F

F [s.f.] Sesta lettera dell’alfabeto mesorachese, che è la sesta di quello latino, la cui forma maiuscola deriva dal segno Ϝ (digamma) dell’alfabeto greco primitivo, segno ch’era usato per indicare la semivocale “u̯”, conservatasi fino ai tempi storici in vari dialetti; dall’F maiuscola, per allungamento del tratto verticale, è derivata in epoca tardoromana la forma dell’f minuscola (VT).

Faccènna [s.f.] Faccenda, impegno, incombenza.

Faccìeri [s.m.] Voltagabbana, opportunista. 

Faccinnìeri [s.m.] Faccendiere, trafficone.

Faccitostìa [s.f.] Scostumatezza, immoralità sessuale, specie gli atti impuri che innocentemente compiono i bambini.

Faccitùestu [s.m.] Alla lettera ‘faccia tosta’, ossia sfacciato, scostumato, ma anche colui che compie atti impuri.

Facìgghja [s.f.] Falce, falcetto, da cui facigghjune ‘grossa falce’.

Facìre [v.tr. v.intr. v.rifl.] Fare, lavorare, realizzare, esempi: u llu facire chiddu piacire ‘non farglielo quel piacere’, ci l’avime facire senz’iddu ‘ce la dobbiamo fare senza lui’, me fazzu prievite si nivica ad agustu ‘mi faccio prete se nevica in agosto’, facitive torna amici ‘fatevi di nuovo amici’ (‘ritornate insieme’, espressione usata da una persona cara nei confronti di un membro di una coppia di coniugi che si sono lasciati, che vorrebbe ritornassero insieme); meno adoperato dell’italiano fare.

Faciùne [s.m.] Falcione, ossia la grossa falce usata in agricoltura per il taglio di vari tipi di raccolto, incluso il foraggio e l’erba; guarda anche facigghja; ormai rare persone usano questo attrezzo agricolo, sostituito dalle più potenti e moderne falciatrici automatiche.

Fadàle [s.m.] Grembiule da cucina che copre dalla vita in giù, guarda anche sinale.

Fadanédda [s.f.] Piccolo telone di materiale vario (tela grezza, stracci vari, plastica) adoperato sia in campagna che dentro casa; il suo scopo è duplice, può coprire qualcosa oppure fungere da contenitore, in tal caso può essere legato dai quattro lati.

Fagghja [s.f.] Frutto del faggio.

Faggiòla [s.f.pl.] Fagioli, Phaseolus vulgaris L.; guarda anche suraca; da notare che in italiano il termine indica il frutto dell’albero del faggio.

Fagliàre [v.tr. v.intr.] Non avere un seme nel gioco delle carte, scartare.

Fagu [s.m.] Faggio, Fagus sylvatica L., probabilmente l’albero più diffuso della montagna mesorachese, ovvero una delle principali voci dell’economia del paese.

Fàguda [s.f.] Coda di olive o castagne sul terreno, dimenticate ad un primo passaggio durante la raccolta. 

Faitànu [s.m.] Ramarro, Lacerta viridis Laurenti.

Falògna [s.f.] Ramo basso dei castagni.

Famàzze [s.f.pl.] Fogliame e rami di piccole proporzioni non idonei per riciclarli come legna da ardere; spesso l’insieme di foglie più rametti, sono considerati spazzatura, anche perché sempre più spesso sono mescolati a spazzatura vera; è usato prevalentemente al plurale.

Famìgghja [s.f.] Famiglia, es.: ppe ru bene da famigghja ‘per il bene della famiglia’.

Fangàricu [s.m.] Infame, traditore, parola del gergo malavitoso.

Fantalàta [s.f.] Grossa sberla data a mano aperta, è una sberla che sarà ricordata per molto tempo, fantalatune ne è il suo accrescitivo.

Farmose [s.f.pl.] Le more della pianta del lampone, Rubus idaeus L.

Farna [s.f.] Grosso porcino sfatto, non più commestibile fresco perché troppo maturo o pieno di vermetti, però buono da mettere al sole ad essiccare; da ricordare che i porcini secchi derivanti da farne sono quelli con il profumo più intenso.

Farza [s.f.] Farsa, buffonata, rappresentazione scenica, variante frazza.

Farżolèttu [s.m.] Fazzoletto, foulard.

Fassa [s.f.] Striscia di stoffa un tempo usata per avvolgere (fasciare) i neonati con lo scopo di fargli mantenere dritte le gambine, di preservarli dal freddo e nello stesso tempo fungere da pannolone; guarda anche mpassare.

Fassàre [v.tr.] Fasciare, variante di mpassare.

Fatìga [s.f.] Lavoro, sia nel senso di avere un impiego che nel senso di produrre uno sforzo, esempi: nn’ha fatiga! ‘ne ha di lavoro!’, ci nne vo fatiga a chidde olive ‘ce ne vuole (di) lavoro per quelle olive’, (loc.) si a fatiga forra bbona l’ordinava u miedicu ‘se il lavoro fosse buono l’ordinerebbe il medico’ (ottimo proverbio, il prossimo lo contraddice), (loc.) a fatiga se chjama fata amaru a chine le feta ‘il lavoro si chiama fata, amaro a chi gli puzza’ (il lavoro nobilita, non bisognerebbe mai disdegnarlo), (loc.) e fatighe da festa trasanu da porta e nescianu da firnesta ‘i lavori della festa entrano dalla porta ed escono dalla finestra’ (non si dovrebbe lavorare alle feste, andrebbero rispettate), (loc.) a fatiga fattila oje c’u manciare tu manci domane ‘il lavoro fattelo oggi che il cibo lo mangi domani’ (prima si lavora, si guadagna, e poi si mangia, poi se ne gode, non il contrario).

Fatigàre [v.intr.] Lavorare, adoperarsi con sforzo, esempi: (loc.) si vue ca te vo bene a furtuna e fatigare cuemu na funtana ‘se vuoi che ti voglia bene la fortuna devi lavorare come una fontana’ (se vuoi riuscire nella vita devi lavorare sodo, come una fontana senza rubinetto), (loc.) u manciare e ru vivare te sarva e ru troppu fatigare te cunzuma ‘il mangiare e il bere ti salva e il troppo lavoro ti consuma’.

Fatigàtu [agg.] Operoso, laborioso e industrioso, esempi: Murizzu è unu fatigatu ‘Maurizio è un gran lavoratore’, (loc.) aru malu fatigatu le grava u manicu du zappune ‘al cattivo lavoratore gli pesa il manico della zappa’.

Fatigatùre [s.m.] Lavoratore, serio e coscienzioso, disposto a lavorare sodo.

Fatighédde [s.f.] Località di campagna vicina a Ciceraru, alla lettera ‘piccole fatiche’.

Fatta [s.f.] Infornata di pane in numero variabile, ovvero in relazione ai chili di farina impastati; mediamente una fatta si aggira intorno ai quarantacinque pani e cinque pitte; la capienza della maggior parte dei forni è di circa 50 pani, es.: na fatta e pane ‘una infornata di pane’.

Fattarìeddu [s.m.] Storiella, favola, breve racconto, fatterello.

Favalùeru [s.m.] Varietà di fava detta anche favino (Vicia faba equina L.) o favetta (Vicia faba minor L.), usata per lo più nell’alimentazione animale.

Fàvuce [s.f.] Specie di falce adoperata per tagliare il grano.

Fàvuzu [agg.] Falso, finto, infingardo, bugiardo, sottomarca (riferito ad oggetti).

Fazìettu [s.m.] Pezzo di suola aggiunta all’esterno della scarpa per equilibrare un difetto di andatura o di appoggio.

Fedda [s.f.] Fetta, pezzo, riferito quasi esclusivamente a cose commestibili, es.: famme na fedda e capeccueddu ‘fammi una fetta di capocollo’; feddùzza o feddicèdda indicano il diminutivo ‘fettina’.

Feddiàre [v.tr.] Affettare, tagliare.

Feddiàta [s.m. agg.] Qualunque cosa fatta a fette, esempi: fa na feddiata e pane ‘fai una affettata di pane’, è feddiata ‘è a strisce’ (o a fette).

Fele [s.m.] 1 Dispiacere, amarezza, collera. 2 Cistifellea, bile, es.: (lap.) te viennu u te scatta u fele ‘che ti possa scoppiare la cistifellea’; vedi anche rizzu.

Fenza [s.f.] Barriera, recinzione generalmente di filo spinato, che indica il confine di una proprietà. Nel vuddu chiamato Truenu la fenza rappresenta(va) uno dei punti più alti da cui tuffarsi o gettarsi con i piedi.

Fera [s.f.] 1 Fiera, mercato, a Mesoraca per fiera, la maggior parte delle volte, s’intende l’esposizione settimanale di una serie di bancarelle (di numero limitato) dove si vendono prevalentemente indumenti, stoviglie e alimentari; il significato più vicino è quindi quello di mercato, infatti la durata è simile a quello quotidiano di frutta, verdura e alimentari e non è infrequente usare il diminutivo fericedda per indicarlo, esempi: domane c’è a fera ‘domani c’è la fiera’ (domani ci sono le bancarelle), (loc.) da fera te vantare quannu vieni e no quannu vai ‘della fiera ti devi vantare quando torni e non quando vai’ (prima devi vendere altrimenti sono solo parole); discorso a parte è la fiera che si tiene la quarta settimana di maggio, famosa e conosciuta col nome di fera e maju (fiera di maggio) o fera e l’Acciomu (fiera dell’Ecce Homo), dura tre giorni e si snoda lungo la strada che porta al santuario dell’Ecce Homo, un tempo fiera del bestiame, ora, a parte lodevoli iniziative a carattere artigianale con lo scopo di promuovere i prodotti locali, si tratta di numerose bancarelle simili a quelle del mercato settimanale; guarda anche Acciomu. 2 Regalare qualcosa nei periodi di fiera (specie quella di maggio) e per estensione anche nei periodi di festa, come dolci, vestiti o più frequentemente soldi, es.: ti l’ha fatta a fera mammata? ‘te l’ha fatta la fiera tua mamma?’ (ti ha regalato del denaro tua mamma?).

Feràru [s.m.] Venditore ambulante nelle fiere di paese, bancarellista.

Ferulìtu [s.m.] Ottimo fungo commestibile, conosciuto in italiano come campagnolo e scientificamente come Pleurotus eryngii De C.; guarda anche fregulazzu.

Ferrettìnu [s.m.] Letteralmente ‘piccolo ferro’, molletta (forcina) per i capelli di metallo, ferrìettu ne è l’accrescitivo ma anche sinonimo.

Ferriàta [s.f.] Inferriata, recinzione in metallo.

Ferrìettu [s.m.] Sinonimo di ferrettinu, ma anche piccolo pezzo di fil di ferro.

Fetìre [v.intr.] Puzzare, male odorare, variante fétare, esempi: (loc.) a mmerda cchjù a rimini e cchjù feta ‘la merda più la rigiri e più puzza’ (i discorsi brutti più ne parli più fanno male), (loc.) agghju ca a cipudda feta ‘aglio che la cipolla puzza’ (ripetere lo stesso errore).

Fetùsu [s.m.] 1 Traduce l’italiano ‘fetente’, persona un po’ carogna, mascalzone, con, con sfumature di slealtà e scorrettezza, esempi: si nnu fetusu ‘sei un fetente’ (sei uno stronzo), si na cosa fetusa ‘sei una cosa ripugnante’ (sei un farabutto). [agg.] 2 Riferito a qualcosa che emana cattivo odore, es.: (loc.) chine paga avanti mancia pisci fetusi ‘chi paga prima mangia pesci maleodoranti’ (se paghi prima qualcosa c’è il rischio che poi t’inculino).

Fezza [s.f.] 1 Il sedimento del vino (la feccia), particolarmente brutto a vedere, quello che si deposita nei contenitori a mano a mano che si purifica e che è abbondante al primo cambio. [agg.] 2 Persona di poco valore, merdaccia.

Ficàra [s.f.] L’uccello gruccione Merops apiaster L.

Fìcatu [s.m.] 1 Fegato, molto usato il diminutivo ficatìeddi o ficatìcchji per descrivere i fegatini di agnello o capretto da latte. 2 Coraggio, temerarietà, forza, es.: c’è vo ficatu ppe certe cose ‘ci vuole fegato per certe cose’.

Ficazzàna [s.f.] Termine per indicare i fioroni (culumpra) a Filippa.

Ficcàre [v.tr.] 1 Scopare, trombare, chiavare, esempi (tutti troglo-volgari): lil’è ficcatu? ‘l’hai scopata?’, e quann’è c’u ficchi? ‘da quand’è che non trombi?’, lu ficcu a ttie e a sorta ‘trombo te e tua sorella pure’, cumporma lu ficcava c’è rimastu ‘mentre che scopava ci rimase’ (ebbe un collasso), s’ha ficcatu na crapa ‘si è chiavato una capra’. 2 Conficcare, piantare, infilare, introdurre, inserire, incastrare, innestare.

Ficcàta [s.f.] Scopata, trombata, da cui ficcatùne ‘grande scopata’; p.p. di ficcare.

Ficu [s.m.] Fico, naturalmente sia l’albero che il frutto, invariante per il singolare e il plurale, Ficus carica L., esempi: ficu mpurnate ‘fichi infornate’, ficu nigure ‘fichi nere’, ficu grattalure ‘fichi grattalure’ (che grattano, piccole e molto saporite), (loc.) statte buenu pede e ficu! ‘stai bene albero di fico!’ (frase che si intercala quando un affare non si è concluso), (loc.) u veru amicu te stima puru ccu na menza ficu ‘il vero amico ti stima pure con mezzo fico’.

Ficunniàna [s.f.] Fico d’India, Opuntia ficus-indica L. & Mill., distinte in vari gusti e utilità, ci sono le zuccarigne bianche e molto dolci, le rosse dal sapore sciroppato e le classiche di colore arancio; alcune varietà hanno molti semi e stimolano molto l’evacuazione, infatti vengono chiamate cacalure, cioè che fanno fare la cacca.

Fidare [v.intr.pron.] Avere coraggio, sentirsela di fare qualcosa, esempi: t’a fidi u parti? ‘te la senti di partire?’, t’a fidi u l’acchjappi nculu? ‘te la senti di prenderlo in culo?’ (ironico, vedi di non rompere il cazzo), u mm’a fidu cchjù figghjarì ‘non me la sento più figliolo’, u mme fidu cchjù figghjarì ‘non mi fido più (non ho più le forze) figliolo’ (per acciacchi dovuti all’età o alla mala salute); poco adoperati gli altri significati del corrispettivo italiano.

Fìerri [s.m.pl.] Ferri, ossia gli attrezzi del mestiere, generalmente quelli del muratore, es.: duve l’è misi i fierri? ‘dove li hai messi gli attrezzi?’; il termine è impiegato solo al plurale, poiché al singolare assume altri significati.

Fìerru [s.m.] 1 Ferro, pezzo di tondino, esempi: mintace nu muerzu e fierru ‘mettici un pezzo di ferro’, (loc.) u malu fierru si nne va ccu a mola ‘il cattivo ferro se ne va (si distrugge) con la mola’ (ad ogni problema ci vuole una soluzione adeguata, oppure ‘il cattivo cristiano si consuma con le sue stesse malefatte’). 2 Ferro da stiro. 3 Pistola.

Fìetu [s.m.] Puzzo, fetore, esempi.: (loc.) a mmerda due cada resta u fietu ‘la merda dove cade resta il puzzo’ (è dove accadono le cose che restano i segni), (loc.) chiddu chi resta fa ru fietu ‘quello che rimane fa la puzza’ (le cose non risolte si fanno sentire).

Fiffa [s.f.] Fifa, paura. 

Fiffiàre [v.intr.pron.] Avere fifa, variante fiffàre.

Figghjàre [v.tr.] Figliare, il partorire degli animali, mentre per le donne viene spesso usato accattare o parturiscire, es.: ha figghjatu a gatta? ‘ha sgravato la gatta?’; il termine è impiegato anche in tono ironico o di rimprovero verso persone che hanno fama di essere poco leste o lente nel fare le cose, che si attardano, indugiano o si trattengono, può essere riferito sia a uomini sia a donne, esempi: ci’ha figghjatu! ‘ci’ha figliato!’ (ci’ha fatto un figlio, ha tardato tanto), u cce figghjare ‘non farci figli’ (non tardare, non impiegarci troppo), si manni a iddu ce figghja ‘se mandi a lui ci figlia’; cfr addimmurare.

Figghjarì [s.m.] Apocope di figghjarìeddu ‘figlioletto’, ‘figliolo’, al femminile figghjarè, per entrambi è quindi corretto scriverli anche con l’apostrofo anziché con l’accento a fine parola; il termine è impiegato prevalentemente in due occasioni, quando un genitore o una persona cara deve raccomandare qualcosa di importante al proprio figlio o ad un proprio caro, oppure quando l’interlocutore introduce nel discorso qualcosa di sensazionale, che suscita meraviglia, esempi: figghjarì va chjanu ccu ra machina ‘figlio mio (mi raccomando) va piano con l’auto’, figghjaré, u cci l’aju vista cchjù e l’aju ncugnatu nu pugnu ‘figliola, non ce l’ho vista più e gli ho assestato un pugno’ (in questo caso ‘figliola’ assume circa il significato di ‘porca puttana’ oppure ‘vaffanculo al diavolo’).

Figghjàstru [s.m.] Genero, il marito della figlia, (loc.) i niputi putali du pede e ari figghjastri u lle fare bene ‘i nipoti potali dal piede e ai generi non fargli bene’ (antico e superato, suggerimento, nel modo di rapportarsi con nipoti e generi); curiosa la discrepanza con il significato italiano (e latino) di figliastro: figlio (o figlia) di altro letto, rispetto al nuovo coniuge, che ne è patrigno o matrigna.

Figghjestròscia [s.m.] Letteralmente ‘figlio di cosa logora o da buttare’ (stroscia è anche sinonimo di puttana), vecchia volpe, figlio di puttana; guarda anche stroscia.

Figghju [s.m.] Figlio, da cui fìgghjuma ‘mio figlio’, fìgghjama ‘mia figlia, fìgghjuta ‘tuo figlio’ e fìgghjata ‘tua figlia’, esempi: u figghju e Mena a cuntrestera ‘il figlio di Filomena lingua lunga’, (loc.) alleva figghji, alleva puerci ‘alleva figli, alleva porci’ (si dice quando i figli sono troppo ribelli), (loc.) chine è figghja ara gatta surice pigghja ‘chi è figlia alla gatta sorcio piglia’ (se una mamma è intelligente anche la figlia lo sarà), (loc.) mazzi e panelle fanu i figghji belli, e ri figghi senza mazze su nu pocu pazzi ‘mazzate e panelle fanno i figli belli, e i figli senza mazzate sono un poco pazzi’ (educazione rigorosa e buon cibo sono ingredienti essenziali per far crescere bene i figli), (loc.) figghji e maritu cuemu Ddiu te manna ‘figli e marito come Dio te li manda’, (loc.) figghja figghja seda seda ca furtuna va e vena ‘figlia figlia siedi siedi che la fortuna va e viene’ (a volte il primo arrivato – fidanzato – non è quello giusto, saper pazientare porta verso una scelta migliore), (loc.) figghji picculi guai picculi figghji ranni guai ranni ‘figli piccoli guai piccoli, figli grandi guai grandi’.

Figulénza [s.f.] Prendere velocità, accelerare, a piedi lungo una discesa, oppure con un mezzo tipo una bici o un carru, es.: ueeh cchi frigulenza c’ha piatu! ‘ueeh che slancio che ha preso!’.

Figurèdda [s.f.] Immaginetta religiosa.

Filaràta [s.f.] Lunga fila di qualcosa, alberi, auto, birilli e cosi via.

Filàru [s.m.] Collana di fichi secchi, castagne sbucciate (vedi anche turdune e pastiddu), peperoncini, peperoni e così via, il suo diminutivo filarieddu descrive una collana fatta con un filo d’erba cui sono infilate le more di rovo (vedi anche ruviettu).

Filazzùelu [s.m.] Filamento vegetale a forma di filo (o spago), come le fibre che percorrono il sedano, i fagiolini, i finocchi e così via.

Filettùcciu [s.m.] Taglio di carne bovina corrispondente alla lombata, ossia la parte più pregiata dell’animale.

Filiàre [v.irr.] Lesionare, fratturare, parola adoperata esclusivamente per descrivere incrinature di oggetti rigidi, come fiaschi, damigiane, ceramiche e così via, es.: e filiatu u jascu ‘hai crepato il fiasco’.

Filiatìna [s.f.] Frattura, lesione, incrinatura.

Filicàta [s.f.] Taglio di carne della capra compreso tra il collo e la parte posteriore del dorso. 

Fìlici [s.f.] Felci, Pteridium aquilinum L., la specie maggiormente diffusa.

Filiciàru [s.m.] Soprannome dato dai mesorachesi agli abitanti di Petronà e Cerva, talvolta anche a quelli di Filippa.

Filìettu [s.m.] 1 Taglio di carne tenera situata sotto i lombi che si ricongiunge alla cularda; l’arrosto propriamente detto è chiamato filiettu strittu; nei tagli di carne suina il filiettu larigu corrisponde al muscolo compreso tra il filetto e la base del collo, carne molto tenera da cui si ricavano gustose pizzaiole. 2 Frenulo del pene.

Filìjina [s.f.] Ragnatela, tela.

Filìppa [s.f.] Frazione di Mesoraca, il cui primo nucleo fu edificato dopo il terremoto del 1832, per dare un tetto agli sfollati; la sua nascita attraversa storie che si tingono di giallo e dei misteri tipici dell’Italia che verrà. Successivamente fu abitata anche da persone indigenti provenienti da ogni parte della Calabria, in particolare dalla provincia di Cosenza. La forte espansione edilizia degli ultimi decenni ha portato alla unificazione fisica con Mesoraca, costituendo così un unico agglomerato urbano. Sorge ai piedi del monte Giove e le case lambiscono anche la zona dedicata al convento dell’Ecce Homo. I suoi abitanti si chiamano filippari. Dal punto di vista linguistico vi è da notare un maggior uso della vocale ‘o’ nel formare le parole, più vicino all’italiano, al posto della ‘u’; per maggiori dettagli si consiglia di consultare “Le origini di Filippa” di F. Spinelli.

                                  Filippa vista dal piazzale del convento dell’Ecce Homo

Filippàri [s.m.pl.] Nome degli abitanti di Filippa, filippara singolare femminile, filipparu singolare maschile, filippare plurale femminile, esempi: i filippari su parienti di filiciari ‘i filippari sono parenti dei filiciari’, olio petrolio benzina minerale se non ci date la posta qui finisce male! (slogan usato dai filippari in una manifestazione di piazza per ottenere l’apertura di un ufficio postale a Filippa, era il sei giugno del ‘74); forse è più corretto filippési, o filippìni, o filippélli, o filìppici.

Filòsufu [agg. s.m.] Filosofo, il termine acquista un sapore sarcastico quando viene riferito ad una persona che parla tanto o che la sa lunga.

Filu [s.m.] Filo, spago, filo della luce, es.: acu e filu ‘ago e filo.

Filùta [agg.] A forma di filo, in particolare l’aggettivo è riferito a tutte quelle verdure selvatiche colte giovani e che nell’aspetto sono esili, come cicueri, secre e così via; cfr larduta.

Fìmmina [s.f.] 1 Femmina, donna, signora, esempi: è passata na fimmina chi te cercava ‘è passata una donna che ti cercava’, su fatighe e fimmine ‘sono lavori da donne’, (loc.) e fimmine tenanu i capiddi luenghi e ra mente curta ‘le donne hanno i capelli lunghi e la mente piccola’ (proverbio troglo-maschilista), (loc.) e fimmine cumu su fanu e cose, e ligna cumu su fanu e vrascie ‘le femmine come sono fanno le cose, la legna come è fa la brace’ (le donne in base alle proprie abilità fanno le cose, così come il tipo di legno farà un certo tipo di brace; proverbio in odore di troglo-maschilismo), (loc.) quannu vo ra fimmina, trova u luecu e nu carru e de nu strittu ce ffa passare ‘quando vuole la donna, trova il luogo e un carro e da un(o) (passaggio) stretto ce li fa passare’ (la donna se vuole è più intelligente/furba dell’uomo), (loc.) fimmina e fierru e ueminu e pagghja ‘donna di ferro e uomo di paglia’ (non è infrequente vedere mogli toste e determinate e mariti di poco carattere), (loc.) u cridire a fimmina quannu ciancia, e quannu mmienzu a Ddiu ciancia e suspira, c’a pastura ari piedi te minta, e cuemu nu ciucciu ara timpa te tira ‘non credere alla donna quando piange, e quando in mezzo (davanti) a Dio piange e sospira, che la pastoia ai piedi ti mette, e come un asino alla rupe ti lancia’ (meglio non fidarsi delle donne), (loc.) a fimmina è cuemu u carvune, astutata te tincia, appicciata te vruscia ‘la donna è come il carbone, spento ti sporca, acceso ti brucia’ (la donna è pericolosa perché corrompe l’animo nobile degli uomini onesti; altro troglo-proverbio sessista). 2 Come nell’italiano, per similitudine in alcuni arnesi si chiama ‘femmina’ quello che ne riceve un altro in sé.

Fimminamòrta [s.f.] Il monte Femminamorta, situato al confine nord-ovest del territorio comunale.

Fimminàru [s.m.] Donnaiolo, dongiovanni.

Fimminèdda [s.f.] 1 Femminuccia, donnina, ma anche donna piccola nelle dimensioni. 2 Ricchione, ragazzo effeminato.

Fimminìeddu [s.m.] Omosessuale giovane, ‘femminello’, gay, ma forse il vero ‘femminello’ è da identificare in una persona con identità transgender, invece che omosessuale.

Fimminìnu [agg.] Femminile, oggetto o vestito adatto, o destinato a donne.

Fimminùne [s.f.] Donna di altezza considerevole, ma soprattutto ‘gran gnocca’, donna molto attraente, es.: cchi fimminune, chi pezz’e cunnu ‘che gnocca, che pezzo di figa’. 

Fina [prep.] Fino a, unione dell’avverbio finu e della preposizione a, è anche corretto scrivere fin’a; spesso nel parlato la preposizione a è pronunciata con un suono leggermente allungato (fin’aa) e fa da ponte alla parola successiva, esempi: aspetta fin’a(a) quannu ud arriva sorta ‘aspetta fino a quando non arriva tua sorella’, (loc.) fina chi u cane caca, a vurpa si nne gghjuta ‘sino a che il cane caga, la volpe se n’è andata’ (certe occasioni vanno prese al volo); guarda anche finu. 2 [agg.] Raffinata, elegante.

Finammò [loc.avv.] Finora, fino a questo momento, parola composta da finu, a e mo, es.: fin’a mmo u sse bbistu ‘fino ad adesso non s’è visto’.

Finiscìre [v.tr.] Finire, terminare, variante finìsciare, esempi: finiscia e manciare ‘finisci di mangiare’, vida u t’a finisci ‘vedi che te la finisci’ (vedi di smetterla), ti l’e finiscire ‘te la devi finire’.

Finocchjàstru [s.m.] Sorta di finocchio selvatico non commestibile.

Finta [s.f.] Termine sartoriale, impiegato anche in italiano, che denota il lembo di stoffa che simula una tasca o nasconde gli occhielli di un vestito; a Mesoraca indica anche la zona della chiusura lampo della vita, viene detta finta di destra e di sinistra.

Fintàsi [avv.] Nel frattempo, fintantoché, es.: fintasi chi scuerciu e fave sedate dduecu ca pue jamu de ddà ‘intanto che sbaccello le fave siediti qui che poi andiamo di là’.

Finu [agg.] 1 Fine, colto, elegante, persona raffinata, anche in senso figurato, acuto, sensibile, esempi: avie vidire cum’era finu u sposu ‘dovevi vedere com’era elegante lo sposo’, u cumpari Santu è unu finu, vida ppe nnu fai u bifaru ‘il compari Santo è uno fine (e sensibile), vedi di non fare il tamarro’. 2 Sottile, di dimensioni molto piccole, ma anche di lavoro fatto con cura, esempi: tagghjalu finu finu ‘taglialo sottile sottile’, è troppu finu su filu ‘è troppo sottile questo filo’, l’orologiaju è nu lavoru e finu ‘l’orologiaio è un lavoro di precisione’. [s.m.] 3 L’intonaco fine di calce spugnata passato col pialletto da muratore, passamu u finu e pue putiti pittare ‘stendiamo il fine (l’intonachino) e poi potete imbiancare’. [avv.] 4 Fino, sino, nel senso di limite spazio-temporale, è quasi sempre legato ad una preposizione semplice alla quale si lega anche foneticamente (guarda fina), delle volte è pronunciato separatamente (finu a) per sottolineare meglio ciò che si sta affermando, esempi: finu a (oppure fin’a) quannu u tt’u dicu iu ‘fino a quando non te lo dico io’, vaju finu aru (oppure fin’aru) Ponte ‘vado fino al Ponte’, finammò u nn’aju truvatu ‘fino ad adesso non ne ho trovati’.

Finùecchju [s.m.] 1 Gay, omosessuale. 2 Finocchio, Foeniculum vulgare Mill., una delle spezie fondamentali del nostro territorio, insieme all’origano e al peperoncino, trova impiego in molti preparati, dagli insaccati alla pasta e patate, esempi: jure e finuecchju ‘fiore di finocchio’ (ovvero i semi), finuecchju e timpa ‘finocchio di timpa’ (finocchietto selvatico), (loc.) vai a finuecchji e timpa ‘vai a finocchi di rupe’ (vai in cerca di scuse, pretesti); il finocchio dolce è una varietà cultivar con radice a fittone.

Pasta e patate ccu (ggh)jure e finuecchju per 4 persone. Ingredienti: sedano, olio, 550 grammi di patate della Sila, una cipolla di Tropea, origano di Vardaru, sale, mezzo dado (a piacere), due pomodori pelati, due foglie di basilico, pepe, semi di finocchio selvatico, pecorino grattugiato e a piccoli pezzi, mezzo chilo di pasta chiamata ditalini o lumachine – o quella che si ha. Procedura: soffriggere tutto tranne il basilico (che va aggiunto dopo aver messo l’acqua), aggiungere i pelati, quindi acqua calda in quantità sufficiente per farci cuocere la pasta, quest’ultima deve essere aggiunta dopo 20 minuti di cottura a fuoco medio. Un minuto prima di spegnere aggiungere qualche pezzettino di cacio e servire con una spolverata; in alternativa si può mettere il riso, in tal caso non va messo il finocchio selvatico, ma si perde un aroma basilare.

Firme [s.m.inv.] Film, pellicola, da cui l’accrescitivo firmùne ‘filmone’, che fino a qualche tempo fa significava un particolare genere cinematografico, ossia i kolossal americani anni ‘50, esempi: e solitu e luni facianu u firmune ‘di solito di lunedì facevano il kolossal’, firme e pilu ‘film di pelo’ (film porno); è impiegato anche il diminutivo firmicieddu per indicare ben tre generi diversi: un film scarso, un telefilm e con meno frequenza una soap.

Firnèsta [s.f.] Finestra, da cui il diminutivo firnestèdda e firnestàle ‘finestrale’.

Fiscèdda [s.f.] Piccola cesta in giunco di forma cilindrica, fino a qualche anno fa usata dai pastori (e nei caseifici artigianali) per contenere la ricotta fresca; guarda anche juncu e vruddu.

Fiscénna [s.f.] Canovaccio contenente il cibo per chi si reca a lavorare in campagna, il pranzo dei braccianti; guarda anche stiavuccu.

Fiscinédda [s.f.] Cestino in vimini (salace) munito di coperchio che si fissa con un legnetto, adoperato per il pranzo (o colazione) di campagna.

Fissa [s.m.inv.] 1 Fesso, ingenuo, poco furbo, molto meno usata la forma al maschile fissu, con ogni probabilità quella al femminile nasconde un ulteriore pregiudizio legato al genere, esempi: si nu fissa ‘sei un coglione’, (loc.) u fissa parra sempre ppe primu ‘il fesso parla sempre per primo’; cfr ciuetu. 2 Vagina, topa, il termine è impiegato più a Crotone e paesi vicini che a Mesoraca, es.: a fissa e mammata (a fiss i mamta in crotonese) ‘la figa di tua mamma’.

Fisserìa [s.f.] Fesseria, sciocchezza, castroneria.

Flippàtu [agg.] Rincretinito, stordito, fissato, per sua natura o per l’assunzione di sostanze, inaffidabile, p.p. di flippare, il termine era in voga negli anni ’80, es.: s’è flippatu ‘si è rincoglionito’ (ma anche ‘si è bloccato’ a causa di una droga).

Foca [s.f.] Piccola vescica che si produce in seguito ad una scottatura; cfr mpudda.

Fòcara [s.f.] Falò, grosso fuoco, da cui il diminutivo focarèdda. La focara per eccellenza è quella che ogni parrocchia accende, nel piazzale antistante la chiesa, la sera del 24 dicembre; tale usanza ha origini precristiane.

Focarìeddi [s.m.] Alla lettera ‘focherelli’, suggestivo piccolo rione, ruga, situato lungo via Magna Grecia; guarda anche veranne.

Foculàru [s.m.] Guarda fuecularu.

Fòncia [s.f.] Minchia, pene ma usato solo in termini figurati, es.: (A) me mpriesti 50 euri? (B) sta foncia ca te mpriestu! ‘(A) mi presti 50 euro? (B) sto cazzo che te li do!’.

Fore [avv.] 1 Fuori, all’esterno, es.: (loc.) pennu ddire bonasira resta de fore ‘per non dire buonasera resta di fuori’ (proverbio riferito a persona molto timida). [s.m.] 2 Campagna, terreno agricolo, es.: jiu fore ‘andò in campagna’.

Forgia [s.f.] 1 L’officina del fabbro. 2 Piccolo rione di Mesoraca compreso all’interno del rione Tirune e confinante con la zona del Timpune.

Forterìzza [s.f.] Robustezza, solidità.

Forzicùtu [agg.] Forzuto, che ha molta forza muscolare.

Fosfaru [s.m.] L’elemento chimico fosforo, variante fosforu, es.: c’eranu operai subra a centessei chi vrusciavanu fosfaru ‘c’erano operai sulla (statale) 106 che bruciavano fosforo’.

Fraccòmmidu [s.m.] Poltrone, uno che lascia lavorare gli altri, che se la prende comoda, spensierato.

Fràcidu [agg.] 1 Fradicio, intriso di liquido (in genere d’acqua), inzuppato. 2 Marcio, putrefatto. 3 Malaticcio, persona malata nelle vie respiratorie.

Fracidùme [s.m.] Oggetto di scarso valore, come può esserlo un’auto, una casa.

Fragalànza [agg.] Termine usato per indicare un’azione fatta con nonchalance, arroganza e prepotenza, senza curarsi delle altrui conseguenze, variante fracalanza.

Fragalàsciu [s.m.] Frastuono, grosso rumore, variante fragalàssu.

Fragàssu [s.m.] Frettazzo, ma anche pialletto, appianatoio, fragàsciu e fracàssu ne sono varianti.

Fragasciàre [v.tr.] Spianare la malta col frettazzo.

Fragragnàta [agg.] Contusa, ammaccata, acciaccata da una caduta o per dolori generalizzati.

Fràgula [s.f.] 1 Favola, racconto, fragulìdda ‘piccola fiaba’, ‘storiella’. 2 Fragola, Fragaria vesca L., da cui fragulìdda ‘fragolina’.

Frajìdda [s.f.] Scintilla, favilla, variante fajìdda.

Franciàre [v.tr.] Graffiare, lacerare, es.: m’aju franciatu a nnu spinaru ‘mi sono graffiato ad un rovo’.

Franciùne [s.m.] Graffio, abrasione, unghiata.

Francu [s.m.] 1 Fianco, fiancata, es.: (lap.) chi vorre parrare di franchi cuemu e cicale ‘che tu possa parlare dai fianchi come le cicale’ (lapide che si intercala quando una persona parla tanto). 2 Località di campagna e quartiere di Filippa, lungo la strada che porta a Petronà, situata poco dopo il bivio del santuario dell’Ecce Homo. 3 Il nome Franco.

Frannìna [s.f.] Panno o tessuto di lana pesante.

Frassinìtu [s.m.] Località di campagna di Mesoraca in posizione sud-est rispetto al comune.

Frate [s.m.] Fratello, variante fratìeddu, da cui fraticìeddu ‘fratellino’, ma anche fràtimma ‘mio fratello’ e fràtitta ‘tuo fratello’, es.: (loc.) i frati su nimici pagati ‘i fratelli sono nemici pagati’ (talvolta sono proprio i fratelli ad essere più stronzi; uno zio che non c’è più aggiungeva i frati stanu aru cummientu ‘i frati (i monaci) stanno al convento’.

Fraticì [s.m.] Apocope di fraticieddu, guarda frate, usato quando un fratello, una sorella o una persona cara deve raccomandare qualcosa di importante al proprio fratello o ad un proprio caro, es.: fraticì mi l’aju vista brutta aru militare ‘fratellino mio, me la sono vista brutta al militare’; guarda anche soricedda.

Fratta [s.f.inv.] Frazione del comune di Mesoraca, abitata solo d’estate, situata a circa 1500 metri slm. Il recente arrivo della rete elettrica (nel 2007) potrebbe favorire lo sviluppo turistico, se a questa si unisse anche il rifacimento della vecchia strada. Certo il turismo apporterebbe nuove risorse al paese, e questo è sicuramente un bene, ma questo dovrebbe coniugarsi con uno sviluppo cosiddetto sostenibile, sentimento che non sempre alberga il cuore dei mesorachesi, emigrati inclusi. A Fratta, fino alla prima guerra mondiale, non vi era alcun insediamento, dopo poco fu edificata la caserma forestale, mentre la prima piccola baracca fu costruita dalla famiglia Mauro intorno agli anni venti del secolo scorso per “mutazione d’aria”, ossia alloggio adibito per una o più persone affette da tubercolosi o malaria; la prima famiglia ad abitarci d’estate (per villeggiatura) fu invece la famiglia Le Piane. Dalla seconda metà dell’Ottocento lavoravano in località Fratta, che è anche un ruscello, i cosiddetti mannisi, boscaioli provenienti da Cosenza (i Le Piane e i Serravalle) insieme ad altri taglialegna mesorachesi; dal legname se ne ricavavano tavole che venivano rivendute a ditte terze dopo averle lavorate e trasportate con asini e muli, e carbone che veniva rivenduto anche in paese; dopo la prima Grande Guerra venivano lavorati anche utensili come pale per il forno, manici per piccone, e madie che venivano escavate direttamente da un tronco. Solo dopo la seconda guerra mondiale, alcune ditte familiari mesorachesi iniziarono a sfruttare il bosco della montagna per farne legna da ardere, (testimonianza del signor Giuseppe Carvelli alias Chjirichedda, nato nel 1909, il quale ha visto nascere il villaggio; dai suoi genitori veniva portato in Fratta ancora in fasce).

Frattìna [s.f.] Macchia folta e intricata di sterpi o alberi giovani cresciuti disordinatamente, ma anche terreno impervio coperto di arbusti.

Fravìca [s.f.] 1 Casa nuova non rifinita di fino, ovvero lo scheletro. 2 Cantiere edile.

Fravicàre [v.tr.] Costruire, edificare, es.: m’aje fravicare a casa ‘mi devo costruire la casa’.

Fravicatùre [s.m.] Muratore, edile, carpentiere.

Frazzàru [s.m.] Personaggio carnevalesco, ossia tipico travestimento dei ragazzi, caratterizzato dall’avere addosso vecchi vestiti dei nonni e scarpe vecchie e grosse, personaggio spesso avvinazzato; guarda anche nannu.

Fregulàzzu [s.m.] Pianta erbacea molto comune nella nostra marina, conosciuta in italiano col nome di ferula e scientificamente come Ferula communis L., presenta fiori gialli e fusto alto da uno a cinque metri circa; alla base somiglia al finocchio selvatico ed è diffusa sopratutto nei terreni incolti e ai bordi delle strade. Dalla letteratura scientifica è considerata tossica, ma questo dato è contrastante poiché fino a non molto tempo fa a Mesoraca dal suo fusto si realizzavano tappi per damigiane, inoltre sulle sue radici cresce un fungo molto apprezzato (feruliti); nasce in primavera e muore con l’arrivo del freddo.

Fregulazzu

Fresa [s.f.] Fetta di pane casaluru abbrustolito simile alla bruschetta.

Fresìna [s.f.] Biscotto casareccio dall’aspetto simile al viscuettu, però dolce e di diametro più piccolo. La ricetta è praticamente identica a quella delle cuzzupe amare, tranne qualche piccola variazione nelle proporzioni degli ingredienti e nella modalità di cottura. Ingredienti: farina 00 (tennara, 40%) e di grano duro (accappellu, 60%), 5 uova, 350 grammi di zucchero, 250 cl di olio, 350 grammi di lievito madre (levatu), 20/30 grammi di semi di anice, un pizzico di sale. Procedura: sciogliere la levatina con un po’ d’acqua tiepida, sbattere le uova in un contenitore a parte, aggiungere poi la farina e tutto il resto e impastare bene, quindi fare delle piccole ciambelle (taraddi, cuddurieddi) e infornarle; toglierle a metà cottura dopo 15/20 minuti a 250 gradi nel forno da pane (quando inizia la doratura), spaccarle longitudinalmente con una forchetta e infornarle nuovamente per altri 15/20 minuti.

Fressùra [s.f.] Padella, da cui fressurìeddu ‘padellino’, ‘tegamino’, fressuràta indica invece una gran quantità di cibo fritto, come il classico patate e spagnueli ‘patate e peperoni’, vera prelibatezza se saputa preparare.

Frevàru [s.m.] Febbràio, secondo mese dell’anno, esempi: (loc.) frevaru menzu duce e menzu amaru, dipinge e donne belle ari vignani ‘febbraio mezzo dolce e mezzo amaro dipinge le donne belle agli ingressi delle case’ (poiché a febbraio le donne iniziano ad uscire con i primi caldi e si mettono a tessere davanti alle abitazioni, tali da somigliare a dei dipinti), (loc.) frevaru curtu e amaru ‘febbraio corto e amaro’ (anche se corto fa ancora molto freddo); cfr vignanu.

Freve [s.f.] Febbre e per estensione influenza, esempi: (lap.) chi te via na freve maligna ‘che ti possa vedere con una febbre maligna’ (febbre mortale, ossia la febbre provocata dalla malaria e più anticamente quella provocata dalla peste; oggi la “febbre maligna” indica una malattia genetica denominta ipertemia maligna), (lap.) brutta chi te puertu n’odiu mortale, a facce tua u ra vuegghju cchjù bbidire, na freve maligna te vorra mpacchjare, sorta e mammata u te portanu aru spitale, nu miedicu te possanu ordinare, a sputazzedda mia ppe te curare, io ppe sett’anni u bbuegghju sputare, ppe lu gran core e la gran pena chi puerti, ppe te fare murire ‘brutta che ti porti (dentro) un odio mortale, la faccia tua non la voglio più vedere, una febbre maligna volesse colpirti, tua sorella e tua mamma che ti portino all’ospedale, un medico ti possano ordinare, la salivetta mia per curarti, io per sette anni non voglio sputare (parlare), per il gran cuore e la gran pena che porti, per farti morire’ (lapida molto “sentita” rivolta ad una ex amata); da sottolineare la cosiddetta freve e criscimugnu ‘febbre dello sviluppo’, è la febbre che prendono i bambini preadolescenti, dura massimo tre giorni e per circa due/tre volte in tutto; alcune la chiamano febbre senza malattia.

Fricapòpulu [s.m.] Alla lettera “frega-popolo”, ossia persona che ruba (frica) alla comunità (populu) dove vive un bene o un servizio che non gli spetta.

Fricàre [v.tr.] 1 Rubare, sgraffignare, fregare, esempi: m’anu fricatu a brożża ‘mi hanno rubato la borsa’, l’anu fricatu puru e cassalore! ‘gli hanno sgraffignato pure le pentole!’. 2 Rovinare, rimanere danneggiati, rimanere fottuti, esempi: ti l’e fricatu ‘te lo sei giocato’ (lo hai rotto, lo hai perso; il contesto chiarisce questo esempio, può significare anche ‘te lo sei rubato’), sugnu fricatu e capu ‘sono fregato di testa’ (sono toccato, pazzo), si bbulùtu partire, e mmo frìcate! ‘sei voluto partire, e adesso fottiti!’ (sono cazzi tuoi), m’aju fattu fricare ‘mi sono fatto abbindolare’, (loc.) si vue fricare u vicinu curcate priestu e levate u matinu ‘se vuoi gabbare il tuo vicino coricati presto e alzati (al primo) mattino’ (così ti avvantaggi). 3 Scopare, avere un rapporto sessuale; poco usata questa accezione, viene preferito ficcare. [v.intr.pron.] 4 Fregarsene, non importarsene, disinteressarsi, se riferito ad un oggetto o ad un’azione assume il significato di ‘non servire a niente’ o anche essere inflessibile, sinonimo di nagghjàre, esempi: u mmi nne frica nente e tie ‘non me ne frega niente di te’, ti cce frichi a Milanu!? ‘ti ci fotti a Milano!?’ (che minchia ci devi fare a Milano!?), fricatinne da fatiga, ppe mo divertate ‘fregatene del lavoro, per adesso divertiti’, (A) m’aju accattatu nu libru (B) ca tu frichi (A) ‘mi sono comprato un libro’ (B) ‘che te lo fotti’ (non te ne fai nulla), tu frichi ca t’allieni e ppue u gghjuechi ‘non serve a niente che t’alleni se poi non giochi’; guarda nagghjare e ncarricare per completare il senso dei prossimi tre esempi: u tti nne fricare tu (ca pue fai i cunti ccu mie) ‘non te ne sbattere tu (sottinteso, che poi fai i conti con me)’, ti nne frichi! ‘te ne freghi!’ (complimenti!), ti nne mmal’e frichi! ‘te ne male e freghi!’ (cazzo come sei cocciuta!), fricatinne tu! (plurale fricativinne vue!) ‘fottitene tu! (plurale fottetevene voi!)’.

Fricàta [s.f.] 1 Fregatura, delusione. 2 Scopata, trombata, chiavata. 3 [v.tr.] Particpio passato di fricare prima accezione.

Fricàtu [agg. s.m.] Alla lettera ‘fottuto’, p.p. di fricare, ossia persona fuori di testa, matta, che ha problemi a fare connessioni razionali, es.: è nu fricatu e capu ‘è un fottuto di testa’ (è un folle/squilibrato).

Fricatùra [s.f.] Fregatura, imbroglio, raggiro.

Friculiàre [v.intr.pron.] Stuzzicare, rompere i coglioni, infastidire, maneggiare male o nervosamente un oggetto, in generale recar noia a persone, cose o animali, esempi: u ru friculiare ca te muzzica ‘non molestarlo che ti morde’, u mme friculiare a minchja ‘non rompermi il cazzo’, e tantu chi l’ha friculiatu s’è ruttu ‘da tanto che l’ha maneggiato si è rotto’.

Fricùne [s.m.] Truffatore, imbroglione, persona che cerca di arraffare il più possibile, anche nel fare la spesa, es.: Mena, quannu fa a spisa e nna fricuna ‘Filomena, quando fa la spesa è una mezza ladra’.

Friddu [agg. s.m.] Freddo, gelato, esempi: chjuda ca trasa u friddu ‘chiudi che entra il freddo’ (sconvolgimento del secondo principio della termodinamica), friddu amaru ‘freddo amaro’ (intenso); come in italiano indica anche una persona distaccata, formale, poco empatica.

Friddulùsu [agg.] Freddoloso, persona che soffre molto il freddo; variante friddùsu.

Frijìre [v.tr.] Friggere, cuocere nella fressura, esempi: frijimu i pisci ‘friggiamo i pesci’, (loc.) aru friire paru l’ova ‘al friggere (dell’olio) butto giù le uova’ (con i risultati alla mano si giudica l’operato di una persona).

Frinci [s.m.] Scarti di stoffa prodotti durante il taglio dei vestiti, anche resti di vari tessuti.

Frìnguli [s.m.pl.] Usato quasi esclusivamente al plurale, viene ripetuto due volte e significa ‘pezzetti pezzetti’ (ritagli, lacerti), riferito anche a persone, es.: (lap.) te fazzu fringuli fringuli ‘ti faccio brandelli brandelli’.

Frisca [agg.] 1 Fresca, fredda. [v.tr.] 2 Fischia, indicativo presente terza persona singolare (o imperativo seconda persona singolare) del verbo fischiare.

Friscàre [v.intr.] Fischiare, fischiettare, anche usando uno strumento o le mani.

Friscàtula [s.f.] 1 Polenta, farinata. [s.f.pl.] 2 Cose di poco conto, inezie, pinzillacchere, piccola bugia, friscatule.

Frischéra [s.m.] Tettoia fatta con le frasche, per fare fresco appunto.

Frischiàre [v.intr.pron.] Iniziare a fare fresco, cioè l’aria comincia a raffreddare’, specie in autunno inoltrato, esempi: a sira cumincia a frischiare ‘la sera inizia a far freddo’, oje frischia ‘oggi fa più freddo’.

Frischìetti [s.m.pl.] Alla lettera ‘fischietti’, ossia tipo di pasta, simile alle penne non rigate ma molto più grandi, dalla caratteristica forma somigliante all’imbocco del piffero.

Frischìettu [s.m.] Fischietto, flauto, piffero, di solito fatto utilizzando un pezzo di canna, ma esistono varianti in legno, corteccia, legno bucato, quest’ultimo usando legno di alberi dal midollo morbido; in ultimo il frischiettu ad acqua di piccole dimensioni ed in terracotta, usato da bambini e ragazzini; il suono prodotto somiglia a quello degli uccelli.

Friscu [s.m.] 1 Fresco, freddo, da cui friscusu ‘frescoso’. 2 Ombra, frescura, es.: mintimune aru friscu ‘mettiamoci all’ombra’. 3 Fischio, ma anche indicativo presente prima persona singolare di fischiare, es.: falle nu friscu ‘fagli un fischio’.

Frisculiàre [v.intr.] Come frischiàre, ma in forma più attenuata, da cui la terza persona singolare (molto usata) frisculia ‘fa freddino’.

Frìsculu [s.m.] Contenitore a forma di ciambella molto piatta, lungo circa un metro, fatta di materiale filtrante (vimini, corda, materiale plastico), usata nei frantoi per la torchiatura e per impedire alla pasta di olive di fuoriuscire; la pila per la torchiatura è formata da un disco d’acciaio dello stesso diametro, poi un frisculu, la pasta d’oliva, un altro frisculu, infine un altro disco d’acciaio; viene creata così una colonna che cresce lungo l’asse centrale del torchio.

Frìsuli [s.m.] Ciccioli, ossia i resti delle frittule usati anche per fare la tradizionale pitta ccu frisuli, ovviamente ottimi anche col pane; guarda anche jelatina. Ingredienti: i rimasugli delle frittule, aggiungere qualche pezzetto di altra carne più pregiata (spalla, pancetta, lardo), sale. Procedura: scolare tutti i rimasugli, levare i pezzetti di ossa e quindi riporli in dei barattoli di vetro o terracotta; per migliorare la conservazione mettere del grasso sopra e del sale ulteriore.

Frittàtica [s.f.] Frittata, esempi: na frittatica ccu re cipudde ‘una frittata con le cipolle’, a frittatica da matina e Pasqua ‘la frittata della mattina di Pasqua’ (tradizionale e sostanziosa frittata preparata e mangiata la mattina del giorno di Pasqua; pronta già verso le dieci, in questa maniera l’ora del pranzo inevitabilmente si sposta nel primo pomeriggio. Ingredienti: uova, asparagi selvatici, ricotta fresca locale, salsiccia o soppressata, pecorino, sale, pepe, olio. Procedura: tagliare a pezzetti gli asparagi e sbatterli insieme alle uova, unire un po’ di sale e di pepe; nella padella mettere a soffriggere la soppressata tagliata a pezzetti insieme alla ricotta, quando raggiungono la prima doratura aggiungere le uova con gli asparagi e finire la cottura a fuoco più basso; servire con una spolverata di pecorino).

Frìttule [s.f.] Frattaglie di maiale bollite, cucinate in occasione della macellazione del medesimo, naturalmente si possono comprare i vari tagli direttamente in macelleria, ormai sono rimaste poche persone che allevano il maiale durante l’anno. Ingredienti: ossa di tutto il corpo del maiale, cotiche, orecchie, tutte le parti grasse non utilizzate tagliate a pezzi, piedi e stinchi, la lingua, reni, milza e la cuddura (grasso interno addominale e peritoneale, è in questa fascia che ci sono gli armulicchji), sale. Procedura: mettere le ossa e tutto il resto in una quadara e colmare d’acqua; dopo la schiumata far bollire a fuoco lento per due ore, all’ultimo quarto d’ora aggiungere il sale, non prima altrimenti la carne tende ad attaccarsi alla quadara. Servire i pezzi ben caldi insieme a verdure cotte, olive alla sarzetta, funghi, giardiniera, peperoni sotto aceto, cipolle in agrodolce e pane di giornata.

Frittuliàre [v.tr.] Pappare, mangiare in abbondanza, sbanchettare, il verbo all’infinito è molto poco adoperato, il modo più usato è il p.p. frittuliàtu ‘sbafato, pappato’, es.: m’aju frittuliatu na cassarola e pasta ‘mi sono mangiato una pentola di pasta’; talvolta il termine è usato figurativamente al posto di ‘frottole’, con ogni probabilità per semplice assonanza, es.: u mme cuntare frittule ‘non raccontarmi storie’.

Fròsciu [s.m.] Frocio, gay, es.: (loc.) debule e culu frosciu e sicuru ‘debole di culo frocio di sicuro’ (poiché, scherzosamente, vi è la credenza che dando un pizzicotto sul sedere ad un uomo si può scoprire se quest’ultimo è omosessuale, ossia, se dal pizzicotto la persona si ritrae sentitamente, allora non vi sono dubbi circa la sua inversione).

Frufrù [s.m.] Wafer, il famoso biscotto.

Frunta [s.f.] Fronte, osso frontale, es.: sparale intr’a frunta ‘sparagli in fronte’.

Frùsciu [s.m.] 1 Colore, nel gioco della primiera. 2 Getto d’acqua, schizzo, zampillo, es.: (loc.) quannu u cielu e russu o vientu o frusciu ‘quando il cielo è rosso o vento scroscio’ (della pioggia).

Frusciuliàre [v.intr.] Nel gioco della primiera aspettare il colore, ovvero essere in attesa di un frusciu.

Frussiòne [s.m.] Forte congestione delle vie aeree superiori, simile ad in grosso raffreddore, generalmente accompagnata da catarro.

Frustùne [s.m.]  Lungo bastone, in genere di castagno, impiegato in agricoltura per bacchiare le olive, indica anche il fusto del finocchio selvatico e per estensione una persona alta e magra; guarda anche derramare.

Fucùne [s.m.] Canna fumaria, es.: é piatu u fucune ‘ha preso il camino’ (si è incendiata la canna fumaria).

Fudda [s.f.] Folla, moltitudine di persone.

Fuddùne [s.m.] Giaciglio, letto, es.: (lap.) chi te vorranu acchjappàre i granchi intr’u fuddune ‘che ti possano acchiappare (arrivare) i crampi dentro al letto’ (che tu possa star male anche dove dormi).

Fùecu [s.m.] Fuoco, focolare, esempi: (loc.) chine avetta fuecu campau, chine avetta pane muriu ‘chi ebbe fuoco campò, chi ebbe pane morì’ (non sempre avere da mangiare ti salva dalla morte, ci sono le intemperie, le malattie e la sfiga in genere), (loc.) si nu fuecu sutta a cinnara ‘sei un fuoco sotto la cenere’ (persona che rompe le scatole anche se apparentemente ha la faccia di uno che non lo fa), (loc.) chine tena bisuegnu du fuecu u va cercannu ‘chi ha bisogno del fuoco lo va cercando’ (chi è veramente interessato a qualcosa si muove in tal senso), u fuecu è buenu tridici vote all’annu ‘il fuoco è buono tredici volte all’anno’ (un tempo il fuoco era praticamente l’unica fonte energetica, serviva a fare tutto). Si dice che quando il fuoco fa rumore di fiamma qualcuno sta parlando male di noi, mia nonna materna commentava con il seguente proverbio chine parra buenu, bene le va, chine parra male, male le va ‘chi parla bene, bene gli andrà, chi parla male, male gli andrà’.

Fueculàru [s.m.] Focolare, tinello, molto connesso al termine furnaggia, come in italiano ha anche il significato esteso di ‘casa’, variante foculare, esempi: e suzizze l’arrustimu aru fuecularu ccu a gravigghja ‘le salsicce le arrostiamo al focolare con la griglia’, (loc.) chine u ffa cinnara aru focularu sue mala fine fa ‘chi non fa cenere al proprio focolare fa una brutta fine’ (è cattivo presagio chi non sta bene a casa propria), (loc.) a prima ducazione vena du focularu ‘la prima educazione arriva dalle mura domestiche’.

Fùerfice [s.f.] 1 Forbici di grandi dimensioni, quelle usate dai sarti. 2 L’insetto forbicina, Forficula auricularia L. 3 Persona pettegola, maldicente.

Fùerfici [s.m.] Forbice, variante fùerficia.

Fuerficiàre [v.tr.] 1 Tagliare malamente un tessuto. [v.intr.] 2 Sparlare di qualcuno, malignare, il significato è molto vicino a tagghjuniare.

Fùessu [s.m.] Fosso, grossa buca, es.: si vieni te puertu aru Fuessu ‘se vieni ti porto al Fosso’ (luogo cupo e suggestivo in località Fratta).

Fujìre [v.intr.] Fuggire, scappare, allontanarsi velocemente, anche come fuga d’amore, esempi: si nn’ane fujire si se vuelu piare ‘se ne devono scappare se vogliono sposarsi’ (guarda anche fujuti), (loc.) fuja fuja ca cca t’aspiettu ‘scappa scappa che (tanto) qua t’aspetto’ (ciò che non desideri ti capita), (loc.) chine zappa fujennu cogghja ciancìennu ‘chi zappa fuggendo raccoglie piangendo’ (le cose importanti vanno fatte senza la fretta se vuoi vederne i frutti).

Fujùta [s.f.] Corsa, scappata, es.: fatte na fujuta ‘fatti una corsa’.

Fujùti [v.intr.] Participio passato del verbo fuggire, ossia fuga d’amore, conosciuta in italiano con ‘ratto consensuale’ o ‘fuitina’, esempi: si nne su fujuti ‘se ne sono scappati’ (hanno fatto una fuga d’amore), si nne su fujuti e doppu n’annu se su lassati! ‘se ne sono scappati e dopo un anno si sono lasciati!’.

Fullìnu [agg. s.m.] Persona veloce e in gamba, sprinca e sollecita, energica, briosa, frettolosa.

Fumàru [s.m.] Luogo delle casette di montagna adibito alla tostatura delle castagne; guarda anche cannizza, casedda e tamarru.

Fumarùlu [s.m.] Canna fumaria dotata di comignolo.

Fuméra [s.f.] Fumea, vapore da fumo, es.: c’era na fumera c’u sse vidia nnente ‘c’era tanto fumo che non si vedeva niente’.

Funciàru [s.m.] Persona con la passione della raccolta dei funghi, ma anche persona che si interessa alla lavorazione e alla commercializzazione degli stessi. 

Fùnciu [s.m.] Fungo, nel senso di una generica specie appartenente al regno dei funghi (o miceti), esempi: ud aju truvatu mancu nu funciu ‘non ho trovato nemmeno un fungo, jire a funci è nu motivu ppe ccui vala a pena campare ‘andare a funghi è un motivo per cui vale la pena vivere’, tena l’arrastu di funci ‘ha l’istinto dei funghi’ (persona molto abile a trovare i funghi).

Buccacciu e funci. Ingredienti: funghi di vario tipo (lattari, chjodini, rositi, gaddinedde, gadduzzi, palummieddi, funci tiresa), aceto, sale, aglio, peperoncino intero, alloro, rametti di finocchio selvatico (a seconda dei gusti).
Procedura: pulire i funghi e lavarli bene, mettere sul fuoco  una pentola con metà acqua e metà aceto bianco, aggiungere il sale e quando bolle porre i funghi e lasciarli dentro quattro minuti esatti a fuoco alto; secondo la tradizione occorrono solo quattro minuti, ma i micologi consigliano di bollire qualsiasi fungo per 20 minuti almeno per eliminare ogni eventuale tossina; scolare, farli raffreddare, asciugarli con un canovaccio, indi apporre un peso sopra per sgocciolarli bene (ara mazara), sistemarli in un contenitore, aggiungere olio d’oliva, aglio, peperoncino intero, foglie d’alloro a metà, a piacere rametti di finocchio selvatico. Amalgamare bene, sterilizzare i vasetti e riempirli, alla sommità porre rametti di finocchio selvatico o due foglie d’alloro, tappare bene. Si possono mangiare subito. Ultimamente si sta affermando anche un diverso tipo di preparare i vasetti di funghi, ovvero mettendoli in salamoia per tre mesi circa, indi sciacquarli e lasciarli in ammollo (cambiando l’acqua ogni 12 ore) per due giorni, successivamente si possono condire secondo tradizione.

Funnìre [v.tr.] Che perde acqua, gocciola, variante fùnnare, es.: funna u lavandinu? ‘perde il lavandino?’.

Funnu [agg.] 1 Profondo, profondità, fondo. [s.m.] 2 Fondo, appezzamento di terreno, podere, es.: nu funnu e olive ‘un fondo di ulivi’.

Funnugàra [s.f.] Multa, tributo, in passato anche tassa sui fondi agricoli, es.: ueh cchi funnugara! ‘ueh che tassa!’ (esclamazione maschile, ormai in disuso, per riferirsi scherzosamente a ragazze sgraziate).

Funtàna [s.f.] Fontana pubblica ma anche rubinetto, esempi: ne vidimu ara funtana e Muntanu ‘ci vediamo alla fontana di Muntanu, chjuda a funtana ‘chiudi il rubinetto’.

Funtanìeri [s.m.] Idraulico, termine ormai poco usato.

Furbìa [s.f.] Furbizia, astuzia, malizia.

Furca [s.f.] Forcone, forca.

Furcìta [s.f.] 1 Forcella, ossia pezzo di legno, di lunghezza variabile, di solito di legno di castagna verde, che termina a forma di V o U utile a svariati scopi: far cadere il pane dal cannizzu, sganciare salami, girare il sapone fatto in casa (ma dal lato opposto), riassettare il materasso di una volta (girare u saccune), esempi: l’ha minatu ccu ra furcita ‘lo ha picchiato con la furcita’, quannu ta pii na mugghjere? Quannu si bbiecchju? Ca pue te aza u martieddu ccu a furcita ‘quando ti prendi una mogliera? Quando sei vecchio? Che poi ti alza il martello (pisello) con la furcita’. 2 Fionda, furcitèdda ne è il diminutivo, molto spesso indica la fionda propriamente detta, guarda anche stirapetra per tutti i dettagli.

Furcùne [s.m.] 1 Forcone. 2 Parte del nome di una località di castagneti del monte Giove timparieddu e Furcune.

Furesta [s.f.] Località di campagna di Mesoraca in posizione est rispetto al comune.

Furestìeru [s.m.] Forestiero, non del paese, es.: (loc.) furestieri fujali ntieru ‘forestieri scappali intero’ (meglio non fidarsi dei forestieri, possono avere cattive intenzioni).

Furgàta [s.f.] Folata, raffica di vento, variante fugàta.

Furgiàru [s.m.] Fabbro, spesso in passato la stessa persona svolgeva anche le mansioni di maniscalco.

Fùrgulu [s.m.] 1 Genere di fuoco d’artificio, di solito indica quello piccolino (innocuo) che si tiene in mano e fa le stelline (stella filante), ma anche un piccolo razzo da piantare a terra, a cui bisogna accendere la miccia per innescare la reazione che lo proietterà in aria. 2 Persona molto veloce: e statu nu furgulu ‘è stato velocissimo’ (un fulmine).

Furìa [s.f.] Parte esterna o periferica di un luogo, lontana dal centro, spesso contigua alla campagna, es.: u mmi cce piacerra a chidda furia ‘non mi ci piacerebbe a quel fuorimano’.

Furìse [s.m.] Pastore stipendiato con beni materiali come formaggi o castagne secche; lo stipendio viene chiamato minaticu; guarda anche allugatu.

Furitànu [s.m.] Persona che vive prevalentemente in campagna, variante foritànu.

Furma [s.f.] Forma, stampo, struttura di un oggetto, es.: na furma e casu (un pezzo) ‘una forma di cacio’.

Furmicùsa [s.f.] Località di campagna di Mesoraca in posizione est rispetto al comune, non lontana dalla località chiamata Ciarceddina.

Furnàggia [s.f.] Parte alta del focolare costruita con lo scopo di ospitare piccoli forni, riscaldare acqua, tenere in caldo qualcosa. Viene adoperato anche come sinonimo di caminetto.

Furnàru [s.m.] Fornaio, panettiere, altrettanto usato il femminile furnara; in un passato abbastanza vicino, il pane casareccio spesso era fatto da fornaie, e veniva venduto di nascosto poiché non autorizzate ufficialmente; guarda anche casaluru.

Furnìre [v.tr.] Finire, terminare, es.: aju furnutu mo e fatigare ‘ho finito adesso di lavorare’.

Furnu [s.m.] Forno, esempi: (loc.) quattru case, na gghjiesa e nu furnu ‘quattro case, una chiesa ed un forno’ (frase usata per indicare un paese molto piccolo), (loc.) a furnu e mulinu u gghjire e cuntinu ‘a forno e mulino non andare di continuo’ (per farsi trattare bene bisogna farsi desiderare da chi ha una attività commerciale o artigianale), furnu a frasche ‘forno a frasche’ (fino a poco tempo fa i forni a legna erano alimentati con frasche anziché con listelli di pino e le frasche più adoperate erano  di irica, scinu, spulitri, olive; guarda anche casaluru), (loc.) ci nne vo pane aru furnu! ‘ce ne vuole pane al forno!’ (intercalare per dire che deve passare del tempo prima che una qualsiasi cosa accada); ne sono diretti derivati furnàta ‘infornata’ come sinonimo di fatta, e furnicìeddu ‘fornetto’ come diminutivo.

Furracchjùne [agg.] Spiritoso, brioso, ma anche giovane e carino contadino.

Fusciùne [s.m.] Zampillo, fiotto.

Fusu [s.m.] 1 Attrezzo in legno di forma rotonda ed allungata e su cui viene avvolto il filo. [agg.] 2 Fuori di testa, rincoglionito, anche per effetto di sostanze stupefacenti.

Fùttate [v.tr. loc.] Fottiti, vai a fare in culo.

Futtìre [v.intr.pron.] 1 Fottersene, importarsene, non ha però l’accezione forte che ha in italiano, variante fùttare, esempi: u tti nne futtire ‘non te ne importare’, futtatinne ‘fottitene’; cfr fricare, nagghjare e ncarricare. [v.tr.] 2 Fottere, scopare, possedere sessualmente, poco usato, es.: amu futtutu tutta a notte ‘abbiamo scopato tutta la notte’. 3 Imbrogliare, fregare, abbindolare, esempi: m’anu futtutu puru e mutanne ‘mi hanno fottuto (rubato) anche le mutande’, (loc.) chine zappa viva acqua e chine futta viva ara vutta ‘chi zappa beve acqua e chi ruba beve alla botte’ (proverbio in perfetto equilibrio tra luogo comune e triste realtà).

Futtitùru [s.m.] Letteralmente ‘luogo dove si fotte’, è usato per indicare un luogo angusto e stretto.

Futtùta [s.f.] Fregatura, danno e p.p. di futtire, es.: oih cchi futtuta! ‘mannaggia che fregatura!’.

Fultima modifica: 2022-03-13T10:50:18+01:00da mars.net