L

L [s.f.] Decima lettera dell’alfabeto mesorachese, corrispondente alla undicesima dell’alfabeto latino, la cui forma maiuscola (L) deriva, come per il lambda greco (Λ), da una modificazione di quella che aveva nell’alfabeto fenicio, mentre la minuscola è derivata dalla maiuscola per allungamento del tratto verticale e successive modificazioni (VT).

La [pron.pers.] Pronome personale italiano ‘la’ e ‘gliela’, esempi: io la dugnu a Pietru ‘io la do a Pietro’, a piu doppu ‘la prendo dopo’, io la mintu cchjù tardu ‘io gliela metto più tardi’, la puertu chjanu chjanu ‘gliela porto piano piano’, u lla dicu ‘non gliela dico’; in combinazione con i verbi avere e dovere, esempi: l’ha vrusciata ‘l’ha bruciata’, l’e (la e) cuverire ccu na mappina ‘la devi coprire con una mappina’; in combinazione con il pronome li e i verbi avere e dovere, esempi: lil’ha (lila ha) ddata ‘gliel’ha data’, lil’e (lila e) cusire ‘gliela devi cucire’; guarda anche le, li, lu e lile; se cerchi la come articolo, guarda a e ra.

Labbrùtu [s.m.] Tipo di fungo (Lactarius piperatus L.) della stessa famiglia del lattaru, le Russulaceae.

Lacafédda [avv.] Mangiare qualcosa con bramosia affettandone generose quantità, specie se a spese di qualcun altro, es.: mina dduecu a lacafedda mo chi ce si ncappatu! ‘forza qui a gozzovigliare adesso che ci sei incappato!’.

Lacàggiu [s.m.] Robinia, falsa acacia, Robinia pseudoacacia L.

Lagudùeci [s.m.] Località di campagna vicino alla località denominata Scala; la zona comprende entrambe le sponde del Vergari. Molto famose le cosiddette grutte e Lagudueci: una leggenda popolare narra che in una di queste grotte, un tempo, si nascondesse il diavolo sotto le sembianze di un cavallo nero e che quest’ultimo sputasse fuoco dalle narici per incutere terrore in chi si avvicinasse; il cavallo era custode di un favoloso tesoro e, naturalmente, non permetteva a nessuno di avvicinarvisi, tutti quelli che ci provavano scomparivano nel nulla, per avere salva la vita era necessario sacrificare un bambino.

Lagurìeddi [s.m.] Semi di cereali germogliati al buio; trattasi di una tradizione legata alla settimana santa, ma che affonda le radici in ritualità precristiane.

Lagurìżża [s.f.] Liquirizia, Glycyrrhiza glabra L., varianti agurìżża e liquiriżża.

Laguriżżàri [s.m.] Raccoglitori di liquirizia.

Làguru [s.m.] Alloro, Laurus nobilis L., viene usata anche la forma sincopata làuru.

Lamétta [s.f.] Lametta, in particolare quella adoperata nei rasoi personali, es.: na lametta da varva ‘una lametta da barba’ (un rasoio per la barba, anche semplicemente na lametta); guarda anche rasulu.

Lamìentu [s.m.] Lamento, guarda anche languru.

Lamparìna [s.f.] Lampadina, da cui lamparinèdda la lampadina tipica da baciù a forma di candela, e lamparinìeddu ancora più piccolo, quello che si trova nelle torce elettriche o nei lumini dei morti, es.: (loc.)  speranze finite e lamparine furminate ‘speranze finite e lampadine fulminate’ (esclamazione quando non c’è più niente che si possa fare).

Lampu 1 [s.m.] Lampo, inteso come fenomeno atmosferico, guarda anche stillampu e allampu. 2 Chiusura lampo, cerniera, es.: chjudate u lampu ‘chiuditi la cerniera’.

Lancèdda [s.f.] Contenitore in terracotta smaltato a bocca larga, usato per la conserva di vino, olio e olive in salamoia, ma in origine veniva impiegato per contenere l’acqua; la capacità media è di 50/60 litri, quello di misura più grande viene chiamato ciarra (180 litri), quello più piccolo lanceddùzza (un litro circa) ed è adoperata per contenerci l’olio che si consuma giorno per giorno, es.: (loc.) tantu vatta l’acqua ara lancedda fin’a c’u se rumpa ‘tanto batte l’acqua al vaso fino a che non si rompe’ (proverbio che si intercala quando si vuole fare breccia nell’interlocutore con tante argomentazioni).

Lanètta [s.f.] Camicetta a doppio petto in flanella.

Languràre [v.intr.pron.] Lamentarsi, brontolare, lagnarsi, variante languriàre, esempi: (loc.) chine tena speranza e atru u cucina, a sira se ricogghja langurannu ‘chi tiene speranza di altri di (per) cucina(re), la sera rincasa brontolando’ (non sempre ci si deve fidare delle altre persone), (loc.) tu si cuemu a gatta subra i cedamedi, chi futta futta e se langura sempre ‘tu sei come la gatta sopra i coppi – i tetti, che fotte fotte e si lamenta sempre’ (ci sono persone che nonostante stiano bene si lamentano lo stesso, preferiscono apparire povere pur di non dare nell’occhio).

Langùru [s.m.] Lamento, afflizione, piagnisteo prolungato e fastidioso per chi deve sorbirselo; cfr taluernu.

Lànnia 1 [s.f.] Grossa teglia rettangolare in latta, identica a quella usata per la pizza a trancio, es.: na lannia e pizza ‘una teglia di pizza’. 2 Pezzo di latta generico.

Lantru 1 [s.m.] Oleandro Nerium oleander L. 2 Acqua giallognola che esce da un barile nuovo. 3 Patina verde e lubrica che si forma sull’acqua stagnante; cfr vurga. 4 Cattivo odore che la pianta del lino emana dopo essere stata in ammollo.

Lanza 1 [s.f.] Il chiodo dei maniscalchi, adoperato per ferrare gli equini; lo stesso chiodo è usato per sostituire quello della trottola; guarda anche posta. 2 Contenitore per liquidi dalla misura imprecisata, es.: se viviu na lanza e vinu ‘si bevette una gran quantità di vino’.

Lapa [s.f.] Ape, Apis mellifera L., es.: (loc.) u ssi nné nu lupu e nné na lapa, ma si nnu nuezzulu e crapa ‘non sei né un lupo e né un’ape, ma sei una cacchina di capra’ (non sei fiero come un lupo e né agile come un’ape, ma sei una cacchina di capra).

Làpida 1 [s.f.] La lapida è un’espressione, tipica del territorio, contenente una maledizione, un malaugurio, un’imprecazione; buona parte delle volte sono le mamme a formularle (e a idearle) nei confronti dei propri figli, che sicuramente hanno combinato qualcosa che le ha fatte risentire; mandata con solennità assume il carattere grave della maledizione. Spesso la lapida inizia con l’interiezione ih e, di seguito, dalla frase chi te via (oppure chi te viennu oppure chi te vorra oppure chi te vorranu e, per il plurale, lo stesso chi ve vorranu, anche se in generale chi te via è usato quando la lapida è rivolta ad una femmina e chi te viennu quando è rivolta ad un maschio; qualche volta inizia con ammacaru) che ne costituisce la struttura iniziale; lanciare una lapida significa augurare qualcosa di brutto ad una persona specifica (chi te viennu u te spicci ‘possa vederti finire’), ad una famiglia (ih chi si nne vorra perdare a simenta da razza tua ‘che si possa perdere ogni seme della tua famiglia’), ad un gruppo (chi ve viennu u ve sparanu a tutti quanti ‘che io vi possa vedere tutti sparati’); l’intensità della lapida può variare da qualcosa di leggero (ih chi te viennu ud attrueppichi ‘possa vederti inciampare’ – e farti male, te viennu u te ncavuni ‘possa vederti cadere rovinosamente’), a qualcosa di definitivo e magari con sofferenze annesse (ih chi te viennu u te rumpi l’uessu du cueddu ‘possa vederti rompere l’osso del collo’, te viennu u te fanu morza morza ‘possa vederti conciato pezzetti pezzetti), alcune volte augurano la follia (chi te viennu u pii u sule a petrate ‘possa vederti prendere il sole a pietrate’, te viennu ud azzueppi a capu muri muri ‘possa vederti sbattere la testa contro i muri’), talvolta ricordano scene da film horror (ih chi te via u caccavii ccu re campe all’uecchji ‘possa vederti andare in giro senza meta e con i vermi agli occhi’, te viennu u te scannanu ‘possa vederti sgozzato’), altre volte augurano una brutta malattia (te viennu u fai l’acqua ara panza ‘possa vederti fare l’acqua alla pancia’, te viennu u te pia a milincite ‘possa vederti prendere la meningite’), non di rado sono lanciate anche senza un preciso ambito da colpire e senza cattiveria, utilizzando solo la struttura iniziale, in tal caso diventa, praticamente, un intercalare (ih chi te via ‘possa vederti’); molto raramente, viene usata la struttura della lapida per augurare qualcosa di buono (chi te via riccu cuemu u sule ‘possa vederti ricco come il sole’); alcune volte, nel parlato, le lapidi sono usate anche in tono scherzoso o essere loro stesse scherzose (te via prienu ‘possa vederti incinto’, te via discrażżiatu ‘possa vederti disgraziato’); esempi:  mi nn’ha mannatu lapidi ‘mi ha mandato un sacco di maledizioni’, (loc.) spagnate e l’uecchju du munnu e nno de lapide, ca de lapide ti nne ncrassa u cuezzu ‘abbi paura dell’occhio del mondo e non delle maledizioni, dai malauguri ti si ingrassa il collo’ (abbi paura delle persone invidiose, le imprecazioni sono solo parole), io sugnu nata e vennari e chidde chi te mannu cogghjanu! ‘io sono nata di venerdì e quelle che ti mando (le lapidi) colpiscono!’; dal punto di vista linguistico è una delle aree con maggiori novità, ovvero molti tipi di lapidi sono inventate al momento e alcune volte personalizzate verso l’interlocutore o il gruppo verso cui le si sta lanciando, quello che non cambia è la struttura iniziale e la voglia di augurare qualcosa di brutto. 2 Lapide, pietra sepolcrale.

Lapidiàre [v.intr.] Imprecare, inveire, maledire, lanciare anatema contro qualcuno o qualcosa, esempi: (loc.) aru cavaddu lapidiatu le lucia u pilu ‘al cavallo maledetto gli luccica il pelo’ (più gliele mandi, le lapidi, e più sta bene, non è mandandole che si risolvono le questioni), l’avie sentire cumu lapidiava u maritu ‘la dovevi sentire come malediva il marito’.

Lapìeddu [s.m.] Lapillo, piccolo frammento di brace.

Làpissu [s.m.] Lapis, matita, usato anche nella forma àpissu.

Lappedda [s.f.] Parte della fionda dove si tiene il sasso prima di essere lanciato, la toppa, ottenuta, di solito, dalla linguetta di vecchie scarpe; guarda anche stirapetra, rollino e uecchju.

Laprìsta [s.f.] Verdura selvatica annuale, adoperata per insaporire minestre, meglio conosciuta con i termini taddu e laprista ‘tallo di erisimo’; buona anche per curare le infiammazioni delle prime vie aeree. Cresce un po’ dappertutto specie nei luoghi incolti, chiamata in italiano ‘erisimo’ e con nome scientifico Sysibrium officinale L.

Laprista

Lapùne [s.m.] Grossa ape ‘calabrese’, meglio conosciuta come calabrone Vespa crabro L.; guarda anche santantueni. Fino a qualche decennio fa questo insetto aveva anche scopi medici, una volta catturato, ucciso, essiccato e tritato, trovava impiego come cicatrizzante negli ombelichi dei bambini di pochi giorni; guarda anche rizzu e piritu e lupu per altre usanze sciamaniche di questo tipo.

Lapuniàre [v.intr.] Corteggiare, fare il filo; cfr repuliare.

Lardùta [agg.] Di cosa che ha la forma larga e cicciottella, in particolare l’aggettivo è riferito a tutte quelle verdure che sviluppandosi ne assumono l’aspetto, ad esempio vurraine, lapriste eccetera; guarda anche filuta.

Largasìa [s.f.] Comodità di tanto spazio a disposizione, ampiezza, larghezza; variante larigasìa.

Làrigu 1 [agg.] Largo, comodo, ampio, es.: na suttana bedda lariga ‘una sottana molto comoda’. 2 [s.m.] Slargo, spiazzo, es.: jamu e sedimune aru larigu ‘andiamo a sederci allo spiazzo’.

Lascu [agg.] Allentato, largo, spazioso.

Lasculiàre [v.tr.] Allargare, allentare qualcosa.

Lassàre 1 [v.tr.] Lasciare, cedere, mollare, lasciar perdere, esempi: u lassare nente ‘non lasciare niente’, ha lassatu i guagliuni suli intra ‘ha mollato i ragazzi (i figli) soli dentro’ (la casa), vida ppennu cce lassi e pinne ‘vedi di non lasciarci le penne’, lassale ancuna cosa ‘lasciagli qualcosa’ (anche nel senso di ‘dagli la mancia’), lassalu jire (o fricare) ‘lascialo andare’ (o perdere, fottere), i guagliuni e mo se pianu e se lassanu ogne gghjuernu ‘i ragazzi di oggi si prendono e si lasciano ogni giorno’. 2 [v.rifl.rec.] Mollarsi, lasciarsi, spezzare un legame, specie di tipo amoroso, es.: u mme lassare c’u tte lassu ‘non mollarmi che non ti mollo’.

Làstica [s.f.] Elastico, es.: e lastiche da stirapetra e faciamu o ccu i nguanti e lavare oppuramente ccu e camere d’aria de briggichette ‘gli elastici della fionda li facevamo (ricavavamo) dai guanti da lavare (da cucina) oppure dalle camere d’aria delle biciclette’.

Lastra 1 [s.f.] Vetro della finestra. 2 Radiografia.

stricu [s.m.] Pavimento rustico, lastrico.

Latru [s.m.] Ladro, furfante, es.: (loc.) du latru e du latrune a miegghju parte è du patrune ‘del ladro e del ladrone la miglior parte è del padrone’ (anche se derubato alla fin fine è il padrone che delle cose ne gode di più).

Latrunìggiu [s.m.] Latrocinio, furto, ruberia.

Lattàru 1 [s.m.] Fungo appartenente alla famiglia delle Russulaceae, a cui appartiene anche il labbrutu. Sotto questo nome ricadono almeno tre specie, tutte e tre non sono date come commestibili dai micologi (in paese c’è qualcuno che ne è ghiotto) se non dopo opportuni trattamenti: Lactarius vellereus F., il lattaru classico, molto simile a quello che si trova nei castagni e nei faggi; Lactarius bertillonii Neu. con il bordo ripiegato e che si trova in tutti i tipi di bosco; Lactarius piperatus L. cresce nei faggi e nelle conifere, commestibile dopo opportuni trattamenti, che corrisponde al labbrutu. 2 [s.m.]  Lattaio.

Lattùca [s.f.] Insalata, lattuga.

Lavatùru 1 [s.m.] Lavatoio, vasca dove si lava i panni. 2 Località di campagna (uliveti) confinante con la località chiamata Mazzaccaru.

Lave [s.f.pl.] Parte di terreno dove c’è passata molta acqua a causa di una forte pioggia; talvolta anche parete scoscesa, dirupata.

Lavìna [s.f.] Canale d’acqua, fango e sterpaglia creato da una forte pioggia, con conseguente straripamento in determinate zone; il termine è italiano ed è meglio conosciuto col nome di slavina.

Lazza [s.f.] Sorta di filo ricavato dalla parte più pregiata del lino (guarda manna), impiegata per farne indumenti come camicie o sottane; lo stesso filo era anche usato per legare (chiudere) l’ombelico dei neonati.

Làżara [s.f.inv.] Nome, fino a poco tempo fa, dell’ultimo vuddu balneabile della Jumàra – il fiume Vergari. La sua conformazione ricorda molto la Carrozzèdda, ma è più ampio di quest’ultima. Il posto meriterebbe più attenzione ma il lungo e impervio cammino ne limitano lo “sviluppo”. In occasione di una spedizione verso la sorgente del Vergari nel 1984, si scoprirono sia degli scorci molto belli che altri vuddi, ma troppo distanti per colonizzarli.

Lażariàre [v.intr.pron.] Reprimersi, contenersi, affliggersi nell’animo per l’impossibilità all’azione.

Lazzu [s.m.] Laccio, stringa.

Le 1 [pron.p.] Pronome personale italiano le/gli/gliele, cambia in lle se preceduto da vocale, esempi: chisse le mmanna a sueru ‘queste gliele manda la sorella’, u lle dire nente ‘non le dire niente’ (ma anche ‘non gli dire niente’); guarda anche la, li, lu e lile. [combinaz.] 2 Unione del pronome personale le/lu e del verbo avere hai o ai (indicativo presente seconda persona singolare), la giusta grafia è quindi l’e (o ll’e se preceduto da vocale), quest’ultimo fonema non assume il consueto suono ‘ai’ ma muta in ‘e’ quando è usato per formare il participio passato, esempi: l’e truvatu ddà ‘lo hai trovato là’, u ll’e piatu ddà ‘non lo hai preso là’, e ll’e minatu? ‘e lo hai picchiato?’. 3 Combinazione del pronome personale le/lu e del verbo essere è (indicativo presente terza persona singolare), la giusta grafia è quindi l’è (o ll’è se preceduto da vocale), esempi: l’è trasutu intr’a casa ccu ra pistola ‘gli è entrato in casa con la pistola’, u ll’è nnente ‘non le è niente’. 4 Combinazione del pronome personale le/lu e del verbo dovere e (indicativo presente seconda persona singolare), esempi: mo ti l’e piare ‘adesso te la devi prendere’, mo u tti l’e piare ‘adesso non te la devi prendere’.

Leantrùne [s.m.] Scansafatiche, fannullone, vagabondo, persona inerte e lercia, variante liantrune.

Leggìeru [agg.] Leggero, poco pesante, poco alcolico, es.: fa’ nu café leggieru ‘fai un caffè leggero’.

Leiénna [s.f.] Sorta di discorso di chiarimento connotato da sfogo, rimprovero, ramanzina.

Lejìre [v.tr.] Leggere, varianti lèjare e lijìre, es.: ppennu sapire nné lejare e nné scrivare ‘per non saper né leggere né scrivere’.

Lentàcchju [agg.] Magro, sottopeso.

Lenzùlu [s.m.] Lenzuolo, telo, variante lenzùelu.

Lépida [agg.] Allocca, banale, insignificante, poco simpatica, acida.

Lerùegiu 1 [s.m.] Orologio, cipollone. 2 Parola generica per indicare qualunque macchinario che nella sua complessità o ridondanza di meccanismi non funziona o funziona male.

Lesionàriu [s.m.] Serie di legnate, percosse, pestaggio da parte di un gruppo su una singola persona, anche scherzosamente tra amici.

ttricu [s.m.] Alla lettera ‘elettrico’, non è una parola molto usata, di solito è impiegata elèttricu; si adopera riferendosi al sapore (elettrico) che assumono i cibi conservati in frigo senza copertura, es: sa du lettricu ‘ha il sapore dell’elettrico’.

Levàta [s.f.] Levataccia, faticosa alzata, magari di buon’ora, dal letto.

Levatìna [s.f.] Impasto formato dal levatu e da un decimo circa della farina che verrà usata per fare il pane casareccio; guarda casaluru e levatu per maggiori dettagli.

Levàtu [s.m.] Pezzo di pasta lievitata, della grandezza di un piatto, usata come lievito per fare il pane casareccio; una volta adoperato, dall’impasto viene prelevato un altro pezzo di pasta (levatu) da usare per un successivo impasto; guarda anche levatina e casaluru.

Li 1 [art.d.] Articolo determinativo maschile plurale ‘gli’, esempi: guardame intra l’uecchji ‘guardami dentro gli occhi’, se ricuetu ccu l’animali ‘è rincasato con gli animali’. 2 [pron.pers.] Pronome personale ‘gli’, usato esclusivamente in unione con altri pronomi, esempi: portalili subitu ‘portaglieli subito’, u lil’é dittu? ‘non glielo hai detto?’; guarda anche la, le, lu e lile.

Liantrune [s.m.] Guarda leantrune.

Lìbbaru [agg.] Libero, privo d’impegni.

Libberìna [s.f.] Piccola zona di montagna priva di alberi.

Libbra [s.f.] Libbra, unità di misura della massa o di peso; a dispetto di tutte le convenzioni, a Mesoraca, una libbra vale 250 grammi.

Libbrètta [s.f.] Quaderno dove il negoziante annota i conti (i debiti) degli acquirenti, la ‘black list’.

Liccabuttìgghja [agg.] Alla lettera ‘lecca-bottiglie’, ovvero persona che loda esageratamente, per compiacenza, per interesse o bassezza d’animo; guarda anche liccaculu e liccacontre.

Liccacòntre [s.m.] Alla lettera ‘lecca-piaghe’, sinonimo di liccaculu.

Liccacùlu [s.m.f.] Colui che attira, alletta con lusinghe, con complimenti, lodi o false promesse, adulatore servile; guarda anche liccabuttigghja.

Liccàre [v.tr.] Leccare, viene impiegato anche il termine licchiàre per denotare l’azione del leccare in tono minore.

Liccatùra [s.f.] Piccolo strato di qualcosa, il termine viene utilizzato per indicare una nevicata di poco conto, lo spessore di una leccata appunto, variante liccatìna.

Liccè [par.comp.] Parola composta dal pronome li, dalla particella ci e dal verbo essere è (o del verbo dovere e), la grafia corretta dovrebbe essere li cc’è, esempi: li cc’è gnurnato ‘gli ci è fatto giorno’, li cc’è rimastu u cappieddu ‘gli ci è rimasto il cappello’, li cc’è piatu u suennu ‘gli ci è preso il sonno’; se l’accento cade sulla ‘i’ (lìcce) allora si è in presenza del pronome li, della particella rafforzativa cce e del pronome e (l’italiano gliele), esempi: li cc’e nzaccu sane sane ‘gliele insacco per intero’, licce su arruzzati ‘gli ci sono arrugginiti’; guarda anche liccià e licciù.

Liccià [par.comp.] Parola composta dal pronome li, dalla particella ci e dal verbo avere (h)a (o il verbo dovere a), la grafia corretta dovrebbe essere li cci’ha, esempi: li cci’ha pittatu stu viernu ‘gli ci ha pittato questo inverno’, li cci’ha vutatu u riestu ‘gli ci ha voltato il resto’, li cci’anu arrubbatu ‘gli ci hanno rubato’, li cci’ha de pulizzare ‘gli ci deve pulire’; se l’accento cade sulla ‘i’ allora si è in presenza del pronome li, della particella cci rafforzativa e del pronome a (corrispondente all’italiano gliela), esempi: lì cci’a mintu tutta ‘gli (ce) la metto tutta’, liccia du? ‘gli (ce) la dai; guarda anche liccè e licciu.

Lìcciu [par.comp.] Parola composta dal pronome li, dalla particella cci rafforzativa e dal pronome u, la grafia corretta dovrebbe essere li cci’u, corrispondente all’italiano glielo, esempi: licciu strichi chjanu chjanu ‘glielo spalmi piano piano’, u li cci’u dare tuttu ‘non glielo dare tutto’; guarda anche liccià e liccè.

Liccùcciu [agg.] Goloso, leccardo.

Liccummardìa [s.f.] Ghiottoneria, prelibatezza, golosità.

Licenziare [v.tr. v.rifl.] Partecipazione al dolore di una persona colpita dalla scomparsa di un proprio caro, è una forma di saluto e di rispetto ai familiari e ai parenti e sono chiamate condoglianze. In forma passiva, significa accomiatare parenti e amici, in forma attiva, talvolta assume l’aspetto di un formalismo, una forma di paracatè, ossia di un comportamento di facciata ‘lo faccio perché così sono più ben visto sia dai parenti del defunto (che ricambieranno il gesto quando toccherà a me) che dalle persone che mi vedono fare questo gesto’; in paese ci sono persone che non si perdono un funerale. Si usa licenziare anche per una forma di superstizione ‘se non vado a licenziarmi mi porto con me una cattiva cosa’ (guarda maladùettu), esempi: vaju e mme licenzìu ‘vado a licenziarmi’, c’eranu tutti i niputi a licenziare ‘c’erano tutti i nipoti a dare commiato’.

Lìcitu [agg.] Lecito, permesso, concesso dalla norma.

Lìefricu [s.m.] Il bordo ripiegato di un pantalone o di una gonna, es.: ce vo u liefrucu ari cavuzi nuevi ‘ci vuole (fatto) il bordino ai pantaloni nuovi’.

Lìeggiu [agg.] Leggero, lieve, modesto; guarda anche leggieru e alleggiare.

Liénna [s.f.] Sorta di discorso di chiarimento connotato da sfogo, rimprovero, ramanzina.

Lìentu 1 [agg.] Magro, esile, es.: lientu cuemu na frusta ‘magro come una frusta’, na fimmina lenta ‘una donna magra’. 2 Lento, calmo.

Lìettu [s.m.] Letto, talamo, esempi: (loc.) u liettu fa due cose, si u dduermi te ripuesi ‘il letto fa due cose, se non dormi ti riposi’, (loc.) gamme e piettu se curanu aru liettu ‘gambe e petto si curano a letto’.

Liffa [s.f.] Riga dei capelli, sinonimo di scrima e per estensione acconciatura dei capelli.

Ligatùra [s.f.] Matassa di lino composta da cinquanta gugliate; guarda anche gugghjata.

Lighèra [s.f.] Sagola, piccola corda.

Ligniàta [s.f.] Legnata, bastonata.

Ligniàre 1 [v.tr.] Legnare, bastonare. [v.intr.] 2 Fare legna, raccogliere legna.

Lignistùertu [s.m.] Alla lettera ‘legno storto’, ossia persona che ragiona a modo suo, che ha torto evidente, ma vuol avere ragione comunque.

Lignu [s.f.] Legno, ramo, (loc.) ogne lignu tena u fumu sue ‘ogni legno ha il suo fumo’ (ogni persona ha il suo carattere, modo d’essere).

Lignùsu [agg.] Riferito a sostanze o oggetti (naturali o artificiali) che hanno le caratteristiche o la consistenza del legno, variante lignutu.

Lijìstra [s.f.] Persona che si atteggia (si vanta) di determinate qualità, ma non è detto che sia vero; anche come sinonimo di saccente, sapientona, millantatrice; il termine, con meno frequenza, è usato anche al maschile.

Lila [pron.pers.] Guarda lile.

Lile [pron.pers.] Unione del pronome li e dell’altrettanto pronome personale le (o lu) corrispondente all’italiano ‘gliele’ (o glielo) e in più il verbo dovere e (indicativo presente seconda persona singolare) per cui la giusta grafia è lil’e, esempi: lil’e mintire tutte ‘gliele devi mettere tutte’, lil’e dire ‘glielo devi dire’; talvolta, come in italiano, è il verbo avere ad essere legato ai due pronomi lil’ha, es.: lil’ha purtatu ‘gliel’ha portato’; guarda anche la, le, li e lu.

Lìmitu [s.m.] Limite, confine.

Limma 1 [s.f.] Contenitore di terracotta per liquidi, non sempre nobili. 2 Recipiente simile al precedente, di ferro smaltato (o terracotta) di varia dimensione e di forma all’incirca conica; è spesso usato come contenitore momentaneo, come ad esempio l’impasto per le soppressate o salsiccie, ma si presta anche come contenitore per conservarci altre sostanze alimentari come olive ara sarzetta; guarda anche commidu. 3 Racchiona, ragazza priva di grazia.

Limùesina [s.f.] Elemosina, ma anche paga misera.

Limuesinànte [s.m.] Elemosinante, poveraccio, variante limosinànte.

Limuesinàre [v.intr.] Elemosinare, mendicare.

Limunciàna [s.f.] Melanzana, Solanum melongena L.; guarda anche tièdda.

Limusciàre [v.tr.] Sciupare, lordare, avere poca cura, es.: u mme mi piacia, l’ha limusciatu tuttu ‘non mi piace, l’ha insudiciato (sciupato tenendolo in mano) tutto’.

Limusciùtu [s.m.] Persona che fa storie a mangiare, schifiltoso, che dimostra scarso entusiasmo di fronte ad un buon piatto e ne scarta pezzi qua e là.

Limùsu [agg.] Impiastricciato, sporco, insudiciato, riferito anche a persona; guarda anche limusciare.

Linàrdu [s.f.] Vecchia fontana del rione Nużżiata, chiamata funtana e Linardu, dal nome (Leonardo) del signore che la costruì.

Linàzza [s.f.] Cascami della lavorazione del lino utili, una volta, per farne materassi; lo stesso termine indica la prima pettinatura del lino.

Lingùtu [agg.] Linguacciuto, cioè che parla molto.

Lìnia [s.f.] Linea, riga.

Linne [pron.pers. pron.dim.] L’unione del pronome personale li ‘gli’ e del pronome personale (o dimostrativo) ne ‘ne’ ossia l’italiano ‘gliene’, esempi: cchi linne frica ara figghja? ‘che gliene frega alla figlia?’, linn’ha ddittu quattru ‘glien’ha dette quattro’; talvolta si trova unito al verbo dovere (e) o al verbo essere (è), es.: linn’e dire quattru ‘gliene devi dire quattro’, cchi linn’è gghjutu a iddu? ‘che cosa glien’è andato a lui?’ (che cosa ci ha guadagnato lui?); guarda anche lile.

Linnìnu [s.m.] Uovo di pidocchio, lendine.

Linninùsu 1 [agg.] Pidocchioso, persona sudicia. 2 Avaro, taccagno.

Linnòra [s.f.] Donna sfaticata che rompe le scatole al prossimo, ma anche donna laida, sporca, es.: linnora! ‘scansafatiche!’ (sudicia!).

Linu [s.m.] Lino, il tessuto e la rispettiva pianta, Linum usitatissimum L., es.: nn’aju passatu cchjù du linu ‘ne ho passate più del lino’ (modo di dire usato per sottolineare un processo lungo e complicato).

Linùsa [s.f.] Seme di lino da cui si estrae anche un olio.

Liòna [s.f.] Tartaruga di terra, Testudo hermanni Gmel.

Lippu [s.m.] Musco, ovvero piante briofite che vivono nei luoghi umidi e ombrosi, ma non disdegnano i sassi dei fiumi dove è facile prendere un cirimpampulu (scivolone); ne deriva l’aggettivo lippùsu ‘scivoloso’, esempi: chin u cogghja u lippu ppe u prisiepu? ‘chi lo raccoglie il musco per il presepe?’, (loc) ve siti junciuti, pampina e cavulu e lippu e jumara ‘vi siete uniti, foglia di cavolo e musco di fiume’ (il senso del proverbio è ‘si sono uniti il Gatto e la Volpe’ e fa riferimento ad una storiella: un calabrese e un napoletano s’incontrano per strada con un sacco in spalla a testa ‘vuoi fare un affare? ho  una balla di suole’ disse il napoletano ‘guarda, io soldi non ne ho, però ho una balla di seta se vuoi ci scambiamo i sacchi’ rispose il calabrese; ‘va bene’ disse il napoletano; entrambi credono di aver fatto un buon affare, così prendono strade diverse; dopo un po’ tornano indietro perchè si sono resi conto che nei sacchi non c’era quello che speravano, nel sacco del calabrese c’era musco di fiume e in quello del napoletano  foglie di cavolo.

Liquidu 1 [agg.] Fuori di testa, picchiato, usato quasi sempre in tono scherzoso. 2 Liquido, fluido.

Liquirìżża [s.f.] Guarda lagurìżża.

Lisciàta [agg.] Nel gioco del tressette, dichiarando ‘lisciata’ stiamo comunicando che nel seme della carta che si sta giocando, non si hanno carte importanti.

Liscibbùssu 1 [s.m.] Pestata, legnate, sinonimo di passa e ciampate. 2 Nel gioco del tressette dichiarare liscibbussu significa che si ha il liscio nel seme che si sta giocando, oppure, se effettuato dopo aver preso su un ‘busso’ del compagno, significa ‘per il momento gioco così, ma non preoccuparti che ho la possibilità di ritornare nel seme da te bussato’.

Liscigghjùemi [s.m.] Termine impiegato per indicare l’insieme di rametti, foglie e arbusti, utili ad accendere il fuoco; guarda anche cutali e scucugghje.

Lìsciu 1 [s.m.] Liscio, nel gioco del tressette e della briscola rappresenta una carta di poco conto. [agg.] 2 Liscio, levigato.

Lissìa [s.f.] Liscivia, ossia soluzione detergente ottenuta filtrando un miscuglio di cenere di legna in acqua bollente, un tempo usata appunto come detersivo per il bucato; serviva anche per lavare le damigiane per il vino, le bottiglie per la passata di pomodoro, e utensili da cucina in genere; guarda anche vucàta.

Listédda [s.f.] Listella, da cui il diminutivo listicèdda ‘listarella’.

Listòrta [agg.] Rovescio, contrario, alla rovescia, sinonimo di liverza; la parola va fatta precedere da una preposizione semplice o articolata per acquisire senso, esempi: c’hai a magghja da listorta ‘hai la maglia dall’altro lato’, i penzieri ara listorta ‘i pensieri al contrario’.

Litàre [v.tr.] Lordare, sporcare, specialmente con qualcosa di liquido; niente a che vedere, nel significato, con l’identico termine italiano; guarda anche mprascàre.

Liticàre [v.intr.] Litigare, contendere e per estensione contrattare il prezzo di una merce.

Litra [s.f.] Unità di misura di capacità, nello specifico unità di misura per l’olio, pari a 2,5 litri; guarda anche staru e zirru.

Litràra [s.f.] Bighellona, scansafatiche.

Litrata [s.f.] Un litro, es.: m’aju calatu na litrata e vinu ‘ho bevuto un litro di vino’.

tria [s.f.] Lontra, Lutra lutra L.

Litròzzu [s.m.] Quantità pari ad un litro o giù di lì; il termine è impiegato per indicare che si è bevuto, tracannato, un litro di vino circa.

Litru [s.m.] Litro, il 40% di una litra.

Livéllu [s.m.] Livella a bolla d’aria.

Livèrza [agg.] Al contrario, rovescio; come per listorta (di cui sono sinonimi) la parola va fatta precedere da una preposizione semplice o articolata per acquisire senso, es.: i quazietti da liverza ‘i calzini al contrario’; il termine, pur essendo impiegato in molti ambiti, la maggior parte delle volte è invece riferito al mondo dell’abbigliamento o del cucito in genere.

Lizziàre [v.intr.] Litigare, questionare.

Lizzu 1 [s.m.] Liccio, ossia elemento del telaio che serve ad alzare ed abbassare alternativamente i fili dell’ordito. 2 Imbroglio, raggiro, es.: a Juve a binciutu ccu ri lizzi e l’arbitru, l’Inter jucannu ‘la Juventus ha vinto con gli imbrogli dell’arbitro, l’Inter giocando’ (tipica discussione da bar sport).

Lizzùsu [s.m. agg.] Imbroglione, che è incline alla frode, specie nel gioco a carte, esempi: si nu lizzusu ‘sei uno che imbroglia’, si lizzusu, u cce juecu ccu ttie ‘sei sleale, con te non ci gioco’.

Llutta [s.f.] Lotta, scontro.

Lobba [s.f.] Antico soprabito di origine spagnola assimilabile alla zimarra; oggi, se qualcuno lo usa ancora, indica un vestito molto largo.

Loccu loccu [avv.] In maniera modesta, svogliatamente; nel nostro dialetto, questa maniera, talvolta, si tinge anche di furbizia e profonda malizia, es.: si nne vena loccu loccu e me cunta ca ud è statu iddu ‘se ne viene in maniera sempliciotta e mi racconta che non è stato lui’.

Loffaràta [s.f.] Vigliaccata, mascalzonata, azione furbo-furfantesca.

Lòffaru [s.m.] Subdolo e ingannevole, come può esserlo una scoreggia non rumorosa, ma fetida.

Lòffiu [s.m.] Insulso, brutto, disgustoso; parimenti usata anche la variante lòfiu.

Logna 1 [s.f.] Lonza, arista, braciole di maiale, es.: (loc.) ce vo sucu e logna ppe sunare na zampogna ‘ci vuole sugo di nodino (di maiale) per suonare una zampogna’ (per ottenere qualcosa bisogna sudare sette camicie). 2 Colonna vertebrale, es.: (lap.) te via u te rumpi a logna! ‘possa vederti spezzare la schiena!’.

Lònciu [s.m.] Convivio, banchetto tra amici ove si mangia qualcosa di particolare.

Longa [agg.] Lunga, di lunga durata (femminile di luengu) da cui longarutu ‘di forma allungata’, esempi: cuemu è longa a sueru ‘quanto è lunga (parla tanto) la sorella’, va troppu ppe re longe ‘va troppo per le lunghe’.

Lorda [agg.] Sporca, sudicia, femminile di luerdu, es.: (loc.) povara sì, ma lorda ppecchì? ‘povera sì, ma sporca perché?’.

Lòtani [s.m.] Chi lo sa, chi può dirlo, mia nonna usava questa parola in accoppiata con sacciu; infatti, davanti a domande difficili, imbarazzanti o di poco conto, era solita esclamare sacciu lotani!, il senso che gli dava era che non sapeva niente al riguardo o non aveva voglia di rispondere; a volte colorava l’espressione con una leggera stizza, ma forse questa era una sua particolare intonazione verso questo termine; è di uso comune anche u mme cuntare lotani ‘non raccontarmi cazzate’.

Lu 1 [art.d.] Articolo determinativo singolare maschile ‘lo’, solo se la parola inizia per vocale: l’uertu ‘l’orto’, l’omu ‘l’omo’ (omo, la marca di detersivo anni ’50); molto più usata la sua forma aferetica u. 2 [pron.pers.] Pronome personale italiano lo/glielo, esempi: io lu dugnu a tutti ‘io lo do a tutti’, lil’aju (lilu aju) dittu ‘gliel’ho detto’, u llu dare ‘non glielo dare’, lu mannu a ddire ‘glielo mando a dire’ (fino agli anni ’80 del secolo scorso era usanza tra gli adolescenti, prevalentemente ragazzi, chiedere ad una terza persona, di solito una ragazza, di portare un messaggio di interessamento o fidanzamento ad un’altra persona), due l’é truvatu, intr’e patatine? ‘dove lo hai trovato, nelle patatine?’ (simpatico intercalare usato per sottolineare le scarse qualità di un oggetto posseduto o sfoggiato dall’interlocutore); guarda anche la, le, li e lile.

Lucchìettu [s.m.] Lucchetto, sinonimo di catinazzu.

Lucèrta 1 [s.f.] Lucertola, adoperato anche il diminutivo lucertìeddu. 2 Ragazzina vivace, non molto adoperato.

Lucertùne [s.f.] Lucertola di grosse dimensioni, anche se qualcuno la denota come ramarro; guarda anche faitanu.

Lucicédda [s.f.] Lucettina, lumicino.

Lucìgnu [s.m.] Il lumino dei morti, es.: (loc.) a gatta ca è mparata aru lucignu u ssi ne cura ca se vruscia l’ugne ‘la gatta che ha appreso (a farsi le unghie) al lumino (di cera) non se ne cura di bruciarsi le unghie’ (una persona che è dedita al latrocinio non se ne cura molto di finire in galera); guarda anche cirogenu.

Lucìre [v.intr.] Luccicare, risplendere, rilucere; di rado usata anche la variante lùciare, es.: guà cuemu lucia st’anieddu ‘guarda come luccica questo anello’.

Lùecu 1 [s.m.] Pezzo di terreno ove è possibile edificare, concetto molto flessibile in passato e un po’ anche nel presente, es.: su gghjuti mmeru u luecu e Beniu ‘sono andati verso il lotto di Benito’ (piccola zona posta a monte del rione Tirone). 2 Luogo, posto, es.: (loc.) quannu vo’ a donna trova u luecu, nu carru de nu strittu fa passare ‘quando vuole la donna trova il posto, un carro da una strettoia fa passare’ (la donna è abile e intelligente, se vuole è capace di raggirare bene bene il proprio uomo, specie quando lo deve cornificare).

Lùengu [agg.] Lungo, allungato, alto, esempi: nu discurzu luengu ‘un lungo discorso’, quantu si luengu? ‘quanto sei lungo?’ (alto), (loc.) le tiri u pilu cchjù luengu ‘gli strappi il pelo più lungo’ (uguale al proverbio italiano ‘gli fai un baffo’, ossia il tuo agire gli è indifferente; da notare che nel nostro dialetto il pronome “le” è sia maschile ‘gli’ che femminile ‘le’).

Lùerdu 1 [agg.] Sporco, lurido, es.: c’è luerdu nterra ‘c’è sporco per terra’. 2 Depravato, porco, es.: è nu luerdu ‘è un pervertito sporcaccione’.

Lùescu [agg.] Losco, ambiguo.

Lufànte [s.m.] Mangione, ingordo.

Lùgliu [s.m.] Luglio, settimo mese dell’anno.

Lumèra [s.f.] Lume, lucerna, es.: (loc.) si cuemu na lumera, chiddu chi te minti te mera ‘sei come un lume, quello che indossi ti sta bene’ (sei di bella presenza, sei una bella donna, ti si vede sempre, qualunque cosa indossi ti sta bene).

Lummardìnu [s.m.] Buona forchetta, leccardo, ghiottone, con sfumature di ingordigia, es.: dicimunilu, u misurachise mediu è nu lummardinu ‘diciamocelo, il mesorachese medio è uno con un grande appetito’.

Lummìeddi [s.m.pl.] I muscoli della zona lombare, in senso lato i muscoli della schiena e dei fianchi ovvero i lombi, es.: te spagni ca te cadanu i lummieddi?! ‘hai paura che ti caschino i lombi?!’ (si intercala quando si vuole rimproverare bonariamente una persona che si rifiuta di fare un certo lavoro, di solito pesante).

Lumpri [s.m.] Guarda Umpri.

Luni [s.m.] Lunedì, primo giorno della settimana; guarda anche vennari.

Luntérna [s.f.] Lanterna, lume.

Lupàra [s.f.] Il ben noto fucile a canne mozze.

Luparieddu 1 [s.m.] Generico dolore ventrale (legato al cibo) che colpisce gli animali domestici, es.: l’è piatu nu luparieddu ‘gli è preso un male al ventre’. 2 Carbonchio, infezione causata dal germe Bacillus anthracis, esempi: (lap.) te via nu cuecciu e luparieddu ‘possa vederti arrivare una pustola di carbonchio’, (lap.) chi te vorra mpacchjare nu luparieddu ‘possa colpirti un brutto male’, (loc.) nn’ai luparieddi ‘ne hai di dolori’ (a voglia, sei molto furbo); guarda anche carvunchju.

Lupinàra [s.f.] Venditrice di lupini.

Lupìnu [s.m.] Lupino, Lupinus albus L., es.: senza riganu u nne vuegghju lupini ‘senza origano non ne voglio lupini’.

Lupu [s.m.] Lupo, Canis lupus L., esempi.: ih lupu! ‘ih lupo!’ (intercalare ironico-sarcastico diffuso in tutta la Calabria, assume il significato di ‘eh bravo tu’ oppure ‘la sai lunga tu’; a livello locale è egualmente diffuso attie lupu! ‘a te lupo!’ con lo stesso significato), (loc.) a morte du lupu è a salute da piecura ‘la morte del lupo è la salute della pecora’.

Lupumannàru [s.m.] Lupo mannaro, licantropo.

Lurdìa [s.f.] Sporcizia, sozzura, lordura, variante lordìa.

Lurìenzu 1 [s.m.] Località di castagneti posta a destra del monte Giove, guardando dal piazzale del convento SS Ecce Homo. 2 Il nome Lorenzo.

Lustru [s.m.] Molta luce, luminosità, chiarore, da cui l’aggettivo lustrùsu che denota un luogo luminoso, soleggiato; da segnalare inoltre il modo di dire lustru e luna ‘chiaro di luna’, ma indica una forte luce solare e viene usato per descrivere gli abbacinanti pomeriggi estivi, es.: trasa ca ccu su lustru e luna ce mueri du cavudu ‘entra che con questo forte sole ci muori dal caldo’.

Luta [s.f.] Località montana del mesorachese, compresa tra la località chiamata Maddamme e Muntanu.

Lutrìnu [s.m.] Pesce d’acqua salata della famiglia Sparidae Pagellus erythrinus L., conosciuto in italiano col nome di pagello fragolino; corpo ovale, lunghezza media venti centimetri e, caratteristica principale, dorso color salmone. Probabilmente dal nome scientifico stesso.

Lultima modifica: 2022-03-13T10:50:57+01:00da mars.net