘700 (MP). 2 Pizza, la gustosa focaccia diffusa in tutto il mondo, e durante una missione distribuita anche nella Stazione Spaziale Internazionale; cfr pitta. 3 Nel gioco della lippa è il termine iniziale che si pronuncia quando si colpisce la lippa con la mazza: pizza, pane e suzizza; vedi anche mazza e sciettula.

Pizzicalùra [s.f.] Pinzetta dei panni.

Pizzicàre [v.tr.] 1 Investire con l’auto, o altro mezzo, una persona o un animale, es.: l’ha pizzicatu na machina ed è muertu ‘l’ha investito un’auto ed è morto’. 2 Sorprendere, cogliere sul fatto, es.: ni ci’ha pizzicatu u patrune ‘ci ha sorpreso il padrone’. 3 Pinzare una parte del corpo con due dita della mano, ma anche il labbro tramite i denti.

Pizzicàta [s.f.] 1 Piccola o media umiliazione inflitta ad un’altra persona con lo scopo di dimostrare la propria superiorità; infatti, “prendersi la pizzicàta” nei confronti di una persona, significa prendersi la soddisfazione di far notare o pesare (anche con lo sfogo) a quest’ultima, qualcosa che noi compiamo meglio, oppure che si aveva ragione riguardo ad un fatto. Si configura come un gesto di irriverenza non da poco se questa modalità si esplica nei confronti di un superiore o del proprio capo; si avvicina all’italiano punzecchiare. 2 Piccola quantità di qualcosa, varianti pìzzica e pizzicatìna, es.: na pizzicata e sale ‘un pizzico di sale’.

Pizzicùne [s.m.] Pizzicotto, pizzico, sinonimo di pizzulune.

Pizzìddu [s.m.] Angolino, posticino, cosa appuntita, ma anche pizzo, merletto.

Pizzìngulu [s.m.] Pezzetto di legno di forma rettangolare (o ellissoidale allungata) montato sul telaio di porte o finestre con la funzione di chiuderle; di solito è fissato al suo centro con un perno permettendogli di ruotare; vedi anche calascinna.

Pizzu [s.m.] 1 Luogo, località, es.: vaju a nnu pizzu cu tte puezzu dire ‘vado in un posto che non ti posso dire’; cfr mpizzu. 2 Pizzetto, barbetta, cfr beccu. 3 Merletto. 4 Pizzo, tangente, guarda anche mazzetta. 5 Becco, quello degli uccelli, usato anche in senso figurato, es.: (loc.) li ce penna u pizzu ‘gli ci pende il becco’ (ha delle preferenze, ci tiene).

Pizzulafìcu [s.m.] Persona schizzinosa nel mangiare, che mangia poco; vedi anche pappaficu.

Pizzulàre [v.tr.] 1 Mangiucchiare, piluccare, sbocconcellare, spilluzzicare, variante pizzuliàre, es.: pizzuliate ancuna cosa ‘mangiucchia qualcosa’. 2 Beccare, per esempi: m’ha pizzulatu na gaddina ‘mi ha beccato una gallina’, (loc.) u puricinu vo pizzulare u culu ara jocca ‘il pulcino vuole beccare al culo alla chioccia’ (la persona giovane vorrebbe fregare quella più grande e navigata). 3 Dare pizzicotti, anche in maniera tenera.

Pizzulùne [s.m.] 1 Pizzicotto, pizzicata. [agg.] 2 Diventare piccolo come un pizzicotto, es.: m’ha fattu diventare nu pizzulune ‘mi ha fatto diventare un pizzicotto’ (mi hai dato un grosso dispiacere, mi hai dato una notizia molto brutta; in analogia con il brivido provocato da un pizzicotto); vedi anche ncrizzulare.

Pizzùtu [agg.] Appuntito, acuminato, aguzzo, es.: va’ rumpate u culu a na petra pizzuta ‘va’ a romperti il culo su una pietra appuntita’ (modo di dire che s’intercala quando l’interlocutore afferma qualcosa di non gradito, traducibile con il classico vaffanculo; vedi anche appizzutare. Il termine al femminile (Pizzuta) indica una località di campagna in posizione sud-est rispetto al comune, confinante con il territorio di Rocca Bernarda e Petilia.

Pogghjisànu [s.m.] Località di castagneti posta a destra del monte Giove guardando dal piazzale del SS Ecce Homo, variante Pogghjisànu.

Poggiaddà [inter.] Letteralmente ‘poggia là’, comando per far muovere le vacche.

Poglia [s.f.] 1 Dolce alle mandorle ricoperto di cioccolato, simile al torrone, detto anche ‘torrone a poglia’. 2 Pene, cazzo.

Pollàre [v.tr. v.intr.] Termine impiegato prevalentemente nel giuoco a carte e a biliardo, può rappresentare o un’esortazione del vincitore nei confronti del vinto a ‘cacciare’, ‘tirar fuori’ la vincita pattuita, oppure come sinonimo di ‘farsi vincere’, ‘farsi prevalere’, esempi: polla i sordi ‘allungami i soldi’ u tte fare pollare tutti ‘non farteli vincere tutti’; poco usata la forma all’infinito.

Pompa [s.f.] Pezzo di tubo di plastica di varia lunghezza, usato per vari scopi, come annaffiare, travasare il vino e così via; il tubo del gas viene chiamato ‘pompa du gassu‘. Naturalmente valgono le stesse accezioni dell’italiano.

Ponte [s.m.] Punto di riferimento di Mesoraca, dove c’è il secondo ponte sul Vergari.

Popòtamu [s.m.] Ippopotamo, Hippopotamus amphibius L.

Porga [s.f.] Giovane albero d’ulivo, adoperato anche il suo diminutivo porghicedda.

Porijìre [v.tr.] Passare, porgere, allungare qualcosa a qualcuno, variante purijire, es.: poriame e ligne ‘passami la legna’.

Portazicchìni [s.m.] Letteralmente ‘porta zecchini’, ossia portamonete; talvolta la zeta è pronunciata sonora.

Portugaddàru [s.m.] Venditore, commerciante di arance; il termine non è genuinamente mesorachese, è preso a prestito dai paesi più a valle, come Rocca Bernarda, che sono grossi produttori di agrumi.

Portugàllu [s.m.] Arancia, sia il frutto che l’albero, variante puertugaddu: Citrus aurantium L. il cosiddetto arancio amaro e Citrus sinensis L. il cosiddetto arancio dolce o Portogallo, conosciuto in dialetto col nome di portugallu martese o portugallu duce; da evidenziare anche il portugallu a spina varietà d’arancio da tavola dolce con una punta aspra. 

Posa [s.f.] Sedimento, deposito, il termine è usato soprattutto per indicare la polvere di caffè decantata: a posa du cafè ‘la polvere (usata) del caffè’.

Posta [s.f.] 1 Il chiodo usato dai maniscalchi che viene conficcato nelle zampe di asini o cavalli per la ferratura. Nel gioco della trottola (vedi strùmmu) si usava cambiare la punta di ferro di cui erano dotate, con una posta, quest’ultima essendo più appuntita faceva più danno quando si giocava (si fa per dire) a spaccare le trottole avversarie. 2 Ufficio postale.

Postàle [s.m.] Corriera, autobus, pullman.

Postìeri [s.m.] Postino, portalettere, es.: u postieri atruca sona due vote, s’è possibile u ppassa de nente ‘il postino altro che suona due volte, s’è possibile non passa per niente’.

Postu [s.m.] Luogo, località; vedi anche pizzu. 

Povarìeddu [s.m.] 1 Poverino, ovvero persona che suscita compassione non perché indigente o accattone, ma perché sventurato o colpito da disgrazia, es.: povarieddu, mi nne pisa ca le muertu u patre ‘poverino, me ne dispiace molto per la morte del padre’. 2 Poverello, il quale suscita compassione pure lui ma perché senza soldi, femminile povaredda. 

Pòvaru [s.m.] Povero, misero, esempi: è povaru, u nna sordi ‘è povero, non ne ha soldi’, (lap.) chi te via povara e pazza ‘che ti possa vedere povera e pazza’, anche nella versione più incisiva te via povaru e pazzu i munni munni ‘possa vederti povero e pazzo mondi mondi’ (in giro per il mondo senza meta), (loc.) ajutamu l’ajutati ca povari ce simu mparati ‘aiutiamo gli aiutati che poveri ci siamo abituati’ (talvolta si aiuta chi non ne ha bisogno e si trascura chi in effetti ha più necessità).

Ppe [prep.] Preposizione semplice ‘per’, usata anche la forma pe, esempi: ppe ttie u cce vena ‘per te (per colpa tua) non ci viene’, ppe mmie ni nne putimu puru jire ‘per me possiamo anche andarcene’, ppe nu pocu ‘per un po”.

Ppecchì [avv. cong. s.m.] Vedi pecchì.

Ppennu [prep.] Alla lettera ‘per non’, la preposizione ppe (per) si lega all’avverbio ‘u‘ (non) attraverso una doppia ‘n’ fonetica, varianti ppiennu e piennu, esempi: ppennu te dire ca no ‘per non ti dire che (di) no’ (per non dirti di no), vida ppennu t’a canti ‘vedi per non te la canti’ (vedi di non cantartela), ppennu t’u vivi tuttu! ‘per non te lo bevi tutto!’ (non bertelo tutto!).

Ppìennu [prep.] Vedi ppennu.

Pracàre [v.tr.] Acquietare, tranquillizzare, placare, ma anche alleviare, lenire, il dolore di una ferita.

Predicatùre [s.m.] Predicatore, borbottone, persona che si atteggia da predicatore e che dispensa consigli gravi e moraleggianti.

Prèffiche [s.f.pl.] Donne appositamente pagate per piangere e lamentasi ai funerali.

Prejàre [v.intr.pron.] Rallegrarsi, divertirsi, provare piacere per le disgrazie altrui, vicina al significato di beffeggiare, cfr gabbu, esempi: me prieju ‘mi rallegro’, (loc.) chine se preja du male e l’atri, u sue è bicinu ‘chi si rallegra del male altrui, il suo è vicino’, (loc.) donna u tte prejare du mio duelu, ca quannu u miu è viecchju u tue è nuevu ‘donna non ti rallegrare del mio dolore, che quando il mio è (sarà) vecchio il tuo è (sarà) nuovo’ (proverbio molto simile al precedente).

Prena [agg.] Incinta, gravida, in stato interessante; il termine talvolta è usato al maschile prìenu da parte di una donna e rivolto ad un uomo, sotto forma di locuzione per sottolineare ironicamente un’azione inusuale, oppure un pensiero strano o inconsueto: (lap.) te via prienu! ‘che ti possa vedere incinto!’.

Pressa [s.f.] Fretta, premura, ne deriva pressalùra ‘frettolosa’, ‘che ha fretta’, variante préscia, esempi: teh chi pressalura chi tena ‘guarda un po’ che fretta che ha’, sugn’e pressa ‘sono di fretta’, (loc.) quannu tieni pressa va curcate ‘quando hai fretta vai a coricarti’ (la fretta è cattiva consigliera), (loc.) chine va de pressa stanca e lassa ‘chi va di fretta (si) stanca e molla’ (non serve strafare se poi la stanchezza prevarrà e ti farà fermare).

Prica [s.f.] Briga, preoccupazione, ma anche amarezza, afflizione.

Pricacciànte [agg.] Persona poco attenta ai propri affari, ad esempio avere delle belle olive e non raccoglierle.

Prìedica [s.f.] Predica, omelia, ma anche paternale, discorso sussiegoso, esempi: u mme piaciuta a priedica e oje ‘non mi è piaciuta la predica di oggi’, finisciatila ccu sa priedica ‘finiscitela con sto paternale’.

Prìestu [avv.] Presto, in breve tempo, subito, es.: ricogghjate priestu a ra casa ‘torna presto a casa’.

Prìevite [s.m.] Prete, da cui prievitìcchju o previtìcchju che significa sia un prete giovane (ma anche piccolo di statura), che un prete di bassa levatura, es.: (loc.) u figghju prievite è a ricchezza da casa ‘il figlio prete è la ricchezza della casa’ (chi non riusciva a sposarsi poteva sempre farsi prete, oppure, se una famiglia era molto povera avere un figlio prete era buono perché il clero era/è/sarà(?) ricco), (loc.) fa cuemu u prievite dicia e nnu fare cuemu u prievite fa ‘fa come il prete dice e non fare come il prete fa’, (loc.) io figghji prieviti unn’aju fattu! ‘io figli preti non ne ho fatto!’ (frase che si usa quando si riempie a metà un bicchiere di vino).

Prìezzu [s.m.] Prezzo, costo.

Prigatòriu [s.m.] Purgatorio.

Primalùra [s.f.] 1 Ragazza o donna alla prima gravidanza, primipara. [agg.] 2 Persona principiante, novellina, alle prime armi.

Primèra [s.f.] Primiera, il gioco d’azzardo, es.: primera e carte, tu oru e settoru ‘(io) primiera e carte, tu denari e settebello’ (nel gioco a scopa); il termine è usato anche in senso esteso per indicare situazioni o persone che non sono il massimo della bontà, fiducia o buone capacità, es.: aih cchi primera e squatra! ‘che squadra di squinternati!’.

Princivàlle [s.m.] Antico sito dove un tempo sorgeva Mesoraca, vicino alla confluenza dei fiumi Reazio e Vergari, più a valle della località chiamata Casalini, variante Princivàlli; oggi è un luogo di uliveti, orti e agrumi sparsi qua e là.

Prisa [s.f.] Una delle tante conche naturali che il fiume forma lungo il suo percorso, situato poco più sopra del Maricieddu; vedi anche vuddu.

Prisentùsu [agg.] Presuntuoso, che si mette davanti ad ogni cosa, che si ntrica.

Prisìepu [s.m.] Presepe, es.: st’annu fazzu u prisiepu ‘quest’anno faccio il presepe’.

Prisùttu [s.m.] Prosciutto, anche natica, es.: me fa male u prisuttu ‘mi fa male il gluteo’; variante poco usata prusùttu.

Pritènnare [v.tr.] Pretendere, esigere, variante pritennìre.

Pritenziùsu [agg.] Pretenzioso, borioso et supponente.

Privessòre [s.m.] Professore, insegnante, spesso accorciato a privessò.

Pròpiu [agg.] Proprio, esattamente, precisamente, es.: propiu a ttie cercava ‘proprio a te cercavo’.

Pròspero [s.m.] Fiammifero, cerino; guarda anche abbattaru.

Prosu [s.m.] Culo, fortuna; vedi anche mprusare.

Prùevula [s.f.] Provola, ossia il famoso formaggio a pasta filata fatto con latte vaccino, ottima sulla pizza al posto della scialba mozzarella, da cui pruevulàru ‘venditore di provole’.

Pruevulùne [s.m.] 1 Provolone. 2 Persona un po’ tarda.

Prunzu [s.m.] 1 Campanellino di varia grandezza che si mette al collo degli animali da pascolo, di foggia e materiale più nobile rispetto ad un normale campanaccio, di solito gli animali che portano i prunzi appartengono a persone benestanti. 2 Metafora dei soldi, es.: c’è u prunzu? ‘c’è il soldo?’ (espressione che si intercala, quando viene commissionano un lavoro e non si ha la certezza che si verrà pagati). 3 Alcuni parlanti usano il termine come sinonimo di pisello (organo sessuale).

Pruvàre [v.tr.] Provare, assaggiare.

Pruvvidìre [v.intr. v.tr. v,rifl.] Provvedere, dotare/rsi di qualcosa, esempi: (supplica) sant’Anna pruvvida e manna ‘sant’Anna provvede e manda’, pruvvidate ‘provvediti’ (attrezzati, equipaggiati, le cose che devi fare), aje vidire cuemu m’aju pruvvidire ‘devo vedere come mi devo provvedere’.

Pruvvìsta [s.f.] Provvista, conserva.

Pùbbricu [agg. s.m.] Pubblico, la collettività, che riguarda la collettività, esempi: nu locale pubbricu ‘un locale pubblico’, u nne fare na cosa pubbrica ‘non farne una cosa pubblica’ (non spiattellare ai quattro venti cose private).

Puddàstra [s.f.] 1 Pollastra o comunque giovane gallina. 2 Ragazza giovane e graziosa, es.: (loc.) a gaddina cu ffa ova è chjamata sempre puddastra ‘la gallina che non fa uova è chiamata sempre pollastra’ (una donna che non fa figli è chiamata sempre giovane).

Puddìdula [s.f.] Termine senza una precisa collocazione semantica, lo si ritrova solamente in una lapida, es.: (lap.) ih chi te vorra arrivare a puddidula ‘che possa arrivarti la puddidula’ (che tu possa azzittirti; la puddidula potrebbe essere una vescica alla lingua che impedisce di parlare perché fastidiosa, vedi mpudda).

Puddìtru [s.m.] Puledro, cavallo giovane. 

Puddu [agg.] Tenero, soffice.

Pudduliàre [v.intr.impers.] Inizio di una nevicata o “nevicchiare”, in analogia con ciciuliare (piovigginare).

Pue [avv. s.m.] 1 Poi, in seguito, esempi: pue vieni due mie ‘poi vieni da me’, (loc.) u pue è parente du mmai ‘il poi è parente del mai’ (chi dice poi significa che non ha molta voglia di fare una certa cosa). [v.intr.] 2 Indicativo presente, seconda persona singolare del verbo potere, es.: pue pue venire? ‘poi puoi venire?’. 

Pùecu [agg.indef. s.m.] Poco, in piccola quantità, scarso, variante pocu, esempi: nu pocu e pane ‘un po’ di pane’, (loc.) i puecu fanu l’assai ‘i pochi fanno gli assai’ (gli spiccioli fanno le grandi cifre, le grandi cose sono fatte da tante piccole). 

Puedomàne [avv.] Dopodomani, tra due giorni.

Pùercu [s.m.] Porco, maiale, Sus domesticus L., esempi: quannu ammazzamu u puercu? ‘quando uccidiamo il porco?’, (loc.) ammazzasti u puercu, te chjudisti e dde l’amici tui ti nne scurdasti ‘uccidesti il maiale, ti chiudesti (dentro casa) e degli amici tuoi te ne scordasti’, (loc.) è miegghju ud allievi nu puercu ca nu figghju, ca ccu ru puercu nne pii cientu sapuri mmece ccu nu figghju nne pii tanti dispiaciri ‘è meglio allevare un maiale che un figlio, che del maiale ne prendi cento sapori invece col figlio ne prendi tanti dispiaceri’ (proverbio per genitori amareggiati dai figli), (loc.) chine s’è manciatu u puercu all’untu, u va u ru paga ca è bbenutu u tiempu ‘chi si è mangiato il maiale all’unto, di andare a pagarlo che è arrivato il tempo’ (dopo aver sbafato/scialato alla grande arriva anche il momento di pagare); non è infrequente sentire un cacciatore usare la parola puercu al posto di cinghiale, es.: sutta e Pagghjaredde simu juti ppe pizzicare u puercu ‘sotto (vicino) Pagliarelle siamo andati per pizzicare (uccidere) il cinghiale’; vedi anche purcieddu.

Pùertu [s.m.] Porto, luogo d’attracco.

Pugghjisànu [s.m.] Guarda Pogghjisànu.

Pugnètta [s.f.] 1 Sega, ovvero masturbazione maschile, ne deriva pugnettùne ‘masturbazione con più sentimento e durata’; vedi anche zaina. 2 Persona bassa, esile di corporatura o poco valorosa, ma solo però se la pugnetta è la metà, es.: si na menza pugnetta ‘sei una mezza sega’.

Pugnettàru [s.m.] Segaiolo, persona affetta da onanismo.

Pùlice [s.f.] Pulce, Ctenocephalides felis Bouché quella dei gatti, Ctenocephalides canis Dugés quella dei cani, Pulex irritans L. quella dell’uomo.

Pulici [agg.] Plurale di pulice, usato due volte pulici pulici indica il “disturbo a neve” delle vecchie trasmissioni televisive in analogico, es.: Video Calabria mi se vida pulici pulici ‘Video Calabria mi si vede disturbato’.

Puliciàra [s.f.] Luogo infestato dalle pulci, es.: v’e mme jiettu ara puliciara ‘vado a buttarmi al pulciaio’ (ovvero nel letto).

Pulicinèdda [s.f.] Pulcinella, maschera tipica di Napoli.

Puliciùsu [agg.] Pulcioso, infestato da pulci; il termine è anche impiegato per indicare frutta (come mele o pere) ricoperta da puntini o persona con le lentiggini.

Puliticànte [s.m.] Politicante, ovvero persona che cerca di avere sempre ragione.

Puliżżàre [v.tr.] 1 Pulire, rassettare, sarchiare, esempi: quannu a pulizzi a catoia? ‘quando pulisci lo sgabbuzzino?’ (il sottoscala), duna na pulizzata a ra casa ‘dai una sistemata alla casa’, sugnu jutu fore a pulizzare ca c’era chjinu e erve ‘sono andato in campagna a svellere e zappettare che era pieno di erbacce’. 2 Eliminare una persona, farla sparire, es.: si l’anu pulizzatu ‘l’hanno fatto fuori’. 3 Chiudere con una certa situazione, cosa o persona, es.: ti cce si pulizzatu ‘hai chiuso’.

Puliżżìa [s.f.] 1 Pulizia, nettezza. 2 Polizia, la madama.

Puliżżòttu [s.m.] Poliziotto, agente.

Pumadùeru [s.m.] Pomodoro, Solanum lycopersicum, L., esempi: amu piatu i pumadueri ppe a sarza ‘abbiamo preso i pomodori per la salsa’ (la conserva), st’annu aju chjantatu pumadueri e tutte e manere ‘quest’anno ho piantato pomodori di tutte le varietà’; vedi anche sarza.

Pumicìeddu [s.m.] Varietà di melo dal frutto piccolino, schiacciato e molto saporito, tipico del nostro territorio; cfr milainu e cannamele.

Pumicedde

Pumu [s.m.] Mela, pomo, Malus domestica Borkh., il termine indica sia il frutto che l’albero, esempi: chjantace nu pumu ‘piantaci un melo’, i pumi da faccia ‘i pomi del viso’ (gli zigomi).

Puncigghjùne [s.m.] Pungiglione, pungolo, sinonimo di puncituru.

Puncìre [v.tr.] 1 Pungere, bucherellare, es.: puncia e suzizze ‘fai qualche buchino alle salsicce’. [v.intr.pron.] 2 Iniettarsi in vena della droga, es.:  te punci? ‘ti fai?’.

Puncitùra [s.f.] Puntura, da parte di un insetto, di una pianta con spine o con un oggetto appuntito, variante punciutìna.

Puncituràta [s.f.] Fitta, dolore improvviso, variante punciuturàta, es.: nu dulure a ru core cuemu na punciuturata ‘un dolore al cuore come una trafittura’.

Puncitùru [s.m.] Oggetto acuminato con lo scopo di pungere le bestie, pungolo, da cui punciùsu ‘acuminato’, ‘aguzzo’.

Puntiàre [v.tr.] Cucire, dare dei punti ad un capo da rammendare.

Puntìddu [s.m.] Puntello, sostegno, sinonimo di cristu.

Puntiddùsu [agg.] Puntiglioso, cavilloso.

Puntificàle [agg.]  Meticolosità, minuziosità, scrupolosità, ovvero impegnarsi in azioni di cura e diligenza non importanti ai fini di uno scopo generale, quindi fanno perdere tempo e aumentano la fretta, es.: maniate u ra piare a ra puntificale ‘sbrigati non prenderla con (troppa) lentezza’ (che siamo in ritardo).

Puntìna [s.f.] Chiodino, nel senso di chiodo piccolo e non di puntina da disegno.

Puntùtu [agg.] Acuminato, appuntito.

Pupàtulu [s.m.] 1 Pupazzo, marionetta. 2 Marmocchio, pupo, bimbo pacioccone. 3 Uomo o donna di poco valore, con poca personalità.

Pupìdda [agg.] Integrale, nel senso di pane integrale fatto col cruschello, es.: pane e pupidda ‘pane di cruschello’.

Pupita [s.f.] L’uccello upupa, Upupa epops L.

Puppù [s.m.] Bua, graffio.

Puppuliàre [v.tr.] Verbo che designa il movimento delle narici quando si è arrabbiati, es.: cuemu te puppulianu se nascaredde, ceca u te carmi ‘come ti si muovono le narici, cerca di calmarti’; nell’area napoletana il termine significa ‘subbollire’ ‘far bollire qualcosa lentamente’.

Pupu [s.m.] Burattino, pupo; cfr pupuliddu.

Pupulìddu [s.m.] 1 Alla lettera ‘piccolo pupo’, ossia lembo di stoffa, imbevuto di zucchero, arrotolato in maniera tale da simulare il ciuccetto per neonati (ossia il capezzolo) e dato ai bambini molto piccoli per tenerli buoni quando alla mamma non era ancora sceso il latte; ovviamente è una pratica dannosa; vedi anche culostra. 2 Piccolo dolce pasquale a forma di pupo simile alla cuzzupa amara, da regalare ai bambini; non molto diffuso a Mesoraca.

Pupupupupu [inter.] 1 Voce popolare usata come esclamazione, specie davanti a qualcosa di esagerato come un caldo bestiale, una scoreggia micidiale, una abbuffata inenarrabile e così via, esempi: pupupupupu fai schifu ‘pupupupupu fai schifo’ (in risposta dopo un peto), pupupupupu s’anu spazzolatu tuttu ‘pupupupupu si hanno (sono) spazzolato tutto’. 2 [inter.] Richiamo per le api.

Puràta [s.f.] Materia, purulenza, esempi: (filastrocca) sutta u liettu da za vecchja c’era n’asinu scurciatu, chjinu e mmerda e chjinu e purata chine parra si là manciatu ‘sotto il letto della zia vecchia c’è un asino scorticato pieno di merda e pieno di pus chi parla se l’è mangiato’ (modo ‘fine’ di fare la conta tra bambini o per vedere chi si scopre), (lap.) te viennu u ti se fa u sangu purata ‘possa vedere il tuo sangue diventare purulento’.

Purchjàcca [s.f.] Scrofa, maiala, a volte il termine è riferito, con venature volgari e offensive, anche ad una ragazza procace, varianti purchjaccàra o purchiàcca.

Purchjùne [s.m.] Pollone, getto, con questo nome di solito viene indicato il germoglio giovane che cresce alla base della pianta; cfr surchjune. 

Purcìeddu [s.m.] Porco, porcello, purcèdda al femminile (scrofa) e purceddùzzu il diminutivo (porcellino), es.: (loc.) a vecchja c’ud avetta mmai cchi fare, s’accattau u purcedduzzu ‘la vecchia che non ebbe mai a che fare si comprò il porcellino’ (il proverbio sottolinea il fatto umano di andare a cercarsi impicci di cui potremmo fare a meno); vedi anche puercu.

Puricìnu [s.m.] Pulcino, il piccolo della gallina, come in italiano vale anche l’accezione di ‘bambino’, ‘piccolo’, esempi: è vagnatu cuemu nu puricinu ‘è bagnato come un pulcino’, (loc.) puru i puricini tenanu a tussa ‘anche i pulcini hanno la tosse’ (anche i ragazzi giovani al giorno d’oggi si vogliono far grandi senza la necessaria esperienza).

Purmintìre [v.tr.] Promettere, dar parola, variante purmìntare, esempi: (loc.) a santi u purmintare vuti, a quatrarieddi u purmintare cose ‘ai santi non promettere voti, ai bambini non promettere cose’ (non fare promesse che poi non puoi mantenere), (loc.) a purmintare e nnu ddare restanu e figghje e maritare ‘a promettere e non dare restano le figlie da maritare’ (se nelle trattative pre-matrimoniali si promette qualcosa che poi non verrà data, c’è il serio rischio che la sposina, la figlia, venga lasciata).

Purmunàra [agg.] Insaccato (salsiccia) preparato con interiora di maiale, in particolare con polmone, cuore e parte grassa dell’animale, con l’aggiunta di peperoncino, semi di finocchio selvatico, pepe nero e un goccino di vino; da consumare entro due settimane dal confezionamento, es.: u mme piacia a suzizza purmunara ‘non mi piace la salsiccia fatta col polmone’.

Purmùne [s.m.] Polmone, es.: (loc.) a gatta c’u ppo arrivare a ru purmune, dicia ca le puzza ‘la gatta che non può raggiungere il polmone, dice che gli puzza’ (quello che non puoi ottenere ne parli male). Il termine è anche usato in maniera figurata per indicare un macchinario o un’auto esausti dagli sforzi a cui sono sottoposti o per la lunga carriera, es.: cchi purmune sa machina ‘che polmone (ciofeca) questa auto’.

Purmunìte [s.f.] Polmonite, infiammazione grave dei polmoni.

Purpa [s.f.] Polpa, carne, la parte dei frutti che si mangia, da cui purpùsu o purpùtu ‘polposo’.

Purpètta [s.f.] Polpetta, poco usato, viene preferito vrasciola, vedi questa voce. 

Pùrpitu [s.m.] 1 Pulpito, pergamo. 2 Buccia interna della castagna.

Purpu [s.m.] Polpo, Octopus vulgaris Cuvier.

Purrìettu [s.m.] Verruca, porro; vedi anche passata.

Purtìeddu [s.m.] Sportello, anta, portello, in particolare gli sportelli in legno che un tempo chiudevano le parti in vetro dei balconi.

Purtèdda [s.f.] Pezzo di legno o di altro materiale usato per deviare l’acqua dei terreni irrigui.

Purtùne [s.m.] Portone, da cui porticedda ‘porticina’, es.: se chjuda na porta e se apara nu purtune ‘si chiude una porta e si apre un portone’ (chiuso un discorso se ne può aprire un altro più grande e magari più fruttuoso).

Puru [avv.] 1 Pure, anche, esempi: vena puru sorta ‘viene pure tua sorella’ puru c’u bbieni u cc’è problema ‘anche che non vieni non c’è problema’. [agg.] 2 Puro, pulito.

Pùrvara [s.f.] Polvere da sparo.

Purveràta [s.f.] Polvere, pulviscolo, es.: (loc.) purverata u nn’inchja ssaccu ‘polvere non ne riempie sacco’ (non vale la pena affliggersi per una cazzata).

Purvarèdda [s.f.] 1 Medicina in polvere. 2 Eroina, o altra droga in polvere.

Purveriàre [v.tr.] 1 Finire velocemente qualcosa, come soldi o altro, es.: si l’ha purvariati subitu i quattru sordi c’avia ‘se li è polverizzati subito i quattro soldi che aveva’. [v.intr.pron.] 2 Allontanarsi velocemente, sparire, es.: va vida duve jire u te purvarii ‘vai a vedere dove polverizzarti’.

Pustéma [s.f.] Raccolta di pus in una parte del corpo, ascesso, postema; parola ormai quasi dimenticata, anche dalla medicina ufficiale; in passato il termine per la maggior parte delle volte indicava un’infiammazione purulenta dell’orecchio che colpiva i bambini, come la comune otite e veniva curata con impacchi caldi di olio e con farmaci antibatterici chiamati surfamedici ‘sulfamidici’.

Pusteràta [s.f.] Autunno inoltrato, tardo autunno; il termine è usato anche in senso metaforico per dire che un bimbo è arrivato quando la mamma è già di una certa età.

Putàmu [s.m.] Piccolo fiume a metà strada tra Filippa e Petronà e che lambisce l’Arietta.

Putàssu [s.m.] Potassio, ovvero la potassa ossia idrossido di potassio, nel senso che questo elemento si usava per preparare il sapone fatto in casa. La potassa, insieme alla soda e al grasso di maiale (in alternativa oli usati) era fatta bollire per circa un’ora; alla fine il composto risultante veniva fatto raffreddare per farlo rapprendere, quindi tagliato a pezzi e pronto all’uso; la parola putassu da il nome a tutto il processo.

Putatùre [s.m.] Potatore, persona esperta nella potatura, specie degli alberi d’ulivo.

Putiga [s.f.] Negozio, bottega, molto usato anche il diminutivo putighèdda ‘botteghino’, esempi: chjudu a putiga e bbiegnu ‘chiudo la bottega e arrivo’, a putiga du vinu ‘negozio del vino’ (osteria), (loc.) c’è de casa e de putiga ‘c’è di casa e di bottega’ (persona affezionata ad un luogo).

Putighìnu [s.m.] Negozietto, in genere un sali&tabacchi.

Putigàru [s.m.] Negoziante, bottegaio.

Putìre [v.intr.] Potere, avere la facoltà, riuscire, esempi: u putietteru sagghjire subra u vidanu ‘non potettero salire sopra per vedere’, quannu pue vieni ‘quando puoi vieni’ (frase ambigua pue significa anche ‘poi’), si puterra venerra ‘se potessi verrei’. 2 Reggere, sostenere un peso, esempi: u pue su catu? ‘lo puoi questo secchio?’ (lo reggi?), chissu u lle pututu, è pisante puru ppe mmie ‘questo non lo hai potuto, è pesante pure per me’ (questo non lo hai sostenuto). 3 Battere, vincere in una lotta, esempi: u pue a Nicola? ‘lo puoi a Nicola?’ (lo batti a Nicola?), si pue a Maria si cchjù forte e mie ‘se vinci a Maria sei più forte di me’.

Putràzzu [s.m.] Fradiciume, ossia pezzo di legno inzuppato d’acqua, completamente infradiciato da quest’ultima e quindi reso inservibile, usato anche in senso figurato, es.: pari nu putrazzu ‘sembri un legno fradicio’ (sei marcio).

Putrìni [s.m.] Località di campagna del mesorachese in posizione sud-est rispetto al paese, vicino alla località chiamata Acqua modda.

Putrùne [agg. s.m.] Poltrone, persona pigra e indolente.

Puttana [s.f.] Il termine, oltre ai significati condivisi con l’italiano (meretrice e persona dalla morale discutibile) è anche adoperato come sinonimo di “sfacciata” “indolente” “impertinente” e può essere riferito ad una pianta, ad un animale e ovviamente ad una persona, esempi: a puttana criscia cchjù assai a via via ‘la puttana cresce di più lungo la strada’ (riferito alla pianta di finocchio selvatico che sfacciatamente cresce rigogliosa ai bordi delle strade), puttana tosta durmia subra i panni lavati ‘puttana tosta dormiva sopra i panni puliti’ (riferito ad una gatta), e io puttana ce sugnu juta lo stesso! ‘ed io zoccola ci sono andata lo stesso!’ (non mi sono vergognata ad andarci), ca chi si nn’ha de fare, si l’ha de cumpettare? Tu n’atra puttana ‘che (che) se ne deve fare, se le deve confettare? Tu un’altra puttana’ (puttana, cosa vuoi che se ne faccia di quelle castagne secche, se le deve fare a confetti? Buttagliele va; la frase è riferita ad una comare che non sapeva se buttare delle castagne secche di un’altra comare); la parola, con questi significati, è prevalentemente usata dalle donne, anche di una certa età, in tono scherzoso o per dare più forza e colore alle proprie affermazioni.

Puttaniamìentu [s.m.] Puttaneggiamento, l’atto dell’andare a mignotte, ma anche divertirsi sperperando i propri averi con beni, persone o situazioni che procurano piacere, es.: a puttaniamientu ‘a divertimento’.

Puttaniàre [v.tr.] 1 Andare a puttane, ovvero sperperare allegramente, spendere soldi senza troppi pensieri, molto vicino al significato di sciagrare, es.: t’è puttaniatu tutti i sordi ‘ti sei sputtanato tutti i soldi’; vedi anche mputtaniscire. [v.intr.] 2 Comportarsi e/o atteggiarsi come una puttana, senza necessariamente esserlo: civettare, troieggiare, mercanteggiare rendono bene il significato, esempi: i masculi se vidianu a partita e nue fimmine a puttaniare tutta a sirata ‘i maschi si vedevano la partita e noi donne a zoccolare tutta la serata’, l’aju vistu ajieri ara spiaggia chi puttaniava ccu chiddu amicu suu e Torinu ‘l’ho visto ieri in spiaggia che flirtava con delle ragazze insieme a quel suo amico di Torino’; cfr quatrariare.

Puttanìggiu [s.m.] Azione da troia, attività sconcia, comportamento immorale, variante puttaneggiu, es.: u mm’u fare vidire su puttaniggiu ‘non farmelo vedere questo zoccolaggio’.

Puttanùne [s.f.] Grande imprenditrice di sé stessa, ma anche persona perfida, riprovevole.

Puzàncu [agg.] Grosso come un polso.

Puzèdda [s.f.] Ancia, la linguetta del flauto, di solito in legno di fico.

Puziàre [v.tr.] Alla lettera ‘polseggiare’, ossia usare i polsi per compiere un determinato lavoro; infatti, la parola trova largo uso nella lavorazione della pasta per fare il pane casaluru.

Puzìni [s.m.] Polsini, gemelli.

Puzu [s.f.] Polso, forza, es.: ce vo puzu ‘ci vuole polso’ (forza).

Puzzìettu [s.m.] Pozzetto di raccolta, tombino.

Pultima modifica: 2022-03-13T10:51:33+01:00da mars.net