INTRODUZIONE

Qui potrai leggere l’introduzione all’edizione cartacea del 2017 e più giù quella del 2010. Buona lettura

INTRODUZIONE ALL’EDIZIONE DEL 2017

Sette anni fa, nel 2010, scrivevo delle preoccupazioni di organismi internazionali come l’Unesco riguardo al tasso di scomparsa delle lingue nel mondo; preoccupazioni legate all’ingente perdita che comporta il declino di una lingua, ovvero la possibile decadenza di quella società. Nell’atlante Unesco delle lingue in pericolo, compaiono trentuno idiomi per l’Italia, tredici nell’Italia meridionale inclusa la Sardegna, di cui due in Calabria ed entrambi classificati a grave rischio d’estinzione: il greco di Calabria parlato in alcune zone dell’Aspromonte e l’occitano parlato a Guardia Piemontese. Inoltre l’Unesco classifica l’Italiano del Sud (South Italian) come vulnerabile; per “Italiano del Sud” l’Unesco intende la lingua parlata, grosso modo, nel sud del Lazio e delle Marche, nella parte orientale dell’Umbria e in tutta l’Italia meridionale ad esclusione della Sicilia, della Calabria centro-meridionale e del Salento, quest’ultimi racchiusi nella lingua siciliana. Per aumentare la confusione, secondo l’Unesco sono sinonimi di “Italiano del Sud” i termini “napoletano” e “napoletano-calabrese”. Senza addentrarci ulteriormente sui sistemi classificativi dell’Unesco quello che risulta abbastanza chiaro è che in molti sono seriamente preoccupati delle continue “aggressioni” all’italiano da parte delle lingue straniere, in primis l’inglese, ma più dell’italiano sono le cosiddette minoranze a farne per prime le spese. Anche se non c’è una vera e propria tutela Unesco di questo patrimonio linguistico, risulta però ben evidente nell’atlante che la lingua napoletana (o napoletano-calabrese o Italiano del Sud), il siciliano e il veneziano sono considerate vere e proprie lingue in pericolo. Il dialetto mesorachese per motivi storico-geografici si trova ad essere influenzato a nord dal napoletano e a sud dal siciliano, assumendo caratteristiche proprie non presenti nelle altre due lingue, è per questo che lo rendono unico.

Se quindi vi sarà una perdita d’identità a livello comunitario, vi sarà di conseguenza una perdita d’identità a livello individuale, con conseguenze per il singolo molto destabilizzanti se questo processo dovesse continuare con questo ritmo. Dal 2010 nulla è cambiato, tranne due dati, uno negativo ossia è aumentato il “pericolo” e uno positivo, si fa per dire, ovvero una maggiore consapevolezza di questo grave pericolo.

Le generazioni di mezzo

Innanzitutto occorre dare individualmente dignità di lingua vera e propria al nostro dialetto, se compiamo questo passaggio vuol dire che potremo veicolare attraverso la lingua un determinato sapere, specifico di quel territorio proprio perché nato in quel territorio e la lingua ne è espressione piena; in questo modo porremmo una sana barriera all’omologazione globale.
Certo ci sono stati momenti in cui il dialetto era visto come fumo negli occhi in tutti gli ambiti, e per tutte le regioni, in quei periodi (dopo l’Unità d’Italia e dopo la fine della Seconda Guerra) la necessità era quella di unificare gli italiani sotto un’unica lingua, e quindi era molto da provinciali, se non da cafoni, parlare in dialetto: il dialetto è importante ma u tiempu du ciucciu è finito da un pezzo e siamo immersi nel cosiddetto mercato del villaggio globale, ossia si è capito che abbiamo le risorse per imparare il proprio dialetto e al contempo avere in mano una lingua straniera oltre all’italiano, in altre parole occorre trovare formule creative di coesistenza del dialetto con la modernità. La stessa Unione europea, fin dal 2002, con l’Obiettivo di Barcellona lo suggerisce a chiare lettere “fare in modo che i cittadini possano comunicare in due lingue straniere oltre che nella loro lingua madre”, ribadendo che “l’ambizione dell’Unione europea di essere unita nella diversità è alla base dell’intero progetto europeo. La coesistenza armoniosa di molte lingue in Europa ne è un esempio concreto. Le lingue possono gettare ponti fra i popoli, permettendo così di accedere ad altri paesi e culture e di capirsi meglio”. Faremmo però un errore a considerare il dialetto come appartenente al passato, perché questo lo relegherebbe a reliquia, a cosa morta da tenere in un museo; viceversa il suo uso e la sua innovazione lo terrebbe in vita in maniera robusta.

Il prezzo di un abbandono progressivo del dialetto è, come dicevo poc’anzi, la perdita d’identità a livello sociale e psicologico, se nulla verrà fatto diverremo preda facile di colonizzazioni culturali già in atto. Non serve parlare del futuro quando i problemi di cui stiamo parlando sono già in fase avanzata. Il dilemma dei cittadini meridionali, in particolare i calabresi, è che a tutti gli effetti sono popolazioni bilingue, al contrario dei cittadini centro-settentrionali che lo sono in misura molto minore. Ma il problema dov’è? Il problema riguarda sempre l’identità, avete mai notato la differenza concettuale e di sostanza che c’è tra il pensare in dialetto o in italiano? Avete notato la concreta differenza che c’è tra amare e vulire bene? Oppure tra stare bene e ricriare, o ancora tra angoscia e ammania? É tutto un universo che potrebbe scomparire, è per questo la ragione del titolo “Generazioni di mezzo”, perché siamo quelle generazioni che padroneggiano entrambe le lingue, che per quanto si somiglino e abbiano comuni origini si differenziano abbastanza tale da creare universi di significato in parte separati. Ad ulteriore riprova dell’importanza della lingua madre, il dialetto in questo momento storico, che dura da circa 150 anni, si configura come veicolo di emozioni ed affetti profondi che si perdono nel tempo, una forma di comunicazione che fa scuotere l’anima. Il dialetto ci permette di non omologarsi, di essere unici.

 

INTRODUZIONE ALL’EDIZIONE DEL 2010

Nell’epoca del tutto connesso, in breve tempo le distanze si sono ridotte velocemente, e non perché vi sia stato un rivoluzionario balzo tecnologico nei mezzi di trasporto, l’unico vero balzo può essere ascritto alla diffusione di internet e alla rivoluzione socio-culturale che questo ha comportato; le distanze, pertanto, si sono accorciate solo virtualmente, è però aumentata la consapevolezza di essere immersi dentro al cosiddetto “Villaggio Globale”. È proprio il riconoscimento di questo pensiero che ha messo in moto genuini sentimenti di legame verso il proprio territorio d’origine, ovvero spinte orientate a tutelare e preservare con cura la propria cultura, le proprie tradizioni, la propria lingua. Se è quindi più facile conoscere il pianeta su cui viviamo, non è altrettanto facile difendere e conservare gli usi e costumi di piccole realtà, minacciati quotidianamente dalla cosiddetta “globalizzazione”, la quale appare essere incontrollabile e travolgente. In questo scenario la comunicazione tende ad appiattirsi e ad uniformarsi, dialetti e lingue scompaiono ad un ritmo impressionante, tanto che l’Unesco non riesce a far fronte al declino culturale di molte popolazioni, dovuto anche ad un uso imponente delle lingue parlate dai paesi a maggior sviluppo economico e geo-politicamente influenti, l’omologazione ha come effetto quello di cancellare le differenze, con conseguente inaridimento culturale; infatti, intercalare in inglese è diventato automatico, usare internet fa ormai parte della quotidianità, ma tutto questo non è indice di sviluppo, specie se la televisione è il principale mezzo di approvvigionamento culturale.

L’interesse per il “locale” è quindi effetto non previsto della globalizzazione, infatti ha messo in luce l’importanza della propria lingua madre come espressione di cultura, dimostrazione di saperi, veicolo di usanze, tradizioni e leggende, carburante della propria storia, ingrediente fondamentale per il progresso stesso di una popolazione. È in questo contesto che le persone si rendono conto del valore culturale che hanno sotto mano, della necessità di preservarlo, valorizzarlo e difenderlo, il rischio che si corre è enorme ed incalcolabile: la perdita di identità, in altre parole è come se una buona parte della ricchezza intellettuale delle persone morisse e si trasformasse in qualcosa che non le appartiene, qualcosa di estraneo, che parla probabilmente inglese o spagnolo e indossa vestiti con etichetta “Made in China”:

Chi sa ancora parlare del mondo naturale in cui vive, chi è capace di riconoscere, e descrivere nella sua lingua il canto di un uccello sarà partecipe del suo destino. Chi, invece, sotto la pressione storica della discriminazione e dell’emarginazione viene spinto ad abbandonare il suo mondo, una volta disconosciuta e dimenticata la lingua e la cultura dei suoi antenati, acquisisce altri orizzonti conoscitivi. Questi sono, per lo più, frammentati ed incerti e, lungi dal renderlo automaticamente un cittadino di un mondo più vasto, lo caricano di ulteriori stigmi di subalternità. L’abbandono della lingua madre non fa approdare ad un pieno controllo espressivo in una lingua dominante ma, spesso, a possibilità espressive soltanto parziali, marginali, e, in quanto tali, oggetto di discriminazione”.

Non a caso quindi, importanti organismi internazionali si sono interessati a questo problema emergente, difatti il 21 febbraio di ogni anno è dedicato alla “Giornata Mondiale della Lingua Madre”, iniziativa nata in occasione della XXIX Conferenza Generale dell’Unesco nel 1999, per promuovere la diversità linguistica e culturale e il multilinguismo. Le stesse Nazioni Unite nella sessantunesima Assemblea Generale del 16 maggio 2007 proclamarono il 2008 “Anno Internazionale delle Lingue”. Nell’estate del 2007 iniziava concretamente il mio progetto di un vocabolario della parlata mesorachese.

Si stima che nel giro di qualche generazione, più della metà delle circa 6700 lingue parlate nel mondo rischino di scomparire, meno di un quarto sono oggi utilizzate nelle scuole e su internet e la maggior parte di esse solo sporadicamente. Moltissimi linguaggi e idiomi, pur essendo perfettamente appresi dalle popolazioni di cui sono il mezzo quotidiano di espressione, sono assenti o fortemente latitanti nelle istituzioni educative e formative, nei mezzi di comunicazione, nella più tradizionale editoria e nell’ambiente pubblico in generale. Pertanto, è urgente muoversi, incoraggiando e promuovendo politiche linguistiche che permettano ad ogni comunità di utilizzare la propria lingua materna il più ampiamente possibile, nello stesso tempo è altresì stringente la necessità di muovere strumenti che facilitino l’apprendimento di altre lingue, possibilmente l’italiano e altre internazionali.

In Calabria la globalizzazione è arrivata con meno tempestività del più connesso Settentrione, forse perché la nostra regione ha già dei buoni anticorpi per difendersi dalla omogeneizzazione generale, non a caso è la prima regione in Italia dove si parla maggiormente il dialetto (La lingua italiana, i dialetti e le lingue straniere, Istat 2007) e dove resistono, a volte immutate, tradizioni millenarie; ma anche in questo lembo di terra del sud Europa, gli effetti destabilizzanti della perdita di identità si fanno sentire, dovuti anche all’emorragia costante dell’emigrazione, è importante quindi escogitare strategie che salvaguardino il locale e gettino uno sguardo al globale.

Vi è da evidenziare che nell’ultimo decennio internet ha rimescolato le carte e se da un lato è vissuto come strumento di massificazione al pari (o più) della televisione, dall’altro si è rivelato un mezzo eccezionale per diffondere e sancire il primato dialettale del paese, la prova risiede nel sito web dedicato a Mesoraca. Larga parte del portale è dedicato all’universo del dialetto e delle tradizioni, in questo modo non solo i giovani che risiedono in paese, ma anche fasce di popolazione “emigrata” hanno modo di potersi ritrovare con la propria lingua madre. Si è così chiuso un paradosso, se è vero che i giovani sono la fascia di popolazione che meno parla il dialetto, è altrettanto vero che sono coloro i quali che maggiormente lo stanno salvaguardando. Oltre a motivi squisitamente tecnologici, naturalmente vi sono altri fattori che spingono verso la preservazione del patrimonio culturale, negli ultimi tempi in maniera particolare, si sono affermati motivi politici ed antropologici come i “leghismi” e il fenomeno dell’immigrazione.

Oltre a ragioni che appartengono alla sfera “macro” vi è stato un altro elemento che mi ha spinto a scrivere questo vocabolario, più semplice dei precedenti, ma altrettanto determinante e connesso. Mia moglie è nata a Milano, abitiamo a Milano, durante le feste, in estate e in altri momenti dell’anno, veniamo in paese per fare le nostre vacanze, trovare parenti e amici e, per quanto mi riguarda, trovare anche un po’ me stesso; infatti, come ogni persona, nel bene o nel male, mi trovo indissolubilmente legato alla memoria, ovvero ad una particolare forma di apprendimento precoce, irreversibile, o comunque durevole, verso il luogo dove sono nato; nei paesi anglosassoni chiamerebbero questo fenomeno imprinting geografico; ritengo psicologicamente disastroso rinunciare a qualcosa che è parte costituente dell’identità di una persona. Il dialetto è la lingua normalmente parlata in paese, questo dettaglio non sfugge ad una persona che viene da fuori, naturalmente mia moglie, essendo lei forestiera, me lo fece molto notare, così nell’estate del 2007, dopo l’ennesima discussione sull’argomento, tornai a ribadirgli il concetto che il dialetto di Mesoraca si configura come una vera e propria lingua, quindi in un certo senso, quando viene con me in Calabria è come se si trovasse in vacanza in un’altra nazione, dove l’italiano è compreso, ma è poco parlato, a conti fatti una seconda lingua. Gli comunicai che non c’era molto da fare e che doveva mettersela un po’ via, di adattarsi alle circostanze, ovvero imparare il mesorachese. In effetti, dopo quella discussione mi sentivo un po’ in colpa, perciò decisi che forse era meglio convincere i mesorachesi a me più vicini a parlare italiano. Non fu una soluzione semplice, anzi l’impresa si rivelò immediatamente ardua: al mattino successivo invitai mia mamma a parlare italiano, anche quando si trovava da sola con me (giusto per esercitarsi); la sua risposta fu che provava imbarazzo, un certo fastidio a parlarlo, cioè sentiva che quella lingua non le apparteneva e in un certo senso se ne distanziava. Aveva ragione, anche io avevo provato quel sentimento, ormai stemperato dai molti anni trascorsi al “Nord”, ma mia mamma era un passo più avanti, aveva tirato fuori un sentimento genuino, un orgoglio sincero verso la propria lingua madre e un’idiosincrasia latente verso una lingua (l’italiano) che non sentiva propria.

Decisi che il nostro patrimonio linguistico non doveva disperdersi, la soluzione fu iniziare a scrivere il volume che avete in mano. Entusiasta, comunicai a Gloria (mia moglie) l’idea, la quale, in un primo momento non ci credette poi molto, forse consapevole del fatto che scrivere un vocabolario non è così semplice e immediato. All’inizio mi sembrava di impazzire, l’euforia di annotare quanti più vocaboli possibile mi faceva soffermare su ogni parola o oggetto che la mia consapevolezza in quel momento vagliasse, quando non scrivevo registravo; il pensiero che me la sarei cavata con una trentina di pagine al massimo scomparve praticamente subito. Passai così buona parte delle vacanze, ma anche quelle degli anni successivi, scrivendo o intervistando amici e parenti, a volte chiedevo lumi su qualche parola strana che non conoscevo, altre volte mi soffermavo su nomi di località molto suggestivi, invariabilmente ficcavo sempre il naso in cucina da mia madre. Col tempo raggiunsi i miei “confini linguistici” riguardo al nostro dialetto, ossia quel limbo della propria conoscenza dove le parole del proprio idioma sfumano nell’italiano e a volte anche in alcuni termini che pur essendo familiari non hanno una precisa collocazione semantica, iniziai così ad affinare le ricerche chiedendo alle persone con cui mi confrontavo specificazioni riguardo ad alcuni dubbi e facendo poi comparazioni con i dialetti della provincia, della regione e infine con l’italiano. In ultimo, condussi alcune interviste strutturate, sia riguardo ai mestieri tradizionali sia a quelli più moderni. Da queste ricerche ne dedussi che il dialetto di Mesoraca è effettivamente particolare, e per ragioni storico-amministrative e per peculiarità specifiche del nostro territorio.

Non è qui la sede per approfondire quanto sia importante capire l’evoluzione delle parole, basta pensare alla sensazione di appagamento che lascia la lettura di un vocabolo quando insieme al suo significato viene data anche la spiegazione etimologica: ne risulta una sensazione di gratificazione psicologica, di benessere intellettuale, tale che se abbiamo posto la dovuta attenzione non ci dimenticheremo più di quello che abbiamo letto, in questa maniera si è avuto modo di collocare il termine in oggetto su più piani: grammaticale, semantico, cioè del suo significato attuale ed etimologico, ovvero la sua storia – dal greco ETIMON vero, reale e LOGOS discorso.

Durante la lettura ci si potrà accorgere che gran parte delle parole è corredata di etimo, anche quelle molto simili all’italiano di cui ben già si conosce l’origine, ma un dialetto assume le caratteristiche di una lingua nel momento in cui fa proprie le istanze delle lingue a esso più vicine e, sicuramente, il dialetto mesorachese deve molto al greco e al latino, queste ultime a loro volta ai ceppi indoeuropei e preindoeuropei; infine, andando a ritroso, a quando l’uomo ha iniziato a padroneggiare l’universo simbolico ed ha messo insieme vari significati di origine onomatopeica per creare nuovi concetti.

INTRODUZIONEultima modifica: 2022-03-12T13:54:31+01:00da mars.net